PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (X)

Ma la critica al marxismo non si ferma qui. “Il totalitarismo, afferma de Benoist, è il prodotto dello spirito egualitario e, in particolare, dello spirito economico che ne è il corollario obbligato”. Il culto dell’uguaglianza è figlio del culto dell’economia, ha detto C. Polin.

Il marxismo insomma è sotto accusa perchè riduce all’economia tutti i fenomeni e i processi del mondo, riduce l’uomo, che è un essere di cultura, a un “animale economico”. Si dirà: niente di nuovo sotto il sole. Da un un pezzo si sentono critiche del genere. E non potrebbe essere diversamente. Ogni nuova critica al materialismo storico e dialettico non è altro che una rielaborazione riveduta e corretta di critiche borghesi precedenti. Se questi “filosofi” studiassero seriamente il marxismo, si accorgerebbero che in nessuna opera vi sono affermazioni secondo cui le condizioni economiche costituiscono l’elemento determinante di tutti i fenomeni sociali. La concezione materialistica della storia parte soltanto dall’idea che il modo di produzione della vita reale condiziona il processo della vita sociale, culturale e politica.

Engels, in alcune lettere degli anni ’90, dimostrò chiaramente quale ruolo avevano i fattori extra-economici nel processo storico. “La situazione economica è la base, ma anche tutto il resto -egli scrisse- esercita la sua azione sul corso delle lotte storiche e, in molti casi, ne determina in maniera preponderante la forma”. Vi è insomma anche qui una sorta di interazione, all’interno della quale i fattori economici costituiscono una determinante solo in ultima istanza. Sono proprio questi fattori che rendono più importanti taluni aspetti sociali in luogo di altri.

La ND predica la renaissance della cultura europea, ma nega l’unità della storia mondiale, la quale, più di ogni altra cosa, attesta che in tutte le culture dell’uomo vi sono determinati elementi comuni (quella borghese, che è presente in tutti i paesi capitalistici, ne possiede moltissimi).

Ma la filosofia marxista evidenzia anche la diversità nella storia mondiale. In virtù delle specifiche caratteristiche di ogni paese e regione, le leggi generali del processo storico vi si manifestano in diversi modi. Pur in presenza di analoghi rapporti di produzione, la diversità dei fenomeni sociali è infinita.

Al contrario, la ND nega non soltanto l’unità della storia, ma anche l’orientamento della sua evoluzione. A. de Benoist considera la storia un non sens, in quanto delle due concezioni europee dello sviluppo storico, lineare e ciclica, la prima, che mira a evidenziare la direzione del movimento storico mondiale, rappresenta secondo lui una violazione della libertà di scelta dell’uomo.

Ecco qui delineata la classica concezione borghese della libertà: nessuna decisione a vivere il meglio per tutti, conforme alle vere esigenze degli uomini, ma pura e semplice possibilità di scelta. Una libertà, come si può vedere, che vuole essere libera sia dalla natura che dalla società: una libertà in sostanza che non esiste. A. de Benoist colloca nella teoria lineare, che egli giudica “fatalista”, anche il marxismo, il quale, secondo lui, non terrebbe in alcun conto il ruolo della contingenza nella storia.

A. de Benoist e soci hanno praticamente ricondotto la teoria marxista dell’evoluzione sociale a una categoria delle dottrine finalistiche. Engels, tuttavia, scrisse a questo proposito: “Non più della conoscenza, la storia non può trovare un fine perfetto in uno Stato ideale perfetto dell’umanità; una società perfetta, uno Stato perfetto sono cose che esistono solo nell’immaginazione; viceversa, tutte le condizioni storiche succedutesi non sono che tappe transitorie nello sviluppo senza fine della società umana che va dall’inferiore al superiore”.

Da questa angolatura risulta evidente che solo la conoscenza delle leggi dello sviluppo della natura e della società, solo la loro intelligente applicazione pratica rendono l’uomo veramente libero. Lenin, criticando i populisti che, come la ND, ritenevano il determinismo dei fenomeni sociali ostile alla libertà dell’individuo, scrisse: “L’idea del determinismo, che stabilisce la necessità delle azioni umane e che rifiuta l’assurda favola del libero arbitrio, non abolisce affatto la ragione né la coscienza dell’uomo, né la valutazione delle sue azioni”. Dunque, l’oggettività determina le azioni del soggetto, ma quest’ultimo, a sua volta, agisce sul corso dei processi oggettivi.

Necessità e contingenza non possono essere separate. A certe condizioni la necessità può mutarsi in contingenza e viceversa. Chi spera di poter avere a disposizione un dogma col quale interpretare, comodamente seduto in poltrona, tutti i fenomeni storici e sociali, passati e presenti, perde il suo tempo.

Marx ha scritto che “sarebbe evidentemente molto facile fare la storia impegnandosi a lottare con possibilità favorevoli al 100%. Una storia di questo genere però, ove i rischi non giocano alcun ruolo, avrebbe un carattere assai mistico. I casi fortuiti rientrano nel processo generale dell’evoluzione e si trovano compensati da altri casi fortuiti. E tuttavia l’accelerazione o il rallentamento del movimento dipendono da simili inconvenienti”.

La filosofia marxista non ama separare il passato dal presente e dal futuro. Al contrario, il marxismo sostiene che ogni epoca dello sviluppo dell’umanità viene preparata da quella precedente. Proprio l’analisi scientifica di questo stato di cose ha permesso a Marx di elaborare la teoria delle formazioni economico sociali.

Le simpatie di A de Benoist vanno ovviamente per la concezione ciclica, secondo cui la storia non ha né inizio né fine, essendo semplicemente il teatro di un certo numero di ripetizioni analogiche.

Condividendo la tesi dell’idealismo soggettivo, i seguaci della ND si immaginano tutto il processo storico come un flusso irrazionale di avvenimenti slegati fra loro.

La libertà tanto declamata è soltanto la “libertà da ogni responsabilità” per il destino degli uomini. La ripetizione analogica (vedi l’irrazionalista Kierkegaard) è assunta come un pretesto per il proprio disimpegno, come un alibi del proprio conservatorismo.

Da questo punto di vista la répétition trova la sua ragion d’essere. Le idee di questi intellettuali non riflettono soltanto la profondità della crisi spirituale della società capitalistica, ma rappresentano anche un tentativo di giustificare una concezione del mondo unilaterale e autoritaria.

La filosofia della nouvelle droite risponde dunque agli interessi dell’ala più reazionaria della borghesia. E’ davvero singolare che proprio mentre s’impone con vigore l’esigenza di superare le differenze di razza e nazionalità, vi siano correnti filosofiche che teorizzano una direzione opposta, cioè l’affermazione di un libero arbitrio à tout prix.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (IX)

Un movimento ideologico detto della Nouvelle Droite (ND) apparve in Francia a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. I membri del groupement che si venne a costituire (GRECE) si posero l’obiettivo di “resuscitare” la cultura europea. Filosofi, sociologi, giornalisti, medici, pittori, presero parte attiva ai lavori di questo nuovo movimento.

Naturalmente il GRECE rifiutava l’appellativo di nouvelle droite e si dichiarava aperto sostenitore di idee democratiche e progressiste. In realtà il carattere razzista e sciovinista della sua ideologia era ben evidente sin dagli esordi. Se ne era accorto anche il filosofo cattolico G. Hourdin, che ha paragonato quegli ideologi ai nazisti.

Lo stesso Alain de Benoist, uno dei capifila del GRECE, dichiarò che il loro scopo principale era quello di lottare contro il marxismo. E Raymond Aron, il cui parere fino a qualche tempo fa aveva ancora in Francia un certo peso, ha scritto che la ND aveva intenzione di “togliere alla gauche marxiste il monopolio del discorso politico”.

Oggi la fondazione è riuscita a penetrare negli strati più conservatori della società francese e, attraverso i media, si sta diffondendo fra le masse, trasformandosi in una solida base ideologica della moderna società borghese. Il tentativo è quello di integrarsi col movimento neoconservatore internazionale, ostile non solo al marxismo ma anche al liberalismo e a qualunque corrente progressista.

Oltre a de Benoist, fanno parte della ND, Ch. Bressoles, H. Gobard, R. de Herte, P. Vial, M. Marmin e altri. La ND e i nouveaux philosophes sono apparsi contemporaneamente in Francia subito dopo gli avvenimenti del ’68, ma mentre i secondi vi presero parte attiva, i primi assolutamente no.

Tuttavia la critica antisistema della nouvelle philosophie era troppo astratta perchè pescasse nel vero, e la ND ne ha approfittato. Secondo de Benoist, infatti, non ha senso criticare il potere in sé o definirlo come “il male” per antonomasia, in quanto nessuna società al mondo potrebbe fame a meno. Naturalmente de Benoist ha tutto l’interesse a qualificare i “nuovi filosofi” come una corrente di sinistra, ma chiunque si rende facilmente conto che le idee conservatrici degli uni e le idee anarchiche degli altri non superano i confini dell’ideologia borghese di destra.

In particolare, le tesi avanzate dalla ND rivestono un carattere eclettico assai pronunciato. Vi si mescolano e confondono concezioni che appartengono al biologista J. Monod, a filosofi e sociologi come M. Weber, V. Pareto, M. Scheler, F. Tonnies, F. Nietzsche, M. Heidegger, O. Spengler, ecc.

A sentir questi neoconservatori, le differenze dalla vieille droite sembrano essere sostanziali: totalitarismo, nazionalismo e provvidenzialismo vengono categoricamente respinti. Si plaude cioè al pluralismo tout azimuts. Senonché attacchi virulenti vengono scagliati persino contro i principi di liberté, égalité e fraternité proclamati dalla borghesia rivoluzionaria e difesi tradizionalmente dalle forze democratiche e di sinistra.

Proteggere l’eredità culturale europea per loro significa ritornare niente di meno che alle origini pre-giudaico-cristiane, ovvero alle fonti greco-latine e celtico-germaniche, liberandosi da ogni dogmatismo. E per far questo occorre, secondo loro, una teoria vasta e complessa, che tocchi tutti i campi della scienza e dell’agire umano.

Tuttavia questi eclettici si preoccupano di dimostrare l’ineguaglianza delle razze e degli uomini. E lo fanno soffermandosi sulle discussioni violente che nel Medioevo avevano diviso i nominalisti dai realisti. Com’è noto, i nominalisti riconoscevano il particolare e rifiutavano il generale, mentre i realisti erano su posizioni opposte, cioè idealistiche. Marx scrisse che il nominalismo costituì la “prima espressione del materialismo”.

Anche la ND difende le teorie nominalistiche, ovviamente non perché sì sente materialista, ma perché, a suo giudizio, il nominalismo nega l’uguaglianza delle cose e quindi è antitotalitario. Lo stesso Marx viene relegato fra i seguaci del realismo. “Nel Capitale, osserva de Benoist, le parole chiave usate da Marx (capitalismo, proletariato, operai, borghesia) hanno un valore quasi costante, metastorico, e giocano un ruolo paragonabile a quello degli universali nella scolastica”.

Questi idealisti non sospettano neanche lontanamente l’esistenza di una dialettica fra il particolare e il generale. Proprio come i realisti e i nominalisti medievali, tendono ad assolutizzare uno dei due elementi dopo averli separati. “Il particolare – diceva invece Lenin – non esiste che in questo legame che conduce al generale. E il generale non esiste che nel particolare, per il particolare. Ogni generale è (in un modo o nell’altro) particolare. Ogni particolare è una particella o un lato o un’essenza del generale. Il generale non include che approssimativamente tutti gli oggetti particolari. Ogni particolare entra solo parzialmente nel generale”.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (VIII)

All’inizio del XX secolo la storiografia francese prediligeva la storia politica, affrontando le questioni economiche in sezioni separate, poiché si pensava ch’esse non riguardassero la storia vera e propria. Gli storici francesi di allora non riuscivano a vedere la società come un insieme organico, i cui elementi, una volta separati, non devono far perdere al ricercatore la consapevolezza dell’insieme.

Indubbiamente la concezione di una “storia globale” acquista i suoi fondamenti teoretici e un contenuto storico concreto negli anni Trenta e in quelli seguenti, grazie ai lavori di Bloch, Febvre, Lefebvre, Braudel e altri storici delle “Annales”. Costoro non pretendevano affatto che col concetto di “storia globale” s’intendesse un “tutto su tutto”, come se fosse obbligatorio abbracciare l’universo intero per averne una visione “globale”.

E’ possibile vedere globalmente un aspetto o un problema particolare a condizione di non falsificare la vita di tutta la società, cioè a condizione di non spezzare l’unità e la continuità della storia. L’uomo non può essere suddiviso in politicus, oeconomicus, religiosus… La parola “globale” stava semplicemente ad indicare che la scienza storica deve affrontare la vita dell’uomo e della sua società nella sua totalità e complessità, senza tralasciare quegli aspetti che più difficilmente mutano col tempo e che più sembrano intralciare il movimento storico, come i processi tecnologici, le strutture demografiche e mentali ecc.

Per histoire globale Braudel intendeva una stratificazione della realtà storica in molteplici livelli, cioè la trasformazione della foto in un’immagine in rilievo. Per lui la società era un “grande insieme” composto di diversi insiemi, dei quali i più noti sono l’economico, il sociale, il politico e il culturale, ciascuno dei quali, a sua volta, si suddivide in altri sottoinsiemi, e così via.

“In questo schema -egli dice- la storia globale (o meglio globalizzante, poiché tende a esserlo senza mai poterlo diventare) è lo studio di almeno quattro sistemi considerati prima in se stessi, poi nelle loro relazioni”.

Oltre a ciò l’histoire globale è anche la consapevolezza che la dinamica dei livelli interconnessi della realtà storica procede non come un moto uniformemente accelerato in un’unica direzione, ma come un movimento irregolare, strettamente legato al tempo e alle diverse situazioni.

L’histoire nouvelle era giunta a tali conclusioni non solo per aver ereditato creativamente la lezione di storici e sociologi come Guizot, Durkheim, de Tocqueville, Vidal de la Blache, Mauss e altri, superando definitivamente il semplicismo e la frammentarietà della storia événementielle d’inizio secolo: ma vi era giunta anche per l’influenza che esercitava l’autorevole storiografia marxista. Lo dimostra il fatto stesso che l’histoire nouvelle ha abbandonato la storia degli eroi e degli avvenimenti sparsi, accettando quella delle masse e dei processi di lunga durata.

E’ stato proprio l’interesse per le masse popolari, stimolato dal marxismo, che ha attirato l’attenzione sulle loro condizioni materiali d’esistenza, sullo studio della storia socio-economica, che ha contribuito ad alimentare l’esigenza di una “teoria della storia globale”.

Ci sembra tuttavia che l’histoire nouvelle non abbia saputo trovare una soluzione convincente alla comprensione globale della società. Le sue concezioni generali  della storia spesso risultano eclettiche. Secondo i migliori rappresentanti di questa scuola, nella storia agiscono una moltitudine di forze e di fattori, capaci di passare l’uno nell’altro, senza che però si possa sapere quale sia, in ultima istanza, quello determinante.

Benché pongano l’accento sulle condizioni materiali e sull’economia, essi concepiscono la storia stessa della vita materiale come un aspetto a se stante, piuttosto empirico e poco legato ai fattori socio-politici e ai conflitti di classe. E’ sintomatico, ad es., che i rapporti degli uomini nel momento della produzione e i rapporti di proprietà vengano quasi completamente ignorati nelle loro trattazioni di storia economica.

Questi storici sembrano più essere legati a procedimenti di tipo struttural-funzionale che storico-genetico. Inoltre non parlano mai dei tradimenti storici della borghesia e preferiscono prendere in esame più il passato che il presente.

Solo verso la fine degli anni Settanta Braudel si convinse che la produzione giocava un ruolo fondamentale nella comprensione dei meccanismi storici. Fino ad allora egli aveva pensato che nella fondazione di un modello d’interpretazione storica, universalmente valido nello spazio e nel tempo, il momento della circolazione e dello scambio delle merci dovesse nettamente prevalere su quello della produzione.

Ma questa sua ammissione non è stata neppure presa in considerazione dall’ultima generazione delle “Annales”, che anzi decise, fatte salve le debite eccezioni, d’incamminarsi per una via completamente diversa, rispolverando classiche tesi regressive e concezioni storiche anteriori alla stessa nouvelle histoire.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (VII)

Verso la metà degli anni Settanta l’espressione histoire nouvelle è cominciata ad apparire nelle pubblicazioni francesi, ed ora in Francia quasi nessun storico dubita del fatto che con essa si volesse indicare una nuova scienza storica.

Analogamente all’americana new economic history o alla moderna linguistica di cui F. de Saussure è stato l’iniziatore, la si definisce “nuova” in questo senso, che pur basandosi su principi e metodi d’analisi storica elaborati nel corso dei secoli, essa si differenziava per molti aspetti dalla storiografia tradizionale.

L’histoire nouvelle è stato il fenomeno più importante della storiografia mondiale del XX sec. Essa ha avuto una storia per circa mezzo secolo e ha subìto una forte evoluzione. Iniziata alla fine degli anni Venti con la fondazione della rivista “Annales d’histoire économique et sociale” degli storici M. Bloch e L. Febvre, essa s’è prolungata con l’attività dell’eminente storico F. Braudel, il quale ha trasformato la scuola delle “Annales” nell’orientamento dominante della storiografia francese. Tuttavia verso la fine degli anni Sessanta cominciano a mutare non solo gli indirizzi di ricerca, ma anche l’interpretazione dello sviluppo della società e delle civiltà; vi sono regressi e abbandoni di molte conquiste positive.

Forse pochi sanno che oltre a questa scuola sono esistite altre scuole, di tutto rispetto, che si sono sviluppate autonomamente: la scuola storica marxista di P. Vilar, J. Bruhat, A. Soboul, C. Mazauric, C. Willard, M. Vovelle e altri, i quali hanno al loro attivo seri lavori di storia delle rivoluzioni, di storia socio-economica, di storia del movimento rivoluzionario e altro ancora.

Esiste anche l’école des Chartres di Parigi, cioè la scuola della critica delle fonti, i cui storici: Ch. Samaran, J. Favier e M. François hanno spesso trattato soggetti tradizionali di storia politica.

Le scuole più recenti sono quelle di storia delle relazioni internazionali, che raggruppa i discepoli di P. Renouvin; e quella che studia le strutture sociali e i movimenti popolari dei tempi moderni, capeggiata da R. Mousnier.

Tornando all’histoire nouvelle, bisogna dire che è impossibile trovare in questa scuola una concezione dello sviluppo storico e una metodologia di ricerca condivise da tutti i suoi appartenenti. Soprattutto va sottolineata la profonda differenza che esiste tra la cosiddetta “terza generazione” delle “Annales”, iniziata nel 1968-69, al momento della dipartita di Braudel, e le due precedenti, che vanno dai due fondatori Bloch-Febvre a Braudel appunto. Si potrebbe anzi dire che l’histoire nouvelle vera e propria sia terminata alla fine degli anni Sessanta, proseguendo quasi unicamente con le opere pubblicate da Braudel, morto nel 1985.

Nel complesso si può sostenere che l’histoire nouvelle abbia rappresentato la coscienza storica borghese del sec. XX. Come tale essa ha esercitato delle funzioni sociali chiaramente determinate: p.es. le “Annales” dell’immediato dopoguerra ebbero molto successo perché la Francia cercava una posizione culturale che fosse al tempo stesso autonoma dall’egemonia anglosassone e nettamente separata dal pcf.

Questa storiografia è stata in grado di interagire con le correnti più diverse del pensiero storico e con numerose discipline (economia, geografia, antropologia storica, psicologia ecc.), appropriandosi di metodologie e concezioni fra loro spesso divergenti: su di essa ad es. hanno esercitato una indubbia influenza lo strutturalismo, il positivismo, la psicanalisi di Freud, il marxismo, il neo-malthusianesimo ecc.

Nonostante questo è comunque possibile individuare alcuni aspetti dominanti riassumibili nella concezione della “storia globale”, nella categoria della “lunga durata”, nella nozione di “fatto storico”.

Alla fonte della concezione della “storia globale” si trovano gli influssi sia del marxismo, sia delle tradizioni storiografie francesi (Voltaire, Guizot, Michelet, Berr ecc.), sia delle scienze moderne della natura, specie la fisica quantistica, la biologia, l’ecologia, la teoria della relatività ecc.

L’idea della sistemicità, i rapporti fra sincronia e diacronia, il concetto di realtà spazio-temporale, le leggi della probabilità e della statistica, i legami della funzionalità, il ruolo della discontinuità ecc.: queste e altre nozioni sono entrate nella storiografia di questa scuola nel momento stesso in cui s’investigava la realtà storica e la pratica sociale, l’esistenza materiale, in cui si facevano le scoperte più importanti nei vari campi delle scienze esatte e naturali.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (VI)

L’idea di una “storia globale”, nell’ambito dell’histoire nouvelle francese, ha raggiunto i vertici del suo sviluppo negli anni Sessanta. Gli studi monografici condotti sulla base di questa idea sono stati largamente riconosciuti e i suoi promotori sono diventati i rappresentanti più significativi della scuola delle “Annales”.

Tuttavia, a partire dalla fine degli anni Sessanta alcuni ricercatori hanno cominciato a limitarsi ad accettare la concezione della globalità solo sul piano cognitivo, e non anche su quello metodologico, finché, col passare del tempo, sono giunti a dei mutamenti d’indirizzo anche nelle ricerche storiche vere e proprie.

La concezione della “storia globale” è stata messa in discussione proprio da coloro che, continuando a fare riferimento alla rivista delle “Annales”, si ritengono eredi della nouvelle histoire di Bloch, Febvre, Lefebvre e Braudel.

In realtà la terza generazione si dedica a un complesso di storie per le quali la globalità non è più un punto di partenza ma, nel migliore dei casi, un lontano orizzonte. Ci riferiamo a storici come Le Roy Ladurie, Furet, Richet, Roche ecc.

Per alcuni ricercatori la “storia globale” non è che un mito, una sorta di costruzione razionale aprioristica e non il risultato della conoscenza storica positiva. Besançon, p.es., scrive che gli storici della sua generazione si sono finalmente sbarazzati del miraggio della totalità storica. Furet è quasi dello stesso avviso: per lui la struttura d’una società globale non è che un postulato non legittimato dall’attuale storiografia.

Dunque, perché la concezione della “storia globale” non risponde più ai bisogni dell’histoire nouvelle e la scienza storica francese si trova di nuovo ad affrontare il problema della frammentarietà? Le risposte a tale domanda, dei vari Le Goff, Foucault, Revel, de Certeau, possono in sostanza ricondursi a una tesi comune: la concezione dell’oggetto dell’histoire nouvelle, l’acquisizione stessa del sapere storico è radicalmente mutata nel tempo.

In particolare Le Goff e Foucault fanno risalire l’ingombro della nozione stessa di “storia globale” ai limiti della continuità-concatenazione della storia stessa, che oggi non corrisponde più, secondo loro, ai canoni della scienza moderna, la quale evita categoricamente di porre l’uomo al centro della storia. Essi in sostanza affermano che Copernico, Darwin e Marx hanno reso praticamente impossibile qualunque tentativo di riportare l’uomo al centro dell’universo: hanno prodotto la discontinuità eliminando la rigida casualità.

In precedenza lo storico si liberava della discontinuità cercando la concatenazione elementare degli avvenimenti. Oggi invece la nouvelle histoire preferisce servirsi della discontinuità lasciandosi influenzare dalle scienze più disparate: psicanalisi, linguistica, etnologia…

Una storia globale non è dunque più possibile. Oggi lo storico mette in luce la diversità, le specifiche particolarità cronologiche, gli scarti e i dislivelli. Una storia in cui regna la discontinuità (che poi diventa, si badi, fine a se stessa), in cui l’uomo è dominato dai miti, dalle leggi del linguaggio ecc., è più inquietante e suggestiva di quella in cui le cause e gli effetti si susseguono univocamente. Entrando in contatto con questo tipo di storia, l’uomo moderno si sente più esitante, perde le sue certezze, però ha il vantaggio -dice Foucault- di un maggior realismo. Questa storia rinuncia ad essere l’ultimo rifugio del pensiero antropologico e diventa la vera antitesi della “storia globale”.

L’uomo non è più il personaggio centrale della storia. Scrive a questo proposito de Certeau: “La teoria, che ieri era orientata all’oggetto, retrocede oggi verso il linguaggio, la parola… Ed è un’illusione credere che la ricerca storica possa avere per risultato una riproduzione adeguata della realtà”.

La storiografia si ritrova così, come all’inizio del sec. XX, nel mondo dell’idealismo agnostico e soggettivo di Rickert, Dilthey e Russel; solo che di quell’idealismo non può più conservare l’ingenuità, in quanto la crisi delle “Annales” e di tutta la nouvelle histoire è strettamente legata al venir meno dell’impegno ideologico e politico, al non volersi confrontare col pensiero marxista e con la pratica del socialismo democratico.

In un certo senso il fallimento dell’utopia sessantottesca ha portato le “Annales” a rinnegare se stesse. Dalla fine degli anni Sessanta l’histoire nouvelle è diventata talmente “nouvelle” che Braudel ha dovuto abbandonarla completamente.

Bloch e Febvre avevano cercato di trasformare la storia in una scienza sociale, nel senso ch’essa doveva superare lo stadio del pensiero “individualizzante” ed entrare nel novero delle scienze “generalizzanti”. Conditio sine qua non per realizzare tale passaggio era il rifiuto categorico della scienza narrativa dei fenomeni singoli, ovvero della storia evenemenziale, in cui il concetto di “tempo storico” veniva concepito in maniera semplicistica e univoca, come una sorta di calendario uniforme, un asse predisposto sul quale gli storici si limitavano a infilare i fatti e gli avvenimenti del passato.

Con l’histoire nouvelle l’idea del tempo come “durata senza contenuto” era stata rimpiazzata dall’idea del “tempo sociale a contenuto determinato”, che è in sostanza l’idea della molteplicità dei tempi, dei diversi ritmi del tempo a seconda delle diverse realtà storiche, l’idea della discontinuità nello scorrere del tempo sociale.

Da Bloch a Braudel gli storici delle “Annales” hanno sempre avvertito forte la preoccupazione di fare della storia una scienza al pari delle altre scienze. Detestavano il caso, i zigzag repentini, preferivano soffermarsi sulle tendenze durevoli, sui rapporti familiari, sulle strutture mentali.

La longue durée, in tal senso, è stata senz’altro una positiva conquista dell’histoire nouvelle. Tuttavia essa non è priva di ambiguità. Anzitutto non sembra che faciliti la soluzione dei problemi più cruciali della teoria della conoscenza storica. Viene qui in mente la domanda che Marx fece a Proudhon in Miseria della filosofia: “In che modo la sola formula logica del movimento, della successione del tempo potrebbe spiegare il corpo della società, nel quale tutti i rapporti coesistono simultaneamente e si sostengono gli uni con gli altri?”. Una tale questione non è mai stata posta dall’histoire nouvelle. E non rispondendovi l’histoire nouvelle non è in grado di garantirsi una vera scientificità nell’analisi storica, che vada cioè al di là di ciò ch’essa è sicuramente in grado di fare: offrire una mole impressionante di dati.

Il tempo del mondo o della storia è -secondo Braudel- il tempo della formazione sociale che domina in una data epoca, niente di più. Il che però risulta assai limitativo nei confronti della totalità degli esseri umani, che appartengono a zone geografiche marginali rispetto ai criteri della formazione sociale dominante.

Braudel non comprende che il legame tra tempo e storia è costituito dal modo di produzione, e che i modi di produzione non sono statici ma evolvono di continuo. Non tener conto di determinati processi storici equivale a considerare la storia come un cieco destino, lo sviluppo di una fatalità. La storia diventa un mero prodotto del tempo.

In questa ambiguità filosofica di fondo si può anche arrivare all’assurdità di credere che la rivoluzione francese non sia mai avvenuta, cioè che sia un mito o una sopravvivenza ideologica. Per Furet, Richet, Roche, Chaussinand-Nogaret la rivoluzione francese fu un semplice conflitto politico-ideologico tra nobiltà e borghesia, non un rivolgimento sociale. A loro giudizio la nobiltà era progressista, per cui non erano in questione il feudalesimo e l’ancien régime (considerati addirittura come già inesistenti a quel tempo), ma solo una questione di rivalità politica all’interno di una comune concezione.

Sul piano socio-economico l’avvenimento viene giudicato da questi storici come una vera e propria catastrofe nazionale, poiché avrebbe impedito alla noblesse libérale di trapiantare in Francia i rapporti agro-capitalistici della vicina Inghilterra.

L’histoire nouvelle – sottolinea lo storico marxista Vovelle – tende in generale all’immobilità, non crede nelle brusche modificazioni che avvengono nella storia, non è dialettica, non considera le diverse epoche storiche come tappe d’uno sviluppo progressivo delle società e delle civiltà, e i diversi ritmi di tempo come momenti d’un tempo a senso unico.

La discontinuità è talmente assolutizzata ch’essa non è più un momento particolare di una più generale e uniforme evoluzione. Questa scuola non crede in alcuna transizione dal capitalismo al socialismo, come non crede in quella dal feudalesimo al capitalismo. Furet rifiuta categoricamente la prospettiva dell’evoluzione che conferisce un senso o una direzione significativa al tempo. Sicché l’analisi quantitativa o “seriale”, come la chiama Chaunu, diventa fine a se stessa: l’importante diventa solo il raccogliere dati e classificarli. Non c’è più analisi qualitativa.

Ricostruendo p.es. la storia dei prodotti alimentari, si lascerà in ombra la questione delle relazioni tra produttori e consumatori. Questo significa, in sostanza, ricadere nella superficialità, cioè proprio in quel limite contro cui l’histoire nouvelle s’era posta negli anni Venti. A quel tempo le “Annales” -come vuole Braudel- era una rivista di “eretici”, oggi invece è una rivista perfettamente allineata con le concezioni borghesi dominanti, in grado di favorire la promozione sociale e le carriere scientifiche.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (V)

Fra il 1961 e il 1969 uscì la Storia quantitativa dell’economia francese, il cui difetto principale, ereditato ovviamente dalla scuola americana, era quello di tenere separata la storia economica dalla storia sociale e dall’evoluzione dei rapporti di classe, il che ovviamente portava a giustificare una crescita progressiva del capitalismo francese.

I concetti e la metodologia della scuola “quantitativa” vennero ereditati e approfonditi, alla fine degli anni Sessanta, dai cosiddetti “cliometristi” della scuola americana “new economic history”. I ricercatori di questa nuova corrente si avvalevano di decine di studiosi altamente qualificati, incaricati di raccogliere dati e materiali, predisponendoli a un uso computerizzato.

D. North, R. W. Fogel, S.L. Engerman e altri, grazie a questi nuovi metodi arrivarono, fra l’altro, alla incredibile conclusione che l’economia schiavista dei piantatori di cotone, negli Usa, si trovava fino alla guerra di Secessione a un altissimo livello di sviluppo. Al fine di dimostrare la continuità e l’immanenza della crescita economica del loro paese, essi avanzarono l’ipotesi che nessun fattore esterno era intervenuto per accelerarla, neppure la costruzione delle ferrovie.

Fogel arrivò persino a dire che né la macchina a vapore, né la locomotiva, ma solo il lavoro dei farmers e l’antica istituzione dello schiavismo, allora perfettamente redditizia, avevano portato avanti la ricchezza americana del XX sec. Pertanto – ecco la tesi finale dei cliometristi – l’abolizione dello schiavismo aveva comportato un regresso del capitalismo americano. Tesi questa considerata assurda anche dal quantitativista francese P. Chaunu.

Ciononostante l’astrazione della scuola americana, coi suoi calcoli matematici, guadagnò negli anni Sessanta i consensi della terza generazione degli “annalisti” francesi. A giudizio di Le Roy Ladurie, F. Furet e altri l’avvenire sarebbe appartenuto ai soli metodi matematici e statistici, capaci di quantificare in maniera informatica i dati storici.

Fu tale l’entusiasmo che i modelli elaborati per il presente venivano sistematicamente usati anche per il passato. Le Roy Ladurie affermò addirittura che né la guerra d’indipendenza americana, né la realizzazione della ferrovia, né il new deal roosveltiano avevano comportato delle modifiche sostanziali al tasso di crescita dell’economia americana. Egli negò qualunque valore alla storia événementielle e alla biografia atomistica: la nuova storia doveva per lui essere strutturale, orientata verso lo studio di diverse collezioni di dati, soggette a un uso seriale o quantitativo, cioè programmato. Anche le istituzioni scientifiche avrebbero dovuto dotarsi di centri di ricerche quantitative, sul modello americano.

Dieci anni dopo tuttavia l’entusiasmo di Le Roy Ladurie scemò. La storiografia francese, nel suo complesso, era comunque riuscita a dimostrare che se i metodi matematici potevano avere una certa importanza per lo studio della storia economica e specialmente della storia agraria, nessuna “storia quantitativa” avrebbe potuto però sostituirsi alla storia propriamente detta. Le crisi economiche mondiali degli anni 1973-75 e 1980-82 diedero poi il colpo di grazia al concetto di “crescita continua” del capitalismo.

In ogni caso i ricercatori della terza generazione delle “Annales” hanno continuato a trascurare le esigenze di un’analisi economica strutturale dei fatti storici. Oggi si parla di tutto e di niente: del clima, del corpo umano, dei miti, delle feste, della cucina francese… Quando è in gioco l’economia si evitano accuratamente le questioni riguardanti la produzione e i conflitti di classe.

Le scienze usate sono tra le più svariate: psicanalisi, linguistica, sociologia, cinematografia… Nella Storia immobile di Le Roy Ladurie, tanto per fare un esempio, i fattori demografici e biologici si vedono attribuire un ruolo decisivo relativamente allo sviluppo della Francia. Dall’XI al XII sec. -egli afferma- vi è stata una crescita senza interruzioni, poi, nel XIV sec. è iniziato un lungo periodo di stagnazione. La popolazione si mantenne agli stessi livelli dal XIV al XVIII sec. Il volume della produzione agricola non aumentò. Quale fu dunque la causa della crisi? La risposta di Le Roy Ladurie si pone tutta a un livello biologico: ratti e pulci pestifere avevano invaso l’Europa occidentale e la Francia, attraverso gli eserciti mongoli e le carovane che, a partire dal XIV sec., trasportavano la seta acquistata in Asia centrale. La prima fatale conseguenza s’ebbe nel 1348, con la terribile peste nera. Scoppiò quindi una reazione a catena, che s’interruppe solo dopo l’epidemia di peste di Marsiglia nel 1720.

Spiegazioni di questo genere s’incontrano spesso nei suoi libri. Di qui le critiche mossegli da altri eminenti storici francesi come J. Le Goff, G. Duby, P. Raveau ecc., i quali, ad esempio, si chiedono sino a che punto si possa considerare come un periodo di “storia immobile” il XVI sec., che ha visto sia l’apertura dell’Atlantico al commercio mondiale, sia la nascita del capitalismo manifatturiero in Europa occidentale.

I limiti dell’impostazione metodologica di storici come Le Roy Ladurie, F. Furet, D. Richet, D. Roche, G. Chaussinand-Nogaret, P. Chaunu ecc. si rivelano soprattutto quando viene presa in esame la rivoluzione francese. Riprendendo i termini d’una memorabile polemica scoppiata alla fine degli anni Cinquanta fra R. Mousnier e B. Porchnev, essi negano recisamente, proprio come Mousnier, che nella Francia del XVIII sec. vi fossero tracce di feudalesimo.

In particolare, Furet, che è il più duro avversario dell’interpretazione marxista della rivoluzione, afferma che l’ancien régime era già morto prima della rivoluzione e che questa pertanto altro non è stata che un “mostro metafisico”. Secondo Furet e Richet il ruolo decisivo nella rivoluzione venne giocato non dalle classi sociali ma da una élite, la cui principale componente era non la borghesia commerciale e affaristica (che rimase sempre in una posizione di retroguardia), bensì la noblesse libérale, sostenuta dagli intellettuali.

La nobiltà francese, secondo loro, non era neppure una classe feudale reazionaria, ma al contrario una classe dinamica, laboriosa, volta a sviluppare rapporti capitalistici nelle campagne. Cosa che in realtà poteva essere vera solo limitativamente e in ogni caso solo perché già esisteva una borghesia socialmente affermata.

Non meno unilaterale è il giudizio sul movimento contadino. Le Roy Ladurie sostiene, contrariamente alla tesi di Porchnev, che i contadini insorgevano non contro i signori ma contro l’esosità fiscale dello Stato. Anzi i proprietari terrieri avrebbero voluto realizzare il capitalismo nelle campagne alla maniera inglese, e furono proprio i contadini a impedirglielo, essendo di vedute obiettivamente reazionarie.

Come si può notare, l’obiettivo di questi storici è quello di far passare la rivoluzione francese per un “complotto massonico”, rispolverando le vecchie tesi di D. Cochin, uno storico reazionario degli inizi del XX sec., il quale, a sua volta, le aveva riprese da un abate francese del XVIII sec., A. Barruel. Non le contraddizioni socio-economiche avrebbero fatto scoppiare la rivoluzione ma il bisogno di potere che aveva una squallida “oligarchia anonima”, il cui giacobinismo altro non era che una macchina propagandistica per ottenere consensi popolari.

Oggi, a questo, i vari Furet, Richet ecc. aggiungono che la rivoluzione francese frenò le tendenze progressiste, in senso capitalistico, manifestatesi in agricoltura, ritardando di almeno un secolo lo sviluppo della nazione; che la rivoluzione non distrusse né l’ancien régime né il feudalesimo, allora già inesistenti e che la vera, unica rivoluzione prodottasi nel XVIII sec. fu quella tecnica e industriale dell’Inghilterra.

Stante queste analisi non stupisce che Braudel abbia preferito troncare ogni rapporto con le “Annales”.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (IV)

Le principali tendenze della storiografia francese degli anni Cinquanta hanno proseguito il loro sviluppo nel corso degli anni Sessanta e Settanta. Si sono semplicemente affinate le tecniche di ricerca. Fra i medievisti spicca il nome di G. Duby, il più importante continuatore di Bloch. Si può ricordare anche P. Goubert, vero maestro nell’analisi dei processi demografici e nell’utilizzo degli archivi delle parrocchie rurali, fino ad allora snobbati.

Goubert fu uno dei fondatori della demografia storica, che conobbe in Francia un notevole sviluppo verso la metà del XX sec.

Molto interessante è anche la monografia di R. Trempé sui minatori di Carmaux: è il miglior studio su un movimento operaio-socialista che sia apparso in Francia dopo Les Guesdistes di Willard. Importante è anche l’opera di M. Perrot sul movimento degli scioperanti francesi negli anni 1880-1890. Poi naturalmente va citata la monumentale tesi sulla Catalogna di P. Vilar, discepolo di Labrousse e suo successore alla Sorbona.

Ma dalla seconda metà degli anni Sessanta e soprattutto negli anni Settanta una nuova tendenza comincia a farsi strada. Essa traspare con più nettezza nei lavori dei rappresentanti della cosiddetta “terza generazione” delle “Annales” (la prima va dal 1929 al 1956, cioè da Bloch – Febvre a Braudel; la seconda da Braudel a Le Goff – Le Roy Ladurie e va dal 1956 al 1969).

Fra le opere della terza generazione, quella tuttora egemone nell’ambito delle “Annales”, spicca la tesi di dottorato di E. Le Roy Ladurie, I contadini della Linguadoca.

Nato in Normandia nel 1929, Le Roy Ladurie è stato in gioventù un fervente cattolico: aveva persino intenzione di diventare prete. Fu la guerra a modificare completamente il corso della sua vita. Nel 1949 aderisce al pcf, sotto l’influenza dello storico comunista J. Bruhat.

Dal 1953 al 1963 insegna prima in un liceo, poi all’università di Montpellier. Nel 1956 lascia il pcf, giudicandolo dogmatico.

Pubblica diversi studi sulla storia del clima, ma la sua opera principale resta quella sui Contadini, ove dimostra un’eccezionale competenza in campi specifici come la climatologia, la glaciologia, la botanica e la pedologia (scienza dei terreni).

Il suo limite è quello di voler essere a tutti i costi originale, per cui spesso giunge a conclusioni affrettate e non dimostrate. Nel libro suddetto inoltre manca un capitolo sulle strutture sociali e sull’esame della proprietà, cosa grave quando si parla di una classe sociale. L’autore ha preferito concentrarsi sulla demografia.

La sua tesi di fondo è che dal XV sec. fino alla metà del XVIII la Linguadoca ha conosciuto un arresto nella sua crescita economica, in quanto la spinta demografica era accompagnata da un immobilismo tecnologico e da una arretratezza nella produzione agricola.

Qualche anno più tardi cercherà, con esito infelice, di applicare questa “scoperta” a tutta la Francia e alla quasi totalità dell’Europa occidentale. Peraltro, a proposito dei movimenti popolari in Linguadoca, egli disse chiaramente di non nutrire alcuna simpatia per la rivolta dei Camisardi scoppiata all’inizio del XVIII sec. Là dove Marx aveva visto due tipi di movimento contadino, reazionario in Vandea e progressista nella Cevenne, Le Roy Ladurie vedeva solo un’agitazione nevrotica, dettata dal fanatismo religioso.

Nel 1963 lascia Montepellier per andare a lavorare a Parigi, alla VI sezione dell'”école des hautes études pratiques”, fondata nel 1946 da L. Febvre e diretta, dopo la sua morte, da Braudel. Le Roy Ladurie divenne ben presto uno dei membri dello staff degli “annalisti”.

Nel 1967 si reca negli Usa in qualità di visiting professor e resta affascinato dai principi quantitativi, matematici e statistici della “new economic history”. Sul rapporto tra questa scuola americana e la storiografia francese che si rifà alle “Annales” occorre spendere alcune parole.

Già abbiamo detto che a cavallo dei secoli XIX e XX, sotto l’influenza della Storia socialista di Juarès, s’era imposto in Francia un crescente interesse per la storia economica. Lo confermano, nel corso dei primi tre decenni del sec. XX, le opere di H. Hauser, H. Sée, A. Mathiez e G. Fefebvre. La crisi economica mondiale del 1929-33 non fece che rafforzare ulteriormente tale tendenza.

Le “Annales” di Bloch e Febvre, gli studi di Siminad e soprattutto di Labrousse inaugurarono una nuova fase nello sviluppo della storiografia francese in campo socio-economico; una fase che, grazie soprattutto a Labrousse, non subirà alcun declino nel periodo che va dal dopoguerra alla prima metà degli anni Sessanta. La storia economico-sociale conobbe ottimi lavori da parte di J. Bouvier (sulla storia delle banche francesi), J. Meuvret (sul problema alimentare), P. Vilar (sullo sviluppo economico della Catalogna), P. Léon (sulla nascita della grande industria), di P. Goubert (sulla formazione del capitalismo in Picardia). Un tratto caratteristico della maggior parte di questi ricercatori era il rifiuto di separare la storia economica dalla storia delle lotte di classe.

La situazione inizia a cambiare verso la metà degli anni Sessanta. Gli schemi economici di Simiand e Labrousse, ispirati dallo stato dell’economia degli anni Trenta, non erano più adatti per gli anni Sessanta. Dopo la guerra il capitalismo mondiale, soprattutto quello americano, sembrava entrato in una fase di crescita stabile.

Il Manifesto non comunista di W. Rostow è un prodotto tipico di quell’epoca. La sua apparizione (1960) coincise sia con la rivoluzione tecnico-scientifica che con l’impiego del computer nello studio della storia. Ed è così che, prima negli Usa poi in Francia, acquistò sempre più credito la scuola detta “quantitativa”, secondo cui un periodo di crescita ininterrotta era cominciato per lo meno sin dalla metà del XVIII sec.

Uno dei fondatori di questa scuola fu S. Kuznets, docente all’Università di Harvard, che già verso gli anni Trenta e Quaranta aveva pubblicato le sue prime opere (sul reddito nazionale americano) contribuì anche al finanziamento dei lavori di un gruppo francese, diretto da J. Marczewski che, nel 1956, cercò di mettere a punto un “modello” francese di crescita economica su scala nazionale. L’iniziativa venne appoggiata da F. Perroux, direttore dell’Istituto di scienza economica applicata.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (III)

Terminata la guerra, la storiografia francese riprese con nuovo vigore. La pubblicazione, nel 1949, del libro di F. Braudel (1902-1985), Il Mediterraneo e il mondo mediterraneo all’epoca di Filippo II, costituì allora un avvenimento eccezionale. La sua stesura richiese una quindicina d’anni. Braudel venne riconosciuto come uno degli storici più importanti non solo della Francia, ma anche di tutta l’Europa occidentale.

Egli era figlio di un professore parigino di matematica. Durante il periodo universitario alla Sorbona, di tutti i docenti fu H. Hauser, che insegnava storia economica, quello ch’ebbe su di lui l’influenza maggiore. All’inizio degli anni Venti cominciò a insegnare a Costantina, in Algeria, ove intraprese gli studi e le ricerche per realizzare l’opera suddetta.

Nel 1930 conobbe H. Berr e partecipò ai lavori del suo centro di sintesi storica. A partire dal 1935 e per tre anni insegnò in Brasile. Sulla nave che lo riportò in Francia incontrò Febvre che tornava invece dall’Argentina. Nel 1939 scoppia la guerra e Braudel si ritrova al fronte. Fatto prigioniero e detenuto dal 1940 al 1942 in un campo presso Mayence, viene trasferito, a motivo della sua attività politica, in un campo speciale a Lubecca, ove il regime era più severo.

Pur privato di tutto il suo materiale documentario, Braudel, dotato di una memoria prodigiosa, riprende la sua opera sul Mediterraneo, proprio come H. Pirenne, un altro grande storico francese che, durante la I guerra mondiale, aveva scritto in prigione la sua Storia d’Europa, inviando un quaderno alla settimana all’amico Febvre.

La Méditerranée fu il risultato di ricerche compiute in tutti gli archivi e le biblioteche storiche più importanti del mondo mediterraneo. Seguendo i consigli che Febvre gli aveva dato sin dagli anni Venti, Braudel evitò di trattare soltanto della Spagna, limitandosi, si fa per dire, a tutti i paesi rivieraschi del Mediterraneo: compito questo, in realtà, d’una complessità eccezionale, specialmente per un singolo ricercatore.

Il libro, che nella seconda edizione del 1966 fu sdoppiato in due volumi perché rivisto e aumentato di un notevole apparato critico, risente fortemente dell’influenza della scuola geografica di Vidal de la Blache; inoltre esso riserva maggiore attenzione alla circolazione, agli scambi e alle strade commerciali che non alla produzione vera e propria. Ciò ad es. si riflette laddove Braudel più che parlare della rivalità fra i due centri del commercio capitalistico (nella fattispecie Spagna e Impero ottomano), ovvero fra i diversi gruppi delle borghesie emergenti, preferisce parlare della rivalità di due vie di transito, mediterranea e atlantica.

Là dove Febvre e Braudel non avevano visto che l’antagonismo fra un “mare” e un “oceano”, Marx molto tempo prima aveva scoperto un processo ben più profondo: la nascita dello stadio manifatturiero del capitalismo nel XVI sec.

Ciononostante un indubbio progresso era avvenuto: la storia tradizionale di superficie, la cosiddetta storia événementielle (quella basata sugli avvenimenti politici più esteriori) veniva confinata definitivamente in un ruolo subalterno, a vantaggio di un modello di ricerca strutturale e funzionale basato su uno stretto rapporto fra storia e tempo.

“La storiografia tradizionale – dirà Braudel ne La storia e le altre scienze sociali – interessata ai ritmi brevi del tempo, all’individuo, all’évenement, ci ha abituati da tempo al suo racconto frettoloso, drammatico. di breve respiro. La nuova storiografia economica e sociale pone invece al primo posto le oscillazioni cicliche e punta sulla validità delle loro durate”.

Ma il merito maggiore va forse attribuito alla decisione dell’autore di contrastare l’idea catastrofista, allora dominante, espressa nel famoso libro di O. Spengler, Il declino dell’occidente, apparso l’indomani della disfatta tedesca del 1918. In che modo lo fece? Mostrando che dalle crisi più acute (nel contesto della Méditerranée quelle appunto degli imperi mediterranei) quasi sempre sorgono nuove imponenti civiltà.

Nel 1950 Braudel ottenne una cattedra al Collegio di Francia. Dopo la morte di Febvre assunse la direzione delle “Annales” e della VI sezione dell’Ecole pratique des hautes études, uno dei centri più significativi della scienza storica francese.

Questi impegni lo porteranno a elaborare il suo secondo importante libro, Civilizzazione materiale e capitalismo, il cui primo volume apparve nel 1967, dopo che per quasi sessant’anni i suoi interessi si erano progressivamente concentrati sulla vita quotidiana, materiale, degli uomini (dall’alimentazione all’abitazione, dalle fonti energetiche alle vie di comunicazione, dai mezzi di trasporto alla circolazione del denaro). E questa volta il perimetro geografico non era più solo l’Europa ma anche l’Asia, l’Africa, l’America.

I limiti tuttavia non mancano- Anzitutto Braudel separa la civilizzazione materiale dalla vita economica produttiva e dal capitalismo. La prima, a suo giudizio, è fatto di routine, è una vita elementare, vegetativa, che non si presta, se non con molta difficoltà, al mutamento, è dunque una realtà di “lunga durata”. La vita economica invece gli appare come uno stadio superiore, privilegiato, della vita quotidiana. Il capitalismo poi è uno stadio ancora più elevato, più sofisticato.

In sostanza sfuggiva a Braudel il fatto che il capitalismo s’afferma proprio sulla base delle forme più elementari dei rapporti mercantili, giungendo in diretto antagonismo con altri tipi dominanti di economia. Una svista prodotta probabilmente dalla sua stessa concezione della “lunga durata”, che resta troppo vada e indeterminata e che rischia di condannare a una semi-paralisi la storia dell’uomo in rapporto al suo ambiente specifico.

La Civilizzazione materiale vide il suo definitivo compimento, in tre volumi, nel 1979, costituendo un avvenimento del tutto eccezionale, “Le Monde” le consacrò due intere pagine, salutandola col titolo di “decodificatrice della storia mondiale”.

L’opera, in effetti, testimonia d’una erudizione notevolissima. Braudel provava un immenso piacere nel disegnare, dello sviluppo storico-sociale, sia i grandi tratti, come artefice della “storia totale”, sia i più infimi dettagli, come “pescatore di perle”, secondo la felice espressione di J. H. Hexter. Egli utilizzò persino le fonti dell’archivio della politica estera dell’Urss per esaminare la corrispondenza del console russo a Lisbona.

Dopo l’uscita del primo volume dichiarò in un’intervista che per lui Marx era il “padre della storia moderna”, e nel libro in effetti lo difende sempre, soprattutto dalle critiche di W. Sombart e M. Weber. Braudel si era convinto che solo chi possiede i mezzi di produzione detiene nella società le posizioni dominanti. Nel secondo e terzo volume  cita Lenin dichiarandosi d’accordo con lui sul problema delle origini del capitalismo.

Eppure egli rimase abbastanza scettico nei confronti del marxismo del XX secolo e attendeva sempre l’apparizione d’un “capolavoro della storiografia marxista” che provasse la possibilità e l’opportunità d’una applicazione del marxismo alla storia. In questo senso l’atteggiamento di Braudel (e delle stesse “Annales”) fu abbastanza contraddittorio, anche perché dopo la guerra, soprattutto dopo gli anni cinquanta e all’inizio degli anni sessanta, i progressi nella storiografia marxista erano stati considerevoli.

A dir il vero il prestigio del marxismo nella storiografia francese aveva già potuto farsi strada negli anni Trenta, allorché, dopo la crisi del 1929, la sua influenza s’era estesa in tutte le direzioni, obbligando molti storici a ripensare il loro rifiuto dell’interpretazione materialista della storia.

Nella Francia degli anni Cinquanta si poteva già parlare non soltanto di un’influenza del marxismo su molti storici non simpatizzanti per le idee del comunismo, ma anche di una storiografia marxista vera e propria, di alto livello scientifico, che s’era guadagnata delle solide posizioni in ambito universitario.

Fu anzitutto nel campo della storia della rivoluzione francese che tale influenza si manifestò. L’apparizione, all’inizio del secolo, dell’opera di Jaurès, seguita dagli studi di Mathiez, di Lefebvre e di Labrousse aveva già largamente aperto la porta, nella storiografia della rivoluzione, alle idee e ai metodi marxisti.

A. Soboul, p.es., fu uno storico marxista di tutto rispetto. Cresciuto in un ambiente popolare modesto e divenuto assai presto orfano (a sei mesi perse in guerra il padre, contadino povero, e a otto anni la madre), Soboul fu cresciuto a spese dello Stato. Fece gli studi superiori negli anni Trenta, all’epoca del Fronte popolare.

Lefebvre l’aveva subito notato tra i suoi allievi e Soboul considerava Lefebvre come il suo principale maestro. Nel 1939 pubblica la sua prima opera, dedicata alla rivoluzione francese. Diventa uno dei dirigenti dell’organizzazione degli studenti comunisti di Parigi e nello stesso anno aderisce al pcf. Artigliere durante la guerra, prende parte attiva alla Resistenza.

Nel 1942 è costretto a lasciare il liceo di Montpellier, ove insegnava; poi viene arrestato. In seguito e sino alla fine della guerra vive in clandestinità. Nel 1945 si stabilisce a Parigi ove insegna in vari licei, continuando a lavorare alla sua tesi di dottorato, sostenuta la quale, nel 1958, ottenne la medaglia di bronzo dal Centro Nazionale della Ricerca Scientifica. L’opera magistrale sui sans-coulottes parigini gli procurò subito una grande notorietà.

Soboul aveva scelto un tema poco studiato, ma ugualmente molto importante: il ruolo degli strati parigini più popolari durante la rivoluzione. In un’altra opera molto importante, in cui rivelava una conoscenza approfondita dei rapporti agrari nella Francia del XVIII sec., Soboul contestava l’opinione di coloro che negavano l’esistenza di tracce di feudalesimo in Francia alla vigilia della rivoluzione.

In omaggio ai suoi numerosi lavori storici, egli ottenne alla Sorbona nel 1967 la cattedra di storia della rivoluzione. Lungi dall’essere un successo unicamente personale, si trattava piuttosto del riconoscimento dei meriti della storiografia marxista e della sua integrazione nella scienza universitaria durante gli anni 1950-60. Non dimentichiamo che negli anni Venti la cattedra era stata rifiutata a uno storico della rivoluzione come Mathiez.

Un’altra importante opera della storiografia marxista fu la tesi di dottorato sui Guesdistes sostenuta da C. Willard nel 1965.  Questi si accostò assai presto al movimento democratico. Suo padre fu il celebre avvocato che difese Dimitrov al processo di Lipsia nel 1940. Partecipando alla Resistenza, Willard aderì al pcf nel 1944.

Il tema del guesdismo era del tutto originale. Fino alla metà del XX sec. e nonostante che il ruolo del movimento operaio socialista fosse stato in Francia particolarmente significativo, non esisteva sulla storia del movimento socialista dei guesdisti alcuno studio scientifico, né i docenti della Sorbona erano disposti ad accettarlo.

Willard s’impegnò tantissimo: la ricchezza delle fonti reperite gli permise di compiere un’opera esaustiva sulla storia di questo movimento dal 1893 al 1905, cioè sino alla fondazione del partito socialista unificato. A tutt’oggi nessun paese dell’Europa occidentale possiede uno studio così completo su questo argomento.

Willard peraltro fu il primo a fare il punto sulle divergenze fra Guesde e Lafargue emerse all’epoca dell’affare Dreyfus circa la tattica del partito operaio. La tesi venne condotta sotto la direzione di Labrousse, ch’era diventato, dopo la morte di Bloch, titolare della cattedra di storia economica alla Sorbona. Qui, sia Lefebvre che Braudel rappresentarono, negli anni Cinquanta e fino alla prima metà degli anni Sessanta, il momento più felice della storiografia francese.

Tuttavia, già nel corso della seconda metà degli anni Sessanta e soprattutto negli anni Settanta nuove tendenze cominciavano a farsi strada, che rompevano con le tradizioni ereditate dal periodo precedente.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (II)

Gli anni Trenta segnano l’inizio della fine della storiografia meramente politica. E’ vero che i suoi sostenitori sono ancora in auge alla Sorbona (si pensi a Seignobos), ma il processo in direzione degli studi socio-economici appare irreversibile. La rivoluzione d’Ottobre, il diffondersi del pensiero marxista, i mutamenti post-bellici sul piano sociale, l’esplicito ruolo giocato dall’economia durante e dopo la I guerra mondiale, in particolare la crisi economica mondiale all’inizio degli anni Trenta (che coinvolse anche la Francia): tutto ciò finì per avere ragione del disinteresse degli storici francesi per le questioni economiche.

In verità alla Sorbona da tempo esisteva una cattedra di storia economica e il suo titolare, H. Hauser, era un eminente specialista, ma negli anni Venti i suoi corsi era disertati dagli studenti.

La crescita dell’interesse per l’economia è soprattutto legata, inizialmente, a due nomi: F. Simiand e E. Labrousse. Simiand era sociologo ed economista, simpatizzava per il socialismo e fu vicino alle idee di L. Herr e L. Blum. I suoi schemi interpretativi delle congiunture economiche e delle fluttuazioni dei prezzi ebbero, per quanto imprecisi, una larga diffusione in Francia.

L’influenza di Labrousse, discepolo di A. Mathiez, sugli studi storici fu ancora più profonda. Egli era diventato segretario della federazione degli studenti comunisti, redattore per qualche anno dell'”Humanité”, membro del comitato direttivo della società di studi robespierristi. Entrambi ricorsero ai metodi della statistica matematica per studiare il movimento dei prezzi, e Labrousse, a differenza di Simiand, sapeva collegarlo efficacemente alla dinamica storica degli antagonismi di classe.

La sua tesi di dottorato del 1944, La crisi dell’economia francese alla fine dell’ancien régime e all’inizio della rivoluzione, fece epoca, tanto che Braudel la considerò come una pietra miliare della storiografia francese.

Dopo la barbara esecuzione nazista di Bloch, che occupò la cattedra di storia economica dalla morte di Hauser, nel 1936, sino al 1944, la Sorbona appena poté riprendere una vita normale chiederà a Labrousse di subentrare a Bloch.

Se vogliamo, gli esponenti più significativi di questi nuovi processi nella storiografia francese degli anni Trenta non furono Simiand e Labrousse, ma L. Febvre e M. Bloch, a motivo della famosissima rivista “Annales”, fondata nel 1929 e con cui fecero scuola.

Febvre e Bloch furono storici di grande talento: la loro collaborazione, proseguita per molti anni, fu particolarmente feconda, nonostante le differenze nell’età e negli interessi.

Febvre (1878-1956) si dedicò prevalentemente allo studio della geografia storica (conformandosi alla lezione della scuola geografica di Vidal de la Blache), della storia e della cultura del secolo da lui preferito: il XVI.

Bloch (1886-1944), figlio d’un grande specialista di storia romana, ricevette una brillante formazione scientifica e apprese molte lingue straniere (compreso il russo, il protonordico e il tedesco antico). Durante la I guerra mondiale s’impegnò, come Febvre, a combattere nell’esercito, ottenendo il grado di capitano e numerose decorazioni. I suoi primi lavori furono consacrati alla Francia capetingia: il più importante è senz’altro I re taumaturghi (1924), che testimonia l’interesse dell’autore per i problemi della psicologia collettiva.

Verso la metà degli anni Venti la sua attenzione si concentra sulla storia agraria medievale francese ed europea. Nel 1931 insegna a Oslo storia agraria comparata. Proprio in quel periodo pubblica l’opera che lo fece diventare il maggior storico-economista della Francia: I caratteri originali della storia rurale francese. Negli anni 1939-40 appare quello che può essere considerato il suo capolavoro: La società feudale.

Il suo interesse per le questioni economiche e rurali in particolare aveva chiaramente lo scopo di presentare gli avvenimenti storici nella loro concretezza, nella loro sofferta umanità, contro le interpretazioni aristocratiche che guardavano i fatti solo dall’alto.

Febvre e Bloch si erano conosciuti nel 1919 a Strasburgo, città dove, dopo la I guerra mondiale e il ritorno dell’Alsazia alla Francia, vennero incaricati dal governo di creare un centro culturale francese. Ci vollero però dieci anni prima che le “Annales” vedessero la luce. E appena questo accadde, subito piovvero le accuse di “materialismo storico”, ovvero di dare un primato arbitrario ai fattori economici rispetto a quelli politici e morali.

Ma l’équipe delle “Annales” (che comprendeva anche G. Lefebvre, Ch. Andler e altri) seppe difendersi con coraggio e lungimiranza. Essa invitava a rinnovare gli studi storici, ad ampliare la loro problematica, ad affrontare i processi storici strutturali, ovvero la storia della produzione, della tecnologia, dei mezzi di lavoro; sollecitava a colmare i ritardi rispetto alle scienze esatte e naturali; auspicava che gli storici lavorassero in modo collegiale, avvalendosi dei contributi specifici di tutti sulla base di una comune piattaforma interpretativa.

Con ciò naturalmente non si vuole sostenere che le “Annales” rappresentino la quintessenza della storiografia marxista francese. E’ vero che Bloch e Febvre consideravano l’uomo il fattore numero uno dei processi storici e che nell’ambito di questi processi assegnavano alla dimensione economica un ruolo centrale, ma è anche vero che la loro storiografia restava idealistica: i fatti storici venivano ricondotti, in ultima istanza, a fattori psicologici, in cui cioè era la sensibilità collettiva che rendeva possibile il movimento delle cose.

Gli stessi fatti economici, come tutti gli altri fatti sociali, venivano equiparati a fatti di credenza a e di opinione. Febvre, in particolare, ebbe modo di dire che la ricchezza, il lavoro, il denaro non sono, propriamente parlando, delle “cose” ma solo delle “idee”, cioè delle rappresentazioni o concezioni umane delle cose.

Febvre poi, meno di Bloch, venne a contatto col marxismo. Egli si considerava “marxista” solo in senso incidentale, poiché riteneva che molte idee di Marx erano divenute, indirettamente, patrimonio comune di molti storici francesi. Per lui Marx era unicamente un filosofo, che uno storico non aveva tempo di leggere.

Peraltro non è possibile considerare l’esperienza delle “Annales” come la sola che abbia contribuito a determinare questa svolta metodologica nella storiografia. Altri elementi furono non meno importanti: il progresso generale delle scienze, la rivoluzione operata nella fisica, la situazione politica in cui forte era l’odio per il fascismo, la formazione del Fronte popolare, l’influenza crescente del marxismo.

Assai stimolante fu anche l’opera di G. Lefebvre (1874-1959), per quanto esclusivamente dedicata alla rivoluzione francese. All’inizio degli anni Trenta, dopo la tragica morte di A. Mathiez, Lefebvre fu chiamato a Parigi per assumere alla Sorbona l’unica cattedra di storia della rivoluzione francese esistente al mondo. Egli divenne anche presidente della società degli studi robespierristi. Grande fu il suo contributo alla comprensione delle lotte di classe nelle campagne francesi durante il periodo della dittatura giacobina.

Sono stati dunque quattro gli storici francesi più importanti degli anni Trenta: Bloch, Febvre, Lefebvre e Labrousse (quest’ultimo il più sensibile alla lezione marxista). Ma la guerra del 1939 e la catastrofe che s’abbatté sulla Francia l’anno dopo interruppero per un certo tempo questo rinnovamento.

Assai grave per la storiografia francese fu la perdita di M. Bloch. Già cinquantenne, egli pensò fosse suo dovere partecipare alla guerra contro i nazisti. Arruolatosi col grado di capitano fece parte nel 1940 di quelle unità francesi che riuscirono a imbarcarsi a Dunkerque per l’Inghilterra, da dove poi rientrò in Francia. Dopo la capitolazione gli divenne impossibile insegnare alla Sorbona e per qualche tempo esercitò in provincia. Durante questo periodo lavorò all’Apologia della storia, che rimase incompiuta e fu pubblicata postuma da Febvre.

Bloch detestava profondamente l’hitlerismo e la sua ideologia razzista. Divenuto uno dei comandanti della cintura lionese della Resistenza, fu arrestato dalla Gestapo nel 1944 e fucilato il 16 giugno.

Durante tutta la guerra Febvre, rimasto a Parigi, fece l’impossibile per prolungare l’esistenza delle “Annales”, la cui periodicità era divenuta assai irregolare. Nel 1946 i fascicoli ricominciarono ad apparire sotto un nuovo nome, “Annales. Economies-Sociétés-Civilisations”, redatti dal solo Febvre.

PANORAMICA DELLA STORIOGRAFIA FRANCESE (I)

Il pensiero storico francese ha occupato, durante quasi tutto il XIX secolo, una delle posizioni più avanzate nella scienza storica mondiale.

E’ sufficiente ricordare i nomi dei suoi più grandi rappresentanti: A. Thierry, F. Guizot, J. Michelet, F. A. Mignet. Costoro spiegavano tutta l’evoluzione della Francia e dell’Inghilterra in termini di lotta di classe tra nobiltà e borghesia, cioè in termini di scontro sociale e politico.

Ma negli anni 1880-1890 si ebbe un declino di questa storiografia: i suoi nuovi rappresentanti (si pensi a A. Sorel, Ch. Seignobos, A. Aulard, E. Lavisse) si limitavano a svolgere la ricerca su un piano meramente politico-diplomatico.

Solo verso la fine del secolo e l’inizio del successivo si può notare un’inversione di marcia. Nuovi storici, come P. Lacombe (fece epoca il suo libro La storia considerata come scienza) e H. Berr (fondatore della teoria e del movimento della “sintesi storica”, cui aderiscono, fra i giovani, P. Mantoux, L. Febvre e M. Bloch) presero a combattere con nuove energie l’involuzione della storiografia francese.

H. Berr, come E. Durkheim (caposcuola della sociologia francese), non s’interessava molto di economia: la sua preoccupazione principale era quella di realizzare una sintesi culturale su basi filosofiche e idealistiche. Il problema in effetti era quello di come superare il quadro tradizionale della storia cronologica, la storia per secoli o per regni, focalizzando invece l’attenzione sui problemi, al fine di trovare delle costanti nel tempo, senza soffermarsi sugli avvenimenti singolari, le biografie, gli aneddoti ecc.

Nel 1920 Berr intraprese la pubblicazione, che portò avanti fino alla morte, di una collezione intitolata L’evoluzione dell’umanità, in 80 volumi: qui videro la luce le opere di L. Febvre e M. Bloch, fra cui, di quest’ultimo, la famosissima Società feudale.

Questa rinnovata scienza storica aveva subito una certa influenza da parte della scuola sociologica di Durkheim, la cui Année sociologique (1879) opponeva allo studio del fatto individuale, irripetibile, quello delle determinazioni sociali, cui si attribuiva un ruolo essenziale in tutto lo sviluppo della società. Attorno a questa scuola gravitavano ricercatori come F. de Saussure, L. Lévy-Bruhl ecc.

Oltre a questo ebbe un peso notevole sullo sviluppo della scienza storica francese la teoria marxista. Fu J. Jaurès, coi suoi volumi sulla Storia socialista della rivoluzione francese (1900), che indusse gli storici francesi a prestare maggiore attenzione ai fatti socio-economici. G. Lefebvre, il maggior storico francese della prima metà del sec. XX, rimase profondamente impressionato dal valore di quest’opera.

Quando, su iniziativa di Jaurès, fu creata una commissione incarica di raccogliere i documenti relativi alla storia economica della rivoluzione, Lefebvre vi partecipò così attivamente che furono proprio i lavori di Jaurès e di Luchitski, uno storico russo specializzatosi nello studio dei rapporti agrari nella Francia del XVIII sec., che lo portarono a scegliere un argomento di economia rurale per la sua tesi di dottorato: I contadini del Nord durante la rivoluzione, frutto di quasi 20 anni di ricerche.

Ormai l’idea di completare se non di superare la tradizionale storiografia politica con l’analisi economica dei fatti sociali era diventata sufficientemente matura per imporsi all’attenzione di molti storici. A ciò naturalmente avevano contribuito anche altri fattori, come lo sviluppo del capitalismo, i progressi delle scienze naturali (specie la fisica) ecc.

A Strasburgo, nel 1929, appaiono i primi numeri della rivista “Annales de l’histoire éeconomique et sociale”, diretta da L. Febvre e M. Bloch. Due anni prima A. Mathiez, il maggior storico della rivoluzione francese durante il primo trentennio del secolo, aveva pubblicato la sua migliore opera socio-economica: Il carovita e il movimento sociale sotto il Terrore.

LE ZONE D’OMBRA E LE ALTERNATIVE STORICHE (II)

La teoria dell’alternativa storica

Nei più recenti dibattiti tra i maggiori storici sovietici che si ispirano al marxismo, si sta mettendo in forte discussione la classica tesi secondo cui la storia ignora il condizionale, per cui è tempo perso chiedersi che cosa sarebbe potuto accadere se al momento della scelta si fossero prese strade diverse.

La tesi è stata sottoposta a critica perché ci si è accorti, in virtù della perestrojka, che la teoria delle formazioni sociali che si succedono in maniera regolare nell’evoluzione storica, è stata per troppo tempo interpretata dagli storici sovietici come una fatale pre-determinazione, incapace di lasciare spazio a diverse varianti di sviluppo, ovvero a delle alternative storiche, virtuali o potenziali, ma non per questo meno reali.

Oggi si è giunti alla conclusione che, per realizzare una maggiore obiettività, occorre che il ricercatore mostri il motivo per cui in un certo periodo storico si è scelta una via e non un’altra, ed è necessario ch’egli che faccia questo evidenziando accuratamente tutte le varianti possibili dell’evoluzione sociale presenti al momento della scelta. In altre parole, egli deve bilanciare l’importanza della “lotta dei contrari”, con l’altro aspetto della dialettica storica: “l’unità degli opposti”. Ovviamente di ciò trarrà beneficio non solo la conoscenza del passato, ma anche quella del presente e la stessa capacità di progettare il futuro.

Sebbene tutto ciò che appartiene al passato sia invariabile, univoco e irrevocabile, è anche vero che tutto ciò che è accaduto (la realtà del passato) è stato l’esito della realizzazione pratica di una fra tante possibilità contenute nel passato immediatamente precedente alla scelta. Nel senso cioè che la realtà avrebbe potuto essere diversa da come poi concretamente si è costituita. Non solo, ma il fatto che nell’evoluzione storica si sia imposta una determinata soluzione su altre, non sta affatto a significare che la soluzione sconfitta vada considerata come la peggiore, né ch’essa non abbia alcuna possibilità, in futuro, di realizzarsi (ovviamente in forme diverse).

Oltre a ciò, gli storici cominciano a chiedersi se abbia davvero senso affermare l’esistenza di diverse possibili soluzioni (a un determinato problema), a prescindere dalla consapevolezza che di esse potevano avere i protagonisti contemporanei; o, viceversa, se si possa parlare di vera alternativa a prescindere non dalla consapevolezza soggettiva dei protagonisti ma, questa volta, dalle possibilità oggettive di realizzazione che il contesto poteva offrire. I più convinti sostenitori della teoria delle alternative storiche (ad es. I. Kovaltchenko, V. Sogrin, A. Chubaryan) ritengono che si possa parlarne solo in presenza dell’unità dei due fattori della dialettica, soggettivo e oggettivo, precisando che il primo va riferito alla realtà delle forze sociali e non tanto a quella dei singoli individui, mentre il secondo implica non solo gli aspetti politici ma anche quelli socio-economici.

Naturalmente per “alternativa storica” si deve intendere non qualcosa in grado di opporsi, in futuro, al presente, ma qualcosa che, nel presente, lotta contro il suo opposto. Senza questa lotta, che può anche essere accanita, non è neanche il caso di parlare di “alternative”. Un’alternativa è reale se ha un certo margine di probabilità di successo. Essa deve risultare come una delle forme di manifestazione della necessità storica, altrimenti non è credibile. Ad es. la perestrojka in atto in tutti i campi della vita sociale, culturale e politica dell’ex-Urss non può essere considerata come un’alternativa dovuta al caso o alla volontà “anticomunista” di qualche politico. Essa piuttosto è stata il frutto di una necessità storica, venuta a maturità, che implicava mutamenti radicali. Semmai è sul modo di condurla o di gestirla che si scontrano diverse possibilità. E se per quanto riguarda il futuro di questo scontro è impossibile pronunciarsi, si può però con sicurezza affermare, sin da adesso, che la vittoria di un’alternativa antidemocratica o antiumanistica non sarà destinata a durare per più di un certo periodo di tempo.

La lotta e l’unità degli opposti

Ciò di cui la perestrojka ha reso consapevoli gli storici sovietici è -come più sopra si diceva- il fatto che non c’è dialettica laddove la lotta degli opposti esclude la loro unità. Nello staliniano Breve corso di storia del Pc(b)r, il processo storico era raffigurato come il frutto di un irriducibile antagonismo di opposte formazioni socio-economiche, e il progresso storico come la sostituzione radicale, violenta, di ogni formazione da parte di quella che doveva succederle. Praticamente non si teneva in alcuna considerazione che il progresso storico non è mai così lineare e monodimensionale, in quanto, oltre al conflitto, esso comporta anche l’interazione, l’interpenetrazione e, su questa base, la coesistenza durevole e l’arricchimento reciproco delle formazioni.

In questo senso purtroppo la storiografia sovietica non ha ancora approfondito a sufficienza la storia dell’influenza vicendevole delle civiltà o delle società tra loro opposte. Lo studio delle formazioni (che resta senza dubbio più preciso di quello della storiografia non marxista) deve ora essere integrato dallo studio delle civiltà. Anche perché furono gli stessi classici del marxismo a sostenere per primi l’idea che le società socialiste avrebbero dovuto integrare e assimilare con spirito critico le migliori conquiste delle società borghesi.

Non ha senso disprezzare, bollandole col marchio di “democrazia formale”, le realizzazioni più avanzate delle grandi rivoluzioni borghesi dei secoli XVII e XVIII, conseguite a prezzo di enormi sacrifici: si pensi alla separazione dei poteri, al pluralismo politico, allo Stato di diritto, alla libertà di coscienza e di opinione. Certo, la borghesia non ha elaborato una compiuta “democrazia economica”, ma ha reso universali i princìpi della democrazia politica. Tenere in opposizione l’interesse umano universale con l’interesse di classe del proletariato non può che screditare quest’ultimo, facendolo apparire come un interesse particolare.

Gli stessi studi sulla storia del capitalismo risentono di questi limiti. Generalmente nella storiografia sovietica il capitalismo veniva diviso in due grandi periodi: dalla rivoluzione inglese del XVII secolo alla rivoluzione d’Ottobre e da questa fino ai nostri giorni. Nel quadro del primo periodo si distinguevano poi due tappe: una anteriore e l’altra posteriore alla Comune di Parigi del 1871, sostenendo, in particolare, che le possibilità progressive della borghesia erano esistite soltanto fino alla Comune, dopodiché il proletariato aveva assunto il monopolio dell’espressione del progresso storico.

Questo modo di vedere le cose è troppo semplicistico per essere vero. E’ stato un errore l’aver interpretato la crisi del capitalismo come permanente, totale (inglobante tutte le sfere, dall’economia all’etica), destinata ad approfondirsi dal 1917 ad oggi. Si è p.es. ignorato il fatto che la IIa guerra mondiale è stata seguita da un rilancio notevole dello sviluppo economico da parte dei principali Stati capitalisti; oppure il fatto che gli stessi sistemi democratico-borghesi hanno contribuito a smantellare le dittature fasciste; o anche il fatto che la disgregazione del sistema coloniale ha indotto il capitalismo a perfezionare i meccanismi interni di sviluppo, soprattutto quelli tecnico-scientifici, al fine di realizzare col Terzo Mondo un rapporto di tipo neocoloniale.

Non solo, ma la storiografia sovietica, grande maestra nel delineare i tratti generali della storia delle masse popolari, è rimasta in ritardo circa lo studio della fisionomia e mentalità dei diversi gruppi e strati della società. L’uomo semplice, ordinario, dai tempi dell’antichità all’epoca contemporanea, non è mai stato oggetto di una vera psicologia storica, di una vera demografia: sono ancora troppo scarse le storie della famiglia, delle donne, dei giovani, degli uomini nella loro vita quotidiana, nella loro mentalità.

Occorre cambiare atteggiamento anche nei confronti della storiografia non marxista (si pensi soprattutto alle Annales e a F. Braudel). Il recente approccio interdisciplinare di questa storiografia (che si serve degli studi demografici, antropologici, psico-sociologici) può aver generato degli inconvenienti, ma ha sicuramente allargato gli orizzonti della conoscenza storica. Oggi questa storiografia s’è messa perfino a studiare i campi della storia socio-economica, tradizionale patrimonio della scienza marxista. Senza considerare che gli studi sociali della storiografia borghese relativamente ai gruppi etnici e religiosi, alle comunità rurali e urbane, alle donne e al movimento femminista, alla coscienza comune, ecc., possono essere di grandissimo aiuto alla storia sociale marxista, che prende in esame le classi e la coscienza di classe.

Occorre infine che gli storici sovietici mutino atteggiamento anche nei confronti della storiografia marxista dei paesi occidentali, spesso frettolosamente giudicata d’essere “revisionista” (si pensi alle opere degli inglesi E. Hobsbawn, G. Rude e C. Hill).

LE ZONE D’OMBRA E LE ALTERNATIVE STORICHE (I)

La storiografia marxista dell’attuale ex-Urss è stata alle prese, negli anni della perestrojka, con problemi legati all’autenticità dei fatti storici, alla loro completezza e verità, nonché alla revisione di talune interpretazioni schematiche e decisamente superate. Vi era stato un grande desiderio di conoscere tutto il proprio passato e soprattutto quelle “zone” tenute in ombra dallo stalinismo e dai governi della stagnazione. A ciò si collegava la discussione sul valore delle “alternative storiche”, cioè delle diverse opzioni che si potevano seguire nel momento in cui andavano risolte questioni d’importanza vitale.

Vi sono state alcune “rivelazioni” che hanno per così dire dato il via a molti ripensamenti storiografici. Si pensi alla scoperta di un patto segreto fra Urss e Germania che affiancava quello ufficiale di Ribbentrop-Molotov, o alla responsabilità accertata di Stalin nell’esecuzione degli ufficiali polacchi a Katyn, o anche al fatto che i sovietici morti nel corso della II guerra mondiale sono stati non 20 ma 27 milioni.

Solo oggi si può tranquillamente ammettere che molti fatti storici erano completamente o parzialmente ignorati non solo dai manuali scolastici, ma anche dalle pubblicazioni scientifiche. Il che per molti decenni ha contribuito a fare della storiografia un compito riservato a pochi specialisti rigidamente allineati. Anche quando, p.es., si cominciò ad accennare alle violazioni della legalità durante gli anni dello stalinismo, si continuò a tacere sulle milioni di vittime innocenti, nonché sulle responsabilità dei delatori, dei calunniatori e dei seguaci di Stalin, favorevoli allo sterminio di massa.

Il giudizio sulla II guerra mondiale

Molti storici sovietici, anche nel periodo della stagnazione, attribuivano la scarsa preparazione dell’Urss, per una guerra contro la Germania nazista, al fatto ch’essa non ebbe tempo sufficiente per riorganizzare e riarmare l’Armata Rossa: il che spiegherebbe -a loro giudizio- le sue sconfitte durante le prime tappe della guerra. Oggi invece gli storici sono del parere che l’Urss avesse sin dall’inizio capacità adeguate a respingere l’aggressore, in quanto i carri armati e i corpi corazzati non avevano nulla da invidiare a quelli tedeschi. Furono anzi proprio i sovietici a saggiare per primi le possibilità, teorico-pratiche, dei ponte-aerei, dei missili e dei razzi.

Il fatto è purtroppo che il genio di esperti militari come M. Tukhachevsky e V. Triandafillov, o di esperti scienziati come S. Korolev e V. Glushko, non venne capito, e sino al punto che essi stessi furono considerati dei sabotatori e dei “nemici del popolo”. E così, in luogo della produzione e dell’uso massiccio dei carri armati e dei corpi corazzati, si preferì rilanciare i mezzi e i metodi con cui si era vinta la guerra civile. I piani per creare le divisioni dei paracadutisti furono smantellati, e P. Grokhovsky, uno dei loro principali ideatori, venne declassato a un compito amministrativo. I progettisti dei razzi, Korolev e Glushko, furono spediti nei campi di prigionia di Kolyma. Y. Alksnis e Y. Smushkevich, loro collaboratori e specialisti teorico-pratici nell’uso degli aeroplani da guerra, caddero sotto le repressioni staliniane. Molti generali dell’Armata Rossa e tantissimi ufficiali di valore furono uccisi o finirono nei gulag.

Oggi ci si chiede quanti storici sovietici abbiano studiato a fondo gli inizi della Grande Guerra Patriottica. Quando la Germania attaccò l’Urss, il 22 giugno 1941, ci fu un notevole ritardo nell’allertare le truppe sovietiche nei distretti militari occidentali. Solo durante il primo giorno di guerra, l’aviazione sovietica perse circa 1200 aerei: questo perché l’intelligence del nemico aveva informazioni dettagliate sullo spiegamento delle forze sovietiche e sulle linee di rifornimento e di comunicazione dislocate per almeno 300 km.

Questi e molti altri errori di valutazione dello staff di Stalin comportarono il tracollo quasi immediato del fronte occidentale. S’impedì addirittura alle truppe di terra di attraversare i confini con la Germania e alle forze aree di oltrepassare i limiti aldilà di 100-150 km.

Stalin decise di reagire soltanto quando il nemico era giunto nei territori sud-occidentali. Nel settembre del ’41, invece di acconsentire al ritiro delle 600.000 truppe sud-occidentali, al fine di preparare la difesa lungo il fiume Psel, favorì il loro accerchiamento nella battaglia di Kiev. Nel maggio ’42, invece di ascoltare il generale A. Vasilevsky che gli aveva suggerito di fermare l’offensiva su Kharkov, Stalin (e con lui Timoshenko) la pretese ad ogni costo, determinando così l’accerchiamento delle truppe sovietiche nel saliente di Barvenkovsky.

Milioni di soldati sovietici furono fatti prigionieri durante il primo periodo della guerra. Milioni di loro morirono nei lager nazisti. E milioni di soldati furono uccisi nei territori sovietici occupati. Ciononostante, nei confronti di chi riusciva a sopravvivere e a tornare in patria, lo stalinismo spesso riservò una particolare accoglienza: il sospetto di tradimento!

Il giudizio sulla democrazia

Ovviamente qui sarebbe ingiusto attribuire al solo Stalin ciò di cui furono responsabili anche gruppi sociali e leaders politici amanti dei metodi dirigistico-amministrativi, senza considerare che in parte vanno responsabilizzati anche tutti coloro che provavano indifferenza per la gestione politica della vita sociale. Lo stesso culto della personalità non può essere ritenuto come un prodotto esclusivo del carattere autoritario di Stalin. Se così fosse, si dovrebbe anche ammettere che la società socialista non può mai garantirsi contro l’apparizione di tale fenomeno, in quanto può solo sperare che a un leader autoritario faccia seguito, casualmente, uno democratico.

D’altra parte non ha neppure senso giustificare quel culto appellandosi a fattori storico-oggettivi, come p.es. lo stato arretrato del paese, l’assenza di esperienze democratiche, la necessità della centralizzazione, ecc. Se così fosse il culto andrebbe visto come una necessità storica cui la società di allora non poteva opporsi. Questi due punti di vista portano -come si può notare- a uno stesso risultato: prevenire il culto o sopprimerlo, dopo che si era formato, era allora impossibile.

Oggi finalmente si sono acquisiti dei criteri fondamentali grazie ai quali si può scongiurare la riedizione (magari riveduta e corretta) di quel culto: il principio della elettività, l’obbligo di rendere conto del proprio operato, il controllo di tutto l’apparato gestionale, la rotazione delle cariche, la trasparenza, la partecipazione collettiva all’elaborazione ed applicazione delle leggi, ecc. Non esistono fattori oggettivi o soggettivi che di per sé possano impedire il formarsi del culto della personalità: occorre il contributo di entrambi.

Gli storici si stanno p.es. chiedendo se l’esigenza della centralizzazione, manifestatasi subito dopo la rivoluzione d’Ottobre, doveva per forza di cose realizzarsi sulla base del centralismo burocratico. Ora, il fatto stesso che Lenin e altri bolscevichi avessero prospettato l’eventualità di democratizzare tale centralizzazione, non sta forse ad indicare che né la mancanza di esperienze democratiche, né il basso livello culturale del popolo, avrebbero potuto impedirne la realizzazione? Disgraziatamente Lenin morì troppo presto per continuare la lotta in questa direzione, e dopo la sua morte nessun altro dirigente fu in grado di farlo in maniera convincente: anche sui motivi di questa sconfitta della democrazia gli studi sono ancora insufficienti per offrire risposte esaurienti.

Tuttavia, non ogni interpretazione sulle vicende del passato va rivista. Alcuni storici non-marxisti hanno rispolverato la tesi secondo cui la riforma agraria di Stolypin avrebbe potuto costituire un’alternativa alla rivoluzione d’Ottobre, se la Ia guerra mondiale non l’avesse impedita. In realtà, quella riforma, di tipo prussiano, era fallita ancor prima del 1914, proprio a motivo del fatto che l’autocrazia non era riuscita a vincere né l’attaccamento dei contadini alle tendenze egualitaristiche delle comuni, né il bisogno di protezione sociale tipico di quest’ultime, nonostante il loro carattere limitato. Anche da questo si comprende come la rivoluzione d’Ottobre non fu una semplice alternativa al capitalismo, ma una necessità storica vera e propria.

Conflitti di classe o di razza negli Stati Uniti?

Diventati, dopo la seconda guerra mondiale, leader del mondo capitalista, gli Stati Uniti dichiararono di voler assumere la responsabilità globale per i destini del capitalismo.

La nuova interpretazione dell’esclusività americana acquistò così un chiaro orientamento anticomunista, che si proponeva anche lo scopo di contrastare la crescita dell’influenza ideologica del movimento rivoluzionario mondiale e di quello di liberazione nazionale. “A ogni concetto del socialismo corrisponde un concetto opposto dell’americanismo”, scriveva già negli anni Trenta il giornalista americano di sinistra L. Sarnson.

Fra le teorie economiche e sociologiche degli anni cinquanta e sessanta meritano d’essere ricordate quelle del “capitalismo popolare” e della “società industriale”. In campo storico è la teoria del “consenso” che, a partire dagli anni Cinquanta, divenne il fulcro dell’esclusivismo americano.

Essa affermava che la società americana si distingueva, nella sua evoluzione storica, per l’unità dimostrata nelle questioni fondamentali dell’organizzazione sociopolitica e per la stretta continuità delle istituzioni sociali.

R. Hofstadter sostenne che i conflitti nella storia americana non avevano mai riguardato i problemi della proprietà e dell’iniziativa privata. Assai tipiche sono pure la negazione delle tradizioni rivoluzionarie e socialiste, nonché l’affermazione che non vi sono mai state in Usa delle lotte di classe simili a quelle europee.

Non c’è dunque da stupirsi se i fautori della teoria del “consenso” abbiano rivalutato, dopo decenni di oblio, il libro di A. de Tocqueville Sulla democrazia in America (1835), in cui gli Usa vengono presentati come il paese delle classi medie senza gravi antagonismi sociali.

Avendo intrapreso la revisione di tutta la storia americana, i sostenitori di tale teoria hanno consacrato la più grande attenzione al periodo coloniale e alla guerra d’indipendenza, in cui, a loro giudizio, furono poste le basi della specificità americana.

Sintomatiche, in questo senso, sono le opere di L. Hartz, D. J. Boorstin, R. E. Brown, caratterizzate da un’impostazione ideologica e metodologica fortemente tendenziosa.

Secondo Hartz la violenta lotta di classe in Europa fu accompagnata dalla formazione di diversi sistemi ideologici che si “infettavano” reciprocamente e che servirono da fondamenta all’edificazione d’ideologie sempre più radicali.

Nulla di tutto questo accadde nel Nuovo Mondo. Durante la formazione delle colonie americane soltanto un frammento ideologico liberale si separò dalla società inglese. Trapiantato nel suolo nordamericano, esso costituì il sostrato che, per la creazione d’un sistema di valori, conteneva in germe gli ideali dell’individualismo, della libertà e della democrazia.

Stando sempre ad Hartz, la tradizione liberale affermatasi in America si rese, in un certo senso, “unidimensionale”, mettendosi al riparo dall’influenza di qualunque dottrina estremistica.

Boorstin la pensava come Hartz, ad eccezione che per un aspetto: secondo lui la democrazia americana non s’era sviluppata a partire dal “frammento liberale” del Vecchio Mondo, ma era nata nelle condizioni dello specifico ambiente americano.

Brown infatti affermerà che l’eguaglianza sociale esisteva già nelle colonie americane, che la maggioranza assoluta della popolazione era composta di farmers indipendenti e che una democrazia della classe media s’era costituita sulla base della democrazia economica.

Di fatto questi storici non s’interessavano che alle particolarità dell’evoluzione della società americana coloniale, ovvero l’assenza del feudalesimo in quanto sistema dominante, una disuguaglianza materiale minore che nei paesi europei, un grado più elevato di libertà politiche, ecc. Esagerando la portata di questi fattori, essi svilupparono piuttosto agevolmente la teoria dell’esclusivismo americano.

Brown arrivò addirittura a dire che, a differenza di quelle europee, la rivoluzione americana dei XVIII secolo non mirava a conquistare bensì a difendere delle libertà democratiche già esistenti.

Un altro gruppo di storici, solitamente definiti “neoliberali”, che si rifanno alla teoria del “consenso”, si sono soffermati sulla storia degli Stati Uniti del XX secolo. Essi non negano l’esigenza della lotta fra le ideologie liberale e conservatrice negli Usa, ovvero la presenza delle contraddizioni sociali (nel quadro del consenso generale sulle questioni fondamentali); ma pensano che le tradizioni del riformismo borghese, nelle quali un ruolo essenziale è stato giocato dallo Stato, possano attenuare e anche guarire completamente i mali economici e sociali.

R. Hofstadter, l’esponente più in vista della scuola del “consenso”, espose in maniera assai realista le acute collisioni sociali avvenute negli Usa all’inizio del XX secolo, ma poi dipinse un quadro idilliaco della loro “felice ricomposizione” nell’alveo della tradizione liberale: i leader giunti al potere, utilizzando l’autorità dello Stato, avrebbero fatto votare una legge antitrust e introdotto delle correzioni nei princìpi politici fondamentali, al fine di democratizzare la struttura politica.

Nelle opere di A. M. Schlesinger jr. e di altri autori, il new deal di Roosevelt e le new frontiers di Kennedy altro non erano che gradi successivi del riformismo liberale, le cui fonti risalivano all’epoca progressista dell’inizio del secolo scorso.

Tuttavia, l’era americana fu di breve durata. Analizzando il clima d’incertezza formatosi negli Usa all’inizio degli anni Sessanta, il giornalista americano G. Green scriveva: “Nell’insieme, la psicologia nazionale e il modo di vedere le cose si basavano sulla fede che il “nostro” capitalismo era in qualche modo diverso e migliore […] Vedere il sogno frantumarsi ed essere indotti dalla vita ad accettare un’altra prospettiva è stato senz’altro traumatizzante per la psicologia nazionale”.

La concezione dell’esclusivismo americano, in effetti, ha cominciato a entrare in crisi non solo per le contestazioni mossegli dagli ambienti di sinistra, ma anche per quelle di numerosi economisti, sociologi e politologi che non simpatizzavano con le idee di Marx.

D. Bell, il profeta dell’era postindustriale, costatò che l’influenza della teoria esclusivistica s’era indebolita con il venir meno delle possibilità imperialistiche e della fede ottimistica nel futuro del paese.

Numerosi storici, resisi conto dei limiti della teoria del “consenso”, hanno cominciato a indirizzarsi verso quella diversa visione della storia che prometteva la new scientific history, apparsa alla fine degli anni Cinquanta sotto l’influenza sia dei fattori sociopolitici che dello sviluppo interno della storiografia.

Un approccio interdisciplinare, che utilizzava i metodi della sociologia, politologia, linguistica, ecc., e i metodi quantitativi nell’esame delle fonti, cominciò a essere introdotto nelle ricerche storiche. E così nacquero una “nuova scuola economica”, “sociale” e “politica”. Ne risultò un notevole riorientamento delle scienze sociali americane, che allargarono il ventaglio dei problemi trattati, servendosi di molte più fonti.

La “nuova storia sociale” scelse come oggetto di studio i rapporti etnici, la mobilità sociale e geografica della popolazione, l’immigrazione, i mutamenti demografici, ecc. Le opere storiche di questa tendenza si soffermavano sulla vita degli immigrati e dei neri americani, sul ruolo della donna. Nuovi strati della vita sociale vennero messi in luce dalle ricerche di D. Montgomery, H. Gutman e altri, dedicate alla cultura della classe operaia americana nei suoi aspetti domestici, etnici, professionali e politici.

La “nuova storia politica” s’è invece soffermata sui problemi relativi al comportamento dei cittadini durante le elezioni, alle votazioni in Congresso e nelle assemblee legislative degli Stati, al funzionamento dei partiti politici. Tutto ciò ha permesso di passare da una descrizione dei singoli avvenimenti all’analisi delle strutture e dei processi politici.

Senonché l’angolo visuale di questi storici era tale che il ricco e nuovo materiale ch’essi avevano immesso nel circuito scientifico non contribuiva molto a comprendere i problemi più cruciali della storia degli Usa. Lo dimostrano alcuni esempi. Le ricerche sul ruolo delle minoranze etniche, religiose e politiche si collocano nel contesto di un’analisi funzionale, caratteristica della sociologia empirica contemporanea, che considera ì conflitti come un processo non antagonistico nello sviluppo delle diverse strutture sociali.

Il ruolo sociale della classe operaia, nel sistema dei rapporti di produzione capitalistici, sfugge all’attenzione di questi ricercatori. La nozione stessa di “classe” è da loro definita in modo estremamente generico, come l’autocoscienza che l’individuo acquisisce dei propri interessi. Il proletariato non è visto come oggetto dello sfruttamento capitalistico e le istanze dell’azione sociopolitica degli operai restano nascoste.

Questi storici non provano alcun interesse per la lotta di classe, gli scioperi, i sindacati e le organizzazioni politiche degli operai. La “nuova storia politica” studia il comportamento politico degli elettori nello spirito dei modelli behaviouristi, senza legarlo alla loro appartenenza di classe, e analizza il funzionamento del meccanismo politico separandolo dai fondamentali problemi socioeconomici.

Ciò spiega i motivi della crisi della “nuova storia scientifica”. Mancando completamente una sintesi generale, i successi ottenuti nell’applicazione dei processi interdisciplinari avevano portato – come vuole lo storico americano G. Nash – a un “brillante disordine”. Dopo una decina d’anni gli aspetti negativi di tale scuola divennero molto evidenti, tanto che alcuni storici ritornarono sulle posizioni dell’esclusività americana.

A differenza degli anni Sessanta, negli anni Settanta lo studio dei conflitti sociali e dei movimenti popolari è stato scavalcato da quello sui problemi della stabilità sociale. D’altra parte – sottolinea il redattore capo del “Journal of Social History”, P. N. Stearns – “l’etnicità è diventata una questione nodale della storia sociale americana e un’alternativa a quel tipo di analisi di classe che insiste sullo scontro sociale”.

Un approccio che metta in rilievo l’adattamento e la stabilità come aspetti peculiari della storia americana è senza dubbio un passo avanti verso una nuova versione della concezione del “consenso” e della teoria dell’esclusività.

C. N. Degler ha fatto il punto di queste tendenze nel suo messaggio presidenziale all’organizzazione degli storici americani. Egli ha presentato la “nuova storia scientifica” come un naturale prolungamento della vecchia storiografia, compresa la concezione del “consenso”. Rimproverando a questa nuova storia la sua infatuazione per ì metodi comparativi, Degler ribadisce la specificità dello sviluppo americano, e afferma che “i principali conflitti sono stati legati, nella società americana, più a una coscienza razziale ed etnica che a una coscienza di classe”.

La storiografia radicale americana

Una posizione critica verso la teoria dell’esclusivismo americano l’ebbe la tendenza radicale degli anni sessanta emersa sull’onda del movimento della “nuova sinistra”.

Le idee dei radicali si sono formate sotto l’influenza di taluni principi marxisti, ma la loro metodologia, nel complesso, è rimasta piuttosto eclettica, poiché subiva il fascino delle correnti critiche della filosofia e sociologia occidentali.

In ogni caso, l’apparizione dei radicali nella scienza storica è stata segnata da un rafforzamento della critica tanto dell’approccio apologetico della storia del capitalismo americano quanto della storia “senza conflitti”.

Questi storici hanno affrontato molti importanti argomenti del passato americano dal punto di vista delle contraddizioni sociali antagonistiche e della violenta lotta di classe.

Contrariamente alla storiografia conservatrice essi sottolineano le divisioni sociali e i conflitti interni alla guerra d’Indipendenza. S. Lynd, J. Lemish e A. F. Young hanno concentrato la loro attenzione sui movimenti degli strati poveri della popolazione urbana e sulle divisioni politiche in campo patriottico fra alcuni Stati del paese, contestando in modo convincente la concezione di R. E. Brown relativa alla democrazia della classe media nell’America coloniale.

Un altro punto chiave nella posizione dei radicali contro la teoria del “consenso” fu la critica di tutte quelle asserzioni relative al carattere non classista della regolazione economico-statale (incluso il riformismo sociale) del XX secolo. G. Kolko, J. Weinstein e altri hanno mostrato che l’intervento del governo nell’economia, all’inizio del nostro secolo, fu condizionato sia dai bisogni produttivi del big business, sia dalla necessità di attenuare le contraddizioni di classe che s’erano aggravate. Le forze anticorporative vennero sconfitte dall’alleanza fra lo Stato e i monopoli.

Da allora il riformismo borghese (il liberalismo corporativo, nella terminologia dei radicali) tiene il popolo americano stretto in una morsa. I radicali inoltre ritengono che il new deal rooseveltiano abbia costituito una nuova tappa nello sviluppo politico dei capitalismo.

Analizzando il periodo post-bellico, essi hanno riservato una particolare attenzione al ruolo del complesso militare-industriale e del big business nella condotta aggressiva della politica estera americana.

Gli storici radicali hanno pure condotto una battaglia contro la storiografia tradizionale sui problemi della storia del movimento operaio. Essi rifiutano il dogma della scuola del Wisconsin, inerente al carattere esclusivo dell’esperienza storica del proletariato americano, e danno una grande importanza allo studio dell’attività della burocrazia sindacale e della politica riformista dell’American Federation of Labour (AFL).

Diversi storici, fra cui J. R. Conlin, J. M. Laslett e M. Dubofsky, si sono soffermati sulla storia di organizzazioni come “I cavalieri del lavoro” (Knights of Labour) e “Operai industriali del mondo” che si opponevano all’AFL. E però significativo che gli storici radicali non considerino il movimento di sinistra come un risultato dell’influenza della idee europee e dell’immigrazione straniera, ma come un prodotto naturale delle interne condizioni socioeconomiche americane.

Nella loro critica della teoria esclusivistica, i radicali sono andati senz’altro molto più in là degli storici di tendenza economista. Tuttavia non hanno saputo staccarsene completamente. Così, ad esempio, molti radicali descrivono l’imperialismo americano come un fenomeno nazionale, non accettando l’idea ch’esso sia solo una variante dello stadio supremo dello sviluppo del sistema capitalistico globale.

S. Thernstrom, che è vicino al trend radicale, enfatizza l’alta mobilità sociale degli operai esistita alla fine del XIX secolo, considerandola come un tratto distintivo dello sviluppo storico americano. G. Kolko afferma che l’inesistenza, a tutt’oggi, di un movimento anticapitalistico di massa negli Stati Uniti è stata determinata dall’alto livello democratico del paese e quindi da un’oppressione insignificante dell’individuo.

A cavallo degli anni Settanta e Ottanta il clima politico negli Usa s’è profondamente modificato. Si è vista crescere, e in modo brutale, l’influenza delle tendenze conservatrici: il che ha riflesso lo spostamento verso destra degli ambienti più autorevoli della classe dirigente nell’affrontare i problemi di politica interna ed estera. Si tratta, in sostanza, della reazione dei circoli imperialisti più aggressivi all’approfondimento delle contraddizioni socioeconomiche del capitalismo americano e mondiale, al rafforzamento del socialismo e all’estensione dei processi rivoluzionari e di liberazione nel mondo.

Il conservatorismo, divenuto agli inizi degli anni Ottanta un fattore importante della vita politica americana, rappresenta oggi una corrente ideologica in grado di influenzare diversi campi di pensiero. Esso esige la limitazione dell’intervento statale nella sfera socioeconomica del paese e si appella a taluni ideali e valori atemporali dell’americanisino, mettendo l’accento sulla tradizionale ideologia individualista dell’impresa privata e sulla morale della borghesia emergente. Questi neoconservatori levano gli scudi contro le tradizioni non solo rivoluzionarie ma anche liberali.

A partire dalla fine degli anni Settanta è iniziato il rapido consolidamento della corrente conservatrice nella storiografia, che ora si basa integralmente sulla piattaforma dell’esclusività americana. Al forum degli storici conservatori, istituito nel 1977, P. Gottfried, tratteggiando i loro obiettivi, avrebbe dichiarato che il compito principale consiste nel porre un efficace contrappeso all’influsso liberale e marxista che, a suo giudizio, sarebbe predominante nelle organizzazioni sindacali e nell’orientamento delle maggiori riviste storiche.

Alla conferenza degli storici conservatori del 1980 si sono espresse le medesime preoccupazioni e ribaditi gli stessi impegni. L’articolo di B. W. Folson, I pregiudizi liberali nei manuali di storia americana, mostra molto bene fin dove arrivano le pretese dei conservatori nella revisione della storia.

L’autore contesta duramente gli storici che danno un giudizio favorevole alle iniziative prese da Kennedy, Stevenson, Humphrey a McGovern. R. R. Berthoff è lo storico ideale per la storiografia conservatrice. A suo modo di vedere la stabilità resta la tendenza cardinale della storia americana e il principio essenziale dell’americanismo.

Al pari di Hartz, Boorstin e Brown, Berthoff dipinge la società dell’America coloniale come socialmente omogenea al massimo grado, in cui l’accesso alla classe media (freeholders, proprietari di fattorie, negozi, atelier artigianali) non è mai stato vietato a nessuno.

Dopo la guerra d’Indipendenza -egli afferma- le istituzioni politiche, le norme morali e le dottrine ideologiche si formarono sulla base della stabilità sociale. Il lasso di tempo compreso fra il 1815 e il 1900 è da lui visto come l’unico periodo d’instabilità sociale nella storia degli Usa, in cui ondate incessanti d’immigrati d’origine europea crearono un’inedita mobilità orizzontale e verticale della popolazione.

L’equilibrio si sarebbe ristabilito appunto verso gli inizi del secolo. La società americana contemporanea sarebbe dunque rimasta, a suo giudizio, assai mobile e nel contempo assai unita, preservando così i principi dell’americanismo.

Gli storici che preconizzano il “ritorno alle fonti” hanno già riscritto un largo ventaglio di avvenimenti della storia americana. Sviluppando, ad esempio, l’idea della stabilità e della impermeabilità della società americana ai mutamenti sociali profondi, R. Kirk ha definito le prime due rivoluzioni borghesi degli Usa come moderate e anche conservatrici.

A suo parere, la guerra d’Indipendenza fu ispirata dal fervore religioso più che dalle idee illuministiche, mentre la guerra civile del 1861-65 venne condotta non contro lo schiavismo, ma unicamente per la salvezza dell’Union. Nel 1982 Kirk ha pubblicato un’antologia dei teorici conservatori più in vista: E. Burke, J. S. Adams, A. Hamilton, J. C. Calhoun e altri.

Il libro della storica A. Kraditor, diretto contro le tesi fondamentali della storiografia radicale contemporanea sul movimento operaio americano a cavallo dei secoli XIX e XX, ha ottenuto vasti consensi. La Kraditor ha proclamato il marxismo “estraneo” agli Usa, in cui, a suo parere, il capitalismo si sviluppa secondo leggi particolari ed è in grado di curare con successo i propri mali.

Altri esempi ancora. Le idee della school of business sono state sviluppate da B. W. Folsom, che offre un’immagine delle imprese dei capitani d’industria della Pennsylvania come di un motore trainante del progresso industriale.

Le opere del ricercatore Th. Sowell sostengono l’idea che l’assistenza pubblica non può affatto risolvere la situazione materiale delle minoranze nazionali americane, le quali pertanto possono soltanto sperare in una lunga autoeducazione morale e pratica. Egli si è quindi rallegrato per l’abbandono delle iniziative riformatrici voluto dall’amministrazione Reagan.

Le idee degli storici neoconservatori, come si può ben vedere, non sono originali. Forse ciò che è nuovo è il tentativo di raggruppare insieme diverse varianti dell’esclusività americana, al fine di ottenere un’unica concezione che si ponga come asse della tradizione conservatrice, oggi quanto mai anticomunista.

Storia del mito americano (II)

La teoria dell’esclusività americana prese un nuovo impulso verso gli inizi del XX secolo col rafforzamento dell’economism borghese nella storiografia di questo paese.

Gli studi economico-sociali s’imposero nell’epoca in cui, di fronte ai seri rivolgimenti sociali e alla crescita del movimento operaio e antimonopolistico, le concezioni che riconducevano il processo storico essenzialmente alla storia politica perdevano il loro significato sociale e non convincevano più nessuno.

L’orientamento sociale della nuova corrente storiografica era conforme, grosso modo, ai compiti del riformismo borghese. Col mutare della situazione, parte degli ideologi e dei ricercatori si proposero d’esaminare più da vicino le cause materiali del malessere sociale e di trovare altresì i mezzi per risolvere o almeno attenuare i conflitti di classe.

Lo stesso sviluppo interno della scienza storica favorì questa ricerca. Le indagini degli storici “economisti”, per quanto non prendessero in esame la genesi e lo sviluppo della formazione capitalistica e per quanto sostituissero alla divisione in classi una semplice classificazione per gruppi economici, contribuirono a una migliore comprensione dei soggetti socioeconomici e del ruolo dei conflitti sociali nella storia degli Stati Uniti.

Tuttavia l’influenza degli storici economisti sulla teoria dell’esclusività americana non fu univoca. Alcuni di loro assolutizzarono le particolarità dello sviluppo economico della regione, cercando di completare la teoria con argomentazioni appunto di tipo economico.

L’esponente più significativo di questo indirizzo fu F. J. Turner, con la sua Theory of the Frontier (in America s’intendeva per “frontiera” la linea più avanzata dell’insediamento dei coloni bianchi durante la colonizzazione dell’ovest).

Turner, in gioventù, condivideva le idee della scuola anglosassone, ma poi se ne distaccò proprio per l’importanza decisiva che diede alla colonizzazione nella storia degli Usa.

Dando un’interpretazione sociale al ruolo della frontiera, così scrisse nella sua famosa relazione tenuta nel 1893 all’Associazione storica americana: “Le terre libere favorirono l’eguaglianza fra i coloni dell’ovest e neutralizzarono le influenze aristocratiche dell’est. Laddove ognuno poteva avere una fattoria… l’eguaglianza economica si stabiliva facilmente, e questo determinava l’eguaglianza politica”.

Deducendo la democrazia politica dalla fragile ed effimera eguaglianza sociale creatasi all’ovest (peraltro a spese delle popolazioni native), Turner affermava che “la democrazia americana contrastava nettamente… con gli sforzi dell’Europa di creare un ordine democratico artificiale attraverso la legislazione”.

A suo giudizio il regime democratico dell’ovest americano riuscì a diffondersi in tutte le maglie della società avanzata, rinnovando la democrazia dell’est. La frontiera agiva dunque su due piani: da un lato, le vecchie idee politiche importate dall’est subivano forti mutamenti sotto l’influenza delle condizioni ambientali, sociali e geografiche dell’ovest; dall’altro, le terre libere agivano sui rapporti sociali dell’est come una valvola di sfogo, in quanto le popolazioni superflue lasciavano le coste orientali dell’America per andare a vivere in occidente.

Senonché, prosegue Turner, i rapporti sociali dell’ovest si complicarono progressivamente con l’offensiva della civilizzazione che veniva da est. Lo sviluppo del capitalismo indebolì l’eguaglianza sociale della frontiera erodendo così il sostrato democratico.

La frontiera però non morì – afferma ancora Turner -, essa si spostò soltanto verso ovest, verso una nuova area da colonizzare. Su terre libere e non popolate si ristabilirono così l’equilibrio sociale e i principali ideali dei pionieri: individualismo, democrazia, nazionalismo, espansionismo.

Turner elaborò le sue idee in un periodo in cui gli echi della tricentenaria colonizzazione dell’ovest si sentivano ancora nel clima sociale, nella vita quotidiana e nella letteratura. Egli rappresentò il culmine di una lunga tradizione che mirava a considerare le terre libere come un rimedio salutare ai mali del capitalismo. La tradizione durò appunto fino a quando le terre rimasero disponibili.

Nel 1862 si mise in atto l’esigenza di una riforma agraria unanimemente sostenuta dai farmers dell’ovest: l’Homestead Act, che permise a ciascuno, per un prezzo nominale, di entrare in possesso di un lotto di 160 acri.

Nonostante questo però non si riuscì a perpetuare nell’ovest la piccola azienda a conduzione familiare, né a permetterne l’accesso agli operai industrializzati. Dopo la guerra civile del 1861-65, il capitalismo progredì enormemente negli Usa, sia nell’industria che nell’agricoltura.

Dal 1860 al 1880 il numero degli operai agricoli quadruplicò, mentre i mezzadri divennero più del 30% di tutte le aziende contadine. Il capitalismo incatenò saldamente la gran massa degli operai alle macchine utensili. Per ogni operaio che diventava proprietario d’una fattoria ce n’erano altri 20 spinti nei ranghi del proletariato. Questa volta era lo sviluppo in profondità del capitalismo che prevaleva su quello in estensione.

L’utopia agraria inesorabilmente fallì, anche se le idee utopiche da essa generate sopravvissero, divenendo conservatrici. L’apologia si manifestò soprattutto nella teoria della “scala agricola”, secondo cui un operaio agricolo poteva, dopo aver lavorato per un certo periodo di tempo nella fattoria padronale, diventare mezzadro e in seguito proprietario fondiario.

L’illusione coltivata dalla propaganda degli agrari non era più in buona fede. E comunque l’influenza della teoria della frontiera sul pensiero storico americano fu vasta e contraddittoria, non foss’altro che per l’artificiale separazione prodotta da Turner circa le due tendenze dello sviluppo capitalistico, in larghezza e in profondità, a tutto vantaggio della prima.

Egli credeva di scorgere nel suo paese un modello per il mondo intero. Eppure già negli anni Novanta il Census Bureau dichiarò chiusa la frontiera. In quell’occasione Turner constatò amaramente che le terre vacanti erano finite, che le forze materiali che avevano dato vita alla democrazia dell’ovest non esistevano più e che il paese era diventato come una “caldaia bollente”.

Egli si mise alla ricerca di nuove valvole di sfogo, apprezzando le ricette del riformismo borghese moderato e appoggiando con fiducia le iniziative di Th. Roosevelt e di W. Wilson. Non smise di credere nel valore dell’espansionismo americano: ecco perché condivise la politica imperialistica degli Usa condotta nei confronti del Sudamerica e dell’Estremo Oriente a cavallo dei secoli XIX e XX.

Ma il rappresentante più eminente del pensiero storico americano del XX secolo fu Ch. A. Beard, che denunciò i limiti dello schema storico della teoria di Turner. Egli basò la sua spiegazione della storia degli Stati Uniti sull’urbanizzazione, scoprendo nello sviluppo del capitalismo industriale il principale motore del processo storico dei tempi moderni.

Contrario a Turner, che faceva dipendere il benessere dal rapporto elementare dell’uomo con la natura, Beard pensava invece ch’esso dipendesse dalla rottura di tale rapporto. Non quindi la frontiera ma solo lo sviluppo industriale avrebbe potuto attenuare le contraddizioni sociali.

Egli comprendeva perfettamente che in seguito alla rivoluzione industriale erano emersi nuovi problemi, il primo dei quali era l’antagonismo tra capitale e lavoro. Pur tuttavia era convinto che l’industrialismo avrebbe ammortizzato col tempo i costi del progresso.

Beard mostrò in maniera assai realista che la concentrazione del capitale, alla fine del XIX secolo, aveva portato alla formazione di trust giganteschi, diretti da un’élite finanziaria, che p.es. i Gould e i Rockefeller, che sfruttavano qualunque tipo di risorsa umana e materiale. Le sue simpatie andavano per i nullatenenti, e spesso affermava che il popolo sapeva opporsi a questo modo non americano di governare.

Il fatto che alle elezioni del 1896 e del 1912 gli americani avessero riportato significativi successi nella democratizzazione del paese era sufficiente, a suo giudizio, per concludere che l’ulteriore sviluppo industriale avrebbe appianato i contrasti sociali e politici più acuti, approdando verso una sorta di “collettivismo democratico”.

Partecipando al movimento riformista borghese degli inizi del Novecento, Beard favorì la tendenza sintetizzata nella formula rooseveltiana del “nuovo nazionalismo”, secondo cui bisogna non tanto impedire l’attività ai monopoli quanto piuttosto regolamentarla attraverso lo Stato.

Egli prese posizione contro W. Wilson che esigeva, senza dubbio demagogicamente, la soppressione dei trust, e il revival della tradizione agraria jeffersoniana.

Beard era altresì convinto che i principali avvenimenti della storia americana avessero per contenuto fondamentale lo scontro fra gli interessi industriali e quelli agrari. In virtù di questa grande competizione si sarebbero determinati, a suo parere, un’attenuazione delle differenze di classe e il sorgere di una democrazia universale.

Beard cercò anche di ridimensionare la teoria dell’esclusivismo americano, affermando che le categorie del progresso industriale e dell’urbanizzazione si applicavano anche ai paesi europei. Insieme a A. M. Schlesinger e J. Jameson egli dimostrò che fra le rivoluzioni borghesi americana e francese del XVIII secolo c’erano molti punti in comune.

Ciò tuttavia non gli impediva di credere nella specificità dello sviluppo americano, cioè nelle condizioni particolarmente propizie all’industrialismo (che avevano generato, secondo lui, una sorta di “capitalismo puro”) e soprattutto nel carattere fortemente democratico delle loro istituzioni politiche. E’ significativo che questo elemento nazionalistico abbia trovato la sua più piena valorizzazione durante lo scatenamento sciovinistico della I guerra mondiale, la quale – ai suoi occhi – altro non rappresentò che lo scontro di due sistemi politici opposti: autocrazia e democrazia.

Ma le posizioni politiche di Beard subirono delle modificazioni. Col tempo, p.es., egli ammise che le sue conclusioni circa il trionfo della nuova democrazia all’inizio del XX secolo erano state premature, che la sua analisi della I guerra mondiale era sbagliata, in quanto si era trattato dello scontro fra grandi potenze rivali.

Negli anni Trenta adottò il relativismo e dopo la II guerra mondiale abbandonò il determinismo economico, il quale, nonostante i suoi difetti, aveva senza dubbio permesso di porre in maniera intelligente molti importanti problemi storici.

Il tema dell’unicità dell’evoluzione agraria degli Usa e della mobilità sociale degli americani occupò un posto sempre più grande nei suoi scritti; e arrivò persino a conciliare la tesi di Turner sulle frontiere territoriali con la concezione dell’industrialismo e ad apprezzare positivamente le idee di Jefferson.