Storia del mito americano (I)

La storia degli Stati Uniti, come quella di numerosi altri paesi dell’epoca moderna, ha per contenuto essenziale lo sviluppo dei capitalismo e della società borghese. Solo che in questo caso le condizioni storiche in cui lo sviluppo è avvenuto sono state particolarmente favorevoli: assenza del sistema feudale e di un pesante apparato burocratico, vittoria nella guerra d’indipendenza contro l’Inghilterra (1775-83), vantaggiosa situazione geografica e immense ricchezze, ancora vergini, di un intero continente.

Il territorio americano aumentò di dieci volte da 1776 al 1900. L’esistenza delle libere terre, da sottrarre prevalentemente ai nativi, facilitò il percorso della via democratica nell’evoluzione capitalistica dell’agricoltura e creò le condizioni necessarie per uno sviluppo impetuoso dell’industria capitalistica alla fine del XIX secolo.

L’Europa diede al nuovo mondo milioni e milioni di uomini e donne già in grado di lavorare. Due guerre mondiali consolidarono le posizioni degli Usa nel mondo capitalista. Queste e altre peculiarità conferiscono alla storia del paese una grande originalità e ci aiutano a comprendere fenomeni come la forza di lunga durata del capitalismo americano, la relativa debolezza del movimento operaio e taluni tratti del carattere nazionale degli americani.

Proprio le particolarità dello sviluppo economico, sociale e politico – male interpretate da una certa apologetica borghese e sciovinistica – diedero corpo alla cosiddetta “teoria dell’esclusività”, destinata a mostrare sia la tipicità dell’esperienza storica americana che il modello ideale da seguire in tutto il mondo relativamente alle istituzioni sociopolitiche di tale paese.

La teoria dell’esclusività si modificò nel corso delle generazioni, riflettendo gli interessi dei diversi gruppi sociali, ma nel complesso essa continuò a restare un elemento essenziale della coscienza borghese americana.

Gli inizi storici della formulazione di questa idea risalgono alla stessa scoperta dell’America. come elemento dell’utopia sociale, della leggenda dell’età dell’oro. Nel 1516 Tommaso Moro situò il suo Stato ideale in questo nuovo continente, ispirando una sequela di imitatori (fra i più noti Rousseau.

L’idea dell’esclusività divenne parte integrante della filosofia dei coloni europei in America. Costoro infatti non lasciavano l’Europa solo per cercare una vita migliore, ma anche perché si sentivano mossi dalla volontà di creare una nuova società, diversa da quella europea e libera dalla schiavitù feudale.

Lo stesso nome di “Nuovo Mondo” costituiva un vero e proprio simbolo, in cui si riconoscevano il contadino ex-europeo desideroso di terra, l’artigiano che voleva realizzare guadagni più decenti dal suo lavoro e il puritano perseguitato che sognava di realizzare i suoi progetti di una celestial city.

Nell’epoca coloniale l’America fu considerata come un rifugio per la nuova fede religiosa emergente in Europa: il protestantesimo. Le cronache e le memorie di W. Bradford, governatore del New Plymouth, e di J. Winthrop, il primo governatore della colonia della Massachusetts Bay, e di altri ancora, mostrano chiaramente che i coloni, nelle loro azioni, si sentivano ispirati dalla divina provvidenza. L’idea di una particolare “elezione” risaliva alla dottrina calvinista della predestinazione, che occupava un posto di rilievo nell’ideologia puritana.

Allo stesso tempo i cronachisti puritani cercavano d’interpretare il ruolo dei coloni nella storia alla luce del Vecchio Testamento; essi stabilirono infatti una diretta analogia fra la partenza dall’Inghilterra corrotta per l’America e la fuga leggendaria degli ebrei dall’Egitto. L’America appariva loro come un luogo designato da Dio per creare la “Nuova Sion”.

La concezione del mondo degli illuministi americani, essendosi formata durante la lotta per l’indipendenza e l’unità nazionale, modificò sostanzialmente l’atteggiamento spirituale verso l’idea dell’esclusività. B. Franklin, Th. Jefferson e Th. Paine si staccarono decisamente dalle concezioni teologiche degli autori delle cronache e memorie.

Partendo dall’idea di un uomo naturale astratto, essi vedevano il motore dello sviluppo storico di tutti i popoli del mondo nell’istruzione, nel progresso delle conoscenze e della morale. Allo stesso tempo però l’esistenza delle terre libere, che sembravano inesauribili, generava in loro l’illusione che ogni americano avrebbe potuto beneficiare del suo diritto naturale alla terra e che quindi la proprietà sarebbe stata equamente ripartita, garantendo la prosperità universale per i secoli a venire.

In particolare, J. de Crèvecoeur vedeva nel Nordamerica la materializzazione dell’utopia roussoiana. Il giovane Jefferson s’immaginava addirittura che l’America sarebbe diventata una repubblica di farmers, in cui si sarebbero imposte le virtù civili. Nel suo primo messaggio presidenziale del 1801 Jefferson, per quanto più moderato che all’epoca delle sue convinzioni illuministiche, parlava ancora degli americani come di un “popolo eletto”.

Con la conquista dell’indipendenza la fede nel destino particolare dell’America conobbe una diffusione ancora più vasta. Lo sviluppo socioeconomico di questa regione, nel corso della prima metà del XIX secolo, non diede molto spazio alle teorie utopiche sulla via non-capitalistica.

Il consolidarsi dei capitalismo a est, nella parte “antica” dell’America, venne accompagnato dalla colonizzazione dell’ovest. Il primo processo significò lo sviluppo del capitalismo in profondità, il secondo in estensione. “Lo sviluppo del capitalismo in profondità, nei territori più antichi, da lungo tempo abitati, venne ritardato dalla colonizzazione delle province periferiche. La soluzione delle contraddizioni generate dallo stesso capitalismo venne temporaneamente rinviata dal fatto che il capitalismo ha potuto facilmente progredire in larghezza”, cosi scriveva Lenin, esaminando dialetticamente l’interazione delle due tendenze.

In condizioni di rapporti capitalistici non sufficientemente sviluppati, le terre disponibili frenavano la progressiva espropriazione delle terre dei contadini, permettendo a una parte dei farmers e a certi gruppi di operai insediatisi all’ovest di conservare e anzi di migliorare il loro status sociale precedente.

Lo sviluppo estensivo del capitalismo ritardò per qualche tempo lo scoppio delle contraddizioni fra capitale e lavoro. La colonizzazione dell’ovest fece nascere illusioni e aspirazioni piccolo-borghesi non solo tra i farmers, ma anche in seno alla classe operaia (una fattoria per ogni lavoratore, si diceva) e favoriva la diffusione di diverse utopie agrarie. Di quest’ultime i migliori interpreti furono i nazional-riformatori degli anni quaranta, D. Evans e H. Krige, che chiedevano la distribuzione gratuita ai nullatenenti delle terre ancora libere.

Evans era altresì convinto che la riforma agraria avrebbe emancipato i lavoratori dall’oppressione del capitale. In che modo? Insediandone alcuni sulla terra, mentre altri avrebbero ottenuto significativi aumenti salariali, minacciando i padroni di partire verso l’ovest.

L’apologetica religiosa dell’esclusività sopravvisse nell’epoca coloniale, ma a partire dalla guerra d’indipendenza fu posta in secondo piano dall’idea dell’esclusività politica degli Usa. La fondazione stessa d’una repubblica nordamericana fu considerata come una rivoluzione più antieuropea che antifeudale, per quanto gli elementi messianici non mancassero mai.

Washinghton, Adams e molti altri presidenti americani associavano i destini degli Stati Uniti ai disegni della volontà divina. Questa tendenza dell’esclusivisimo americano fu seguita dalla canonizzazione dei padri fondatori. A. de Tocqueville, storico e politico francese, che visitò gli Usa negli anni trenta del secolo scorso, osservò che il patriottismo degli americani e la fierezza delle loro istituzioni sociopolitiche si tramutavano facilmente nella convinzione della loro superiorità.

In un’atmosfera di euforia nazionale il terna dell’esclusività conobbe un nuovo impulso nelle opere degli storici di tendenza romantica. Il rappresentante più illustre di questa corrente, dominante nel corso della prima metà del XIX secolo, fu G. Brancroft, fondatore della “scuola precoce” (early school), che tratteggiò non più storie separate delle diverse colonie americane, ma, per la prima volta, il quadro generale dello sviluppo della nazione americana.

Nella sua visione liberal-romantica, il processo storico appariva come un costante cammino verso la libertà. La rivoluzione americana era da lui vista come l’epilogo di tutta la storia a essa precedente e come l’inizio di una nuova e ancora più gloriosa epoca. La lotta dei primi coloni per la sopravvivenza veniva presentata come il trionfo degli ideali più nobili, come una crociata per le libertà democratiche.

Bancroft non si preoccupava affatto della permanenza dello schiavismo, che considerava come un piccolo difetto nell’orizzonte della repubblica. D’altra parte egli era convinto che proprio tale repubblica avesse molto cose da insegnare agli europei. La stessa rivoluzione del 1848 in Europa fu da lui considerata come un’eco della democrazia americana.

Il nazionalismo borghese americano degenerò ben presto nel dogma espansionista dei “doveri particolari” degli Usa e, come tale, trovo la sua più chiara espressione nella dottrina del manifest destiny (destino predeterminato) promosso negli anni quaranta del secolo scorso, secondo cui gli Usa erano destinati a svolgere il ruolo di riformatori del mondo. Dottrina che poi divenne il simbolo dell’espansionismo politico americano.

A cavallo dei secoli XIX e XX esistevano ancora molti fattori favorevoli allo sviluppo del capitalismo in questa regione del mondo. La guerra civile dei 1861-65 aveva abolito la schiavitù e assicurato una rapida crescita dell’industria. Gli immigrati che affluivano in America erano decine di milioni.

Tuttavia, con il sorgere dell’epoca imperialista e con l’affermarsi dei consorzi monopolistici, la teoria dell’unicità dello sviluppo storico americano e della sua superiorità nei confronti del modello europeo cominciava a sgretolarsi. Il nuovo mondo presentava vistose somiglianze cori il vecchio.

Ma negli Stati Uniti le illusioni continuavano a persistere. Le masse, che pur protestavano contro le più evidenti manifestazioni d’ingiustizia sociale, conservavano la fede ingenua nell’esclusività del destino nazionale. Un’ideologia, questa, che di conseguenza veniva sempre più a trasformarsi da relativamente democratica in chiaramente apologetica.

Le idee esclusivistiche ricevettero una nuova colorazione e furono puntellate dai nuovi argomenti della storiografia americana alla fine del secolo XIX.

Dopo la guerra civile la Scuola di Bancroft declinò e, per la soluzione dei nuovi problemi, acuti e complessi, che emergevano, la teosofia era certamente uno strumento poco efficace. Nel contempo i successi delle scienze naturali e dei loro metodi d’indagine esercitavano una certa influenza sul pensiero sociale.

I principali orientamenti della storiografia americana subirono, secondo gradi diversi, il fascino del pensiero storico europeo e della filosofia positivista in particolare.

Il nucleo della scuola anglosassone fu costituito negli Usa nell’ultimo quarto del XIX secolo, da parte di quegli storici americani che avevano frequentato le università inglesi e tedesche. Questa scuola riconduceva l’evoluzione sociale allo sviluppo delle istituzioni politiche. Essi acquisirono metodi più perfezionati di lavoro con le fonti, ma mostrarono anche idee e concezioni storiche scioviniste.

Infatti gli storici di questa scuola affermavano che i popoli di origine anglosassone avevano creato delle istituzioni costituzionali perfette, che praticamente univano ai principi dell’individualismo quelli di un potere statale forte, l’autonomia locale al federalismo.

Inoltre gli anglosassoni – essi dicevano – avevano trasferito nel V secolo l’eredità politico-teutonica in Inghilterra, da dove i coloni puritani la portarono nel Nordamerica nel XVII secolo.

Puntando l’attenzione sulla genealogia delle istituzioni politiche americane, essi cercarono di trovare nell’America coloniale le possibili somiglianze fra queste istituzioni e l’antica organizzazione tribale germanica. La John Hopkins University di Baltimora divenne il centro di questo nuovo trend, e H. B. Adams il suo propagandista più attivo. Idee analoghe vennero sviluppate anche da altri esponenti della scuola anglosassone: ad esempio le opere di J. Fiske ebbero grande notorietà.

In definitiva, l’attenzione prestata da questi storici alla teoria germanista e alla politica comparata era mossa dall’esigenza di trovare delle prove concrete riguardo all’esclusività delle istituzioni costituzionali americane, delle prove che fossero più convincenti degli argomenti della scuoia di Bancroft.

Numerosi storici della scuola anglosassone arrivarono persino a dire che la diffusione di queste perfette istituzioni oltre le frontiere nazionali era un diritto-dovere degli Usa. Un’idea questa che, collegata colle tradizioni espansioniste americane, divenne parte integrante dell’ideologia imperialista che negli Usa s’impose a cavallo dei secoli XIX e XX.

La storiografia americana sulla politica estera (II)

Durante il periodo della guerra fredda sono esistite, per così dire, due correnti fra gli storici dello diplomazia: gli idealisti (Perkins, Bemis, Spanier) e i realisti (G. Kennan, H. Morgenthau). I primi promuovevano i valori morali e gli ideali umano-democratici nella politica estera americana; i secondi si basavano soprattutto sui concetti di “interesse nazionale” e di “equilibrio delle forze”. Entrambi i gruppi tuttavia difendevano risolutamente la politica estera di Washington. Ciò che li distingueva era semplicemente il livello del loro conformismo rispetto alle concezioni ufficiali dei governo.

Sotto questo aspetto i termini usati per classificare i due orientamenti sono alquanto convenzionali. Col passare del tempo comunque quello realista divenne il gruppo dominante, anche perchè non si lasciava sfuggire l’occasione di alludere ai valori dell’altra corrente. D’altra parte gli stessi idealisti non ignoravano la realtà degli affari internazionali.

La teoria conservatrice del consensus determinò la revisione dei giudizi che gli storici progressisti del XIX e metà del XX sec. avevano dato su molti avvenimenti della politica estera americana. Ad es. vennero riformulate le spiegazioni economiche di Pratt e Hacker sulla guerra dei 1812: se ne incaricarono B. Perkins Lie (figlio di Dexter Perkins), R. Horsman, N. Risjord e R. H. Brown, i quali ribadirono le vecchie concezioni secondo cui gli Usa non avevano alcun desiderio d’impadronirsi del Canada né della Florida, ma solo quella di difendere i loro diritti marittimi e l’onore nazionale.

Stessa cosa avvenne nel campo delle relazioni storiche angloamericane. Mentre prima, grazie ai lavori di Bemis e C. C. Tansill, si metteva l’accento sul conflitto in atto, dopo la II guerra mondiale gli storici americani concentrarono i loro sforzi nel mostrare che una tradizione di cooperazione e di fratellanza era quasi sempre esistita. Le opere fondamentali, in questo senso, furono quelle di B. Perkins e C. C. Campbell.

Il mutamento di clima si fece sentire anche sull’interpretazione data alla partecipazione degli Usa alla I guerra mondiale. Negli anni ’20 e ’30 c’erano i contrari e i favorevoli. Dopo il 1945 nessun rinomato storico americano sosteneva che gli Usa non avrebbero dovuto lasciarsi coinvolgere. La sola cosa su cui valeva la pena discutere per i conservatori era di sapere se il presidente Wilson era stato mosso do considerazioni pratiche o aveva agito sulla base di fini morali.

Tutto ciò però subì un’improvvisa sterzata alla fine degli anni ’60, cioè nel momento della guerra in Vietnam. Un nuovo gruppo di storici venne alla ribalta: i radicali o la cosiddetta “nuova sinistra”. Uno dei padri fondatori di questa corrente fu W. A. Williams, che trascinò con sé un gran numero di giovani storici pieni di talento, durante i suoi corsi all’università dei Wisconsin. Un ruolo significativo nella riconsiderazione della versione ufficiale sui motivi della guerra fredda fu svolto dagli studi di D. F. Fleming.

All’inizio degli anni ’70 moltissimi storici radicali cominciarono a rifiutare la tesi secondo cui le intenzioni dell’Urss dopo la II guerra mondiale sarebbero state “aggressive” (si pensi, ad es., a G. Alperovitz, L. C. Gardner, D. Horowitz, G. Kolko, W. Lafeber, C. Lash ecc.).

Questi storici ritenevano che non esistesse alcuna “minaccia sovietica”, in quanto gli Usa detenevano il monopolio delle armi nucleari e un considerevole grado di superiorità sui mari e nell’aria. Kolko, il più coerente dei radicali, arrivò persino a dire che gli Usa avevano perseguito i loro scopi imperialisti prima, dopo e durante la II guerra mondiale.

I radicali riesaminarono in modo più o meno approfondito quasi tutti gli argomenti degli studi conservatori sulla politica estera americana. A riguardo delle radici storiche dell’espansionismo americano, essi sostennero che la violenta conquista delle terre, avvenuta soprattutto a partire dal XIX sec., non rappresentò una rottura nella storia degli Stati Uniti, ma la naturale conseguenza di un lungo processo, i cui principali protagonisti furono le forze economico-commerciali del paese.

Anche Williams era perfettamente convinto che il capitalismo americano non avrebbe potuto svilupparsi così facilmente senza la rapida espansione del suo mercato in virtù dell’imperialismo. Egli sostenne anche che l’ideologia espansionista dei leaders americani durante e dopo gli anni ’90 del secolo scorso fu la trasposizione cristallizzata in “veste industriale” di quelle concezioni espansioniste in “veste agricola” che la maggioranza degli agrari del paese aveva sviluppato fra il 1860 e il 1893.

Altri storici radicali affrontarono argomenti più settoriali: T. J. McCormick, l’interesse dell’America per il mercato cinese alla fine del XIX sec; E. P. Paolino, le concezioni espansioniste del segretario di Stato W. H. Seward; J. E. Eblen, i crudeli metodi usati dagli Usa all’inizio della loro indipendenza in occasione dell’esproprio delle terre.

Resta strano il fatto che tali storici non abbiano affrontato importanti argomenti come la rivoluzione americana, lo guerra del 1812 o la Dottrina Monroe dei 1823. Interessante comunque è l’opera di H. I. Kushner sulle relazioni russo-americane nel nord-ovest del Pacifico e sulla storia del trattato sull’Alaska del 1867, attraverso il quale i fautori dell’espansionismo pensavano di sviluppare un mercato in Asia.

Le concezioni degli storici radicali sulla storia diplomatica e sulla politica estera Usa ebbero un certo successo fino alla metà degli anni ’70. Le ultime opere più significative sono state quelle di Gardner, Lafeber e McCormick. ll capovolgimento di fronte è stato improvviso. Gli accesi dibattiti sulla “sporca guerra” in Vietnam, sulla guerra fredda, sull’uso tendenzioso delle fonti storiche, sulla leadership e l’organizzazione dell’Associazione storica americana subirono una battuta d’arresto assai preoccupante.

La new left si sfasciò. Il trend patriottico conservativo si diffuse in tutto il paese. Si cominciò a parlare, dopo la celebrazione del bicentenario della nazione nel 1976, di new consensus e di sintesi post-revisionista, in grado di combinare le concezioni ortodosse degli anni ’50 con nuove idee revisioniste, al fine soprattutto di spiegare le origini della guerra freddo e di difendere le posizioni della “Truman Administration”.

Gaddis ammise che gli Usa cercarono di usare il loro potere economico per fare pressioni sull’Urss durante i negoziati relativi al piano Marshalli e al lend-lease. In breve tempo si formò l’idea che la rinuncia alla cooperazione fra Usa e Urss doveva essere addebitata a una comune responsabilità, e che anzi fu l’Urss che subito dopo la guerra cercò di garantire la sua sicurezza con l’uso di mezzi unilaterali (vedi le tesi di V. Mastny).

Inoltre, mentre gli storici radicali avevano sostenuto che moltissime nazioni, contro lo loro volontà, vennero incluse nella sfera d’influenza americana, i nuovi testi di G. Lundstad, B. R. Kuniholm, L. S. Kaplan affermavano invece che furono i paesi europei, scandinavi e mediorientali a chiedere l’appoggio degli Usa.

Per la nuova sintesi post-revisionista l’esistenza dell’impero americano doveva essere esplicitamente ammesso e si chiedeva ch’essa fosse tutelata nel migliore dei modi. Posizioni più realistiche e moderate di quella di Gaddis, si possono trovare in questo new trend nelle opere di G. Kennan e A. Harriman, ma restano minoritarie.

Questi nuovi storici conservatori non hanno alcun interesse a esaminare l’influenza delle classi medio-basse sulla politica estera americana. Essi inoltre si limitano a considerare tale politica da un punto di vista veramente nazionale, cioè senza utilizzare materiale proveniente da altri paesi.

Il loro scopo in pratico si riduce – come ha detto Lafeber – a difendere le posizioni assunte dal Dipartimento di Stato. Nulla di strano quindi che gli studi sugli affari esteri degli Stati Uniti siano diventati – come vuole C. S. Maier – un “figlio bastardo” degli studi storici americani.

LA STORIOGRAFIA AMERICANA SULLA POLITICA ESTERA (I)

La situazione negli studi storici americani durante la transizione all’imperialismo e alla “Progressive Era” (fine Ottocento e prima decade del XX sec.) vedeva gli storici di professione cominciare a prendere il posto dei dilettanti e le tecniche di ricerca diventare sempre più perfezionate.

Nel 1884 si fondò l’American Historical Association e nel 1885 uscì il primo numero dell’American Historicol Review. L’approccio critico nei confronti del passato divenne un’esigenza comune: ne furono coinvolte discipline e scienze come il positivismo, diverse branche delle scienze naturali e, per certi versi, il marxismo.

Il trend economico-progressista di studiosi cone F. J. Turner, C. Beard, C. Becker e V. Parrington dominava la scena.

Che rapporti c’erano fra questi processi e l’evoluzione della storiografia della politica estera? Esisteva allora la cosiddetta “storia diplomatica”, un settore degli studi storici completamente a se stante.

Mentre nel XIX sec. le opinioni sulla diplomazia americana dipendevano da argomenti di carattere generale, relativi alla storici degli Usa (si pensi alle opere di G. Bancroft, R. Hildreth e J. B. McMaster), con l’inizio del XX sec. invece, uscirono diversi studi specializzati sulla storia della politica estera, da parte di J. W. Foster, A. B. Hart, J. B. Moore, C. R. Fish e altri.

L’ingresso degli Stati Uniti sulla scena internazionale aveva stimolato l’interesse collettivo per le relazioni mondiali. Le maggiori università introdussero corsi monografici di politica estera, tenuti do famosi storici come il suddetto Hart e E. Channing ad Harvard, Turner e Fish nel Wisconsin.

Più tardi, negli anni ’20, la prima opera a più tomi sui Segretariati di stato e la loro diplomazia apparve nelle edizioni del giovane S. F. Bemis.

Il carattere apologetico a favore dell’espansionismo americano cominciò a caratterizzare i lavori degli storici diplomatici professionisti dall’inizio del XX sec. in avanti. Unanimemente essi giustificavano la Monroe Doctrine, la politica-diplomatica del dollaro nei confronti del Sudamerica (si pensi alla guerra con la Spagna nel 1898), la politica delle “porte aperte” nel Far East, l’occupazione di Cuba, la “rivoluzione” di Panama e altri non meno evidenti atti aggressivi americani.

Ai seguaci di Turner sembrava completamente naturale che il processo di espansione coloniale del loro paese fosse culminato coll’avanzamento della frontiera americana verso l’oceano Pacifico, il Far East e le Filippine, senza parlare dei paesi dei Caraibi.

Si era insomma convinti, in buona o cattiva fede qui non importa, che fossero appunto i paesi conquistati a beneficiare dell’influenza commerciale americana (vedi soprattutto le opere di J. M. Callahan e J. H. Latanè).

Possono essere considerati “progressisti” storici di tal genere? Il fatto è che a quell’epoca le esigenze dell’espansione e della riforma erano essenzialmente due facce della stesso medaglia. T. Roosevelt e W. Wilson furono per il loro paese dei riformatori borghesi (perché criticavano il passato), ma erano anche apertamente sostenitori della politica estera espansionista.

Non è quindi strano, ad es., che la teoria della frontiera di Turner influenzasse sia le idee espansioniste a lui contemporanee che il riformismo di Roosevelt. Bisogna infatti considerare che ci furono molti studenti di Turner fra i maggiori storici diplomatici d’America (ad es. Bemis, F. Merk e A. F. Whitaker).

Il credo espansionista della Progressive School fu definitivamente confermato da A. Darling. Stando all’opinione di questo studente e seguace di Turner, l’espansione americana fu dura e spietato, ma essa “diffuse la libertà” e, in ultima istanza, fu un evento “positivo”.

L’apologia dell’espansionismo fu Ia principale ma non unica caratteristica della storia diplomatica del periodo progressista. Lo spirito critico di quel tempo non poteva non promuovere più alti livelli della ricerco scientifica e portare alla comparsa di un certo numero di opere che rivedevano le idee convenzionali sulla storia degli Stati Uniti e su taluni aspetti della politica estera.

Significativamente, la vecchia concezione della guerra del 1812 fra lnghilterra e Usa come di una lotta per difendere i diritti marittimi di quest’ultimi e l’onore nazionale, fu riconsiderata da H. Lewis, D. R. Anderson, L. M. Hacker e soprattutto da J. W. Pratt. Fu proprio Pratt che con più coerenza mostrò come venne giocato un ruolo decisivo dai piani espansionistici che gli ambienti governativi d’America avevano nei confronti della Florido e del Canada.

Col passare del tempo apparvero altre serie ricerche, in cui le idee espansioniste e nazionaliste venivano biasimate (si pensi alla monografia di A. K. Weinberg sulle relazioni fra Usa e tribù indiane). E. Tatum fu il primo che ritenne Io Monroe Doctrine diretta essenzialmente contro l’England. Whitaker analizzò la lotta dei popoli sudamericani per l’indipendenza. L’elenco potrebbe continuare, poiché negli anni ’20 e ’30 gli studi furono assai numerosi e molti di rilievo.

la fine della II guerra mondiale segnò invece una svolta negativa nello studio della storia degli Usa. Per almeno 15 anni ogni sorta di idee liberali, per non parlare di quelle radicali, furono guardate con sospetto e perseguitate (si pensi al maccartismo e alla guerra fredda).

Naturalmente la pesante atmosfera neoconservatrice si rifletteva sul modo d’intendere i problemi della politica estera. Una delle ragioni di questo stava nel fatto che i principali artefici del “consenso” negli studi storici, D. Boorstin, L. Hartz e R. Hofstadter, non erano competenti in materia di affari esteri. E, d’altro conto, i maggiori storici diplomatici come Bemis e Pratt, T. A. Bailey e D. Perkins, rimasero attivi anche dopo la II guerra mondiale.

Tuttavia, se fino alla guerra le loro opere continuarono a riflettere le idee progressiste degli anni ’20 e ’30 (chi più come Pratt, chi meno come Perkins), durante la seconda metà del Novecento tali autori assunsero posizioni più conservatrici. Gli accenti antibritannici di Bemis, per quanto riguarda gli affari esteri, si affievolirono notevolmente, e Perkins cominciò a enfatizzare le divergenze ideologiche fra Usa e Urss. Come i loro colleghi più giovani (vedi ad es. R. W. Leopold e A. De Conde, essi erano unanimi nella valutazione della “minaccia sovietica”: Bemis arrivò addirittura a paragonare Yalta con Monaco!

Unanime era anche il giudizio sulla politica estera americana post-bellica. Furono molti gli storici della diplomazia che a partire dagli anni ’50 fino alla prima metà degli anni ’60 difesero a spada tratta la guerra fredda, la dottrina Truman, il piano Marshall e l’antisovietismo: si pensi a J. Spanier, J. Lukacs, D. Donnelly, W. H. McNeil, H. Feis, A. Schlesinger jr. ecc.

Curiosa è stata la metamorfosi accaduta dopo il 1945 fra i membri dell’estrema destra. Fino ollo scoppio della guerra essi erano su posizioni rigidamente isolazioniste. Negli anni ’50 invece divennero accesi interventisti e sostenitori di una crociata globale contro il comunismo. Dopo la guerra, W. H. Chamberlin, che aveva approvato il patto di Monaco dei 1938, affermò che se l’Inghilterra e la Francia avessero mostrato la necessaria fermezza, la Germania e l’Urss si sarebbero distrutte a vicenda. E’ sintomatico che Chamberlin dedicasse il suo nuovo libro a J. F. Dulles, guerrafondaio patentato.

Tesi ultraconservatrici le troviamo anche nelle opere di J. Burnham, R. H. Hupè e S. Possony, per i quali persino le posizioni di Truman e D. Acheson risultavano moderate.

La storiografia americana contemporanea (II)

A partire dalla metà degli anni ’70 una terza corrente è venuta prepotentemente emergendo: quella conservatrice. Gli scrittori collegati a questo nuovo trend hanno esordito attaccando frontalmente non solo le concezioni radical democratiche ma anche quelle liberali. Essi ad es. condannano le politiche governative dei presidenti Kennedy e Johnson, rifiutano tutti i programmi di assistenza sociale degli anni ’60, ritengono che la povertà e l’ineguaglianza siano inevitabili, parteggiano per il darwinismo sociale e le idee malthusiane.

In particolare, sul concetto di povertà le loro opinioni sono davvero singolari: chi sostiene che i poveri degli Usa sono molto più ricchi dei poveri del Terzo mondo, chi pensa che la povertà non sia un fenomeno oggettivo ma una “percezione soggettiva” degli strati sociali più bassi, chi addirittura ritiene che l’assistenza sociale sia un incentivo alla povertà: basta leggersi le opere di I. Kristol, D. Bell, T. J. Lowi, B. Y. Pines… Insomma, l’aspirazione massima di questi storici conservatori è quella di tornare all’americanismo anni ’50, quando tutto appariva “facile”.

Proprio alla fine degli anni ’50 si verificò una sorta di “rivoluzione metodologica” negli studi storici: essa determinò la nascita della cosiddetta new scientific history. L’uso interdisciplinare dei metodi di molte scienze: sociologia, politologia, psicologia, antropologia, etnografia, demografia… unitamente all’adozione di metodi di ricerca quantitativi, portò alla convinzione che la storiografia poteva essere paragonata a una “scienza esatta”.

Il tentativo non era solo quello di superare i limiti della teoria del consenso, ma anche quello di fornire un metodo scientifico, oggettivo, libero da ogni pregiudizio, da ogni orientamento ideologizzato, tanto che secondo ì fautori di questo nuovo indirizzo tutte le precedenti distinzioni storiografiche avrebbero perso il loro senso.

All’inizio, in effetti, si ebbe un’impressione alquanto favorevole. Gli orizzonti e le capacità della storiografia si erano allargati. Tantissime cose interessanti si erano scoperte, specie nello studio delle esperienze collettive e della consapevolezza dei popoli di epoche diverse.

Questa nuova metodologia divenne parte del bagaglio teorico di storici marxisti e non marxisti di tutte le tendenze. Ma sarebbe far loro un torto sostenere che la “nuova storia scientifica” abbia eliminato le differenze che li dividevano, o che i metodi quantitativi e interdisciplinari costituissero la quintessenza metodologica degli studi storici.

Basta vedere cosa è successo in questi ultimi 40 anni: la new scientific history si è suddivisa in diverse branche, all’interno delle quali prevalgono nettamente le correnti conservatrici e liberali, nonché i metodi della più pura sociologia e politologia borghese.

Ecco alcuni esempi per convincersene: gli storici che hanno studiato le cause della guerra civile americana, sostengono che la schiavitù e di conseguenza gli antagonismi di classe fra il nord capitalista e il sud schiavista non ebbero alcuna parte di rilievo nello scatenamento della guerra, e lo dimostrerebbe secondo loro il fatto che gli elettori votarono per i democratici o i repubblicani a seconda delle diverse tradizioni etnico-religiose. In pratica la new political history considera molto più importanti dei conflitti di classe le contraddizioni di tipo etnico-religioso.

I leaders riconosciuti della new economic history, R. W. Fogel e S. L. Engerman, cercarono persino di dimostrare che il sud schiavista aveva conosciuto, nei decenni anteriori alla guerra, uno sviluppo progressivo. Il loro Time ori the Cross (Boston 1974), due volumi dedicati all’esame della schiavitù, si basa su quattro tesi fondamentali:

  1. la schiavitù negli Usa fu un sistema economico altamente produttivo e redditizio, che alla vigilia della guerra civile stava prosperando sia negli Stati costieri dell’Atlantico che nei nuovi Stati occidentali;
  2. il lavoro schiavistico nelle piantagioni fu più produttivo del lavoro libero dei farmers bianchi e dei salariati agricoli;
  3. le piantagioni garantivano agli schiavi un più alto standard di vita rispetto a quello offerto dal capitalismo al proletariato industriale e a quello raggiunto dai neri americani dopo l’emancipazione;
  4. le piantagioni non reprimevano le capacità fisiche, intellettuali e morali degli schiavi, i quali anzi appresero gli elementi del cristianesimo, della famiglia monogamica, ecc.

Queste tesi vennero sottoposte a dura critica da molti storici marxisti e non. In modo particolare non sfuggì loro che Engerman e Fogel (inclusi altri esponenti della new economic history) avevano comparato lo schiavismo delle piantagioni a un solo breve periodo del capitalismo industriale, quello dal 1825 al 1850.

Effettivamente risultava una minore produttività del capitalismo, ma solo perché questo era agli inizi del suo cammino e non, come lo schiavismo, nel pieno delle forze. D. C. North, T. C. Cochran, G. R. Taylor e P. Temin ribatterono sostenendo che la guerra civile non stimolò affatto lo sviluppo capitalistico, ma anzi lo impedì, portando l’America degli anni ’70 più indietro rispetto al 1860.

Tuttavia questo regresso economico fu momentaneo e in un certo senso fisiologico: i frutti delle rivoluzioni sociopolitiche non si fanno sentire subito.

In sostanza la new scientific history non fa che spezzare la storia sociale di tutte le tappe del capitalismo americano in molti tipi di “storie” fra loro giustapposte o parallele, comunque isolate dalla base economica e dalla struttura politica della società: di qui la storia della famiglia, delle donne, dei figli, degli adolescenti, delle comunità etniche, delle sette religiose ecc. Ogni singola storia viene trattata senza tener conto né dei principali orientamenti dello sviluppo storico, né delle fondamentali distinzioni di classe.

L’antistoricismo di questi metodi liberalconservatori è alla base del rifiuto di tutti i metodi di ricerca della storiografia classica e, nonostante gli approcci interdisciplinari e le tecniche quantitative, esso resta sostanzialmente apologetico del sistema borghese.

Viceversa, la storiografia radicaldemocratica, benché numericamente più debole dell’altra, rappresenta un’importante tendenza nell’evoluzione della new scientific history americana. M. B. Katz, M. J. Doucet e M. J. Stern, studiando la struttura sociale americana del 1850-75, hanno criticato l’interpretazione behaviouristica e sociopsicologica delle classi fornita dalla storiografia borghese, e hanno mostrato che gli interessi di classe possono trovare nel proletariato una consapevolezza e un comportamento inadeguati, ma non per questo essi risultano meno reali.

Il fenomeno caratteristico del Nord America in quel periodo di espansioni, la mobilità sociale, può aver fatto credere che non esistessero antagonismi fra le classi, ma si è trattato di una pura e semplice apparenza. Il capitalismo non fa sparire i conflitti tra le classi ma anzi li aggrava (cfr. The Social Organisation of Early Industrial Capitalism, Cambridge¬Mass., 1982).

Oggi la new scientific history, così come tutta la storiografia non marxista nordamericana, è suddivisa in tre fondamentali correnti, come già si è detto: conservatrice, liberale e radicaldemocratica. Nonostante alcuni punti in comune, a livello di metodo e di contenuto storiografici, le loro principali differenze si possono riassumere, per concludere, alle seguenti quattro:

  1. gli esponenti del trend liberale e conservatore aderiscono all’idea di una esclusività storica nazionale. Essi vedono la storia del mondo come una somma meccanica di storie nazionali, ognuna delle quali si è sviluppata secondo proprie leggi. Negli ultimi 30 anni s’è imposta una variante dell’esclusività americana. R. Palmer e i suoi seguaci hanno lanciato l’idea che la regione atlantica “avanzata” include anche i paesi euroccidentali, i quali però restano inferiori alla insuperata civiltà americana. Gli esponenti della tendenza radicale ritengono invece che il processo storico-universale sia unitario, nel senso che esistono alcune fondamentali leggi storiche che possono essere applicate allo studio della storia di ogni singola nazione.
  2. La maggioranza degli storici liberalconservatori sostiene un approccio multi-facIor alla casualità storica e crede nell’equivalenza dei fattori. Chi invece attribuisce l’importanza maggiore a un singolo fattore, il più delle volte sceglie fra i seguenti: mutamenti tecnologici, influenze ambientali, lo Stato e i partiti politici, aspetti biopsicologici. Viceversa, gli storici radicali puntano l’attenzione sugli elementi materiali ed economici dello sviluppo storico, e fra questi considerano che i conflitti sociali e di classe giocano un ruolo decisivo.
  3. Va detto tuttavia che solo gli storici più conservatori oggi negano completamente l’esistenza dei conflitti nella storia del loro paese. Per quelli liberali o moderati l’interpretazione dei conflitti storici viene usata come contrappeso a quella marxista. Si può anzi dire, sotto questo aspetto, che tra le principali interpretazioni liberalborghesi dei conflitti sociali vi sono: quella che nega il conflitto di classe ai livelli delle relazioni produttive, situandolo solo in quelle distributive; quella che, dopo aver diviso la società in molti piccoli gruppi, vede i conflitti sociali nelle diverse esigenze professionali o comunque vitali di questi gruppi, che pur possono avere un medesimo rapporto nei confronti della proprietà dei mezzi produttivi; quella infine che enfatizza i contrasti generazionali e della convivenza interetnica e religiosa.
  4. Sul piano della concezione politica del mondo, sia i conservatori che i liberali vogliono preservare, come noto, le posizioni storiche del capitalismo monopolistico, benché i liberali, a differenza dei conservatori, vogliono questo in virtù di riforme e di una regolazione monopolistico-statale dell’economia. Fra gli storici liberali si possono riscontrare anche sentimenti pacifisti e vagamente antimperialistici. I rappresentanti dell’ala radicale sono invece molto più netti nell’opposizione al dominio dei monopoli.

La storiografia americana contemporanea (I)

Sin dalla II guerra mondiale l’evoluzione del pensiero storico americano è stata largamente determinata da un forte rinnovamento delle sue basi metodologiche. Si cominciò infatti coll’adottare i metodi cosiddetti quantitativi e interdisciplinari, molto più positivistici del logoro neokantismo.

Naturalmente le esigenze della politica governativa, in tale mutamento, ebbero la loro parte. La maggioranza degli storici americani sposò le idee di un gruppo sociale elitario e costituì l’ala apologetica degli studi storici di questo paese: una piccola minoranza invece rifletteva gli interessi dell’opposizione sociopolitica e per questo la si può definire socialmente critica.

Il legame tra ricerca storica e schieramento politico è sempre stato molto sentito negli Stati Uniti: proprio in virtù di esso gli storici decidono le metodologie da adottare, gli argomenti da trattare, le fonti da consultare, ecc.

Negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso la scuola apologetica del consensus servì da “portavoce storiografica” alle istituzioni: essa tolse al passato americano la scomoda realtà dei conflitti di classe e alimentò il concetto di “esclusività americana”.

Tuttavia, a partire dalla metà degli anni ’60 sino alla fine degli anni ’70, il trend storiografico radicaldemocratico, che si sviluppò in sintonia con i movimenti democratici di massa di quel periodo, provocò un’inversione di rotta. Gli antagonismi, le contraddizioni e i conflitti non solo smettevano d’essere censurati, ma venivano anche posti alla base del processo storico.

Si può in sostanza dire che la storiografia americana non marxista è passata, dalla seconda guerra mondiale sino all’inizio degli anni ’80, per tre stadi: conservativo, liberale e radicaldemocratico, ognuno dei quali ha chiaramente espresso uno stretto legame fra la storia come disciplina e le situazioni sociopolitiche in mutamento.

Negli anni ’40 e ’50 la storiografia reagì favorevolmente alla “guerra fredda” scatenata dalle autorità americane e alla pesante atmosfera anticomunista. La scuola del “consenso” era riuscita facilmente a far convergere gli orientamenti conservatori e liberali, la cui principale differenza stava semplicemente nell’idea storica dell’America.

Gli storici conservatori sostenevano che la società nordamericana avesse conseguito la sua forma classica nel momento in cui i Padri pellegrini (o fondatori) sbarcarono in America dal Mayflower nel 1620, stipulando il primo “contratto sociale” della storia. I liberals invece sostenevano il capitalismo monopolistico riformato, che, a loro giudizio, avrebbe creato uno stato di prosperità universale.

In ogni caso entrambi i gruppi manifestavano piena lealtà alla teoria dell’esclusività americana, e interpretavano l’esperienza storica americana come l’incarnazione di un esperimento democratico unico. Essi videro lo Stato economico creato dai monopoli come molto solido e negarono la presenza di antagonismi di classe e conflitti sociali acuti nella storia americana.

L’assenza di un’eredità feudale nel passato americano si pensava avesse liberato la storia degli Usa non solo dalla tradizione borghese rivoluzionaria ma anche da quella socialista. Questa tesi, elaborata per la prima volta da Louis Hartz nel 1955, acquistò subito vasti consensi.

La tradizione socialista veniva così ad essere considerata una conseguenza della lotta antifeudale, non antiborghese: era il prodotto non della società capitalista ma di quella feudale. Questa concezione storica priva di qualunque scientificità venne usata proprio per eliminare la tradizione rivoluzionaria, radicale e socialista del passato americano.

Ma proprio nel momento in cui sembrava che l’edificio costruito su questi pilastri teoretici fosse di una solidità eccezionale, scoppiò la gravissima crisi degli anni ’60. Influenzati dalla lotta per i diritti civili dei neri americani, dal movimento di massa antimilitarista e dalle azioni politicosindacali della classe operaia, gli storici cominciarono ad assumere posizioni radicali e di sinistra.

La scuola del consenso andava perdendo ogni credibilità e l’ala liberale si stava progressivamente staccando da quella conservatrice. Una monografia di R. Hofstadter, leader riconosciuto della tendenza liberale, conferma questo mutamento. Mettendo criticamente a confronto le due principali scuole storiografiche non-marxiste degli Usa, quella del consensus e quella progressista, egli ammise non solo che nella storia dell’America ci sono stati forti conflitti e contraddizioni antagonistiche, ma anche che la guerra d’Indipendenza del 1775-83 e la guerra civile del 1861-65 avevano un carattere rivoluzionario (cfr The Progressive Historians: Turner, Beard, Parrington, N.Y. 1968).

Tuttavia, il risultato più importante degli anni ’60 fu la formazione della cosiddetta storiografia new left (nuova sinistra), che si guadagnò i riconoscimenti accademici negli anni ’70 e ’80 con la denominazione di “scuola radicale”.

Molto famosi divennero i suoi principali esponenti: W. A. Williams, G. Kolko, E. D. Genovese, E. Foner, H. G. Gutman, L. F. Litwack e M. Dubofski. A tutt’oggi essa rappresenta il meglio della storiografia americana. La stessa scuola marxista non regge il confronto.

Le sue origini risalgono alla progressive school degli inizi del secolo. Ch. Beard, C. L. Becker, V. L. Parrington, A. Schlesinger sr., C. Vann Wooward furono i primi non-marxisti ad elaborare una sofisticata analisi delle tradizioni rivoluzionarie, radicali e democratiche della storia americana, i primi a studiare la lotta di classe dei farmers e dei movimenti di massa antimonopolistici.

Questi storici distinguevano tre principali periodi nella loro concezione della storia americana: un periodo iniziale che va dalla formazione delle colonie nordamericane alla fine del XVIII sec.; un periodo medio che va sino al 1860; e l’ultimo periodo che andava a concludersi agli inizi del Novecento.

Stando alle loro analisi la guerra d’Indipendenza – definita come una “rivoluzione socio politica” – portò il primo periodo a maturità; la guerra civile (chiamata anche “seconda rivoluzione americana”) concluse il secondo periodo; mentre la vittoria delle forze antimonopoliste fu l’atto culminante del terzo periodo.

Le concezioni contraddittorie e a volte semplicistiche di questa scuola progressista dipesero indubbiamente dalle origini piccolo borghesi dei suoi esponenti, nonché da un certo eclettismo metodologico. Sebbene infatti essi riconoscessero l’importante ruolo della lotta di classe nella storia degli Usa, non considerarono mai il proletariato come una classe indipendente, caratterizzato da una propria ideologia, preferendo invece vedere i lavoratori come alleati della borghesia liberaldemocratìca. Lo dimostra ad es. il fatto ch’essi stimavano il new deal di Roosevelt degli anni ’30 come la “terza rivoluzione antimonopolistica” degli Usa.

Sotto questo aspetto si può tranquillamente affermare che gli storici radicali degli anni ’60 siano stati influenzati dal marxismo molto più dei loro colleghi progressisti d’inizio secolo. Essi infatti videro la società capitalistica americana come un sistema antagonistico a livello economico, sociale e politico, che tale è stato – come essi ben evidenziarono – sin dall’inizio della storia americana, e non solo relativamente al periodo moderno. Di qui la loro esigenza di trasformare la critica dei monopoli in una critica del sistema qua talis.

I progressisti avevano ricondotto la lotta di classe a una serie di conflitti fra interessi meramente economici di diversi strati sociali. Gli storici radicali invece mostrarono l’influenza delle leggi economiche basilari del capitalismo (e anzitutto quella dell’accumulazione privata capitalistica) nelle motivazioni dello Stato borghese e della borghesia americana, in campi come quelli della politica sociale ed economica, interna ed estera.

Ma c’è di più. Gli storici progressisti pensavano che gli interessi di classe del proletariato fossero semplicemente volti a migliorare le proprie condizioni materiali d’esistenza, all’interno di una società borghese mai messa in discussione. Essi han sempre guardato la classe operaia come un alleato o addirittura come un supporto sociale dei politici liberalriformisti.

Viceversa, gli storici radicali erano convinti che gli interessi del proletariato fossero anticapitalisti e sostanzialmente diversi dagli obiettivi liberalriformisti. H. Gutman, D. Montgomery, M. Dubofsky, J. R. Green, J. Weinstein e altri, in questo senso, criticarono duramente la scuola del Wisconsin che aveva dominato gli studi del movimento operaio americano per buona parte di questo secolo.

I “wisconsinisti” – essi notarono – avevano scorrettamente equiparato la storia del proletariato americano con quella delle trade unions, sebbene quest’ultime non raccogliessero più di 1/5 di tutti i lavoratori americani. Peraltro di queste unions si preferiva prendere in considerazione solo il pensiero e l’azione dell’élite: gli altri membri venivano considerati più o meno consenzienti. Non a caso le contraddizioni fra il proletariato e la borghesia venivano ridotte a semplici conflitti di carattere economico-sindacale, riguardanti il mercato del lavoro.

Gli storici radicali, servendosi di metodi quantitativi moderni e di approcci interdisciplinari, contribuirono enormemente alla comprensione del ruolo della borghesia e dello Stato, della società monopolistica e della politica estera imperialistica. In particolare fornirono validi strumenti per individuare la mentalità del lavoratore americano, la cui vita sociale veniva analizzata sotto gli aspetti religiosi, familiari-parentali, politico ideali, ecc.

Oltre ai nomi citati possiamo ricordare M. Urofsky, R. Radosh, W. F. La Feber, G. Alperovitz, L. C. Gardner, T. Mc Cormic. Ma, nonostante ciò, molte loro opere soffrono di stereotipi ideologici e di eclettismo metodologico.

E’ ben noto, ad esempio, l’approccio idealistico nell’analisi del ruolo della borghesia durante le prime tappe del capitalismo o l’ammirazione per le azioni spontaneistiche del movimento operaio. Alcuni storici radicali hanno sopravvalutato le capacità dei sistema monopolistico statale di preservare se stesso.

Queste due correnti continuano ad esercitare una certa autorità nel panorama degli studi storici americani. Alla presidenza dell’organizzazione degli storici americani si sono succeduti, nel corso degli anni Ottanta, tre radicali: Williams, Genovese e Litwach.

I buchi neri dell’Italia

Siamo sempre più convinti che se il socialismo burocratico ha avuto al proprio interno le forze sufficienti per ripensarsi globalmente, per rimettersi completamente in discussione, il capitalismo invece è ancora ben lontano da questa prospettiva; anzi, piuttosto che ripensarsi, è incline a scatenare guerre di conquista, crociate contro nemici esterni (gli ultimi sono i terroristi islamici, come se l’aggettivo “islamico” fosse ormai sinonimo di “terrorista”), ovviamente propagandando l’esigenza di esportare in tutto il mondo la cosiddetta “democrazia occidentale”, come al tempo dei romani si esportava il corpus del diritto.

La propaganda borghese è riuscita a farci odiare non solo le aberrazioni del socialismo (com’era giusto che fosse), ma anche qualunque idea di socialismo, persino quelle più umanistiche e democratiche, al punto che oggi non riusciamo a intravedere altra soluzione alle classiche contraddizioni del capitale (lo sfruttamento dell’uomo e della natura in nome del profitto) che non sia la mera rassegnazione, quella che poi si dirama in tanti rivoli destinati solo a peggiorare la situazione, come la frode, la corruzione, l’immoralità, gli eccessi dell’individualismo… Si pensa di poter sopravvivere generalizzando i metodi che un tempo appartenevano solo a una certa categoria di persone.

Da questo punto di vista si può dire che l’Italia sia un paese privo di un’identità precisa. Ci trasciniamo da troppo tempo problematiche irrisolte, come il rapporto neocoloniale tra nord e sud all’interno del nostro stesso paese, esito di una rivoluzione tradita, i cui obiettivi: unificazione nazionale, mercato unico, Stato centralista, hanno portato beneficio solo alle classi proprietarie, non certo a quella agricola o a quella operaia.

Se l’Europa di oggi, che è giovane rispetto alle nazioni che continuano ad opporle i privilegi acquisiti in secoli di dura lotta per l’egemonia, è destinata a ripercorrere, su scala più grande, il medesimo cammino delle nazioni, la prospettiva diventa inevitabilmente quella di vedere acuirsi le contraddizioni a livelli sempre più elevati e quindi quella di veder spostarsi verso un futuro molto incerto il compito delle loro soluzioni.

In Italia i nodi rimasti irrisolti sono ancora molti e, non essendo mai stata spezzata la linea di continuità tra liberalismo – fascismo – democrazia cristiana – polo delle libertà, si è di fatto impedito di far luce sui tanti misteri che circondano le azioni delittuose degli apparati dello Stato, partendo anzitutto dai suoi servizi segreti.

La stessa presenza anomala di uno Stato nello Stato, quello del Vaticano, sancita dalla Costituzione e ribadita dall’ultima revisione concordataria, ci tiene costantemente legati ai retaggi del fascismo.

Continua a prevalere nettamente nel nostro paese l’idea che sia meglio uno Stato centralista di uno federalista; parole come decentramento, autonomia regionale, autogoverno degli enti locali territoriali o vengono usate in maniera retorica, per dimostrare che sotto il capitalismo si può essere più democratici e più efficienti, o addirittura si temono, poiché si preferisce continuare a dirigere la cosa pubblica dall’alto e ad “assistere” chi sta in basso, oppure vengono usate come uno strumento per permettere al capitale d’essere più aggressivo e dispotico. Nessuno associa federalismo a socialismo.

Gli storici italiani non sono mai stati capaci di produrre un senso o una mentalità comune sull’interpretazione da dare all’Italia repubblicana. La sudditanza ai valori occidentali dell’americanismo (consumismo ad oltranza, anticomunismo viscerale ecc.) ha impedito di delineare una visione critica del dopoguerra.

Noi oggi non siamo neppure capaci di fare dei discorsi ecologisti o ambientalisti correlati a quelli economici per una transizione verso il socialismo democratico. Pretendere di migliorare i rapporti uomo-natura in un contesto in cui i rapporti interumani sono caratterizzati dallo sfruttamento più vergognoso, è semplicemente utopistico.

Con la svolta della perestrojka gorbacioviana si era per un momento creduto possibile realizzare il socialismo dal volto umano sulle rovine di quello statale, ma oggi la disillusione è grande. Abituati per 70 anni a obbedire, i popoli est-europei hanno atteso dall’alto, ancora una volta, la realizzazione della nuova sociètà, e invece è arrivato lo smantellamento di qualunque idea di socialismo, a tutto vantaggio del sistema economico oggi prevalente nel mondo.

Sicuramente è aumentata la secolarizzazione e la laicizzazione nella società civile e anche nelle istituzioni, ma laicizzazione di per sé non vuol dire umanizzazione. Se la laicizzazione s’identifica col materialismo volgare della società borghese, basata su profitto e consumismo, è facile ch’essa degeneri in disumanizzazione, e non a caso è su queste incoerenze che la religione trova linfa vitale per tornare alla ribalta.

L’esplosione di Internet degli anni Novanta, che ha fatto seguito a quella informatica degli anni Ottanta, ha catapultato nel protagonismo anarchico, spontaneistico, moltissime persone non legate a partiti, sindacati, movimenti della vita reale, e ha aiutato queste stesse realtà ad ampliare i consensi e le iniziative.

Ma Internet è una realtà relativamente fragile, che sta peraltro diventando sempre più costosa, la cui evoluta tecnologia può essere bersagliata da attacchi virulenti di molestatori che possono inibire o scoraggiare l’uso costante o progressivo della rete, anche perché, per potersi difendere dai loro attacchi, occorrono non poche competenze, che l’utente finale, spesso unico vero difensore di se stesso, non sempre è in grado di avere.

Sicuramente oggi si può affermare che il sociale sia, nella sensibilità delle gente, considerato più importante del politico; i movimenti, l’associazionismo, il no profit vengono considerati più coinvolgenti dei partiti e persino dei sindacati. Ma nonostante questo il loro peso istituzionale è alquanto risicato. Essi non hanno alcuna rappresentanza parlamentare che non sia mediata dagli stessi partiti, i quali, inevitabilmente, tendono a strumentalizzare ogni cosa per esigenze di puro potere. E questo significa che l’associazionismo deve materialmente contare solo sulle proprie forze.

La caduta delle ideologie può aver indotto una certa disillusione riguardo all’impegno politico. Oggi abbiamo una generazione molto informatizzata o tecnologizzata, ma praticamente analfabeta sul piano politico e con scarse cognizioni culturali. Tuttavia è un bene che oggi il concetto di “alternativa al sistema”, quando viene propagandato, si caratterizzi anche sul piano etico e non solo su quello politico. Non basta la piattaforma programmatica per dimostrare la propria diversità, occorre anche mostrare, da subito, che si è capaci di “umanità”, cioè di mettere in pratica i “valori umani” (quei valori p.es. che nessun partito politico seppe dimostrare in occasione del delitto Moro).

L’Italia non ha mai fatto i conti col suo passato. Siamo ancora troppo pieni di buchi neri. Non vogliamo affrontare i tradimenti degli ideali borghesi di democrazia e di libertà d’iniziativa per tutti semplicemente perché ciò c’indurrebbe a riprendere temi scomodi, quali appunto il socialismo, la cooperazione, il decentramento ecc. Il capitalismo non può sopportare le alternative che lo negano. E così oggi l’Italia si trova ad affrontare non un dibattito approfondito su quale tipologia di socialismo occorra adottare, ma una vexata quaestio circa la presunta superiorità del capitalismo su ogni altro sistema produttivo.

Discutiamo ancora di cose che Marx considerava superate 150 anni fa. Il capitalismo non ha futuro e non è il crollo del comunismo da caserma che può mettere in discussione questa realtà, già abbondantemente dimostrata dai classici del marxismo. Se partissimo dall’esigenza di trovare un’alternativa praticabile, smetteremmo di dire che non abbiamo un’identità nazionale, che gli storici peraltro, succubi come sono dell’anticomunismo imperante, non sono mai stati capaci di promuovere.

Noi ci sentiamo troppo debitori nei confronti degli Usa, non riusciamo a scrollarci di dosso miti come l’aiuto bellico contro i nazisti (risoltosi in un’occupazione dell’Italia per mezzo delle basi Nato), il generoso piano Marshall (che ci legò le mani economiche a quella che era diventata la potenza più forte del mondo), la superiorità tecnologica degli Stati Uniti (utilizzata prevalentemente per fini bellici) ecc. Tutti miti che andrebbero storicamente smontati.

Prospettive di ricerca

Una divisione del lavoro ha senso quando non esiste divisione tra lavoro e capitale, cioè quando i legami sociali dei produttori sono molto forti, altrimenti essa si trasformerà, inevitabilmente, in una fonte interminabile di soprusi: sfruttamento del lavoro altrui, abuso delle risorse naturali, sovrapproduzione di merci, impiego della scienza e della tecnica per perpetuare l’alienazione dominante (anche quando si pensa di attenuarne gli effetti) ecc.

Nel capitalismo la divisione del lavoro arricchisce pochi a svantaggio dei molti (all’interno di una stessa nazione e fra nazioni diverse). Guardando cosa essa ha prodotto in questa formazione sociale, vien da rimpiangere il Medioevo, in cui dominava l’autonomia del produttore diretto, che era polivalente, cioè indipendente dal mercato per le cose essenziali.

Solo che tale modo di produzione di per sé non può essere sufficiente per costituire un’alternativa efficace al capitalismo. Poteva costituire un’alternativa quando il capitalismo era in fieri, e naturalmente solo a condizione che il sistema dell’autoconsumo fosse in grado di eliminare la piaga del servaggio.

Oggi, perché l’autoconsumo possa costituire un’alternativa, occorrerebbe che il capitalismo subisse un crollo totale per motivi endogeni, ma è dubbio che ciò avvenga in tempi brevi. Il capitalismo si regge sullo sfruttamento del Terzo Mondo: finché le colonie e le neocolonie non si emancipano anche economicamente, il capitalismo non si accorgerà mai di non poter autosussistere.

Quando una formazione sociale si regge sullo sfruttamento del lavoro altrui, si autoriproduce solo fino a quando i lavoratori si lasciano sfruttare: il fatto che ad un certo punto sia nata l’esigenza del colonialismo sta appunto a dimostrare che i lavoratori europei non avevano intenzione di lasciarsi sfruttare in eterno. Ora tale decisione devono prenderla anche i lavoratori del Terzo Mondo, e auguriamoci che, quando la prenderanno, i lavoratori dei Paesi occidentali capiscano che quello sarà il momento buono per realizzare l’internazionalismo proletario contro il capitalismo mondiale.

Va comunque assolutamente escluso che il lavoro polivalente del produttore autonomo possa costituire un’alternativa quando esso viene sottoposto a un qualsivoglia regime di servaggio. “Autonomia” non può solo voler dire “indipendenza dal mercato”, ma deve anche voler dire “libertà” da qualunque forma di schiavitù. Si badi: non da qualunque forma di “dipendenza”, ma da qualunque forma di “dipendenza” in cui esista un “padrone” e un “servo”, una posizione precostituita di dominio e una di subordinazione.

E’ stata un’illusione della borghesia quella di credere che la libertà di un individuo potesse realizzarsi emancipandosi da qualunque dipendenza dal collettivo. Gli uomini devono dipendere dalle leggi che loro stessi, democraticamente, si danno, e devono altresì dipendere da molte leggi della natura, affinché sia salvaguardato l’equilibrio dell’ecosistema.

Se nel Medioevo non ci fosse stato il duro servaggio e l’oppressione culturale del clericalismo, forse il capitalismo non avrebbe trionfato così facilmente. Gli storici, in tal senso, dovrebbero verificare la tesi secondo cui l’edificazione del capitalismo è avvenuta in maniera relativamente facile nell’Europa occidentale, proprio perché qui il servaggio era molto più opprimente che nell’Europa orientale.

Nei confronti del Medioevo il marxismo ha emesso giudizi unilaterali, dettati da una sorta di pregiudizio anticlericale e antirurale. Si è condannato, col servaggio e il clericalismo, anche l’autonomia economica del produttore diretto, cioè il primato del valore d’uso sul valore di scambio, il significato sociale della comunità di villaggio, i concetti di autogestione e autoconsumo, ecc.

Il marxismo si è lasciato abbacinare dal fatto che, con l’impiego della rivoluzione tecnologica e con una forte divisione del lavoro, il capitalismo è riuscito ad aumentare a dismisura le potenzialità delle forze produttive. In effetti in quest’ultimo mezzo millennio l’umanità ha fatto passi da gigante sul piano produttivo e tecnologico.

Tuttavia, molti di questi passi, che si ritengono “in avanti”, sono stati pagati con terribili passi indietro (guerre mondiali, distruzione dell’ecosistema, morte per fame ecc.), al punto che oggi ci si chiede se davvero sia valsa la pena realizzare tanti progressi quando il risultato finale viene considerato soddisfacente solo per un’infima parte dell’umanità. Il marxismo ha avuto due torti fondamentali:

  1. quello di appoggiare un qualunque sviluppo capitalistico contro la rendita feudale, senza preoccuparsi di trovare nel sistema dell’autoconsumo le possibili alternative al servaggio;
  2. quello di tollerare i guasti provocati dal progresso tecno-scientifico, illudendosi di poterli ovviare sostituendo il profitto privato col profitto statale.

Detto altrimenti, lo storico dovrebbe chiedersi se il superamento del servaggio e del clericalismo doveva necessariamente comportare il pagamento di un prezzo così alto, ovvero se la nascita del capitalismo sia stata davvero un evento inevitabile della storia o se invece essa è dipesa dal fatto che nel corso del Medioevo gli uomini non fecero abbastanza per cercare un’alternativa alle contraddizioni antagonistiche del feudalesimo. Il capitalismo è forse diventato inevitabile a causa di questa mancata alternativa?

Se c’era la possibilità di una diversa soluzione, allora dobbiamo rimettere in discussione i giudizi negativi espressi dai teorici liberali e marxisti nei confronti del sistema economico basato sull’autoconsumo. Se vogliamo infatti creare un socialismo veramente democratico, di fronte a noi ci sono due strade (che possono anche essere seguite contemporaneamente, anche se di necessità una dovrà prevalere sull’altra):

  1. l’autoconsumo del produttore diretto, polivalente, che ha bisogno del mercato solo per cose che non può assolutamente produrre o reperire come risorsa naturale (cose di cui, in ultima istanza, può anche far meno per poter vivere). Ciò implica ch’egli sia giuridicamente e politicamente libero, non soggetto ad alcuna coercizione extra-economica. Naturalmente le sue forze produttive saranno sempre limitate (come d’altra parte i suoi bisogni), ma la stabilità di tale metodo produttivo è assicurata, a meno che essa non venga minacciata da catastrofi naturali, nel qual caso dovrebbe farsi valere la solidarietà del collettivo, cui il produttore appartiene. Ovviamente la solidarietà va coltivata per tempo, in quanto essa non può nascere automaticamente; ed è questo in un certo senso il limite di tale sistema produttivo: il produttore diretto tende a rivolgersi alla forza del collettivo solo nel momento del bisogno;
  2. una collettività o una società basata sulla divisione del lavoro, ma in cui l’uguaglianza dei lavoratori sia assicurata dalla democrazia a tutti i livelli. Quanto più è forte la divisione del lavoro, tanto più forti devono essere i legami sociali, poiché chi non rispetta le proprie funzioni incrina tutto l’apparato produttivo. Un sistema di tal genere deve puntare molto sui legami che possono realizzare i valori etico-sociali e culturali.

Ora, considerando il forte individualismo esistente in Europa occidentale (per non parlare degli USA), la seconda soluzione pare la più difficile da realizzare, poiché essa implica una certa maturità socio-culturale o comunque una certa disponibilità interiore a partecipare ai problemi comuni.

Europa occidentale e USA potrebbero adottare il socialismo democratico basato sulla divisione del lavoro, grazie all’aiuto di forze sociali straniere, provenienti da Paesi che conoscono il valore del collettivismo. Tali forze però dovrebbero essere considerate “paritetiche” e non dovrebbero essere numericamente “minoritarie”.

In ogni caso sarà impossibile per l’Occidente conservare gli attuali livelli di produttività, accettando il collettivismo proprio dei Paesi non-capitalistici.

Per una filosofia della storia (V)

Europa e America

Per quanto riguarda l’Europa si può sostenere che pur essendo stati posti qui i fondamenti del superamento del cristianesimo e del capitalismo (che è la versione schiavista moderna del cristianesimo protestante), di fatto non si è pervenuti al socialismo democratico.

Si potrebbe però precisare che i paesi est europei hanno tentato l’esperienza del socialismo, vivendola però in maniera autoritaria. Tuttavia, questi paesi devono dimostrare d’essere capaci di superare il socialismo restando nel socialismo e a tutt’oggi non sembra siano in grado di farlo. Di tutti i paesi est-europei quelli che sono meno in grado di farlo provengono dalle culture cattolica e protestante o comunque da queste culture sono stati maggiormente influenzati, pur avendo conservato l’ortodossia come religione prevalente.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti bisogna dire che l’unica possibilità che questo continente ha di recuperare il comunismo primitivo è quella di ripristinare i criteri di vita delle tribù indiane relegate nelle riserve. Stesso discorso vale per tutta l’America latina, in riferimento alle popolazioni amerinde.

L’Islam

Quanto all’islam, il suo destino è segnato, poiché sul piano teorico esso non è che un giudaismo cristianizzato o un cristianesimo giudaizzato e in tal senso non costituisce un’alternativa né al cristianesimo né al capitalismo né al socialismo autoritario, mentre sul piano pratico la sua forza sta unicamente nell’incoerenza del cristianesimo e del capitalismo che in teoria predicano la democrazia e i diritti umani e in pratica fanno esattamente l’opposto.

Quindi l’islam è destinato a essere superato da ciò che supera lo stesso cristianesimo e lo stesso capitalismo e cioè il socialismo democratico.

Le nuove popolazioni

Le genti che più devono interessare lo storico sono oggi, oltre a quelle che si pongono in maniera decisa contro il cristianesimo in tutte le sue forme, contro il capitalismo e contro il socialismo autoritario, quelle che provengono dalla Cina, dall’India, dalla Russia asiatica, dai territori pre-cristiani dell’Africa, dell’America latina, dai territori più remoti e oscuri, più freddi o desolati o aridi della Terra.

Obiettivi da realizzare

Gli obiettivi principali da realizzare sono noti al socialismo democratico:

  1. fine della proprietà privata, quindi ripristino della proprietà sociale dei mezzi produttivi, facendo bene distinzione tra i concetti di proprietà privata, sociale e personale (con l’esclusione della proprietà privata bisogna escludere anche quella statale, in quanto il concetto di “pubblico” coincide solo con quello di “sociale”);
  2. fine del dominio dell’uomo sulla natura, quindi revisione totale dei principi scientifici e tecnologici della cultura occidentale (occorre partire dal presupposto che l’uomo ha più bisogno della natura di quanto la natura abbia bisogno dell’uomo, quindi qualunque sviluppo tecnico-scientifico dev’essere compatibile con le esigenze riproduttive della natura);
  3. fine del dominio dell’uomo sulla donna;
  4. ricomposizione del diviso: città e campagna, lavoro intellettuale e manuale, teoria e prassi;
  5. affermazione della democrazia diretta, localmente circoscritta, quindi fine della democrazia delegata e superamento di concetti come Stato, nazione, parlamento, leggi, istituzioni…;
  6. superamento della divisione dei poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario), in quanto è il popolo che decide, esegue e giudica;
  7. il popolo deve difendere se stesso, quindi no alla delega del potere militare.

A questo punto è evidente che per realizzare la transizione dal capitalismo e dal socialismo autoritario al socialismo democratico diventa di fondamentale importanza riesaminare i rapporti tra l’organizzazione sociale dell’uomo primitivo, di tipo comunistico, e quella subito successiva, basata sullo schiavismo.

Molto utile sarà anche l’esame dell’organizzazione tribale che ancora oggi si ritrova in pochissime popolazioni rimaste isolate o che sono sopravissute al contatto con gli occidentali, conservando le proprie caratteristiche fondamentali.

Bisogna tuttavia considerare che se il primo tentativo (quello giudaico) di ripristinare i valori primitivi è durato circa 4.000 anni, e il secondo (quello cristiano) circa 2.000, il terzo (quello socialista) non potrà durare meno di 1.000 anni, dopodichè davvero l’alternativa non potrà che essere: o socialismo o barbarie.

Per una filosofia della storia (IV)

Il ruolo dell’Inghilterra

L’ultimo aspetto che andrebbe chiarito è il motivo per cui la rivoluzione industriale è avvenuta nei paesi anglosassoni e non in quelli latini. Il motivo può essere questo: la chiesa romana, pur essendo disposta al compromesso sui princìpi, non è disposta a perdere il potere politico. I compromessi li fa solo a condizione di conservare più o meno integralmente i propri privilegi. Ecco perché la rivoluzione industriale è potuta avvenire dove il potere politico della chiesa romana era più debole. L’”anello debole” della chiesa romana era l’Inghilterra.

Ma perché questa rivoluzione non è avvenuta in Germania, che pur era stata la prima a staccarsi dalla chiesa cattolica? Perché la Germania, allora, non era ancora una nazione e poi perché la sua mentalità tradizionale era di tipo filosofico-idealistico, simile a quella greca. Perché accadesse una rivoluzione borghese in Germania, occorreva prima di tutto una larga diffusione delle idee anticattoliche, cioè protestanti, così i tedeschi avrebbero avuto la necessaria giustificazione teorica per modificare radicalmente il loro sistema di vita. Quand’essi sono giunti alla convinzione ch’era il momento di fare la rivoluzione borghese, il mondo era già stato diviso dalle potenze coloniali di Francia e Inghilterra. Ecco perché la Germania ha avuto bisogno di sviluppare il nazismo.

L’Italia ha fatto la stessa cosa, ma dal punto di vista cattolico, non protestante. L’Italia ha dovuto cercare nell’ambito del cattolicesimo la giustificazione che le permettesse di accettare la rivoluzione borghese e industriale. Probabilmente, se la chiesa cattolica avesse contribuito alla realizzazione dell’unificazione nazionale, l’Italia avrebbe partecipato prima alla spartizione delle colonie e forse non avrebbe sperimentato la dittatura fascista.

La rivoluzione borghese e industriale poteva dunque nascere e svilupparsi solo in Inghilterra, cioè in una nazione lontana dal potere politico della chiesa cattolica, non molto influenzata dalla civiltà latina e tradizionalmente poco speculativa. Questo dimostra che non basta una Riforma protestante per creare una rivoluzione industriale (Weber qui ha torto). Come non è bastata la rivoluzione borghese, nata in Italia nell’XI secolo, a provocare la rivoluzione industriale. Perché avvenisse questa transizione occorreva che la borghesia italiana operasse una lotta ideale contro il cattolicesimo, unificando la penisola. Il che non è mai avvenuto in maniera decisa e risoluta. Ecco perché dopo il Rinascimento l’Italia è tornata al feudalesimo.

Naturalmente l’Inghilterra, essendo lontana dall’influenza della chiesa cattolica (si pensi che Duns Scoto ha elaborato delle teorie che al suo tempo non trovavano riscontri in alcuna parte dell’Europa, ad eccezione del mondo bizantino), ha potuto realizzare l’unificazione nazionale molto più facilmente (e quindi molto tempo prima) sia dell’Italia che della Germania, divise in tanti principati e signorie.

Questo spiega anche il motivo per cui Spagna e Portogallo, che pur sono state le prime nazioni cattoliche colonialistiche, sono state anche le ultime a diventare nazioni borghesi-industrializzate. In entrambe la mentalità cattolica ha avuto un peso determinante. Esse non hanno mai avuto le capacità speculative della Germania per opporsi alla tradizione cattolica (anzi, soprattutto la Spagna, ha sviluppato ancora di più il concetto di “obbedienza” e di “gerarchia”, come appare soprattutto nel movimento dei gesuiti e nell’uso massiccio dell’inquisizione).

Se al loro cinismo materialistico (si pensi alla reintroduzione dello schiavismo) Spagna e Portogallo avessero unito forti capacità speculative, in luogo di quelle burocratico-militari, la rivoluzione industriale sarebbe sicuramente nata qui. Cosa che sta avvenendo adesso, come un processo calato dall’alto.

Se la rivoluzione capitalistica avviene in presenza non del protestantesimo ma del cattolicesimo, significa che del cattolicesimo è rimasto soltanto l’involucro esterno. Non a caso la nazione che oggi meglio incarna il capitalismo, e cioè gli USA, è anche quella più lontana dalle posizioni cattoliche.

Tentativi di superamento dello schiavismo

Nell’Antico Testamento ampio spazio viene dedicato alle vicende di due grandissimi personaggi, intorno ai quali sono state costruite numerose leggende: Abramo e Mosè. Due soggetti, strettamente legati a due popoli, che ancora oggi vengono considerati patriarchi, con più o meno enfasi, di due religioni per molti versi opposte: Ebraismo e Islamismo.

Ebbene, proprio le vicende di questi due personaggi possono essere considerate quanto di meglio l’umanità abbia prodotto in relazione al tentativo di superare le fondamenta del regime schiavistico, a partire dal momento in cui è stato abbandonato il comunismo primitivo (circa 6.000 anni fa), fino alla nascita di Cristo.

La fuoriuscita di Abramo dalla civiltà assiro-babilonese e quella di Mosè dalla civiltà egizia hanno prodotto, sul piano della riflessione culturale, sociale e politica delle conquiste di livello così elevato da restare ineguagliate per quattro millenni.

Al punto che ancora oggi viene da chiedersi se non sia vera l’ipotesi di chi ritiene la Palestina il centro della Terra, cioè il luogo dell’Eden originario, in cui sarebbero nate le prime esperienze di tradimento dell’ideale comunitario primitivo, poi sviluppatesi in Africa (civiltà egizia), nel Mediterraneo (civiltà fenicia, minoica ecc.) e nel Medio Oriente (civiltà sumera, ittita, assiro-babilonese, persiana).

L’esilio di Abramo e Mosè costituirebbe, se vogliamo, il tentativo, non riuscito, di recuperare nel territorio ch’era stato abbandonato secoli prima, le radici democratiche, egualitarie dell’uomo primitivo.

Le migrazioni dei popoli

Le migrazioni dei popoli indoeuropei (specie quella dei Dori) posero un freno allo sviluppo indiscriminato dello schiavismo o riorganizzarono questo sistema su basi più primitive, ma non per questo più antidemocratiche. Spesso gli storici sono soliti definire questi periodi come “oscuri o bui” semplicemente perché giudicano l’organizzazione socioculturale e politica sulla base dei parametri della civiltà precedente.

In realtà si tratta di porre ogni civiltà in rapporto all’organizzazione comunitaria primitiva, cercando di capire fino a che punto se n’era allontanata. Sotto questo aspetto, p.es., le popolazioni cosiddette “barbariche” che posero fine all’impero romano erano di molto superiori alla civiltà latina nel rispetto della dignità umana (lo dimostra, successivamente, il fatto che la condizione dello schiavo si trasformò in quella del servo della gleba).

Cristo e il Cristianesimo

L’altro grande personaggio da considerare è Gesù Cristo, il quale, col suo vangelo (non scritto) riuscì a porre le basi di un recupero del comunismo primitivo, cercando di superare le basi storico-culturali del giudaismo e successivamente, con la predicazione apostolica, prescindendo totalmente dall’appartenenza etnica al giudaismo.

Il cristianesimo fu il tentativo di sfruttare il fallimento del giudaismo estendendo ai non giudei il compito di recuperare le modalità del comunismo primitivo. Ma anch’esso, in questi ultimi duemila anni di storia, s’è rivelato del tutto fallimentare.

Nella versione cattolica e protestante, attraverso il colonialismo culturale dei paesi europei occidentali e degli Usa, il cristianesimo s’è diffuso in quasi tutto il mondo, ma nessun paese “cristiano” (né colonizzato né colonizzatore) è stato capace di liberarsi dalle catene dello schiavismo, vecchio e nuovo, se non in maniera formale non sostanziale, o relativa non assoluta.

Questo significa che le popolazioni che nel prossimo millennio saranno protagoniste della storia non potranno essere che quelle meno influenzate dalle teorie cristiane, o quelle che meglio avranno saputo superare tali condizionamenti, e che avranno saputo darsi una teoria e pratica anti-schiavistica, sufficientemente credibile al mondo intero.

Qui però bisogna intendersi: come il cristianesimo ha potuto sostituire il primato del giudaismo provenendo dallo stesso giudaismo, così anche il socialismo democratico potrà sostituire il primato del cristianesimo provenendo dallo stesso cristianesimo.

Questo significa che la storia del prossimo millennio apparterrà a quelle popolazioni che saranno riuscite a vivere l’esperienza del socialismo democratico come conseguenza del fallimento dell’ideologia cristiana. Quindi, queste genti o popolazioni dovranno essere in grado di emanciparsi dalla tradizione cristiana o provenendo da questa stessa tradizione oppure ereditando di questa tradizione l’esigenza del suo superamento.

Per una filosofia della storia (III)

Protestantesimo e capitalismo

Il protestantesimo emerge dalla constatazione che il principio cattolico dell’obbedienza non era più in grado di reggere o di sopportare la contraddizione dei rapporti feudali. Tale contraddizione -come noto- diventava tanto più acuta e insostenibile quanto più crescevano le forze della borghesia. Rifiutando la logica autoritaria, centralistica della chiesa cattolica, unitamente alla profonda corruzione del suo idealismo politico, il protestantesimo ha affermato il principio della libertà interiore del singolo individuo, cioè il primato della coscienza individuale, permettendo così al cristianesimo di recuperare una parte del modello originario del Cristo (modello che la Riforma non ha dedotto dall’esperienza ortodossa perché qui era connesso al rispetto scrupoloso della tradizione, motivo per cui l’ortodossia non aveva più alcuna influenza in Europa occidentale da almeno mezzo millennio prima che nascesse la Riforma).

Tuttavia, il protestantesimo, non riuscendo a modificare i rapporti sociali esistenti, basati sullo sfruttamento, non ha fatto altro che accelerare la trasformazione del servaggio in dipendenza salariata (quella per cui l’uomo è giuridicamente libero e socialmente schiavo), lasciandosi coinvolgere, anima e corpo, nel gretto mondo dell’economia borghese.

Sotto tale aspetto, i protestanti hanno operato un tradimento peggiore di quello dei cattolici, perché più sofisticato e più pericoloso. Da un lato infatti essi hanno permesso che lo Stato usasse del proprio potere nella maniera più arbitraria possibile; dall’altro hanno fatto dell’esperienza sociale della religione una pura e semplice “intellettualizzazione della fede”. In verità, anche la Scolastica medievale non era meno astratta e speculativa; tuttavia la teologia protestante, essendo più “libera” (perché non vincolata a concetti come “tradizione”, “autorità”, ecc.), è arrivata a giustificare quasi ogni cosa.

Il protestantesimo non ha mai avuto un interesse specifico di potere ecclesiastico da difendere, eppure, per salvaguardarsi come confessione, si è servito del potere degli Stati come nessun’altra confessione aveva fatto prima. Resta tuttavia interessante nel protestantesimo la tendenza all’agnosticismo se non all’ateismo, che è il frutto appunto di uno studio razionalistico delle Scritture, fatto con l’apporto di buona parte della cultura laico-umanistica. Questo aspetto lo avvicina al marxismo, lo allontana di molto dal cattolicesimo e di moltissimo dall’ortodossia, per la quale unica vera preoccupazione è quella di salvaguardare la tradizione e gli aspetti rituali-sacramentali, mentre il livello della riflessione speculativa -dopo le grandi dispute sulla natura del Cristo e sulle eresie del mondo cattolico- è rimasto poco consistente.

Il ruolo del socialismo scientifico

Nel mondo medievale era chiaro che il servo della gleba non poteva essere libero, anche se aveva più diritti dello schiavo. Nel mondo moderno invece l’uomo è formalmente libero ed è in questa libertà fittizia ch’egli accetta “spontaneamente” -come vuole la borghesia- di diventare operaio salariato. E’ stato il marxismo a togliere il velo all’ipocrisia della società capitalistica, e quindi all’ipocrisia della religione protestante, della filosofia idealistica, dell’economia politica classica e dell’ideologia politica borghese: il marxismo ha dimostrato che una libertà affermata davanti alla legge o allo Stato, nel pensiero o nella coscienza, senza una corrispettiva libertà dal bisogno, è una libertà falsa.

Non bisognerebbe mai dimenticare che i princìpi fondamentali del marxismo sono due: la socializzazione dei mezzi produttivi e il materialismo storico-dialettico (che include l’ateismo-scientifico). E’ sulla base di questi due princìpi ch’esso è stato in grado di ereditare le migliori conquiste della filosofia tedesca, della politica francese e dell’economia inglese.

A loro volta, queste tre correnti di pensiero rappresentano l’eredità e lo sviluppo, in veste laicizzata, di quanto di meglio potevano esprimere le due religioni principali dell’Europa occidentale: cattolicesimo e protestantesimo (quest’ultimo nella forma luterana in Germania e nella forma calvinista in Inghilterra). Il leninismo, dal canto suo, rappresenta una nuova sintesi, poiché è riuscito a ereditare non solo tutto il marxismo (e quindi tutta la cultura occidentale), ma anche tutta l’ortodossia (attraverso il populismo), rappresentando così, nell’epoca contemporanea (che è imperialistica), una via sicura per la realizzazione dei due suddetti princìpi fondamentali del marxismo.

Vista da questa angolazione, l’attuale perestrojka non andrebbe considerata come un superamento del leninismo, ma come una sua progressiva democratizzazione sul piano sociale e umano. Il leninismo infatti, quale ideologia politica, potrà essere superato solo dalla sua stessa democratica realizzazione: cosa che in URSS e negli altri paesi socialisti, lo stalinismo prima e la stagnazione dopo avevano reso del tutto impossibile. Il leninismo è stato il tentativo di affrontare il problema di una democrazia socialista a partire da una prospettiva prevalentemente politica; l’attuale perestrojka va vista come un tentativo di aggiungere a tale prospettiva anche quella eminentemente sociale e umanistica (quella cioè in cui il popolo si sente protagonista attivo del suo destino).

La perestrojka, se bene attuata, comporterà un modo diverso non solo di concepire le relazioni sociali e umane, ma anche la stessa attività politica, la quale non potrà più essere delegata dalle masse alle istituzioni statali e partitiche come fino ad oggi è accaduto.

Lo sviluppo del socialismo, sul piano culturale o ideologico, è una conseguenza indiretta della precedente cultura (non diretta, poiché nella storia non solo non c’è nulla di assolutamente arbitrario ma neppure nulla di assolutamente automatico). Ora, siccome la cultura pre-socialista era prevalentemente caratterizzata dalla religione, ciò significa che sul piano culturale il socialismo ha un debito nei confronti della religione. Infatti, grazie anche alla religione, cioè nonostante il suo “tradimento” dell’ideale originario, noi possiamo risalire (almeno sul piano dell’interpretazione storica) a questa positività primitiva, mettendola a confronto con gli ideali più significativi del moderno socialismo.

In altre parole: se per vivere una società a misura d’uomo oggi possiamo farlo senza alcun riferimento alla religione (in quanto il socialismo è un’esperienza di umanesimo integrale), per vivere questa stessa società con una coscienza storica, cioè con una coscienza dell’intera evoluzione del genere umano, una coscienza che ci aiuti a non dimenticare nulla del passato ma anzi a valorizzare quanto di meglio esso abbia prodotto, la religione può ridiventare utile, in quanto riflesso opaco di una positività tradita.

Se noi ad es. riuscissimo a dimostrare che la moderna emancipazione dalla religione e soprattutto dallo sfruttamento del capitale è, in fondo, un ritorno, in nuce, alle idee originali del Cristo -che predicò comunione dei beni e primato dell’uomo- noi non avremmo fatto un “servizio” alle chiese di questo mondo, ma al socialismo, poiché la storia ha dimostrato che lo sviluppo della religione costituisce sempre un tradimento degli ideali originari, benché nonostante questo tradimento (o in virtù di esso) possano verificarsi dei progressi, condotti in ambito religioso, per “purificare” l’idea di religiosità, e dei progressi, condotti in ambito laico, utili al superamento della stessa religione e utili persino alla recupero dell’ideale tradito. Naturalmente con questo non si ha alcuna intenzione di sostenere che gli ideali umanistici del socialismo possono di per sé garantire dagli eventuali abusi che si compiono sul piano pratico. Il fallimento del “socialismo reale” rappresenta anche la fine di questa illusione.

Per una filosofia della storia (II)

Differenze tra ortodossia, cattolicesimo e protestantesimo

Si potrebbe, in un certo senso, collegare, sul piano socio-economico, l’ortodossia (che è la prima manifestazione della religione cristiana) allo schiavismo e al colonato, che segue immediatamente la dissoluzione della schiavitù dell’epoca imperiale, durante la quale tra cattolicesimo e ortodossia non vi erano ancora sostanziali differenze. La religione cattolica andrebbe invece collegata alla servitù della gleba del periodo feudale, mentre il protestantesimo all’operaio salariato della manifattura. Tutte le religioni euroccidentali sono cominciate ad entrare in una crisi irreversibile a partire dalla rivoluzione industriale vera e propria, iniziata in Inghilterra verso la metà del XVIII secolo.

L’ortodossia rappresenta non solo la prima manifestazione della religione cristiana, ma anche il primo tradimento degli ideali originari del Cristo (i fondatori del cristianesimo ortodosso vanno ricercati negli autori dei documenti neotestamentari: in particolare Paolo, Giovanni, Marco ecc.).

In che cosa è consistito il tradimento della chiesa ortodossa? Nel predicare l’ideologia dell’amore universale rinunciando a lottare per la giustizia sociale, terrena, degli uomini. L’amore – secondo questa religione – doveva servire per sopportare stoicamente le ingiustizie. Durante tutto il corso dell’impero romano, l’ortodossia, per poter giustificare lo schiavismo, fece dell’amore un concetto di altissimo significato spirituale, riuscendo a coinvolgere decine di migliaia di persone.

Non dimentichiamo che le più grandi persecuzioni i cristiani le hanno subìte in questo periodo. Essi erano convinti di rappresentare un’alternativa alla mentalità dominante, anche se sostenevano che i migliori frutti del loro amore li avrebbero colti nel “regno dei cieli”. Da questo suo principio basilare, l’ortodossia non si è mai distaccata, almeno sul piano teorico, anche a costo di apparire come una religione conservatrice, legata unicamente al proprio passato.

Il cattolicesimo-romano emerge dalla constatazione che il principio ortodosso dell’amore universale non è in grado di reggere o di sopportare la contraddizione dei rapporti schiavistici o di colonato. Questa chiesa rinuncia al principio dell’amore universale – che giudica astratto – per affermare una nuova modalità esistenziale, quella del potere politico, che è sempre, a ben guardare, una forma di “idealismo”, anche se viene espressa, generalmente, in una maniera più rozza e incivile (si pensi alle crociate, all’inquisizione, alla lotta feroce contro le eresie, alle guerre di religione, ecc.).

In effetti, la chiesa cattolica appare, con la svolta costantiniana, molto più disposta al compromesso sui princìpi di quanto non lo sia la chiesa ortodossa o greco-bizantina. Tale predisposizione essa l’aveva ereditata dalla cultura latina dell’impero romano, che era prevalentemente giuridica, sul piano formale, e basata sul concetto di “forza” sul piano sostanziale. La cultura greca invece era di tipo filosofico, cioè metafisico, idealistico, estetico, artistico…

Le differenze maggiori tra le due chiese sono emerse quando l’imperatore Costantino, dopo aver fatto del cristianesimo la religione di stato, trasferì la capitale dell’impero a Bisanzio (intorno a questo fatto la chiesa latina deciderà poi di elaborare il famoso falso della Donazione di Costantino, a titolo per così dire di “risarcimento”: falso in cui si credette sino all’Umanesimo).

Ma forse il momento in cui le differenze si sono maggiormente accentuate è stato quando l’imperatore Teodosio decise di fare del cristianesimo l’unica legittima religione di stato. Questa decisione, nella parte occidentale dell’impero, priva com’era della presenza “fisica” dell’imperatore, ebbe un’importanza decisiva ai fini dell’organizzazione del potere politico da parte della chiesa romana, che si servì immediatamente di varie tribù barbariche per affermare il proprio dominio universale.

E’ stato proprio l’uso del potere politico, finalizzato a un obiettivo egemonico, che ha indotto la chiesa latina ad allontanarsi progressivamente da quella greca (la rottura definitiva, mai più sanata sul piano teologico, è avvenuta nel 1054). Viceversa, la chiesa bizantina non è quasi mai stata caratterizzata dalla volontà di usare un potere politico contro l’autorità imperiale: spesso, anzi, nella storia dell’impero bizantino, la si è vista contestare le pretese imperiali di dominio o d’ingerenza negli affari ecclesiastici, non tanto per rivendicare un proprio potere politico (concorrenziale a quello dell’impero), quanto per affermare determinate posizioni di principio (come ad es. nella questione iconoclastica o durante le dispute teologiche sulla natura del Cristo).

Naturalmente, con questo non si vuol dire che la rivendicazione del potere politico, da parte della chiesa latina, sia stata di per sé un fattore negativo (poiché la politica può anche essere usata per un fine di liberazione, come dimostra la recente teologia sudamericana); ma, senza dubbio, tale rivendicazione è diventata un fattore negativo nel momento stesso in cui si voleva imporre una determinata ideologia ed affermare un potere egemonico di classe o di casta.

Ponendo in essere l’esigenza della politica, il cattolicesimo, se vogliamo, ebbe anche la possibilità di riavvicinarsi maggiormente al modello originario del Cristo, che sicuramente non disprezzava la politica quale mezzo di trasformazione sociale; solo che l’intellighenzia cattolica medievale si è servita della politica per giustificare non l’esigenza di rapporti sociali umani, ma la realtà di quelli servili (cui la chiesa era particolarmente interessata perché essa stessa forza produttiva ed economica), al punto che ha fatto del servaggio feudale (questo nell’Aquinate è assai evidente) la “ragion d’essere” dell’esistenza del contadino-credente, e non soltanto -come per lo schiavismo- una condizione “infelice” da sopportare stoicamente in attesa della “retribuzione ultraterrena”.

Quale istituzione eminentemente politica, la chiesa romana ha valorizzato maggiormente i princìpi dell’obbedienza, dell’autorità, della gerarchia… rispetto a quelli ortodossi della comunione e della collegialità: alla “forza dell’esempio” ha preferito l’”esempio della forza”. I princìpi cattolici, che minarono l’idea della fratellanza e dell’uguaglianza, elaborata dal cristianesimo primitivo, hanno aperto la strada all’individualismo, che è il terreno propizio all’affermazione della mentalità borghese. In questo senso, la differenza che si pone tra l’individualismo cattolico e quello protestante sta unicamente nel fatto che il primo riguarda solo gli individui di potere (ovvero la gerarchia, che per garantirlo, si serve di un forte apparato burocratico-amministrativo e di controllo), mentre il secondo riguarda tutti i credenti, i quali possono così sperimentare – nell’ambito dell’individualismo – una maggiore uguaglianza (non a caso il protestantesimo ha affermato i princìpi del “sacerdozio universale” e del “libero esame”, mentre i cattolici hanno preferito quelli dell’infallibilità pontificia o dell’immacolata concezione).

E’ dunque nei limiti del cattolicesimo medievale che va ricercata la causa sovrastrutturale che ha generato (indirettamente) lo sviluppo della mentalità borghese dell’epoca moderna. Nonostante che in Europa orientale (area bizantina) la politica imperiale fosse più autonoma dall’influenza della religione ortodossa (si pensi ai concetti di “diarchia” o di “sinfonia”, che la storiografia occidentale ha sempre voluto qualificare col termine di “cesaropapismo”), la rivoluzione borghese è invece avvenuta in Occidente.

Questo significa che il cittadino ortodosso si sentiva, in coscienza, più legato alla propria religione di quanto non lo fosse il cittadino cattolico nei confronti della propria. Come spiegare altrimenti il fatto che l’Europa orientale, pur avendo anch’essa avuto un sistema feudale, non è mai stata caratterizzata (almeno sino alla fine del secolo scorso) dalle profonde contraddizioni che tale sistema ha comportato in Europa occidentale? Come spiegare il fatto che nell’Europa orientale si sono conservate molte più esperienze agricolo-comunitarie che nell’area occidentale, al punto che agli inizi del secolo vi erano ancora correnti politiche convinte di poterle riformare per opporsi efficacemente alla penetrazione di elementi capitalistici?

La mentalità borghese è appunto nata perché una religione imposta colla forza ha meno presa di una che per affermarsi si serve (anche) di esempi di santità personale, di coerenza etico-religiosa, di valori fondamentali… E’ forse un caso strano che gli ortodossi abbiano sempre preferito sopportare l’occupazione turca piuttosto che l’invasione latina? O che non abbiano mai sperimentato, all’interno della loro confessione, le terribili guerre di religione che sconvolsero l’Occidente per interi secoli?

Certo, qui non si vuole idealizzare la confessione ortodossa, si vuol soltanto mettere in evidenza che il “tradimento” ortodosso dei princìpi del Cristo ha determinato conseguenze meno drammatiche di quello del cattolicesimo. Per gli ortodossi -già lo si è detto- gli ideali del Cristo non potevano realizzarsi in sede politica, ma solo nel rapporto comunitario, cioè nell’ambito della chiesa locale, a livello rituale, sacramentale, interpersonale… Il cattolicesimo seppe sì riscoprire l’importanza dello strumento della politica, ma finì col servirsene per scopi tutt’altro che umanitari.

Per una filosofia della storia (I)

Perché la rivoluzione borghese in Europa occidentale?

Uno dei grandi problemi che la scienza storica deve ancora spiegare, in maniera esauriente, è il motivo per cui i rapporti borghesi e il modo di produzione capitalistico si sono sviluppati non nella ricca e avanzata civiltà bizantina (rimasta tale almeno sino alle crociate e all’invasione turca), ma nell’Europa occidentale, che dalla caduta dell’impero romano fino al mille conobbe una notevole arretratezza economica e tecnologica. Questione che, sul piano più generale, non contestuale, si potrebbe anche porre nei termini seguenti: come mai, a parità di condizioni economiche, in una società si forma la produzione borghese-capitalistica e in un’altra no? Cos’è che impedisce agli uomini di compiere questa transizione sociale? Cos’è invece che la promuove?

Una risposta – ancora tutta da verificare – potrebbe essere questa: in Occidente esistevano, a livello sovrastrutturale, condizioni più favorevoli all’affermarsi della società e della mentalità borghese. Il che sta a significare che la questione andrebbe affrontata in maniera da considerare le determinazioni ideologiche della coscienza sociale come relativamente prioritarie rispetto a quelle strutturali dell’economia. D’altra parte è noto che l’economia non può determinare, tout-court, la coscienza sociale, altrimenti non vi sarebbe alcun progresso storico, né si potrebbe mai realizzare il socialismo. Il marxismo parla di “influenza reciproca”, di “condizionamento interdipendente” e considera determinante la struttura solo “in ultima istanza”. Qui dobbiamo considerare il fatto che quando la coscienza sociale delle contraddizioni di un sistema, è ben radicata nel contesto della società, essa tende a trasformarsi in una forza strutturale non meno tenace della forza dell’economia.

Gli antecedenti culturali della borghesia

La rivoluzione borghese – questa potrebbe essere la tesi – è avvenuta nell’Occidente europeo perché qui la chiesa cattolica aveva spezzato i vincoli che la legavano alla chiesa ortodossa, dando il via alla concezione laicista e individualista dell’esistenza (in forma embrionale e inconscia). Detto altrimenti: la religione cattolico-romana, pur essendo fondamentalmente una confessione “medievale”, ha (quasi) sempre avuto in sé (prima ancora della svolta costantiniana) degli elementi (tuttora da ricercare) che potevano essere svolti in direzione della mentalità borghese. In questo senso bisognerebbe ripercorrere almeno l’itinerario che va da Agostino d’Ippona a Tommaso d’Aquino.

Tale religione, in sostanza, avrebbe contribuito – naturalmente senza volerlo – alla formazione dello spirito borghese, che poi è quello che permette a una determinata economia di assumere una direzione ben specifica. In seguito, cioè a conclusione dell’epoca medievale, il protestantesimo si assunse il compito di laicizzare ulteriormente il cattolicesimo, preparando il terreno culturale per lo sviluppo coerente e conseguente della prassi borghese.

Fino ad oggi la storiografia, sul piano sovrastrutturale, ha studiato, fra l’altro, gli elementi borghesi del protestantesimo, sia secondo la teoria marxista del “riflesso”, per cui il protestantesimo non ha fatto altro che legittimare i rapporti economici capitalistici; sia secondo la teoria sociologica di Weber, per il quale il capitalismo è piuttosto un prodotto del protestantesimo (o per lo meno quest’ultimo sarebbe stato la forza propulsiva che avrebbe contribuito in maniera decisiva, sul piano ideologico, alla formazione del capitalismo). Ancora però la storiografia non ha studiato in che modo il cattolicesimo (dei primi 1500 anni della nostra era) poteva condurre (indirettamente) alla mentalità borghese e quindi al protestantesimo. Il quale, se vogliamo, non è stato soltanto una reazione al cattolicesimo, ma anche uno svolgimento necessario della stessa mentalità borghese, che da tempo lo precedeva (come minimo dal Mille).

Cultura Mentalità e Metodo storico (II)

L’antropologia storica deve sviluppare le acquisizioni di quella storiografia scientifica che ha voluto dare concretezza alla storiografia politica, aggiungendovi gli aspetti socioeconomici. Deve svilupparle in direzione dei processi culturali, psicologici, psico-sociali, insomma umani.

La fusione della storia con la sociologia e l’economia politica ha comportato una sorta di spersonalizzazione dei processi storici. Il primato concesso all’oggettività delle forze produttive ha racchiuso i rapporti produttivi entro una cornice prevalentemente economica, trascurando gli aspetti sovrastrutturali.

La tesi secondo cui l’essere materiale determina sic et simpliciter la coscienza umana ha avuto per effetto che la coscienza degli uomini è quasi totalmente scomparsa dalle indagini degli storici.

Anzitutto sarebbe meglio sostenere che è l’essere sociale a determinare la coscienza individuale, intendendo per “sociale” qualcosa che include anche l’economico ma non solo questo aspetto produttivo.

In secondo luogo sarebbe meglio precisare che il condizionamento è sempre relativo, in quanto la coscienza umana può anche prendere decisioni difformi dall’essere sociale che la condiziona, altrimenti non vi sarebbe dialettica nella storia, ma solo ripetizione obbligatoria di regole precostituite.

Michel Vovelle ha sempre rifiutato di considerare gli aspetti socioeconomici come esclusivi dello storico marxista e si dichiarava molto interessato anche ai processi relativi alla formazione e allo sviluppo della “mentalità”.

In effetti è divenuto ormai un dato acquisito della storiografia più avanzata l’idea che per comprendere il comportamento umano è necessario conoscere non soltanto le condizioni materiali ad esso esterne, ma anche le forme immateriali della coscienza, della mentalità, della cultura.

In particolare è molto utile stabilire una differenza tra i prerequisiti o premesse “potenziali” del comportamento sociale degli uomini (intendendo con ciò anche gli stimoli provenienti dal mondo esterno) e le cause “fattive” degli eventi, cioè le condizioni oggettive che ad un certo punto determinano gli stili di vita, le scelte esistenziali, in quanto gli stimoli, le opportunità sono divenute fatti concreti della coscienza umana, avendo attraversato i filtri e i meccanismi psichici di trasformazione.

Tuttavia, è anche vero che spesso per motivi di forza maggiore, indipendentemente dalla propria volontà, ci si trova a vivere in una determinata maniera piuttosto che in un’altra. Spesso addirittura gli scopi che gli uomini si prefiggono possono essere falsi oppure i risultati che si ottengono, perseguendoli, possono essere opposti a quelli preventivati. Il concetto di “ironia della storia” è ben noto a tutti gli storiografi.

E’ bene comunque che lo storico faccia di tutto per individuare il carattere alternativo delle vie dello sviluppo storico, al fine di ridurre al minimo la legge della necessità storica.

La necessità è la conseguenza di una realtà scelta. La scelta può essere diretta (personale) o indiretta (impersonale, cioè voluta da altri).

Le leggi della storia non possono essere feticizzate; se la realtà storica viene eccessivamente semplificata, la si falsifica. Occorre una tendenza integrazionista, olistica, delle varie discipline specialistiche: anche perché gli storici dell’economia o della letteratura o delle arti studiano in fondo gli stessi soggetti.

La storia deve essere “totale”, dove la pietra angolare per la comprensione di ogni singolo aspetto è data dalla coscienza umana. Il materiale e l’immateriale devono acquisire pari dignità.

Una “scienza dell’uomo e per l’uomo” non può essere “scientifica” come una scienza esatta. Nella storia interagiscono dialetticamente libertà e necessità. I processi non possono essere rappresentati come sub specie necessitatis.

Alla pigrizia mentale del ricercatore può far comodo agire secondo la categoria della necessità (che spesso, erroneamente, viene fatta coincidere con quella fatalistica della “inevitabilità”). La necessità è un condizionamento oggettivo di cui bisogna tener conto, prima di poter prendere una decisione.

L’inevitabilità è una sorta di condanna, un peso superiore alle proprie forze, che schiaccia inesorabilmente la propria libertà di scelta. L’inevitabilità non offre alternative. La necessità invece è solo un condizionamento, anche forte, di cui bisogna tener conto, di cui sarebbe irresponsabile non prendere atto. Essa non esclude di per sé la possibilità di vie alternative allo sviluppo storico.

Anzi è un preciso compito dello storico abituare il lettore a capire che i processi non sono unilaterali, univoci, ma sempre frutto di libertà di scelta, in cui pesano determinati condizionamenti, i quali possono portare a scelte sbagliate o a conseguenze impreviste, pur in presenza di scelte giuste, semplicemente perché si era sottovalutato il peso, l’influenza di quei condizionamenti.

Questo poi senza considerare che in genere i processi storici, quando non si è in presenza di rivoluzioni traumatiche, avvengono in maniera graduale, quasi impercettibile, semplicemente per progressive determinazioni quantitative, informali, anche se ad un certo punto appare la necessità di dover prendere delle decisioni, in quanto quelle successive determinazioni quantitative, di forma, tendono a mutarsi in qualcosa di qualitativamente diverso, di sostanzialmente nuovo, inedito.

A quel punto occorre agire subito, sperando che la scelta sia la meno dolorosa possibile, anche perché più si agisce in ritardo e più la scelta sarà dolorosa. Una decisione deve comunque essere presa. Se il Dictatus papae di Gregorio VII fosse stato respinto dalla maggioranza dei vescovi o da una rimostranza popolare, non sarebbe nata con lui la teocrazia papale.

Nella storia solo alcune possibilità si realizzano, altre vengono negate, ma se quelle che si realizzano non hanno caratteristiche autenticamente umane o conformi a natura, quelle negate si ripresentano, ovviamente in forme nuove, relative al mutare dei tempi.

Tutta la critica al cattolicesimo-romano, a partire dai movimenti ereticali pauperistici, che la chiesa represse duramente, è stata ereditata, mutandone ovviamente forme e contenuti, dalla nascita del pensiero laico, agnostico e ateistico, del mondo moderno.

Occorre che gli storici si concentrino soprattutto sulle fasi di transizione da una civiltà o da una formazione sociale a un’altra, e che individuino di queste fasi gli sviluppi culturali della mentalità che, insieme alle condizioni materiali dell’economia, hanno promosso tali fasi.

Le tradizioni infatti possono essere violate sia in senso negativo che in senso positivo. La chiesa romana p.es. violò negativamente la tradizione ortodossa espressa nei primi mille anni di storia del cristianesimo. Ma il socialismo violò positivamente la tradizione millenaria che la chiesa romana espresse dopo il 1054.

Non si possono prendere le cose come un “fatto compiuto”. Dietro questi fatti vi sono tensioni e contrasti che possono trascinarsi anche per secoli. Dal Filioque allo scisma del 1054 passarono tre secoli.

Poi non bisogna dimenticare che in tali fasi di transizione, alcuni personaggi storici incarnano meglio di altri l’essenza dei contrasti fondamentali. Pertanto le loro opere devono essere oggetto di un esame particolare, approfondito. Per comprendere la nascita dell’epoca moderna non basta leggersi il Capitale di Marx, occorrono anche le opere di Lutero e di Calvino.

Se Marx fosse stato supportato da un’équipe di studiosi, queste cose sarebbero venute fuori da sé, cioè non sarebbero rimaste a livello di semplici intuizioni o di affermazioni estemporanee.

Tuttavia il fatto che esistano personaggi storici in grado di rappresentare, da soli, l’essenza dei problemi cruciali di un determinato periodo non deve farci dimenticare che le idee, di per sé, non sono nulla se non entrano nella coscienza delle masse, e se queste non decidono di metterle in pratica o non accettano che vengano praticate.

In ultima istanza infatti sono le masse che fanno la storia, non tanto gli individui singoli. Le idee personali diventano una forza tanto più materiale quanto più sono condivise. E’ sempre necessaria quindi una loro semplificazione, una forma didattica, pedagogica della loro trasmissione al popolo, nell’uso di tutti i mezzi disponibili.

Questo per dire che spesso nella storia hanno più peso le opinioni inespresse delle masse che non quelle espresse dagli intellettuali. Le produzioni culturali destinate a rimanere nel tempo, anche se sul piano stilistico-formale non sono le migliori, sono sempre quelle collettive, cioè quelle verificate dagli stessi fruitori, che con la loro creatività, inventiva, critica, hanno contribuito a precisarne i contenuti. I vangeli ne sono un chiaro esempio. Nonostante le loro falsificazioni, restano un documento di grande valore letterario. Ma anche oggi il software “open source” è considerato migliore di quello coi sorgenti criptati.

Questo peraltro significa anche che lo storico deve necessariamente attribuire una certa “dignità” anche alla produzione culturale che ufficialmente viene considerata “minore”. P. es. la letteratura del Risorgimento italiano è quasi inesistente nei manuali scolastici di storia della letteratura.

Chiediamoci: fra mille anni uno storico riuscirà a interpretare più facilmente il nostro periodo attraverso le news dei telegiornali o attraverso i verbali dei processi civili e penali? Noi sappiamo che quanto più una notizia è ufficiale, di dominio pubblico, espressione dei poteri dominanti, tanto meno è attendibile, veridica, verificabile.

Bisogna che gli storici siano molto più sospettosi nei confronti delle dichiarazioni dirette, esplicite, degli uomini di potere, e si affidino maggiormente alle testimonianze indirette, alle opinioni espresse involontariamente, o anche ai racconti cosiddetti “controcorrente”. Sarebbe p.es. ingenuo cercare di capire l’evoluzione dei dogmi della chiesa romana prendendo in esame i dogmi stessi.

Bisogna sempre fare una precisa distinzione tra istituzioni e masse popolari, tra poteri dominanti e senso comune. Ciò è ancor più necessario quando si esaminano ideologie che favoriscono il dualismo di teoria e pratica, come appunto quelle cattolico-romana e protestante, ma anche quelle stalinista e maoista. E nella affermazione e diffusione del dualismo gli intellettuali sono sicuramente, rispetto alla gente comune, maestri insuperabili.

Cultura Mentalità e Metodo storico (I)

L'”histoire des mentalités” è nata presso la “nouvelle science historique” francese. La “mentalità” era un concetto che Lucien Febvre e Marc Bloch avevano preso da Lévy-Bruhl, il quale aveva supposto l’esistenza d’un pensiero “prelogico” particolare negli uomini primitivi.

Tuttavia i due medievisti francesi applicarono il concetto agli umori, ai modi di pensare, alla psicologia collettiva delle popolazioni delle cosiddette “società calde”, che avevano raggiunto lo stadio della civiltà.

Il concetto di “mentalità” suppone infatti la presenza, presso un collettivo avente una medesima cultura, di certi mezzi intellettuali o psicologici coi quali percepire e comprendere tutta la realtà sociale e naturale, e questo in maniera sufficientemente ordinata.

Uno dei compiti principali dell’antropologia storica è quello di individuare, nei processi oggettivi, materiali, di una formazione sociale, quegli aspetti soggettivi che costituiscono il contenuto della coscienza di un collettivo, che porta quest’ultimo ad assumere un certo stile di vita e a fare determinati ragionamenti.

Nell’analisi storica gli aspetti psicologici e culturali rivestono molta più importanza che nel passato, anche perché un affronto meramente sociologico dei fenomeni storici finisce col dare una descrizione sommaria dei macroprocessi, sulla base di modelli euristici molto generali e quindi inevitabilmente astratti.

Il pensiero storico infatti resta spesso prigioniero dei principi espressi dalla storiografia positivista del XIX secolo e degli inizi del XX.

Nella sua Introduzione alla storia scriveva Louis Halphen: “quando i documenti sono muti, la storia tace; quando semplificano le cose, anche la storia le semplifica; quando invece le distorcono, anche la storia lo fa”. Ecco perché Charles Seignobos diceva che lo storico deve accumulare quanti più fatti possibile, metterli a confronto tra loro, come fosse un rigattiere, dopodiché gli sarà relativamente facile scoprire quelle leggi storiche che, pur essendo nascoste, li tengono uniti.

Era il trionfo della “storia quantitativa”. La verità è nascosta nei testi, quindi – diceva Fustel de Coulange – “solo testi, sempre testi, nient’altro che testi”. Empirismo e accumulazione dei fatti: l’ermeneutica, per scoprire il loro senso implicito, veniva dopo.

Tuttavia questa metodologia non arrivò mai a scoprire un senso profondo dei fatti. L’approccio era troppo sociologico-quantitativo per poter arrivare a capire che la concezione della storia di una determinata civiltà costituiva la consapevolezza ch’essa aveva di se stessa.

I positivisti vedevano il passato come passato. Huizinga invece cominciò a chiedersi come costruire un dialogo fecondo tra passato e presente, in modo che il passato abbia da dire qualcosa di utile al presente.

E si tratta spesso, in effetti, di un dialogo tra due culture diverse, se non opposte. Non è possibile comprendere una cultura spogliandosi completamente della propria. Bisogna anzi avere consapevolezza della propria diversità.

M. M. Bachtin diceva chiaramente che nel dialogo con una cultura diversa una determinata cultura comprende meglio se stessa. Le due culture non hanno bisogno di fondersi o di annullarsi reciprocamente: ciascuna può conservare la propria integrità, uscendone dal confronto molto più arricchita. L’importante è riconoscersi nel proprio rispettivo valore. Una posizione, questa, del tutto opposta a quella di Spengler, che rappresentava le culture come monadi chiuse, reciprocamente impenetrabili.

Tuttavia, il dialogo tra passato e presente non si svolge solo nel senso che il presente pone domande al passato. Bachtin si era per così dire limitato a sostenere che il presente può porre al passato delle domande che neppure il passato era stato in grado di porsi, sicché il passato può essere interpretato meglio di quanto esso stesso potesse fare.

In realtà oggi dovremmo dire che il presente non ha alcun diritto di negare al passato la facoltà di porre delle domande al presente stesso, domande proprie, che il nostro presente non ama porsi o addirittura non sa più porsi.

Il dialogo non serve soltanto per capire meglio il passato. Il dialogo dovrebbe servire per comprendere che il passato può contenere aspetti decisivi per vivere meglio il presente, che il presente stesso non è in grado di darsi, perché strutturalmente o comunque tendenzialmente orientato a distruggerli, a censurarli o, se si preferisce, a dimenticarli, a trascurarli.

Se vogliamo, anche il futuro ci interroga, giacché noi, irresponsabilmente, pensiamo di poter lasciare il nostro presente, così com’è, alle generazioni future.

Il passato scuote la testa di fronte al nostro stile di vita: sa di non poterlo cambiare, ma il futuro ci attende al varco, perché non ci permetterà di continuare ad esistere così come siamo.

Ecco perché il dialogo tra culture diverse è sempre molto difficile e complesso, soprattutto se una nega i fondamenti dell’altra, il primo dei quali è il rispetto integrale della natura.

Quando una cultura (p.es. quella anglosassone) distrugge quasi completamente una cultura ad essa precedente (p.es. quella indiana nordamericana), la successiva comprensione della cultura semidistrutta non sarà in grado, inevitabilmente, di cogliere tutti gli aspetti sostanziali che la tenevano in piedi: qualcosa andrà perduto per sempre, qualcosa che avrebbe anche potuto far progredire enormemente la stessa cultura vittoriosa. Si pensi p.es. al terrazzamento agricolo-montano praticato dai Maya, distrutto dagli spagnoli.

Gran parte della conoscenza della natura che avevano le popolazioni americane, prima dell’arrivo degli europei, è andata irrimediabilmente perduta. In tal senso va del tutto esclusa la possibilità che una civiltà antagonistica abbia di conoscere una cultura comunitaria meglio di quanto questa non abbia potuto conoscere se stessa.

La cultura occidentale deve togliersi dalla testa la possibilità di poter interpretare adeguatamente qualunque cultura, solo perché presume di possedere una scienza e una tecnica senza precedenti storici.

La vera scienza e la vera tecnica sono soltanto quelle conformi alle esigenze riproduttive della natura. La cultura occidentale dovrebbe anzi chiedersi se la sua profonda diversità rispetto a tutte le altre culture che l’hanno preceduta non sia il sintomo di una grave malattia mortale.

Tutta la cultura medievale è rimasta estranea agli intellettuali del Rinascimento e dell’Illuminismo, mentre i romantici si sono limitati a riscoprirla in chiave appunto “romantica”, cioè mistico-poetica, estetico-romanzata, senza capire assolutamente nulla del rapporto contadino/feudo, comunità di villaggio/autoconsumo, natura/agricoltura ecc.

Tutta la cultura moderna europea, nei suoi primi secoli, vedeva nella scultura gotica solo delle copie sbiadite della scultura antica; si interpretavano addirittura i calendari scolpiti nelle cattedrali come una rappresentazione delle dodici fatiche di Ercole, mentre i bassorilievi consacrati a Saint Denis apparivano alla stregua di baccanali.

La cultura medievale veniva completamente rifiutata e molti suoi monumenti furono distrutti senza tante remore, esattamente come la stessa cattolicità fece nei confronti dei monumenti pagani.

Sotto questo aspetto ogni ricostruzione totale dell’universo spirituale delle culture che sono andate distrutte incontra difficoltà insormontabili: ogni riedificazione del passato non è che una moderna reinterpretazione.

Noi possiamo soltanto sapere a posteriori quanto sia approssimativa la nostra interpretazione, e lo dimostriamo dalle continue revisioni o almeno rettifiche che operiamo. E avremo continuamente bisogno di rivedere le nostre interpretazioni, almeno finché i fondamenti della nostra cultura non saranno sostanzialmente analoghi a quelli delle culture comunitarie rimosse.

In altre parole, finché non scopriremo il legame che tiene unite tutte le culture espresse dagli uomini e dalle donne di ogni tempo e luogo, le nostre aspirazioni alla verità storica saranno destinate a rimanere frustrate. E certamente non ci sarà “Ministero della verità”, di orwelliana memoria, in grado di soddisfarle.

I compiti della storiografia

Oggi solo una persona molto sprovveduta o politicamente molto conservatrice potrebbe sostenere che la laicità ha avuto origine quando si è cominciato a separare il diritto e la politica dalla morale.

E’ vero che il diritto e la politica han voluto separarsi da una morale religiosa che aveva fatto il suo tempo, ma sostenere che quel diritto e quella politica sono la quintessenza della laicità e della democrazia, senza specificare che si tratta pur sempre di laicità e democrazia “borghesi”, non ha senso.

Una politica o un diritto separati dalla morale e dalla società che nel suo complesso esprime quella morale, non possono che essere frutto di un arbitrio, ovvero l’espressione della volontà di dominio di una particolare ideologia, che vuole imporsi sulla collettività. Nessun uso scriteriato della morale può mai giustificare la sua totale rimozione dagli ambienti del potere istituzionale.

La classe sociale che ha voluto rimuovere la morale, la borghesia, l’ha fatto per avere mano libera nella sua affermazione sociale e per poter dominare indisturbata. Un diritto separato dalla morale, sotto il pretesto che questa è corrotta, è una forma di arbitrio peggiore del male (in questo caso la corruzione) che vuole combattere. Solo a un ceto sociale già separato dalla società poteva venire in mente di operare una separazione del genere. In questo la borghesia non ha fatto che emulare un altro ceto sociale, anch’esso separato dalla società: il clero.

La borghesia si è servita delle masse popolari per liberarsi dei rappresentanti della morale corrotta (nobiltà e clero), ma, una volta vinta la partita, ha fatto anche presto a liberarsi delle stesse masse popolari nella gestione del potere politico. Ecco perché una rivoluzione borghese è sempre una rivoluzione tradita.

Resta tuttavia da chiarire da dove abbiano desunto gli intellettuali borghesi che la morale poteva essere separata da tutto il resto. Se gli studi del marxismo hanno saputo svelare la mistificazione politica della democrazia borghese, mettendone bene in luce le insanabili contraddizioni socio-economiche, ancora però non sono state fatte delle analisi dettagliate sul rapporto di dipendenza culturale che lega l’ideologia borghese a quella cattolico-romana. Qui bisogna riprendere in mano i classici della Scolastica e cercare di capire dove si annidano le premesse teologiche delle aberrazioni filosofiche borghesi.

Il fatto che la borghesia si sia sempre opposta politicamente alla chiesa (seppur in forme favorevoli al compromesso, in quanto la borghesia non ha mai disdegnato di servirsi della religione come oppio per le masse), ha tratto in inganno (per così dire) molti storici, che non si sono mai concentrati sulla dipendenza culturale, ideologica, vissuta dalla borghesia, in forme ovviamente laicizzate, rispetto alla chiesa cattolica.

Gli stessi storici marxisti (ma anche Weber e gli altri storici illuminati della borghesia) han sempre preferito parlare di rapporti tra borghesia e protestantesimo, tralasciando quasi del tutto quelli tra borghesia e cattolicesimo (l’unica significativa eccezione è stata quella di Groethuysen).

E’ certamente vero che il protestantesimo rappresenta la religione della borghesia, ma è anche vero che non ci sarebbe stato protestantesimo senza cattolicesimo e dunque non ci sarebbe stata borghesia senza clero cattolico, né filosofia borghese senza Scolastica.

Feuerbach intuì perfettamente la dipendenza dell’idealismo tedesco dal protestantesimo e anche dal cattolicesimo romano, cioè intuì che la filosofia idealistica altro non era che una laicizzazione del cristianesimo, ma quella sua felice intuizione non ebbe poi un vero e proprio sviluppo storico-critico.

Questa lacuna storiografica è sostanzialmente dovuta al fatto che la concezione dominante della morale in Europa occidentale è sempre stata quella offerta dalla chiesa romana. Anche quando questa morale era profondamente corrotta, nessuno ha mai messo in dubbio che sul piano teorico, di principio, l’ideologia cattolico-romana rappresentasse il vertice della moralità possibile (o comunque si è sempre pensato che dovesse essere la chiesa romana deputata a rappresentare, almeno in sede teorica, i valori contenuti nei vangeli).

Certo, ci sono stati il protestantesimo, la filosofia borghese, il socialismo utopistico e scientifico, che hanno elaborato nuove concezioni morali dell’esistenza, ma gli storici continuano a considerare la morale cattolica come un terminus ad quem per il giudizio su qualunque altro tipo di morale.

Infatti si è sempre sostenuto che la moralità protestante è più individualista, più accomodante col capitalismo, più disposta al compromesso con la società borghese; che la morale filosofica è troppo astratta per competere con quella cattolica, che quella socialista è troppo di parte o troppo legata alla politica di classe per poter essere considerata universale, e così via.

Ci sono delle verità in questo atteggiamento. In effetti la ragione storica del protestantesimo sta in una contestazione contro la corruzione del cattolicesimo romano, ma non avendo il protestantesimo recuperato le vere origini del cristianesimo, esso alla fine ha prodotto una morale ancora più corrotta di quella cattolica.

Il socialismo dal canto suo non ha mai voluto ammettere la propria dipendenza dalla morale cattolica (nell’Europa occidentale) o da quella della chiesa ortodossa (nell’Europa orientale) e continuamente rischia di subordinare gli interessi della morale a quelli della politica.

Dunque, ciò su cui gli storici devono puntare l’attenzione è il rapporto tra chiesa ortodossa e chiesa romana, perché se riescono a capire i motivi profondi di quella rottura, riusciranno anche a capire il motivo per cui il protestantesimo poteva nascere solo in ambito cattolico e la filosofia borghese solo all’interno della Scolastica, e così via.

Il mondo ortodosso non ha mai conosciuto alcuna vera riforma protestante, né alcuna vera filosofia borghese e neppure alcuna vera rivoluzione borghese.

Oggi l’Europa protestante sta dominando quella cattolica, semplicemente perché la prassi borghese ha fatto piazza pulita di ogni forma di religione, cioè il capitalismo sta trionfando anche nei paesi cattolici semplicemente perché lo scontro non è più tra religioni contrapposte. Tuttavia le culture che quelle religioni esprimono in veste laicizzata devono essere studiate in rapporto alla religione per essere capite sino in fondo.

La rivoluzione politica ha bisogno di quella culturale, altrimenti la laicità resterà priva di contenuto.