Una storiografia olistica e planetaria (II)

Storia e Tecnologia

Approfittiamo dell’occasione per aprire una piccola parentesi dedicata ai rapporti tra storia e tecnologia. Se ci facciamo caso, nei nostri manuali di storia quasi neppure esiste una “tecnologia medievale”. Una vera e propria “storia della tecnologia” nasce solo in epoca moderna, soprattutto a partire dal torchio per la stampa.

Se si vuole avere una conoscenza dello sviluppo storico della tecnologia bisogna andarsi a leggere i manuali di educazione tecnica, dove si viene p.es. a scoprire che nel Medioevo furono introdotte due innovazioni fondamentali per quella che diventerà la moderna meccanizzazione della filatura: la conocchia lunga e soprattutto la ruota per filare. Quando, intorno al 1770, furono inventate le prime macchine inglesi per filare: la “jenny” di Hargreaves, la “water frame” di Arkwright e la “mula” di Crompton, tutte imitavano i filatoi intermittenti e continui del Medioevo, moltiplicandone soltanto il numero dei fusi.

Il telaio orizzontale, di derivazione egizia, usato in Europa sino alla fine del Settecento, era già perfettamente funzionante nel Medioevo e soddisfaceva in pieno le esigenze di un’intera famiglia.

Eppure nei libri di storia la “modernità” non viene associata al fatto che il singolo tessitore era in grado di fare tutto ciò che gli serviva al telaio, ma viene associata al fatto che con l’invenzione del telaio meccanico si poteva ottenere molto di più in molto meno tempo, il che permetteva di arricchirsi facilmente vendendo i prodotti sul mercato: negli anni ’20 dell’Ottocento una bambina che controllava due telai meccanici poteva produrre fino a 15 volte di più di un abile artigiano casalingo.

Peccato che in questa analisi non si sottolinei mai con la giusta enfasi che l’unico soggetto veramente in grado di arricchirsi era non il lavoratore diretto ma il proprietario del mezzo di produzione.

E se si passa dai tessuti al legno il discorso non cambia. Stando ai manuali di storia medievale si ha un’impressione alquanto negativa sul modo di usare il legno da parte della civiltà che trattano: tutte le popolazioni infatti non facevano altro che tagliare e tagliare, costringendo poi la modernità a passare al carbone (quelle di origine “barbarica”, essendo prevalentemente nomadi, addirittura “tagliavano e bruciavano”).

Ora, se è vero che il legno nel Medioevo era la base di tutto (esattamente come oggi in buona parte della bioedilizia), è anche vero che nella produzione di mattoni, ceramica, vetro e nell’uso della pietra naturale si erano ereditate tradizioni antichissime, perfezionandole ulteriormente, al punto che non si aveva affatto bisogno di utilizzare materiali che non fossero naturali.

Acciaio, cemento armato, materie plastiche…: per millenni s’è andati avanti senza l’uso di queste false comodità e false sicurezze e soprattutto senza la necessità di dover far pagare interamente il loro prezzo alla natura.

Che poi non è neppure esatto dire che nell’antichità pre-industriale gli uomini non fossero capaci d’inventarsi materiali non naturali: quello che mancava era l’esigenza di farli diventare il perno attorno a cui far ruotare tutto il progresso (come oggi alcuni vorrebbero fare col nucleare in sostituzione del petrolio). L’acciaio, p.es., era già conosciuto dai fabbri ferrai della tribù armena dei Chalybi nel 1400 “avanti Cristo”.

Ma perché meravigliarsi di questo quando anche in tutti i manuali di storia dell’arte si associa l’idea di “modernità artistica” all’uso della prospettiva, facendo di quest’ultima un’invenzione della mentalità razionale dell’occidente borghese? È da tempo che si sa che la prospettiva geometrica era già conosciuta nel mondo bizantino, che però si rifiutava di adottarla come canone stilistico, in quanto riteneva spiritualmente più profonda la cosiddetta “prospettiva inversa”, con cui si mettevano in risalto le qualità interiori dei soggetti rappresentati.

Ma viene addirittura da sorridere quando i manuali medievali sono costretti ad ammettere che la bardatura moderna del cavallo, quella col collare rigido di spalla, in uso ancora oggi, non fu inventata nell’evoluto mondo greco-romano, che usava il cavallo più che altro nelle battaglie, ma nel Medioevo, che aveva bisogno d’usarlo come potenza di traino nei trasporti e nei lavori agricoli. Viene da sorridere, amaramente, perché, dicendo questo, evitano poi di aggiungere che tale progresso tecnico fu causato non semplicemente da un’esigenza astratta o generica di produttività ma proprio dalla trasformazione dello schiavo in servo (gli schiavi non avevano alcun interesse a migliorare la tecnologia che usavano, anzi gli stessi proprietari romani ne ostacolavano lo sviluppo, temendo ch’esso potesse abbassare il valore della forza-lavoro acquistata a caro prezzo sui mercati).

In ogni caso, se proprio si vuole considerare la meccanica o la metallurgia una scienza fondamentale per lo sviluppo dell’idea di “progresso”, ebbene si dica anche, contestualmente, ch’essa venne messa al servizio di esigenze tutt’altro che naturali, come p.es. le guerre di conquista. È forse un caso che l’idea di “imperialismo” trovò il suo compimento solo dopo che, intorno al 1850, era stata inventata la maggior parte delle macchine utensili moderne? Ed è forse un caso che si possa parlare soltanto di “colonialismo” almeno sino al 1770, periodo in cui le macchine per lavorare i metalli erano molto simili a quelle usate nel Medioevo?

Tutti i libri di storia, invece di chiedersi se nell’uso naturalissimo della forza umana (che tale è rimasto sino al 1800) non ci fossero elementi innaturali che si dovevano rimuovere senza per questo rinunciare a quella tipologia di lavoro (che al massimo si serviva dell’aiuto degli animali) – e questi elementi innaturali sappiamo benissimo ch’erano quelli dello sfruttamento indebito del lavoro altrui -, preferiscono sostenere la tesi della necessità di passare dalla forza muscolare e animale a quella meccanica e industriale, proprio perché in questo passaggio estrinseco, di forme esteriori, si è realizzato, sic et simpliciter, un progresso “qualitativo” nella condizione di vita dei lavoratori.

Gli stessi manuali di educazione tecnica, quando analizzano l’evoluzione della tecnologia nella storia, danno per scontata la medesima necessità, che è poi quella che ha portato alla odierna meccanizzazione; sicché la storia dello sviluppo della tecnologia che presentano, appare come dettata da una semplice esigenza di maggiore produttività o di maggiore comodità, oppure dall’esigenza di passare a fonti energetiche più convenienti, perché più facilmente reperibili.

Non viene mai collegato tale sviluppo con la necessità di trasformare i rapporti di sfruttamento del lavoro. Lo sviluppo della tecnologia viene evidenziato come un merito specifico dell’Europa occidentale, la quale, se anche in taluni casi, adottò scoperte, invenzioni, sistemi di lavorazione elaborati in oriente, fu comunque la prima a universalizzarli, implementando la produzione in serie di merci vendibili sul mercato.

È in questo senso incredibile che, pur essendo passati ormai due secoli dalle primissime analisi del socialismo utopistico, nei nostri manuali scolastici ancora non si riesca a connettere in maniera organica e strutturale le storie dei due sviluppi fondamentali della nostra epoca: quello tecnologico e quello capitalistico.

Una storiografia olistica e planetaria (I)

Oggi la storiografia è destinata a diventare planetaria, a interessarsi delle vicende di popolazioni mondiali. La stessa storia italiana ha molto più senso in una prospettiva che vede il nostro paese come parte dell’Occidente, componente del capitalismo avanzato, membro dell’Unione Europea.

Una storia dell’Italia fine a se stessa ha davvero poco senso. Tanto più che il nostro paese è da qualche tempo oggetto di forte immigrazione. Interessa poco agli stranieri che frequentano corsi di alfabetizzazione o di licenza media, le diatribe tra Cavour, Garibaldi e Mazzini, solo per fare un esempio.

Si è costretti a parlare di macro-problemi, come in geografia si è costretti a parlare di macro-aree (le singole regioni italiane si studiano solo alle Elementari). Mai come in questo momento è tornata di attualità la ripartizione schematica delle varie formazioni socio-economiche apparse nella storia dell’umanità, e cioè comunità primitiva, schiavismo, servaggio, capitalismo e socialismo.

Sulla base di queste categorie generali si può affrontare qualunque argomento di storia. Tutto il periodo delle civiltà antiche, mediterranee e non, può rientrare facilmente nella categoria economica dello schiavismo, per quanto vi sia stata una sua riproposizione in Africa e nelle Americhe dal XVI al XIX sec., a motivo del fatto che il razzismo culturale (in questo caso di matrice cattolico-protestante), tipico dei paesi euro-occidentali, può risorgere dalle ceneri come l’araba fenice, se non incontra resistenze di un certo spessore.

Anche questo comunque ci aiuta a capire che tutto va visto in maniera trasversale. Non più un prevalente ordine cronologico degli avvenimenti, ma un organico ordine tematico, in cui, pur senza tralasciare il dio Chronos, varie epoche e civiltà vengono messe costantemente a confronto, come gli esegeti fanno coi vangeli sinottici.

Lo stesso concetto di “nazione” diventa quanto mai obsoleto. I fenomeni migratori hanno spezzato i confini geografici stabiliti dalla borghesia sin al suo esordio come classe egemone. Il mondo è un villaggio globale, reso tale non solo virtualmente dagli scambi mediatici (di cui il web ne costituisce oggi la quintessenza), ma anche fisicamente dagli stessi flussi migratori, i quali, a loro volta, sono frutto della globalizzazione degli scambi commerciali del capitalismo mondiale, quegli scambi che portano progressiva ricchezza ai paesi tecnologicamente e militarmente avanzati, e progressiva miseria ai paesi del Terzo Mondo, salvo le eccezioni della cosiddetta “Cindia” (Cina+India), in cui gli enormi tassi di crescita dello sviluppo vengono fatti pagare da un lavoro massacrante il cui costo materiale, per il capitale investito, è incredibilmente irrisorio: il che provoca squilibri non solo sul versante dei diritti umani e civili ma anche su quello della perequazione socioeconomica, in quanto del cosiddetto “sviluppo a marce forzate” non si avvantaggiano certamente le popolazioni rurali o quelle poco qualificate.

Stiamo assistendo, su scala planetaria, a un fenomeno analogo a quello accaduto nel corso dello sviluppo dell’impero romano, allorché il concetto di “cittadinanza romana” doveva necessariamente estendersi a popolazioni che di “romano” o di “latino” non avevano nulla, ma che non per questo avrebbero potuto essere meno utili agli interessi di dominio e, a un certo punto, di mera sopravvivenza dell’impero.

La stessa rivoluzione tecnico-scientifica andrebbe studiata come una secante della storia socio-economica e non come un capitolo a parte, poiché in tutte le civiltà antagonistiche la scienza e la tecnica sono sempre state al servizio dei potentati economici (il profitto) e politico-militari (la guerra), e solo secondariamente o successivamente hanno riguardato il mondo del lavoro (il bisogno).

Nei manuali scolastici di storia non s’incontrano quasi mai rilievi critici sullo sviluppo della tecnologia, in grado di mettere in evidenza aspetti positivi e negativi (l’arretratezza tecnologica di un paese rispetto a un altro viene sempre vista negativamente, il che, anche alla luce della moderna ecologia, non ha alcun senso). Nei manuali che usiamo è rarissimo trovare una critica dei criteri o delle motivazioni sulla base delle quali è nata e si è sviluppata la moderna tecnologia. Questa viene considerata alla stregua di un totem da adorare. Non si mette mai in discussione (neppure quando si studia il passato) il rapporto di dominio tra uomo e natura mediato dallo strumento tecnologico: sarebbe come violare un tabù ancestrale.

Eppure abbiamo avuto e continuiamo ad avere esempi pericolosi per tutto il pianeta, disastri che si verificano lontano da noi ma che ad un certo punto ci coinvolgono come fossero successi sotto casa nostra: si pensi ai fatti di Cernobyl del 1986, ma anche agli sversamenti di petrolio nel mare, alla progressiva desertificazione dei terreni coltivati chimicamente o soggetti a deforestazione, alle piogge acide, ai devastanti test o incidenti nucleari, al buco dell’ozono.

Nonostante ciò tutti noi siamo convinti che la scienza e la tecnica siano in grado di risolvere i problemi che loro stesse contribuiscono a creare. Oggi non abbiamo dubbi nel credere che in occasione di conflitti bellici si possano tranquillamente bombardare intere città nella convinzione che la ricostruzione verrà fatta molto velocemente. Non si mette mai in discussione l’enorme spreco di risorse, anzi, si sostiene che tale spreco è un incentivo alla produzione e quindi al consumo.

Sul concetto di storia

Abbiamo parlato di come schematizzare astrattamente il significato degli eventi storici formulando delle categorie generalizzanti, sufficientemente chiare nella loro paradigmaticità e sufficientemente valide per la storia complessiva del genere umano, e, a titolo esemplificativo, abbiamo proposto una comparazione teorica tra due forme di civiltà: quella feudale e quella borghese.

Ora, se davvero vogliamo universalizzare il concetto di storia, cioè se vogliamo che nelle scuole e nella società s’impari a capire qual è la storia del genere umano, è necessario anzitutto eliminare i riferimenti privilegiati alle persone, in quanto i cosiddetti “protagonisti” della storia altro non sono che esponenti di un movimento di idee, culture o tradizioni.

La singola persona è parte di un tutto. Anche un leader politico non può essere considerato più importante della corrente di pensiero cui egli appartiene, anzi la sua importanza è direttamente proporzionale al grado di coinvolgimento personale in una causa per il bene comune.

È vero che a volte certe persone concentrano su di loro lo svolgimento di interi periodi storici, come se in un piccolo microcosmo umano fosse racchiusa l’essenza dello sviluppo di un macrocosmo storico. La storia però non ha conosciuto tante persone di questo genere, anche se quelle che ha conosciuto hanno lasciato indubbiamente un segno indelebile, tanto che può capitare, passato un certo periodo di tempo, in cui quelle persone erano state come dimenticate, un ritorno improvviso alle loro idee, dando ad esse nuove interpretazioni, che riprendono quelle precedenti aggiungendo particolari inediti e innescando così nuovi sviluppi. Si pensi solo alla riscoperta medievale dell’aristotelismo o del “Cristo povero” da parte dei movimenti pauperistici ereticali.

Questo probabilmente avviene perché l’essenza dell’uomo, in ultima istanza, è univoca: cambiano solo le forme, le circostanze, l’ambiente in cui essa deve muoversi. Dal confronto con modalità diverse nasce l’esigenza di riformulare le idee di un tempo.

Ma questo non ci esime dal compito di contestualizzare l’azione di queste singolari persone, né ci può indurre a credere ch’esse fossero per i loro contemporanei come piovute dal cielo. Ognuno di noi è rigorosamente figlio del proprio tempo ed è proprio per questa ragione che la storia va appresa per concetti generali, per categorie astratte di pensiero (politico, economico, sociale, culturale…), comprensibili da parte di chiunque, ovunque si trovi. Quanto più s’impone il senso di appartenenza globale al pianeta, cioè a una storia comune, tanto più occorre riscrivere il percorso di questa storia.

“Al centro di una storia che voglia essere ‘globale’ non sta più lo sviluppo delle singole civiltà, ma si pongono invece i loro rapporti, i loro incontri e scontri, i loro scambi, le trasformazioni che il contatto con altre civiltà induce in ognuna di esse”(1). È una prospettiva “relazionistica” non “sommativa”.

Sarebbe anzi molto interessante vedere come p.es. gli ideali di un qualunque leader rivoluzionario siano stati in realtà già formulati da parte di correnti di pensiero, movimenti di opinione di altre epoche e latitudini del tutto sconosciute a quel leader. Bisogna abituarsi all’idea di considerare l’essere umano come un soggetto universale, con bisogni e caratteristiche universali. Se un individuo si sente parte di un cosmo, di una realtà infinitamente più grande di lui, è più disposto a rinunciare al proprio personalismo.

La storia dunque va studiata in maniera trasversale. P.es., un concetto come la democrazia sociale, obiettivo di ogni vera politica, come si è sviluppato in questo o quel paese di qualsivoglia periodo storico? Nel Medioevo non si parlava di “democrazia”, ma saremmo degli sciocchi a sostenere che non ve n’era solo perché non se ne parlava (eppure tutti i manuali scolastici parlano di “secoli bui”, di grande arretratezza rispetto al mondo greco-romano ecc.). Nella Grecia classica si parlava di democrazia tutti i giorni, eppure nessuno ha mai messo in discussione l’istituto della schiavitù, neppure grandissimi filosofi come Platone e Aristotele.

Tempo e spazio diventano relativi, poiché vanno ricondotti al fatto che l’essere umano è unico in tutto il pianeta e che le differenze che ci caratterizzano sono soltanto di forma. Bisognerebbe stabilire sul piano concettuale una sorta di percorso evolutivo dell’umanità, che è passato per determinate fasi, comuni a molte civiltà: comunismo primitivo, schiavismo, servaggio, lavoro salariato, socialismo amministrato…, e cercare di vedere in che modo queste fasi sono state vissute da questo o quel paese, di questo o quel periodo.

Lo stesso concetto di “nazione”, che oggi consideriamo come “naturale”, diventerebbe molto circostanziato: meglio sarebbe parlare di “civiltà”, la cui cultura dominante è sufficientemente omogenea ma i cui confini geografici sono inevitabilmente meno definiti.

La storia non può essere studiata in maniera cronologica-lineare-sequenziale, partendo da un’arbitraria prevalenza concessa a questa o quella zona geografica o a questa o quella civiltà. È la storia del genere umano, della specie umana, che va studiata, secondo delle linee evolutive in qualche modo verificabili e dimostrabili, appunto perché costanti, ricorrenti.

Non lo sanno gli storici che la comparazione internazionale sprovincializza, rendendo meno angusti gli ambiti locali e nazionali, al punto che ci sente “cittadini del mondo”? O forse ritengono, ingenuamente, che i processi della globalizzazione non andranno mai a influenzare in maniera decisiva l’impostazione di fondo delle ricerche storiche condotte in occidente?

Nei prossimi decenni l’unica ricerca storica possibile sarà quella “comparativistica”, cioè quella che metterà a confronto, in maniera olistica, integrata, globale, soltanto i grandi eventi della storia, le grandi trasformazioni epocali, di breve e di lungo periodo, che hanno caratterizzato, in momenti diversi e con diversa gradazione e intensità, popolazioni geograficamente molto distanti tra loro. Tutta la periodizzazione storica cui noi occidentali siamo abituati, andrà abbondantemente riveduta e corretta.

Quanto più ci mondializziamo, tanto più dobbiamo rinunciare all’idea che esista un “centro” da usare come punto di riferimento per osservare la “periferia”. L’esigenza di una “storia mondiale” ci sta entrando in classe ogni giorno che passa e la vediamo nei volti dei nostri ragazzi immigrati.

La storia globale va vista come un gigantesco intreccio di fattori culturali, sociali, economici, politici, in cui la stessa nozione di civiltà, che fino ad oggi è stata usata non per unire ma per dividere, dovrà essere sostituita con quella di “macroaree geografiche tangibili”, come dice Olivella Sori, nella sua relazione al convegno “Global History” del 2004. La storia globale non è un’impossibile “storia del mondo”, che nessuno studente sarebbe mai in grado di apprendere, ma un nuovo approccio ermeneutico, una “reinterpretazione di storie particolari in prospettiva diversa”, sicuramente più sintetica, più per concetti generali che non per fatti particolari, in cui l’individuazione di una specifica identità non sarà il criterio con cui impostare preliminarmente la ricerca, ma una sorta di prodotto finale, conseguente appunto alla necessità di mettere a confronto eventi e processi di ogni tipo. Dovrà insomma essere il “tu” ad aiutare l’“io” a capire se stesso.

Non è un processo semplice, non è una metodica che si può acquisire in poco tempo. Facciamo un esempio delle difficoltà in atto. La fine del conflitto est-ovest, a partire dalla svolta gorbacioviana del 1985, seguita dal crollo del muro di Berlino quattro anni dopo, avrebbe dovuto indurre gli storici a rivedere i giudizi frettolosi, riduttivi, da sempre espressi nei confronti della cultura religiosa di tipo ortodosso dei paesi slavi ed ellenici, la cui importanza dovrebbe in teoria risultare centrale nei manuali scolastici di storia medievale e che invece viene sempre circoscritta in poche paginette.

Tutto purtroppo è rimasto come prima. I bizantini restano “cesaropapisti” e il loro Stato “fiscalmente esoso”, gli ortodossi restano “scismatici” e i loro teologi “cavillosi”. Ancora oggi appare del tutto normale intitolare il capitolo dedicato a Carlo Magno: “Il sacro romano impero”, senza fare cenno alcuno al fatto che un impero del genere esisteva già, ed era a Bisanzio, anzi a Costantinopoli, gestito dal legittimo basileus, secondo una discendenza che partiva da Costantino, sicché quello carolingio fu in realtà un abuso giuspolitico a tutti gli effetti, tanto che dovette essere legittimato da quel falso patentato, elaborato in qualche monastero benedettino, che passò alla storia col nome di Donazione di Costantino.

Una realtà millenaria come quella bizantina, che ha diffuso il cristianesimo presso tutte le popolazioni slave, e che mantenne in vita gli scambi commerciali e culturali tra paesi slavi, indo-cinesi e islamici, viene sempre liquidata in un unico capitolo dedicato a Giustiniano (482-565), come se dopo il tentativo, abortito, della renovatio imperii, un intero impero, al pari di Atlantide, fosse scomparso nel nulla, salvo ripescarlo, con poche righe, in occasione dell’iconoclastia, dello scisma del 1054 e della IV crociata.

(1) Pietro Rossi, Verso una storia globale, in “Rivista storica italiana”, CXIII, n. 3/2001

Che cosa s’intende per “metodo storiografico”?

Bisognerebbe cercare di capire il motivo per cui nell’ambito delle civiltà ogni azione compiuta per un fine di bene, che prevalentemente è quello di superare i limiti dell’antagonismo sociale, finisce spesso coll’ottenere l’effetto contrario a quello voluto, creando nuove forme d’antagonismo. Bisognerebbe cioè cercare di capire se nel momento in cui si decide di porre in atto tali azioni non vi sia un elemento imprescindibile di cui bisogna tener conto sul piano metodologico, onde evitare spiacevoli conseguenze.

Infatti, considerando ch’esiste uno sviluppo storico del genere umano e che quindi, inevitabilmente, le varie azioni positive sono sempre caratterizzate da contenuti culturali assai diversi, sarebbe importante poter trovare un qualche elemento connettivo ad esse trasversale, in grado di tenerle unite almeno negli aspetti essenziali. Questo elemento non può essere trovato che sul terreno del metodo.

Si tratta di stabilire, sul piano storiografico, un criterio metodologico sufficientemente scientifico, in grado d’interpretare obiettivamente le azioni positive compiute dagli uomini, individuando, di esse, il fondamentale punto debole, in forza del quale ad un certo punto s’è determinata una tale situazione contraddittoria da rendere inevitabile nuove istanze di mutamento. Si tratta in particolare di capire quanto queste contraddizioni facevano parte del naturale processo evolutivo del genere umano o quanto invece costituivano un freno a tale processo, rendendo necessarie soluzioni inedite se non addirittura rivoluzionarie. In altre parole, gli uomini davvero ebbero bisogno della ribellione prometeica per ottenere il fuoco, o dobbiamo pensare che ci sarebbero arrivati lo stesso?

Sul piano del metodo operativo il punctum dolens è sempre un’eccessiva concessione fatta agli interessi individualistici dell’antagonismo, che ovviamente vengono difesi dai detentori del potere politico o economico o da coloro che vogliono acquisirlo, senza tener conto del bene comune.

Lo studio della storia, in tal senso, non dovrebbe essere basato su fatti già interpretati (come generalmente avviene nei manuali scolastici), cioè sulle decisioni prese dagli uomini e sulle conseguenze ch’esse hanno determinato, ma dovrebbe essere basato sui problemi in gioco, sugli interessi che hanno stimolato, sulle diverse istanze e proposte risolutive. Uno storico, nel momento della disamina dei fatti (o delle fonti che li illustrano), dovrebbe sempre porsi il seguente interrogativo: “prendendo questa decisione in questa maniera sono stati prodotti determinati risultati, ma se la stessa decisione fosse stata presa in altra maniera o se si fosse addirittura presa un’altra decisione, si sarebbero comunque ottenuti gli stessi risultati oppure avremmo avuto risultati opposti o comunque diversi?”.

Lo storico deve abituare il lettore (o, se insegnante, l’allievo) non tanto a sentirsi un intellettuale curioso che legge le vicende storiche come fossero un romanzo, quanto piuttosto a sentirsi un cittadino attivo, che, guardando il passato, si sente in dovere di prendere delle decisioni per il presente. Lo storico deve abituare il lettore ad acquisire un metodo non solo per interpretare il passato, ma anche per intervenire sul presente.

Ecco perché più che di “nozioni” storiche è preferibile parlare di “competenze” storiche. Le competenze sono quel complesso di formule o di regole ermeneutiche che permettono d’interpretare i fatti nella loro complessità, riconducendoli a una fondamentale essenzialità. Non è importante “sapere molto”, è importante sapere bene le cose importanti. Sembra una tautologia, ma decifrare esattamente i termini di questa tautologia richiede una notevole competenza.

Qui infatti non si tratta semplicemente d’individuare i “momenti forti” di un determinato percorso storico (di carattere locale, nazionale o mondiale), quanto piuttosto di stabilire un criterio obiettivo con cui poter interpretare qualunque evento, anche quello meno significativo. E la difficoltà principale sta proprio nel fatto che, avendo lo storico a che fare con gli esseri umani, il criterio non può essere “scientifico” in maniera astratta. La storia non è la matematica, anche perché persino la matematica ha una propria “storia”, i cui processi evolutivi non sono stati affatto così univoci. Nella storia anzi vi sono state molte “matematiche”, dove assai differenti erano i modi per fare operazioni di calcolo.

Dobbiamo, è vero, trovare delle formule rigorose per interpretare la storia, ma nella consapevolezza che l’oggetto da trattare è quanto mai sfuggente e ambiguo. Sarebbe assurdo pensare di poter interpretare i processi storici usando soltanto la categoria della necessità, anche se, non per averlo fatto in maniera preponderante, dobbiamo squalificare in toto sistemi filosofici come l’idealismo hegeliano e il materialismo storico-dialettico.

La storiografia (di destra o di sinistra non fa differenza) tende ad opporsi ai “se” e ai “ma”, preferendo di regola un approccio deterministico, in cui ad ogni azione corrisponde una sorta di reazione uguale e contraria.

Tuttavia tale approccio, se può dare sicurezze sul piano psicologico e intellettuale, non è di alcuna utilità su quello pedagogico e propriamente cognitivo. Chi studia storia deve essere messo in grado di capire come le cose sarebbero potute andare se si fossero rispettati determinati requisiti. Cioè chi studia storia deve poter essere allenato a capire che le cose sarebbero potute andare diversamente se si fosse agito diversamente. Tale allenamento va considerato come una sorta di incentivo pedagogico (e a scuola dovrebbe far parte della didattica di qualunque disciplina) utile per il presente, proprio per non prendere le cose con fatalismo e rassegnazione.

Dunque, oltre la categoria della necessità, bisogna acquisire quella della possibilità, che è poi quella che ci permette di capire quali potevano essere le opzioni da scegliere. La necessità subentra dopo che si son prese delle decisioni, ma il momento della discussione preliminare, della trattativa, del confronto delle idee, della mediazione tra interessi opposti o contrastanti, risulta per certi versi più importante delle decisioni stesse, poiché è lì che si può misurare il tasso di democrazia di una società, di una civiltà: è proprio lì infatti che si vanno a cercare compromessi vantaggiosi per tutte le parti in causa, oppure si cerca di far prevalere con la forza un’opzione sulle altre.

Chiarito questo, si può passare ad affrontare il secondo problema: quello della lettura delle fonti, la cui complessità spesso è davvero disarmante. Gli storici infatti, pur con tutti i loro faticosi lavori di ricerca, non sempre sortiscono gli effetti sperati. Il motivo di questo sta nel fatto che le fonti a nostra disposizione sono in genere piuttosto tendenziose, in quanto elaborate da quei ceti sociali espressione degli interessi prevalenti, delle decisioni dominanti. Tutta la storia scritta rischia di apparire come una gigantesca storia di documenti parziali se non addirittura inaffidabili ai fini della verità storica, proprio perché i ceti dominanti non hanno dato possibilità alle minoranze di esprimersi adeguatamente in piena libertà. La stragrande maggioranza degli abitanti del nostro pianeta, di ieri e di oggi, anche quando mostra d’aver precise istanze da far valere, non è mai stata in grado di produrre alcuna fonte.

Gli stessi storici, influenzati dalla loro cultura o ideologia, anche quando hanno a che fare con una serie di fonti dai contenuti opposti, spesso tendono a privilegiare le une sulle altre. Cioè anche quando hanno la fortuna di sentire due o più campane, preferiscono ascoltarne soltanto una, determinando così una reazione a catena nell’ambito della loro categoria, al punto che i manuali scolastici di storia altro non sono che una riedizione a mo’ di Bignami dei grandi manuali classici in uso nel mondo universitario.

Oggi è pacifico, in ambito storiografico, che col concetto di “fonte storica” non si debba intendere soltanto un trattato ufficiale, un documento governativo, una legge statale, ma anche cose molto più semplici, come p.es. un registro parrocchiale (utilissimo per individuare le strategie matrimoniali), le lettere, i diari personali, persino gli oggetti di uso quotidiano. Per raffigurarsi una “storia globale” tutto diventa “fonte”. Come dice Riccardo Neri, Il mestiere dello storico (Rcs, Milano 2004), “oggetto della ricerca storica è sempre più spesso divenuto il fenomeno e non l’evento, e l’histoire événementielle ha perso rilievo a favore di una visione storica più attenta al quadro d’insieme”.

Questo modo di procedere ha permesso di produrre a scuola un impatto emotivo forte sugli adolescenti. Quando si dice loro: “Non buttate via niente di quello che fate, perché farà piacere ai vostri figli mettere a confronto la loro storia con la vostra, e farà piacere anche a voi stessi, quando da grandi andrete a rivedere com’eravate da adolescenti”, forse per un momento riescono anche a capire che non è il caso di fare le cose solo per prendere un voto o solo perché qualcuno le chiede.

Le cose infatti è importante farle per conservare una memoria di sé, da poter trasmettere ad altri. In fondo è bello abituarsi all’idea che ogni cosa che si fa può rientrare nella categoria storica del fenomeno, che – come dice sempre il Neri – non riguarda il “breve periodo”, come l’evento, ma un periodo così lungo che può coprire decenni, secoli o anche millenni.

Non è forse entusiasmante l’idea di sapere che il fenomeno, all’interno del quale noi siamo protagonisti e che in virtù del quale si fa la “storia”, è un processo molto terreno, molto prosaico, caratterizzato da tradizioni popolari da noi assimilate spesso inconsciamente? La storia non è più, come fino a ieri, soltanto la storia delle classi sociali superiori, ma è la storia del popolo, per la cui conoscenza vanno considerate “fonti” anche la semplice filastrocca, la fiaba, il proverbio, la festa, gli usi e i costumi più antichi, la parlata dialettale…

Se ci abituiamo a considerare la gente comune come soggetto attivo di storia e non come oggetto passivo di storie altrui, ci diventerà facile prestare attenzione alle condizioni di vita delle diverse classi sociali, alle fondamentali differenze di genere, alle cosiddette “civiltà altre”, cioè a tutte quelle civiltà non europee, non occidentali, da sempre condannate al silenzio.

Ma può davvero la scuola insegnare la storia se essa stessa non riesce a tenere un archivio delle proprie realizzazioni? La scuola ha forse una memoria storica del proprio sapere, a disposizione di chiunque voglia consultarla? Perché quando entra in una classe, il docente ha sempre l’impressione di dover iniziare le cose da capo, come se nel suo istituto non ci sia alcun pregresso cui poter attingere? Perché dobbiamo sempre sentirci così soli quando già decine, centinaia di colleghi hanno fatto prima di noi un cammino didattico e culturale?

Didattica della storia (VI)

6. Saper declinare

Se nella storia di un giovane non vi sono elementi almeno sufficienti per poter comprendere le vicende del mondo degli adulti, la storia, né come disciplina a se stante, né come background trasversale a tutte le aree di sapere, può essere insegnata. Qui parliamo di “elementi almeno sufficienti”, dando per scontato che la storia degli adulti, proprio a motivo delle ambiguità di cui essi sono capaci, sfugge, nella sua complessità, a una comprensione adeguata da parte del giovane.

Un educatore dovrebbe comunque preferire sempre a una ripetizione meccanica di contenuti prestabiliti e spesso complicati, un confronto dialettico su contenuti più semplici. Il giovane in fondo non deve fare altro che abituarsi all’idea di poter esercitare la libertà di scelta per rendere la vita più umana. E deve essere messo in grado di capire dove nella storia si è più esercitata questa facoltà e quali ne sono state le conseguenze.

Compito dell’educatore, proprio perché qui si ha a che fare con dei “giovani”, è quello di mediare la comprensione delle azioni degli uomini col vissuto e con le capacità interpretative del giovane. Quindi si tratta d’impostare una forma di didattica i cui contenuti devono emergere da continue domande di senso, in cui gli aspetti psico-pedagogici della relazione giovane-adulto risultano, ai fini della motivazione iniziale e della rimotivazione in itinere, di fondamentale importanza. Per non parlare del fatto che sono proprio questi aspetti che aiutano l’educatore a declinare anche il contenuto in sé della disciplina.

Se un giovane comprendesse adeguatamente tutta la doppiezza o l’ambiguità di cui un adulto è capace (nel senso che spesso l’adulto fa esattamente il contrario di ciò che dice), diremmo che siamo di fronte a un’anomalia. In fondo a noi i giovani piacciono proprio per la loro carica idealistica, per l’aspettativa che hanno di vedere realizzata l’unità di teoria e prassi, di metodo e contenuto.

Tuttavia un giovane può essere aiutato a capire che nella storia sono stati fatti tentativi per rendere la vita più coerente con gli ideali professati. In via di principio potremmo sostenere che quanto più una formazione sociale tende ad allontanarsi dalla naturalità dei rapporti umani o, se si preferisce, dall’umanità dei rapporti naturali, tanto più essa cerca di giustificare se stessa con l’inganno, la propaganda, la demagogia, le guerre ecc.

Con ciò però non si vuole sostenere che quanto più ci si allontana dalla primitiva innocenza dell’umanità, tanto meno si sarà in grado di recuperarla; certo, questo recupero sta diventando sempre più difficile, ma non possiamo sostenere che l’odierna civiltà ha meno possibilità di farlo rispetto a quella medievale o schiavile, altrimenti le attuali generazioni si sentiranno senza speranza. Anzi, dovremmo dire il contrario, e cioè che quanto più ci si allontana da quella innocenza primordiale, tanto più se ne avverte la mancanza e si è disposti a lottare per riaverla, nella consapevolezza di non poterne fare a meno.

Ma qui s’è già introdotto un elemento interpretativo decisivo che sbagliamo a dare per scontato. Fino a che punto un educatore è disposto ad accettare il postulato che l’epoca del comunismo primitivo sia stata quella più umana e democratica? Accettare una cosa del genere, quando si deve impostare un lavoro collegiale tra adulti, è la cosa più difficile in assoluto, poiché lo stesso educatore è soggetto a condizionamenti culturali da parte dei mezzi di comunicazione della società in cui vive (ivi inclusi gli stessi libri di testo).

Senonché questo è per noi un presupposto irrinunciabile, che riguarda l’interpretazione generale da dare alla storia. Gli educatori, prima di impostare un qualunque lavoro didattico collegiale, sarebbe bene che partissero da questo terminus a quo, chiarendosi reciprocamente le idee su che tipo di lettura fanno della storia.

In sintesi

Dunque che tipo di approccio didattico possiamo immaginare quando c’è di mezzo una disciplina complicata come la “storia”? Proviamo a delinearlo sinteticamente in cinque punti:

1. partiamo dall’esperienza del giovane, chiarendogli l’importanza di avere un pregresso oggettivo da cui in alcun modo egli può prescindere (relazioni parentali, sociali, ambientali…), e che costituisce la memoria storica, di lui e di chi gli sta accanto, il suo “esserci”;

2. formuliamo domande di senso per mostrare al giovane l’uso ch’egli può fare della libertà di scelta, ovviamente in contesti determinati, da esemplificare nello spazio e nel tempo;

3. ipotizziamo i possibili, diversi, percorsi della sua libertà e le possibili, diverse, conseguenze relative alle scelte che vengono prese e che si potevano prendere;

4. trasferiamo questa dinamica psico-pedagogica alla comprensione dei fatti storici, facendo emergere una possibile interpretazione di tali fatti e soprattutto dei processi storici, usando una tecnica modulare, a difficoltà crescente, adeguandola alla capacità di comprensione e di rielaborazione dell’alunno;

5. basiamo l’interpretazione su una precomprensione relativa alla formazione e allo sviluppo delle cinque fondamentali tappe storiche: comunità primitiva, schiavismo, servaggio, capitalismo e socialismo, di cui la prima viene ritenuta come quella più umana e democratica, essendo l’unica non soggetta a conflitti di classe e a rapporti di sfruttamento uomo-natura (tale precomprensione non necessariamente deve essere esplicitata sin dall’inizio del lavoro didattico; può essere anche una conclusione ottenuta a fine lavoro).

Didattica della storia (V)

5. La questione del come

Compito di un qualunque formatore è quello di far capire al giovane come può contribuire, nel suo piccolo, alla modificazione della realtà in cui vive. Quindi il lavoro da fare è anzitutto di tipo psicopedagogico: comprendere il giovane nei suoi bisogni, nelle sue capacità e attitudini, nella sua realtà pregressa, individuando gli aspetti su cui far leva per suscitare la motivazione.

I docenti sanno bene che questo, a scuola, è il compito più difficile: non solo perché l’università non è stata, fino a ieri, in grado di abilitarli didatticamente all’insegnamento (a ciò s’è cercato di rimediare con l’istituzione della SSIS, rimessa in discussione dall’attuale ministra Gelmini), ma anche perché spesso hanno la percezione di essere considerati dalla pubblica opinione come semplici impiegati statali, cioè rappresentanti di uno Stato che non sa dimostrare di credere davvero nell’importanza della formazione.

A scuola non esiste quasi nulla che predisponga ad una vera azione educativa e formativa. Lo impedisce la rigidità dei criteri fondamentali su cui si regge tutta l’organizzazione scolastica, che, in tal senso, non è molto diversa da una di tipo carcerario o militare: la classe ben definita nei suoi componenti, l’orario rigidissimo, il burocratico registro, le scadenze improrogabili, gli ansiosi voti, i pedanti programmi ministeriali, i libri di testo supponenti, ecc. L’odierna scuola è esattamente l’opposto di ciò che aveva preventivato un qualunque pedagogista classico, quando poi non si ha a che fare con le ben note esperienze di bullismo, di assenteismo, di dequalificazione degli studi, di promozioni assicurate ecc.

Nonostante questo noi dobbiamo comunque realizzare un’attività didattica che ci dia soddisfazione e che permetta ai giovani di avere fiducia nelle loro risorse. Lo studio della storia ha senso soltanto se serve per fare questo tipo di lavoro, così come devono servire la geografia, la lingua italiana e tutte le altre discipline.

A noi interessa far crescere il giovane secondo caratteristiche umane e democratiche, in cui la conoscenza dei contenuti delle varie aree di sapere appaia soltanto come l’aspetto “intellettuale” di una crescita a tutto tondo.

Attenzione in tal senso a non confondere “intellettuale” con “culturale”. La “cultura” è un complesso di cose che va ben oltre la semplice conoscenza dei contenuti: la cultura è esperienza condivisa, basata su valori sociali comuni, tradizioni usi e costumi trasmessi a livello generazionale, linguaggi e credenze popolari che appartengono a una collettività storica, è anche “resistenza” a un colonialismo ideologico che passa attraverso i media dominanti. Tutto ciò oggi esiste sempre meno.

Forse, prima di fare un qualunque lavoro storiografico, bisognerebbe chiarire entro quali confini ci si potrà muovere, i limiti epistemologici entro cui le nostre definizioni troveranno il loro senso; quei limiti che sono appunto determinati dalla società borghese, dalla civiltà occidentale, dal sistema capitalistico ecc. Noi infatti possiamo soltanto ipotizzare una società, una civiltà, un sistema diversi da quelli in cui viviamo, ma non possiamo certo prescindere dal nostro presente, dall’hic et nunc.

Volendo, si può anche fare il percorso inverso (quello di tutti i manuali scolastici di storia): partire cioè dall’esperienza primitiva, per poi giungere alla nostra. Ma in tal caso sarebbe bene non lasciar sottintendere l’inevitabilità di un percorso evolutivo, progressivo, che porta necessariamente alla considerazione che la nostra epoca è la migliore di tutte.

Ogni formazione socio-economica andrebbe affrontata come un unicum, chiarendo bene che nelle fasi di transizione verso una diversa formazione sono state compiute determinate scelte, consapevoli o indotte dalle circostanze, che hanno comportato determinate conseguenze, positive o negative.

Didattica della storia (IV)

4. Domande di senso

Dalla delineazione delle varie tipologie di relazioni umane che il docente dovrà esemplificare in rapporto al contesto scolastico, devono emergere le domande di senso, in virtù delle quali sia possibile comprendere le categorie fondamentali del processo storico: possibilità e necessità, che sono quelle in cui si muove la libertà di scelta.

Poiché svolgere un lavoro di ricerca storica è come svolgere un lavoro psicopedagogico sul singolo individuo e sulle relazioni sociali che lo caratterizzano, il docente deve stare molto attento a non dare per scontato nulla, se non appunto il fatto che l’essere umano è dotato, a differenza del mondo animale, della facoltà di scelta.

La storia, sia essa del singolo studente nella sua classe, sia quella degli uomini di tutti i tempi e luoghi, non è determinata univocamente dalla categoria della necessità.

Il compito dell’educatore-formatore è appunto quello di far capire al giovane che, pur essendo egli nato in un contesto che non dipende da lui, e che quindi gli è oggettivo, soggettivamente può contribuire a modificarlo, sia in senso positivo che in senso negativo.

Inutile qui dire che si possono fare mille esempi sul contesto urbano o rurale in cui si vive, sulle relazioni parentali che ci determinano, sulla cultura che assorbiamo attraverso i media, su tutta quella serie di condizionamenti indipendenti dalla nostra volontà.

I giovani, più degli adulti, tendono a considerare questi condizionamenti come molto oggettivi, cioè tali per cui uno sforzo al cambiamento sarebbe vano, ma si esaltano anche in maniera fanatica quando vedono che qualcuno dimostra, in qualche modo, che è possibile unire teoria e prassi. Non a caso le rivoluzioni, nella storia, non vengono fatte da persone “anziane”.

Bisogna dunque insegnare loro che i cambiamenti sono possibili (l’evoluzione della storia sta appunto lì a dimostrarlo), ch’essi avvengono il più delle volte in maniera graduale, su aspetti concreti della vita reale, e che quando scoppiano dei rivolgimenti sociali è perché una parte della società rifiuta di condividere la necessità di talune forme dell’agire e ne propone altre.

La storia non è altro che un immenso teatro i cui attori recitano delle parti sempre diverse. Noi non siamo solo spettatori di queste scene (volgendo lo sguardo verso il passato) ma anche protagonisti (vivendo il presente), e dobbiamo cercare di capire quando i cambiamenti sono stati giusti, cioè quando hanno fatto realmente progredire il senso di umanità degli uomini e delle donne, e quando invece l’hanno fatto regredire, non rispettando le condizioni della libertà di scelta.

Didattica della storia (III)

3. Esempi concreti

Per poter capire il significato delle formazioni socio-economiche della storia, e soprattutto le fasi di passaggio dall’una all’altra, occorre fare degli esempi concreti, presi dalla vita stessa dei giovani o da quella delle persone a loro più prossime.

Indicativamente sarebbe bene non partire mai da definizioni astratte da dimostrare, ma da esempi di vita da interpretare. La comprensione, sempre approssimata, della vita reale deve portare alla comprensione, ancora più approssimata, dei fatti e dei processi storici.

Per esperienza sappiamo che delle cinque formazioni sociali, quelle che colpiscono di più la fantasia degli alunni sono le prime due: il mondo primitivo e lo schiavismo (che ora però, coi nuovi programmi, non si fanno più alle medie).

L’epoca primitiva affascina per il rapporto diretto che l’uomo aveva con le forze della natura e degli animali. Lo schiavismo piace perché è facile stabilire chi sono i “buoni” e i “cattivi”. In particolare queste forme così palesi di oppressione e sfruttamento interessano perché i giovani, rispetto al mondo degli adulti in generale, si sentono deboli, vittime di torti o incomprensioni.

Non dovrebbe essere difficile trovare degli esempi in cui i ragazzi si sentono liberi nel loro rapporto con la natura e con gli animali e in cui invece si sentono a disagio nei loro rapporti con gli adulti o coi loro coetanei più grandi o più forti fisicamente. Le esperienze dei ragazzi devono poter avere un valore paradigmatico, nei limiti del possibile ovviamente, affinché si abbiano delle esemplificazioni non banali, in quanto sufficientemente realistiche: saranno poi queste ad aiutare a capire dei processi storici relativamente complessi.

Certo, noi non possiamo prescindere dal fatto che, trattando p.es. il problema dello schiavismo, cioè di come interpretarlo nella maniera più obiettiva possibile, siamo costretti a farlo all’interno di un preciso condizionamento storico-culturale: quello dell’ideologia borghese, che è dominante nelle nostre società capitalistiche.

E, poiché è praticamente insensato sostenere che l’epoca dello schiavismo sia stata migliore della nostra, dobbiamo altresì dare per scontato che tra lo schiavismo e il capitalismo vi sia stato un processo storico evolutivo, che ha portato l’umanità, pur soggetta a gravi contraddizioni (si pensi solo alle due guerre mondiali), ad avere oggi una maggiore consapevolezza di sé, cioè dei valori e dei diritti umani.

Dunque, quello che nella fase della motivazione bisogna fare è partire dalla comprensione delle varie tipologie di relazioni umane, per arrivare alla comprensione delle relazioni storiche tra le classi sociali delle diverse formazioni socio-economiche, rapportando il tutto all’età dei nostri alunni.

Ecco un confronto sinottici che indica come fare una comparazione teorica tra due forme di civiltà:

CONFRONTO TRA FEUDALESIMO E CAPITALISMO: MEDIOEVO E MODERNITA’

Rapporto con la società

Esistevano comunità di villaggio rurali, autonome, autosufficienti, indipendenti tra loro, con diverse leggi, monete, usi, tradizioni, lingue, pesi, misure, dazi, dogane…
Esiste la nazione, con un unico mercato, un’unica moneta, una sola legge, una sola lingua, un unico esercito, una sola burocrazia, una scuola statale…

La terra appartiene ai feudatari e i contadini (servi della gleba) la lavorano.
Il borghese è padrone di capitali o di terre o di imprese commerciali o manifatturiere e vi fa lavorare gli operai salariati, manuali e intellettuali.

Tra contadino e feudatario c’è un rapporto personale di dipendenza. Non c’è licenziamento.
Tra borghese e operaio c’è un rapporto contrattuale libero. Ci può essere licenziamento.

Lo sfruttamento del contadino non va oltre le esigenze di consumo del feudatario.
Lo sfruttamento dell’operaio va oltre le esigenze di consumo del borghese.

Il feudatario riceve dal contadino prodotti in natura (agricoli).
Il borghese riceve dall’operaio prodotti industriali.

Il contadino non è giuridicamente libero.
L’operaio è giuridicamente libero.

Il feudatario impedisce al contadino di lasciare il feudo.
Il borghese vuole che il contadino lasci il feudo, per farlo diventare operaio nella sua azienda.

Il feudatario si trasforma col tempo in borghese (p.es. obbliga i contadini a produrre per il mercato).
Il borghese non si trasforma mai in feudatario, anche se può comprare dei titoli nobiliari. Tuttavia aspira a vivere di rendita (anche solo finanziaria, cioè non produttiva).

Il contadino fa anche l’artigiano ed è commerciante dei propri beni.
Contadino, artigiano, commerciante e operaio sono figure sociali separate.

Famiglia patriarcale (allargata)
Famiglia borghese (ristretta)

Rapporto con l’economia

Prevale la campagna sulla città e la terra sull’industria (manifattura).
Prevale la città sulla campagna e l’industria sulla terra.

Prevale l’autoconsumo sullo scambio.
Prevale lo scambio sull’autoconsumo.

Prevale la rendita dei feudatari. Scarsi investimenti nelle attività produttive. Assenza di rischi.
Prevale il profitto dei borghesi. Capitali investiti in attività produttive. Presenza del rischio.

Autoconsumo: si consuma ciò che si produce.
Mercato: ciò che si consuma deve essere comprato.

Prevale il valore d’uso sul valore di scambio.
Prevale il valore di scambio sul valore d’uso.

Valore d’uso: una cosa ha valore se è necessaria.
Valore di scambio: una cosa ha valore se può essere comprata e venduta.

Prevale il baratto sulla moneta.
Prevale la moneta sul baratto.

Baratto: si scambiano gli oggetti.
Moneta: si acquista qualunque cosa (compravendita).

Mercati e fiere: si comprano poche cose che non si riescono a produrre (p.es. spezie, sale) e si vende l’eccedenza (surplus).
Mercati, negozi, ipermercati: si vende e si compra tutto, anche il superfluo.

Produzione per il consumo.
Produzione per il mercato, per accumulare capitali.

Pubblicità: non esiste o, se esiste, è di tipo più politico che economico (è propaganda).
Pubblicità: molta, serve per far acquistare i prodotti e per vincere la concorrenza (in mass-media, fiere, cartellonistica…).

Concorrenza tra produttori: non esiste o è regolamentata dalle corporazioni.
Concorrenza tra produttori: molta.

Monopolio nella produzione: non esiste, almeno sino quando non si formano le corporazioni. Esiste comunque il latifondo.
Monopolio nella produzione: tende inevitabilmente a imporsi sulla concorrenza dei produttori, portando i più deboli alla rovina.

Tecnologia: poco sviluppata.
Tecnologia: molto sviluppata (acciaio, plastica, alluminio, biotecnologie ecc.).

Mezzi di lavoro: aiutano il contadino a lavorare.
Mezzi di lavoro: servono al borghese per sfruttare l’operaio.

Le esigenze della natura prevalgono su quelle della società.
Le esigenze della società prevalgono su quelle della natura.

Materie prime prevalenti: legno, argilla, rame, ferro…
Materie prime prevalenti: carbone, petrolio, gas, nucleare.

Fonti energetiche: acqua, vento, legno, sole…
Fonti energetiche: carbone, derivati del petrolio, energia solare, eolica, nucleare, vulcanica…

Inquinamento della natura: quasi inesistente.
Inquinamento della natura: accentuato.

Locomozione: cavallo, asino, mulo, nave a vela.
Locomozione: bici, macchina, treno, aereo, nave a motore.

Rapporto con la politica

Il contadino lotta contro il servaggio, per avere la terra che appartiene al latifondista (feudatario laico o ecclesiastico).
Il borghese, già proprietario di capitali o di terre o di imprese, lotta contro i feudatari e il clero per avere più potere politico.

Il contadino che rifiuta il servaggio può diventare operaio, oppure se ha fortuna o pochi scrupoli può diventare borghese.
L’operaio lotta contro il borghese, proprietario dei mezzi produttivi.

Le figure politiche principali sono il papa e l’imperatore e i loro vassalli. Centralismo governativo sostenuto dai ceti agrari dominanti.
Le figure politiche principali sono i re nazionali, ma soprattutto i parlamenti e le costituzioni, che devono esprimere gli interessi anche della borghesia.

La successione al trono imperiale e alle cariche politiche è ereditaria.
Nei parlamenti si vota (prima sulla base di un certo censo, poi a suffragio universale).

L’imperatore e il papa sono al di sopra delle leggi. Monarchia assoluta.
I sovrani hanno un potere limitato dalla Costituzione e dal parlamento. Monarchie costituzionali o Repubbliche parlamentari.

Politica estera: si fanno crociate per sfruttare e dominare. Pretesto: difesa e diffusione del cristianesimo.
Politica estera: si pratica il colonialismo per sfruttare risorse umane e naturali. Pretesto: difesa e diffusione della democrazia.

Rapporto con la religione

Il contadino è una persona credente e praticante, di religione cattolica. Cristiano tutti i giorni. Dio prevale sull’uomo.
Il borghese è una persona poco credente e ancor meno praticante, di religione protestante (de facto o anche de jure). Cristiano la domenica. L’uomo prevale su Dio.

Prevale l’interpretazione del clero nella lettura della Bibbia.
Prevale l’interpretazione personale della Bibbia (libero esame).

Prevale la gerarchia ecclesiastica. Clero più importante dei laici.
Prevale il sacerdozio universale dei fedeli. Tra laici e clero non vi è alcuna differenza.

Sacramenti: sette.
Sacramenti (area protestante): due (battesimo e comunione). Ma il concetto di “sacro” tende a scomparire.

Prevale teologia dogmatica, anche se la chiesa romana ha modificato alcuni dogmi della chiesa ortodossa o aggiunto in proprio nuovi dogmi.
Il libero esame della Bibbia mette in discussione i dogmi della chiesa. Prevale il dubbio e l’analisi critica.
Prevale la tradizione della chiesa (sinodi e concili).

Prevale la comunità religiosa sul singolo credente.
Prevale il singolo credente sulla comunità religiosa.

Prevalgono le opere sulla fede e la fede sulla ragione.
Prevale la fede sulle opere e la ragione sulla fede.

Pessimismo sulla possibilità di libertà e giustizia sulla terra. Speranza nell’aldilà.
Fiducia nel progresso della scienza e della tecnica e nel benessere terreno.

Crociate: conquistare per convertire. Il potere secolare e i mercanti sono usati per dominare.
Colonialismo: conquistare per dominare. La chiesa è usata per convertire.

Lo Stato, per i cattolici, è subordinato alla chiesa nelle questioni morali. Stato confessionale.
Lo Stato, per i protestanti, è separato dalla chiesa e quindi autonomo nelle questioni morali. Stato laico.

Rapporto con la cultura

Prevale la cultura orale (che è di molti) su quella scritta (che è di pochissimi). Il latino non è più parlato ma solo scritto.
Prevale la cultura scritta su quella orale (le leggi, i contratti commerciali e di lavoro, la contabilità).

Nello scritto prevale il latino sul volgare (o lingua romanza). In Italia la svolta si ha con Dante, Petrarca e Boccaccio.
Prevalgono sia nello scritto che nel parlato le lingue nazionali (italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese…).

Valori: fiducia reciproca, parola data, onore, origine aristocratica, stretti rapporti parentali…
Valori: la parola non vale niente, contano solo i contratti, firmati e vidimati. Opportunismo, il farsi da sé…

Di fronte alle contraddizioni sociali si usa la carità, l’elemosina, l’assistenza… La povertà è considerata come inevitabile.
La povertà è considerata come una condizione che va assolutamente evitata, accettando qualunque tipo di lavoro. Il povero si condanna da sé.

Analfabetismo: diffuso tra i ceti più bassi o rurali.
Analfabetismo: tende a scomparire, soprattutto nelle città.

Cultura: monopolio del clero.
Cultura: diffusa tra la borghesia.

Cultura dominante: teologia, religione, filosofia religiosa, iconografia, diritto canonico…
Cultura dominante: diritto, filosofia, letteratura, scienza… Si riscopre la cultura pre-medievale (greco-romana).

Libri: scritti a mano.
Libri: stampati.

La scuola è privata, gestita dal clero. Prevalgono le università teologiche.
La scuola è pubblica, gestita dallo Stato. Prevalgono le accademie laiche.

Didattica della storia (II)

2. La storia per categorie

Bisognerebbe mettere lo studente in grado di capire che la storia non è complessa come sembra, se si categorizzano gli stili di vita che sono prevalsi all’interno delle singole civiltà.

Il vero problema tuttavia inizia proprio qui: come categorizzare le civiltà? Se riuscissimo a chiarirci su questo, sarebbe poi relativamente facile stabilire, a grandi linee, i relativi stili di vita.

Noi docenti dobbiamo trovare un denominatore comune che permetta agli alunni di classificare le civiltà in maniera relativamente semplice, in modo che possano comprendere astrattamente le loro caratteristiche salienti a prescindere, in un certo senso, dal luogo e dal tempo in cui si sono concretamente sviluppate. Questo lavoro di comparazione teorica sui “fondamenti” nessun libro di storia lo fa, semplicemente perché sono tutti incentrati sul primato dell’Europa occidentale in particolare e dell’Occidente in generale.

Una proposta di categorizzazione della storia del genere umano potrebbe essere questa:
1. storia della comunità primitiva o del comunismo primordiale (un periodo lunghissimo che ha coinvolto tutte le popolazioni della terra);
2. schiavismo (dalle civiltà mesopotamiche a quella romana, passando per quella egizia e per quelle asiatiche, ivi inclusa quella azteca);
3. servaggio (tutte le civiltà post-schiaviste, feudali ecc., fino al capitalismo escluso);
4. capitalismo (sorto nel XVI sec. ma con delle anticipazioni significative nell’Italia comunale-signorile, e i cui poli fondamentali sono stati e tuttora sono, seppur non più in maniera esclusiva, l’Europa occidentale, gli Stati Uniti, il Giappone, e che caratterizza fondamentalmente il nostro tempo);
5. socialismo (elaborato prima teoricamente nella versione utopistica e scientifica, poi realizzato praticamente con la rivoluzione d’Ottobre del 1917, diffusosi in alcune nazioni europee, asiatiche, africane e americane, collassato nella ex-Urss a motivo del suo autoritarismo e trasformatosi in socialismo di mercato nell’attuale Cina).

Si tratta dunque di cinque formazioni socio-economiche e politiche che, pur con qualche variante al loro interno, possono permetterci di capire tutta la storia mondiale, di ogni tempo e luogo.

Ovviamente noi dobbiamo dare per scontato che una qualunque interpretazione dei fatti storici, inclusa la nostra, risente inevitabilmente dei condizionamenti culturali della civiltà in cui essa viene elaborata.

Didattica della storia (I)

“J have a dream”, quello di progettare con qualche docente di storia o qualche storico di professione l’impostazione di una didattica di questa disciplina che prescinda nelle sue linee essenziali dai vari ordini e gradi di scuole. Cioè il sogno è quello di dipanare un filo comune trasversale, da utilizzare in chiave metodologica.

Il problema da risolvere non è più quello di trovare strategie adeguate per studiare un manuale prefatto, ma quello di come far capire concretamente l’importanza di una ricerca storica, suscitandone la motivazione nei ragazzi, che poi è la sola a garantire una memoria a lungo termine. “L’apprendere è un processo attivo, che richiede l’attività di elaborazione e di costruzione delle conoscenze del soggetto che apprende”; ecco perché bisogna lavorare anche sulle “procedure metodologiche di ricostruzione delle realtà del passato”, così scrive Hilda Girardet in Aspetti cognitivi della didattica di laboratorio (art. trovato in www.israt.it).

E la risoluzione di questo problema non dovrebbe riguardare il singolo insegnante ma l’insieme dei docenti di una classe, capaci di dare al suddetto problema un’impostazione storica condivisa, che faccia da leit-motiv alle diverse forme dell’indagine disciplinare.

Forse un giorno, quando ogni disciplina saprà garantire una propria impostazione storica, cioè saprà rendere culturalmente ragione del proprio esistere in ogni momento del proprio svolgimento, la “storia”, come materia a se stante, non esisterà più. Avremo finalmente trovato una calamita per la ricomposizione del sapere. E forse quel giorno non esisteranno neppure le “discipline”, oggi tenute rigorosamente separate le une dalle altre.

In tal senso oggi la didattica andrebbe superata in almeno tre direzioni:
1. la netta divisione tra scienze umane e scienze esatte;
2. l’impostazione cronologica delle scienze umane;
3. l’impostazione astratta delle scienze esatte.

Per rendere edotti gli studenti circa gli avvenimenti del loro tempo sarebbe sufficiente creare un insegnamento di “Argomenti di attualità”, impostato in chiave etica, sociale e culturale. O forse sarebbe meglio chiedere ad ogni docente di fare della propria disciplina un’occasione per comprendere la modernità.

1. Vivere senza

Negli attuali libri di testo di storia forse c’è un capitoletto che potrà tornarci utile alla realizzazione di questo progetto: quello relativo alle tecnologie in uso nei secoli passati.

Quando si affronta un argomento del genere si chiede sempre ai ragazzi come s’immaginano una società in cui non esiste telefono, cellulare, computer, automobile, televisione, radio ecc. Per saperlo diciamo loro che occorre chiederlo ai nonni, e così iniziano a diventare “ricercatori”. Ma tra un po’ non esisterà più un gap generazionale così grande e allora come potranno i giovani immedesimarsi in una vita quotidiana che da tempo non appartiene più a loro?

Per iniziare un qualunque discorso storico noi dobbiamo mettere l’alunno in grado di capire come si può vivere in condizioni tecniche, tecnologiche, socioeconomiche, culturali ecc. molto diverse dalle nostre. Cioè come si può “vivere senza”. Se non possono avvalersi delle persone più anziane, dovremmo poter avviare delle simulazioni sul campo, ricostruendo, con l’aiuto degli Enti Locali, una sorta di “villaggio demo”, in cui siano presenti gli elementi fondamentali del vivere quotidiano di un passato remoto.

I musei della civiltà contadino-romagnola possono andar bene allo scopo, ma occorrono anche animazioni, ricostruzioni virtuali, esemplificazioni reali, che l’alunno possa vedere coi propri occhi, toccare con mano. I musei storici devono essere vivi, devono farci sentire partecipi del periodo che rappresentano.

Non voglio una sorta di “Italia in miniatura”, in cui il turista gira tra un monumento e l’altro scattando fotografie o guardando ammirato di cosa siamo capaci di fare, ma una esemplificazione significativa in cui l’osservatore sia parte in causa, insomma una sorta di museo didattico all’aperto, in cui la ricostruzione degli ambienti e delle attività sia sufficientemente realistica.

Anche una gita scolastica potrebbe essere impostata su un’esperienza del genere. In fondo anche alla televisione, col concetto di “reality”, hanno provato a ricostruire ambienti per noi obsoleti.

Tutto ciò dovrebbe servire per far capire che si può vivere anche “senza”, cioè che non è la tecnologia che di per sé indica il valore di una civiltà. Dovrebbe servire anche per far capire le radici del nostro tempo, da dove veniamo, che cosa abbiamo sviluppato e cosa invece è stato abbandonato, ovvero il fatto che in questo processo sono state compiute delle scelte, le cui conseguenze hanno comportato aspetti positivi e negativi. Il presente non è migliore del passato solo perché presente.

Gli storici e la religione cristiana (III)

3. L’ORTODOSSIA BIZANTINA

In un qualunque manuale scolastico di storia medievale, il tema principale dedicato al regno millenario dei bizantini è quello dell’epoca giustinianea. Tutto il resto viene generalmente liquidato in qualche paragrafo sparso qua e là.

Perché si accentua l’importanza di Giustiniano? Il motivo è semplice: perché sino a questo imperatore non vi è stata una sostanziale differenza tra cattolici e ortodossi. Sicuramente non ve n’era sul piano dogmatico, e anche su quello politico l’intera cristianità riconosceva un’unica realtà imperiale: tutti gli altri sovrani o erano re delle proprie genti o erano “patrizi romani” (titolo che indicava una sorta di vassallaggio nei confronti del basileus).

Le differenze tra cattolici e ortodossi han cominciato a farsi sentire sul piano politico con l’incoronazione di Carlo Magno, preceduta dalla rottura ideologica del Filioque nel Credo (rottura che i cattolici curiosamente definiscono col termine di “scisma di Fozio”).

Prima di allora la chiesa romana s’era limitata a ostacolare, in varie maniere, il progetto di riunificazione dell’ex impero romano sotto l’egida bizantina, anche a costo di favorire la penetrazione barbarica in occidente. Questo perché il papato non aveva mai accettato il trasferimento costantiniano della capitale da Roma a Bisanzio.

In tale resistenza ad oltranza, il papato aveva cercato non solo di prevalere su ogni altra cattedra episcopale della civitas cristiana, ma anche di acquisire quanti più beni possibili. Infatti, quando si sentì sufficientemente forte sul piano economico, al fine di poter rivendicare anche un potere politico, scelse di incoronare imperatore Carlo Magno, in totale dispregio del fatto che un imperatore esisteva già.

Ma come viene presentato Giustiniano? Bisogna prima fare un passo indietro e parlare dei due imperatori che l’hanno preceduto: Zenone e Giustino.

Del primo i manuali dicono che mandò in Italia gli Ostrogoti per liberarsi degli Eruli di Odoacre, di religione ariana. In realtà, si precisa, Zenone lo fece perché gli Ostrogoti premevano sui confini orientali (anche i Goti infatti erano ariani, per cui non vi sarebbe stata alcuna differenza di principio). Con ciò quindi si fa capire che l’Italia, per Zenone, non valeva nulla.

Tuttavia con gli Ostrogoti l’Italia ebbe 30 anni di pace. Dunque perché con Giustino l’impero volle disfarsi anche di questa popolazione? Forse perché era anch’essa ariana? No, il motivo era che Bisanzio voleva annettersi l’intera Italia.

Cioè lo storico vuol far credere che mentre Bisanzio aveva motivi ideali sul piano formale, sul quello sostanziale invece aveva i sordidi motivi dell’interesse di potere. Lo dimostra il fatto (storiografico) che il basileus viene sempre dipinto come un uomo senza scrupoli, continuamente ansioso d’intromettersi nelle questioni teologiche e di sottomettere politicamente la chiesa (cesaropapismo).

Per converso, la chiesa romana viene presentata come la paladina della libertà dell’occidente: libertà religiosa (cattolici contro ortodossi e contro impero), culturale (latino contro greco), economica (potere spirituale poggiante su quello temporale) e politica (autorità imperiale non indipendente ma riconosciuta dal papato).

Quando si inizia a parlare di Giustiniano, lo si definisce addirittura come “l’ultimo grande imperatore romano”! Tutti gli altri imperatori che si sono succeduti, dalla sua morte sino al 1453, cioè per altri 888 anni, è come se non fossero mai esistiti: non vengono neppure ricordati per nome.

Ma perché Giustiniano fu grande?

1. Perché cercò di riunificare tutto l’impero cacciando i barbari dall’Africa, dalla Spagna, dall’Italia, anche se, a causa della forte resistenza ostrogota, ridusse l’Italia a un cumulo di macerie;
2. perché riprese il controllo commerciale del Mediterraneo;
3. perché riorganizzò l’amministrazione dello Stato, sviluppò il commercio, l’artigianato, l’architettura ecc., e produsse quel capolavoro giuridico chiamato Corpus iuris civilis.

Insomma Giustiniano in tanto fu grande in quanto assomigliava ai migliori imperatori pagani del passato mondo romano. Tuttavia la sua idea di ricostruire il vecchio impero in nome del cristianesimo morì con lui. Si parla della sua “utopia” come se fosse stato un suo problema personale e non un’esigenza dell’intera cristianità.

Quando infatti si comincia a dire che il progetto fallì perché i Visigoti si ripresero la Spagna, i Longobardi entrarono in Italia, i Berberi e i Mauritani si ribellavano continuamente in Africa e i Persiani premevano a oriente, si tralascia del tutto di dire che la chiesa romana non fece assolutamente nulla in occidente per favorire la realizzazione di quel piano. Anzi lo ostacolò in tutte le maniere: dapprima con una forma di resistenza passiva, che impediva ai bizantini di concertare le forze in funzione anti-gota; poi col favorire l’ostilità monofisita delle forze copte dell’Egitto e siriane nei confronti del potere centrale dell’impero; infine con l’avvallo all’ingresso longobardo in Italia, onde impedire a Bisanzio, dopo la vittoria sui Goti, di potersi insediare in tutta tranquillità nella penisola (cfr la controversia dei Tre capitoli).

Il papato infatti aveva bisogno di un’Italia divisa sul piano territoriale, per meglio esercitare i propri tentativi egemonici; e a partire dall’ingresso dei Longobardi, essa resterà divisa sino all’unificazione di fine Ottocento.

Detto questo, si aggiunge che, avendo dovuto sostenere ingenti spese per le numerose e faticosissime guerre su più fronti, Giustiniano aveva prosciugato le casse dello Stato, sicché i suoi successori dovettero privilegiare gli aspetti del risanamento interno, interessandosi dell’Italia solo per motivi fiscali.

La questione delle tasse diverrà cruciale per sostenere le finanze dello Stato, ma anche per sostenere la tesi, propria degli storici papisti, secondo cui la chiesa romana aveva tutto l’interesse a staccarsi dal dominio di Bisanzio.

I bizantini saranno sempre odiati a causa del loro rapace fiscalismo e del loro cesaropapismo. Di fronte a una situazione del genere era dunque giusto che in occidente fosse la chiesa romana a porsi a capo della cristianità.

Ovviamente si tace del tutto sia il fatto che in occidente la chiesa esercitava quello che poi venne definito col termine di “papocesarismo” (l’imperatore come braccio secolare del papato), sia il fatto che in oriente il fiscalismo bizantino era una prerogativa dello Stato, esercitata nei confronti di qualunque cittadino, anche di quello possidente, cosa che nell’Europa feudale occidentale non è mai avvenuto, proprio perché la gestione del potere politico era personalistica (basata sul vassallaggio) e non istituzionale.

Gli storici e la religione cristiana (II)

2. IL CRISTIANESIMO FEUDALE

Uno storico contemporaneo, di cultura laica, difficilmente arriva a sostenere che nel corso del periodo medievale la chiesa romana appariva su posizioni più antidemocratiche (meno “conciliari”) di quella ortodossa, proprio perché strutturata in maniera integralista, cioè politico-monarchica, con tanto di rigida gerarchia clericale, specie dopo la svolta autoritaria di papa Gregorio VII, con cui si pretendeva di subordinare alla curia pontificia la figura imperiale.

Uno storico del genere di regola ha scarsa dimestichezza con le questioni religiose, ovvero ne delega volentieri l’affronto (anche per non aver noie riguardo a pubblicazioni di tipo scolastico) agli stessi teologi e, di conseguenza, pone tutte le religioni sullo stesso piano, non facendo differenze di principio tra l’una e l’altra. E, fatto questo, si limita ad analizzare il fenomeno religioso dal punto di vista politico-istituzionale e, al massimo, socio-economico.

Ecco perché detto storico preferisce dare per scontate una serie di tesi che vanno per la maggiore, ancora oggi, nell’ambito della storiografia occidentale europea, la prima delle quali è che la chiesa ortodossa era del tutto prona, succube, secondo la pratica del “cesaropapismo”, alla volontà politica del basileus, per cui tra le due confessioni – cattolica e ortodossa – va preferita sicuramente quella cattolica, appunto perché si presentava storicamente come una potenza in grado di reggere il confronto con tutti gli imperatori, benché a volte essa abusasse dei propri poteri, come appunto è successo a partire da Gregorio VII sino a Bonifacio VIII.

È assai difficile incontrare uno storico laico che non accetti, consapevolmente o meno, tale interpretazione “cattolica” dei fatti storici. Questo però comporta conseguenze spiacevoli ai fini della ricerca della verità storica.

In primo luogo infatti si è costretti ad accettare come del tutto normale l’incoronazione di Carlo Magno in veste di imperatore del sacro romano impero, in opposizione al basileus bizantino, legittimamente costituito sin dai tempi di Costantino e Teodosio. E noi sappiamo che da quella incoronazione illegittima è poi dipeso tutto lo svolgimento politico-istituzionale dell’Europa occidentale, praticamente sino alla nascita delle moderne nazioni borghesi.

In secondo luogo si è costretti a sostenere che la rottura del 1054 fu voluta dagli ortodossi e non dai cattolici, i quali però, sin dai tempi del Filioque, avevano infranto la tradizione ecumenica e teologica della chiesa indivisa.

In terzo luogo si è indotti a considerare come legittime tutte le innovazioni, amministrative ma anche dogmatiche, introdotte dalla chiesa romana nell’ambito della cristianità mondiale.

Solo di recente lo storico medievista tende a considerare quanto meno esagerate le persecuzioni clericali ai danni dei movimenti pauperistici, da sempre ritenuti troppo settari ed estremistici per essere politicamente attendibili.

Tuttavia detto storico non può arrivare a prendere una posizione nettamente favorevole nei confronti di tali movimenti, altrimenti ciò ad un certo punto lo porterebbe a parteggiare, a seconda del movimento scelto, o per la causa protestante, oppure per un ritorno, sic et simpliciter, all’evangelismo pre-borghese.

Lo storico medievista, di cultura laica, si limiterà a dire che quelle persecuzioni erano un segno premonitore del fatto che il potere temporale della chiesa andava in qualche modo ridimensionato. Che poi questo storicamente sia avvenuto proprio a causa della riforma protestante, è un altro discorso, che non merita d’essere approfondito più di tanto. Infatti lo storico medievista italiano, se è costretto a scegliere tra ortodossia e cattolicesimo, sceglie il secondo, e se deve scegliere tra cattolicesimo e protestantesimo, sceglie il primo.

Gli storici e la religione cristiana (I)

Queste riflessioni sul modo come la religione cristiana viene trattata nei manuali scolastici di storia antica e medievale, vogliono soltanto essere esemplificative dei limiti cui si può andare incontro scegliendo come approccio ermeneutico quello meramente “occidentale” (che in detti testi coincide con quello dell’Europa cristiano-borghese).

1. IL CRISTIANESIMO PRIMITIVO

Quando nei manuali scolastici di storia antica o medievale si affronta il tema del cristianesimo primitivo, che cronologicamente va dalla nascita di Cristo al crollo di Gerusalemme nel 70, generalmente lo storico tiene un atteggiamento molto prudente.

Infatti se si mettono a confronto le versioni sulla natura di questo evento, espresse nei manuali scolastici di religione cattolica, che come noto devono sottostare a un placet ecclesiastico, con quelle espresse nei manuali di storia, si assiste quasi sempre a una sostanziale omogeneità di vedute.

Questo perché gli storiografi non confessionali hanno adottato in maniera del tutto acritica le tesi ufficiali della chiesa romana relative all’interpretazione di tale fenomeno storico. E questo senza considerare minimamente che nei paesi anglosassoni esistono tesi confessionali di tipo “protestantico” e in quelli greco-slavi tesi confessionali di tipo “ortodosso”, che su moltissimi punti divergono ampiamente da quelle cattoliche.

Per convincersi di questa abdicazione del laicismo all’esegesi confessionale basta citare alcuni semplici esempi tratti dal manuale di Alba Rosa Leone (Popoli nella storia, ed. Sansoni), uno dei più usati alle medie di I grado:

1. Gesù non predicò un regno di liberazione nazionale della Palestina oppressa dai romani, ma una salvezza di tipo “etico-religioso”, che si sarebbe realizzata nel cosiddetto “regno dei cieli”;

2. tale regno sarebbe stato fondato esclusivamente sull’“amore fraterno e universale” e sarebbe stato appannaggio delle categorie sociali più deboli e reiette.

La storiografia laica conferma quindi l’idea della storiografia confessionale secondo cui il Cristo non era affatto un liberatore politico-nazionale, bensì un redentore morale-universale.

Oltre a ciò si danno per scontate tutte le guarigioni miracolose (definite dall’autrice con l’aggettivo “inspiegabili”).

Ma il bello sta nel finale. Poiché dunque la popolazione riteneva Gesù il “messia” tanto atteso, egli finì coll’essere giustiziato sulla base di un incredibile equivoco, in quanto nei vangeli non appare in alcun punto ch’egli avesse mai desiderato diventare un “liberatore nazionale”. Egli fu crocifisso a causa dell’odio che nei suoi confronti nutriva il ceto sacerdotale giudaico, che temeva di perdere il proprio potere, di fronte all’eventualità di un’insurrezione armata contro i romani (realizzata a questo punto non si sa da chi). Pilato eseguì la sentenza senza neppure essere pienamente convinto della sua giustezza. Successivamente il primo che ebbe il coraggio di far uscire il cristianesimo agli angusti limiti geografici della Palestina fu Paolo di Tarso, il vero fondatore del cristianesimo come religione universale.

In tutta la propria rappresentazione dei fatti, la Leone evita di soffermarsi su un punto che per la storiografia confessionale è di cruciale importanza, e cioè la resurrezione di Cristo. Ma questo silenzio, indubbiamente voluto, è il massimo della laicità possibile che si possa riscontrare nel suo manuale. Una omissione che, stante le premesse, verrebbe inevitabilmente giudicata come incomprensibile da una qualunque esegesi di tipo confessionale.

Considerando poi che i nuovi programmi fanno partire la storia del primo anno delle medie dalla caduta dell’impero romano, ci si chiede se l’affronto di un tema così importante debba restare definitivamente precluso ai preadolescenti. Il testo del Brusa – Guarracino – De Bernardi (Il nuovo racconto delle grandi trasformazioni, Mondadori), al cristianesimo primitivo non dedica neanche una riga, partendo direttamente dalla svolta costantiniana.

Il Neri (Il mestiere dello storico, La Nuova Italia) fa rientrare il cristianesimo nell’ambito della nascita delle “nuove religioni” e si limita ad affermare che tutto quanto sappiamo di questa religione ci è stato tramandato da una “tradizione”. Quella medesima tradizione che il manuale di Zaninelli – Bonelli – Riccabone (Storia ed educazione alla cittadinanza, Zanichelli) accetta come oro colato, pur essendo stampato da un editore che difficilmente si potrebbe definire come “confessionale”, e che però, verrebbe a dire “a scanso di equivoci”, ha pubblicato un altro manuale che sul tema in oggetto è più “realista del re”, quello di Barbero – Frugoni – Luzzatto – Sclarandis (La storia, l’impronta dell’umanità), dove viene detto che la vita eterna promessa dal Cristo per l’aldilà costituiva un messaggio autenticamente “rivoluzionario” per gli schiavi.

Un po’ più obiettivo appare il testo di Alberton – Benucci (St 1, ora di storia, Principato), che, tra una riga “confessionale” e l’altra, arriva ad ammettere che la predicazione del Cristo risultò scomoda anche ai romani, in quanto contraria allo sfruttamento degli schiavi.

Molto curiosa, specie in considerazione dell’orientamento della casa editrice, la collocazione dell’argomento in questione da parte di Ronga – Gentile – Rossi (Grandangolo, La Scuola): la paginetta dedicata al cristianesimo primitivo, in cui per fortuna si ribadisce la tesi laica secondo cui il Cristo venne crocifisso perché i romani lo giudicavano ostile alla loro autorità, si trova dopo le descrizioni particolareggiate del Pantheon e del Colosseo e subito prima di alcune pagine dedicate agli acquedotti, alle latrine pubbliche e alle fogne di Roma!

Assiomi da superare nell’interpretazione dei fatti storici

In qualunque testo scolastico di storia, di qualunque tendenza esso sia, vi sono sempre alcuni presupposti metodologici ritenuti irrinunciabili, che indicano in un certo senso il carattere apologetico dell’informazione trasmessa nella scuola di stato attraverso una delle sue discipline più significative, appunto la storia.

Tali presupposti provengono direttamente dal senso di appartenenza geo-politica all’Europa occidentale da parte degli autori dei libri di testo, i quali, generalmente, danno per scontata l’idea secondo cui la civiltà di questa parte del continente europeo sia la migliore del mondo, superiore anche a quella degli Stati Uniti, la cui grandezza viene misurata più in termini quantitativi, relativamente al progresso tecnico-scientifico, militare e nell’organizzazione dell’attività commerciale e industriale, che non in termini qualitativi (le tradizioni culturali, religiose e politiche), in cui l’Europa occidentale eccelle da almeno duemila anni.

Sulla base di questi presupposti si fonda l’idea di “scienza” o di “oggettività”. Come se nell’arco della propria vita uno storico non ne vedesse così tante da dover escludere a priori l’esistenza di qualcosa di incontrovertibile o di inconfutabile! Come se uno storico non sapesse quanto le interpretazioni siano condizionate dalla politica, dalle ideologie dominanti (esplicite o implicite), dalle forme di civilizzazione e, sul piano soggettivo, anche dalle proprie storie personali!

E se questo vale, in maniera evidente, per le scienze umane, non vale forse anche per quelle “esatte”? Su asserzioni cosiddette “scientifiche”, del tipo: “la matematica non è un’opinione”, ci sarebbe da discutere all’infinito, essendo ben noto che enunciati assolutamente inconfutabili sono poverissimi di contenuto dialettico o anche semplicemente informativo, e che la nostra “matematica” non è l’unica possibile (i cinesi p.es. usavano la numerazione binaria quando da noi non si sapeva neppure cosa fosse, e i Maya conoscevano la numerazione a base 20 che permetteva loro di fare calcoli molto più complessi di quelli che facevamo noi nel loro stesso periodo).

Gli autori dei manuali scolastici di storia possono essere di ideologia liberal-borghese (crociana-gentiliana), di ideologia socialista (generalmente gramsciana) o, in casi più rari, di ideologia cattolica, ma queste differenze non incidono minimamente sulle scelte di fondo (ontologiche) operate in materia di impianto metodologico generale.

Una constatazione del genere può forse apparire presuntuosa nella sua astratta generalizzazione, eppure essa emerge con sempre maggior insistenza proprio dallo sviluppo di un fenomeno ritenuto ormai incontrovertibile: il globalismo, in nome del quale è diventato legittimo chiedersi se possa essere considerata congrua (sul piano didattico-culturale) una visione unilaterale, in quanto geopoliticamente determinata, dei fenomeni storici.

I fatti dimostrano che le ideologie sottese (in maniera più o meno esplicita) all’elaborazione dei manuali scolastici di storia possono prescindere da molte cose, possono anche essere in competizione tra loro, ma su un aspetto di vitale importanza esiste sempre un’ampia convergenza di vedute, al punto che il senso di appartenenza geopolitica all’Europa occidentale, in particolare alle culture liberal-borghesi (ivi incluse quelle cattoliche e, in misura minore in Italia, quelle protestanti) e, all’opposto, alle culture socialiste-riformiste (che proprio nei testi di storia risultano prevalenti), appare come una sorta di dogma in cui credere per fede.

Si può rilevare questo anche dal fatto che in genere nessuno storico avverte mai l’esigenza di precisare che la sua interpretazione parte da tale assioma, o comunque di chiarire preventivamente i limiti epistemologici entro cui si muove la propria interpretazione dei fenomeni storici del passato e del presente.

Qui in sostanza si vuole sostenere la tesi che, per garantire un minimo di obiettività nei giudizi storiografici, la scelta di un’ideologia in luogo di un’altra, oggi, a differenza, diciamo, di una trentina d’anni fa, risulta del tutto irrilevante, in quanto agli autori dei manuali di storia pare sufficiente far dipendere la verità dei propri enunciati da una preliminare scelta di campo “geografica”, quella dell’Europa occidentale (di cui gli Usa sono soltanto una propaggine), da cui tutto il resto proviene in maniera logica, come una sorta di sillogismo aristotelico.

Si è ormai arrivati a un punto tale di superficialità nell’organizzazione dei contenuti, che ciò che va rimesso in discussione è proprio il rapporto tra ideologia in senso lato e occidente in senso proprio, che va oltre le differenze interne alle medesime ideologie. Questo per dire che anche l’ideologia marxista, o meglio gramsciana, che pur ha dimostrato d’essere teoricamente superiore a quella borghese, nonostante i fallimenti pratici del “socialismo reale”, ha dei difetti intrinseci dovuti proprio al fatto che gli storici di questa corrente considerano assodata la loro appartenenza ideale, specie dopo il crollo del muro di Berlino, all’area occidentale dell’Europa e, indirettamente, degli Stati Uniti, caratterizzati entrambi, soprattutto quest’ultimi, che meno hanno dovuto lottare contro le resistenze del mondo cattolico, da uno sviluppo progressivo dell’ideologia borghese-calvinista, nata nell’Europa del XVI secolo, quell’ideologia che ha portato nel Novecento alle due guerre mondiali e che ha trovato un freno significativo nell’istituzione post-bellica del “Welfare State”.

I limiti metodologici fondamentali che rendono tutti uguali e quindi poco utili, ai fini dell’obiettività del giudizio, i manuali scolastici di storia, sono sostanzialmente frutto di un postulato che andrebbe quanto meno rimesso in discussione, quello per cui si crede che esista una linea evolutiva che va dalla preistoria alla storia, una linea che si estrinseca materialmente secondo un percorso cronologico dei fatti, che trova nell’occidente capitalistico il suo point d’honneur.

Tale linea evolutiva, progressiva, si basa su alcuni fattori fondamentali di “sviluppo”:

1. sviluppo tecnologico e scientifico: la miglior scienza e tecnica – questa la tesi che si sostiene – è quella che permette un rapporto di dominio sulla natura (non è l’uomo che appartiene alla natura ma il contrario);

2. sviluppo dell’urbanizzazione e dei mercati: ogni forma di comunità basata sull’autoconsumo, sul valore d’uso, sul baratto, sulla vendita del surplus, in una parola su un ruralismo non-borghese, viene considerata sottosviluppata; il che porta a giustificare, da parte degli storici, il colonialismo e l’imperialismo, che possono andare dalle classiche crociate medievali alle forme di “aiuto economico” al Terzo Mondo per farlo diventare “come noi”, o comunque a considerare come inevitabili le guerre di conquista o la necessità che i mercati mondiali vengano dominati dall’Occidente;

3. sviluppo della produzione industriale: non solo l’artigianato viene considerato sempre inferiore all’industria (specie quella di massa), ma si tende anche a privilegiare la separazione tra agricoltura e artigianato, considerando prioritaria, specie nel basso Medioevo, la specializzazione dei mezzi tecnici e delle mansioni lavorative;

4. sviluppo della produzione culturale: i valori più significativi di una civiltà vengono ritenuti quelli basati soprattutto sul commercio, sulla scrittura, sul militarismo e in generale sulla supremazia del maschio, quindi tutti valori appartenenti a una determinata categoria di ceti, classi o individui, salvo fare concessioni di circostanza all’ambientalismo e al femminismo.

Posto questo, le differenze, se e quando esistono, tra uno schieramento ideologico e l’altro, risultano del tutto secondarie o formali, come p.es. si evidenzia tra le seguenti:

– nello sviluppo della produzione culturale, gli autori cattolici o protestanti mettono in rilievo l’evoluzione positiva dalle religioni primitive (animismo-totemismo) alle religioni monoteiste, senza però specificare che proprio quest’ultime sono state più facilmente strumentalizzate dalle esigenze di dominio mondiale;
– nello sviluppo della produzione industriale, gli autori di sinistra mettono in risalto le lotte operaie-contadine e, i più radicali (sempre meno in verità) l’esigenza di una socializzazione dei mezzi produttivi; e così via.

Qui si vuole ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, che all’origine di questo incredibile appiattimento culturale sta proprio il primato concesso acriticamente al valore di scambio su quello d’uso, e non solo il primato concesso alla proprietà sul lavoro. Il socialismo non è più un’alternativa al liberismo non tanto perché ha smesso di contrapporre lavoro a proprietà, quanto perché ha sempre visto il lavoro all’interno del valore di scambio.

Sulla base di questi assiomi si è elaborato il concetto di civiltà, e ovviamente nessuno mette in discussione che quella più avanzata della storia sia quella occidentale (europea e statunitense); il Giappone non avrebbe fatto altro che copiare la civiltà americana, trapiantandola su un tessuto culturale semi-feudale, come d’altra parte la Cina sta impiantando il capitalismo in un paese agricolo dominato politicamente da un socialismo autoritario. Gli stessi paesi a cultura islamica non sono che paesi feudali nella sovrastruttura e capitalisti o soggetti a neocolonialismo capitalista nella sfera strutturale della produzione. I paesi ex-comunisti (specie quelli est-europei) non sarebbero che paesi neo-democratici, in quanto sul piano economico si sono finalmente aperti al mercato capitalistico. E così via.

Questa impostazione di metodo è così evidente che viene spontaneo darla per scontata in tutti i manuali di storia, anche se ovviamente solo pochi sono stati adottati o esaminati: ovunque infatti si tende a mettere in risalto quelle civiltà che con più decisione sono uscite dalla preistoria, quindi quelle che hanno sviluppato meglio l’organizzazione schiavistica e servile, e che in definitiva assomigliano di più a quella capitalistica.

Ancora oggi nei manuali scolastici di storia si pone una netta differenza tra “storia” e “preistoria”, senza mai precisare che i fenomeni che hanno determinato quella differenza: scrittura, urbanizzazione, metallurgia, commercializzazione degli scambi ecc., sono tutti strettamente correlati alla nascita dello schiavismo. Il che significa che non ha storicamente alcun senso apprezzarli positivamente separando concettualmente l’analisi di quelle forme sociali e tecnologiche dallo scopo per cui erano nate e che ne legittimava l’ulteriore sviluppo.

Ma c’è di peggio. Tutti i manuali tendono a privilegiare le civiltà commerciali basate sullo schiavismo rispetto a quelle agricole basate sul servaggio, allo scopo di sostenere la validità di alcuni fondamentali postulati, che indirettamente risultano funzionali alla legittimazione della modernità borghese, quali ad es. quelli relativi alla superiorità della città sulla campagna, del mercato sull’autoconsumo, del borghese sul contadino e sull’operaio (cioè del proprietario sul nullatenente), del lavoro intellettuale su quello manuale (cioè della scrittura sulla trasmissione orale del sapere), dell’artigiano specializzato sul contadino-artigiano, dell’agricoltore sull’allevatore, del sedentario sul nomade, del bellicoso sul pacifico, dell’occidentale cristiano (una volta si sarebbe aggiunto di “razza bianca”) su tutti gli altri credenti, e in generale dell’uomo sulla donna e della storia sulla natura.

Facciamo ancora un esempio. Quando si parla di migrazioni dei popoli indoeuropei (specie quella dei Dori) gli storici non sostengono mai ch’esse posero un freno allo sviluppo indiscriminato dello schiavismo o che riorganizzarono questo sistema su basi più primitive, ma non per questo più antidemocratiche.

Spesso gli storici sono soliti definire questi periodi come “oscuri” o “bui” semplicemente perché giudicano l’organizzazione socioculturale e politica sulla base dei parametri della civiltà precedente, che, se era “commerciale” e “stanziale”, sicuramente era superiore. Cioè non si prende mai l’organizzazione comunitaria primitiva come un modello di rapporto equilibrato tra esseri umani e tra questi e la natura.

A tutto ciò gli autori di sinistra aggiungono che va considerato necessario non solo il passaggio dalla preistoria alla storia (al fine di superare i limiti delle comunità basate sull’autoconsumo), ma anche il passaggio dal capitalismo al socialismo democratico, sebbene questa tesi oggi, dopo il crollo del “socialismo amministrato”, sia o stia diventando piuttosto rara, in quanto si tende a sostituirla con la cosiddetta ideologia dell’economia mista o “terza via”, in cui vige una sorta di influenza reciproca tra sfera pubblica e privata; e qui, mentre sul versante degli autori di sinistra si vorrebbe una sfera pubblica (statale) più importante di quella privata (il che contrasta con le tendenze di fatto dell’economia borghese), su quello degli autori borghesi si vuole invece un pubblico che faccia da mero supporto al privato.

Ciò che nessuno autore riesce a comprendere (ma in questa incomprensione possono celarsi motivazioni extra-culturali, come p.es. l’esigenza di dover collocare il libro di testo in un determinato mercato editoriale) è che nel rapporto tra comunità primitiva e civiltà storica, quella che più si avvicina al senso di umanità dell’essere umano non è la seconda ma la prima, e che quindi quanto più le civiltà tendono a svilupparsi, tanto più si allontanano dalla dimensione dell’umanizzazione, per quanto la resistenza ai conflitti di classe non lasci impregiudicata la possibilità di un ritorno alle origini.

Nessun autore sostiene che per ripristinare il concetto di umanità sia necessario “uscire” dal concetto di civiltà, così come esso s’è venuto configurando già nel passaggio dal comunismo primitivo alle prime formazioni schiavistiche, e come poi è andato sviluppandosi fino alle civiltà più recenti, che in un certo senso sono una variante dello schiavismo: il capitalismo è uno schiavismo, sotto la parvenza della democrazia, gestito dall’economia privata, quindi con esigenze di sfruttamento coloniale di paesi terzi; il socialismo amministrato è uno schiavismo gestito in maniera palesemente autoritaria dalla politica, quindi con esigenze di sottomissione a un’ideologia di stato.

Ovviamente con questo non si vuole sostenere che una rappresentazione tematica e non cronologica della storia potrebbe meglio garantire l’obiettività dell’interpretazione. È fuor di dubbio che una rappresentazione tematica aiuterebbe a focalizzare meglio le caratteristiche salienti di una civiltà, ovvero di una formazione sociale, perché in fondo è di questo che si tratta, e in tal senso il contributo del socialismo scientifico non va sottovalutato, in quanto è l’unica metodologia che ci permette di chiarire, sul piano economico-sociale, le differenze di sostanza tra una civiltà e l’altra.

Tuttavia lo storico non può basarsi unicamente sugli aspetti socio-economici: ha bisogno di trattare con pari dignità anche quelli culturali e politici. Ecco perché in una visione tematica o, se si preferisce, olistica, integrata, strutturata, organicista, della storia, ogni aspetto dovrebbe essere preso in esame e messo in rapporto trasversale rispetto a tutte le principali formazioni sociali della storia.

Solo che per arrivare a un’interpretazione sufficientemente obiettiva (e diciamo “sufficientemente” con la consapevolezza che la storia di cui trattiamo è quasi sempre la storia dei “vincitori” o quella di chi era padrone di quei mezzi che gli hanno permesso di trasmettere ai posteri una determinata rappresentazione di sé), occorre qualcosa che alla storiografia occidentale manca del tutto: il confronto con le istanze di identità umana.

Oggi non sappiamo neppure decifrare l’umano. Dopo seimila anni di storia delle civiltà abbiamo creato un essere umano quasi totalmente incivile, una sorta di barbaro che di civile ha solo le apparenze.

Possiamo pertanto lavorare solo sui “fantasmi”, cioè su quanto le civiltà ci offrono, tenendo ben presente, alla nostra indagine, che in tutte le civiltà esiste una divaricazione netta tra quanto affermato in sede teorica e quanto vissuto praticamente. Tale dicotomia tende ad accentuarsi col progredire delle civiltà e ha avuto una netta escalation a partire dal tradimento degli ideali del cristianesimo primitivo. Questo perché tutte le civiltà, nessuna esclusa, ha avuto bisogno, al suo nascere, di apparire più democratica rispetto al passato che stava per negare, proprio per poter vivere con legittimazione il contrario di quanto andava predicando, ne fosse o meno consapevole.

In sintesi. Uno storico dovrebbe preoccuparsi di verificare due cose, nel mentre cerca di capire i fatti, perché sarà su queste cose che si svolgerà il dibattito in classe tra il docente e i propri studenti:

1. quali condizionamenti spazio-temporali possono aver indotto un dato fenomeno a manifestarsi in una data maniera, ovvero quali alternative potevano esserci alla soluzione che storicamente, ad un certo punto, si scelse? Lo storico non deve chiedersi il “perché”, in ultima istanza, si preferì una soluzione piuttosto che un’altra (una risposta, in questo senso, non la troverà mai); deve limitarsi semplicemente a registrare il “come” ciò avvenne, aggiungendo, alla fine della spiegazione storica, l’ipotesi di un’alternativa che si sarebbe potuta seguire, naturalmente sempre sulla base dei fatti. Lo storico non deve “inventarsi” le alternative col senno del poi, ma deve saperle cogliere nel dibattito del tempo, quello pubblico, ufficiale, quello delle posizioni dialettiche che si fronteggiavano a viso aperto (che è poi quello stesso dibattito che, in seguito, la posizione risultata vincente spesso cerca di manipolare secondo i suoi propri interessi).

2. Quali differenze esistevano tra ideologia e prassi, in riferimento alle posizioni politiche contrapposte, che ad un certo punto, da paritetiche che erano, sono risultate una “egemonica” o maggioritaria e l’altra di “opposizione” o minoritaria? Lo storico cioè dovrebbe sempre chiedersi: a) la prassi era conforme all’ideologia? b) la prassi era accettabile nonostante l’ideologia? c) l’ideologia era accettabile nonostante la prassi? “Accettabile” naturalmente dal punto di vista democratico, umanistico…

Le ambiguità della storia

Noi studiamo la storia e la facciamo studiare ai nostri allievi secondo un processo lineare di causa/effetto, quando di fatto, nel mentre gli avvenimenti accadevano nel passato, ciò che dominava non era una logica stringente, necessaria, che legava gli avvenimenti, ma una marcata ambiguità, in cui tutto sarebbe potuto accadere.

Noi insegniamo la storia come se fosse una scienza esatta. P.es. quando si affronta il nazismo, mettiamo facilmente in evidenza l’assurdità delle teorie razziste, ma nel mentre esse venivano divulgate i nazisti dovevano ricorrere a svariate dimostrazioni, a infiniti espedienti per convincere le loro popolazioni.

Oggi quelle teorie ci sembrano assurde per una serie di ragioni: i nazisti hanno perso la guerra; esistono teorie scientifiche che ne negano i presupposti culturali; esistono teorie politiche che temono che la diffusione di teorie razziste possa portare a conflitti bellici; esistono teorie etiche e religiose che ritengono il razzismo una forma di anti-umanesimo. E via dicendo.

Eppure il razzismo permane nel rapporto tra Nord e Sud, tra Occidente e Terzo Mondo; permane in quelle sperimentazioni genetiche che pur essendo fatte prevalentemente sul mondo animale si cerca, seppur in maniera strisciante, di estenderle sempre più al genere umano, o in quelle sperimentazioni specifiche per l’essere umano (clonazione, fecondazione artificiale, banca del seme, ibernazione…); permane nel modo come si recepisce il fenomeno dei flussi migratori o nel modo come viene strutturata la convivenza, l’integrazione nelle città: i ghetti, i quartieri residenziali dove tende a prevalere una o più componente etnica…; può persino far capolino nella formazione delle classi nelle scuole, e non è rara nelle dinamiche di gruppo di quelle classi ove esiste una certa componente straniera.

Il razzismo è figlio dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo; anzi gli uomini sono razzisti anche nei confronti degli animali e della natura in generale. È una forma culturale, politica, psicologica…, sempre più sofisticata, che fa da supporto a un’esigenza di dominio materiale, economico, dell’uomo sull’uomo, degli uomini sulle donne, degli uomini e delle donne sulla natura, in una parola, dei più forti sui più deboli.

Le forme di razzismo esplicite, istituzionali, vengono sostituite da altre forme di razzismo più subdole, più surrettizie, connesse paradossalmente allo sviluppo della democrazia o comunque coesistenti con l’affermazione dei diritti umani universali.

Per non essere superficiali quando si affrontano argomenti del genere, bisogna sempre partire dal vissuto dei ragazzi, dalla loro paura, spesso indotta dai genitori, di perdere privilegi e comodità.

Insomma di fondamentale importanza è il fatto che quando si fa un’analisi storica di un determinato fenomeno, bisognerebbe anzitutto distinguere tra ciò che il fenomeno poteva apparire ai contemporanei che l’hanno vissuto e ciò che il fenomeno appare a noi, che non l’abbiamo vissuto e che per questo possiamo osservarlo con distacco, nella consapevolezza dei suoi limiti.

Se nell’esaminare il nazismo, noi lo presentiamo solo nella sua negatività, che pur, a guerra finita, è stata a tutti evidente, noi non aiutiamo lo studente a capire il motivo per cui tantissima gente (milioni di persone), coeva a quel fenomeno, lo riteneva un evento positivo, da sostenere persino in maniera incondizionata. Un docente non può in alcuna maniera rischiare di attribuire a una qualche “caratteristica negativa naturale” il fatto che un certa popolazione ha compiuto una determinata scelta. Un educatore non può affidarsi alla psicologia delle masse o addirittura alla genetica per trovare spiegazioni di natura socio-economica e politica.

Noi non possiamo presentare le cose col senno del poi. Non possiamo partire da tesi precostituite se vogliamo abituare lo studente a capire che nella vita si devono operare delle scelte e che quelle migliori per i destini delle generazioni non sono immediatamente intuibili o percepibili nel momento in cui si deve scegliere. Generalmente la verità è qualcosa di molto ambiguo nel suo svolgimento.