Elogio dell’ambiguità

Non c’è nulla che non possa essere interpretato in maniera ambivalente: né una parola, né un’immagine o un suono, neppure il silenzio o il vuoto. Tutto è soggetto ad ambiguità, anche perché è proprio questa incertezza che indica la presenza nell’essere umano della libertà di coscienza, che stimola la mente ad aprirsi, che misura la virtù.

Per cui pensare che i sensi siano più sicuri dell’intelletto è pura follia, come d’altra parte lo è il contrario, in quanto proprio l’attaccamento pervicace a determinate idee ha provocato disastri incalcolabili; così come le strategie basate sulla manipolazione degli istinti. I sensi senza l’intelletto sono ciechi, e l’intelletto senza i sensi è sordo.

Non c’è nulla di definito o di definibile, se non appunto il concetto di “relatività” o, se si preferisce, di “dialettica”, che è lo strumento che tiene uniti gli opposti. Nulla può esistere di indipendente dalla volontà, dalla facoltà di scelta, dal libero arbitrio dell’uomo; nulla che possa imporsi da sé, come un’evidenza certa, indiscutibile, automatica. Nessun dio può vantare d’essere più grande dell’uomo. L’unico essere è “umano”, che non sopporta alcun altro “essere” privo di umanità, unica vera fonte della libertà.

La stessa natura, che pur ci è data come un’evidenza esterna, non ha leggi superiori a quelle che possono regolamentare in maniera equilibrata l’esistenza umana. Anzi gli uomini rappresentano il grado supremo dell’autoconsapevolezza dell’universo.

Chi pensa il contrario è un fanatico, un illuso o una persona limitata, con poche idee nella testa. Non abbiamo alcuna possibilità di dire “ciò che è”, ma solo “ciò che non è”, con tutta l’umiltà possibile, ma anche con tutta l’onestà, la sincerità e la convinzione di dire la sacrosanta verità.

Possiamo parlare solo al negativo, possiamo soltanto usare espressioni come “forse”, “dipende”, “può darsi”, “per il momento”, “stante le cose in questi termini”, “posti questi presupposti”, e così via.

Possiamo soltanto essere apofatici, cioè indiretti, possibilisti, simbolici, allegorici; non possiamo essere categorici, apodittici, esclusivisti. La vita è soltanto una metafora, che richiede una continuametanoia.

Quando diciamo che non esiste alcun dio al di fuori dell’uomo, lo diciamo proprio per assicurare all’uomo la sua umanità e quindi la sua libertà di scelta, di essere per la scelta e non per il dover essere.

Un qualunque dio sarebbe una non-scelta, un’imposizione intollerabile, un giudizio insopportabile. L’a-teismo non è la semplice negazione del dogmatico teismo, non è il rovescio della medaglia, ma la pre-condizione minima per iniziare ad essere se stessi. L’a-teismo non indica all’esistere la strada dell’essere, ma permette di cercarla liberamente, lontani dai condizionamenti della religione, che, per forza di cose, sono alienanti, in quanto separano l’umano dalla libertà.

La fede religiosa impedisce la ricerca, l’auto-esame, la disponibilità al mutamento; favorisce solo la rassegnazione, la passività di chi si affida ad altri, a un dio ritenuto infinitamente migliore di sé (che poi, nel concreto, vuol dire affidarsi ai suoi rappresentanti, che speculano sulle debolezze altrui).

La fede è soltanto la giustificazione del vittimismo, l’idea illusoria che il vittimismo possa essere un valore. Tutte le religioni indicano che nel passato più remoto è esistita un’età dell’oro, ma nessuna ha mai avuto la forza per farci ritornare a quell’età.

La facoltà della memoria storica

La memoria è una facoltà molto particolare, dalle potenzialità incredibili. La memoria non è solo una cosa che riguarda il nostro passato personale (in questo caso sarebbe meglio parlare di “ricordo”). La memoria è un qualcosa di storico, che riguarda l’intero genere umano.

In un certo senso tutti, a prescindere dal tempo e dallo spazio, ci ricordiamo cose comuni, poiché le sentiamo nella stessa maniera. Nella memoria infatti è implicito il desiderio, l’emozione, la sensibilità… Nel senso che vi sono cose che non si possono dimenticare, poiché sembrano far parte del Dna della nostra specie, come p.es. quando amiamo qualcuno o quando qualcuno di caro ci muore. Son cose che riaffiorano sempre alla mente, anche a distanza di molti anni, tant’è che finiamo col provare gli stessi sentimenti della prima volta. Questo accade in tutti.

Ma la memoria è storica anche per un’altra ragione. Quando, nei libri che leggiamo, vediamo esperienze di dolore, di sofferenza morale o materiale, noi ci chiediamo sempre come avremmo potuto risolverle, anche se, rispetto al nostro presente, esse sono distanti migliaia di anni. Noi guardiamo il passato cercando di immedesimarci nelle situazioni e nei personaggi che gli appartengono.

Lo facciamo istintivamente, come se fra loro e noi non ci fosse alcuna barriera insormontabile a dividerci. La differenza sta solo negli aspetti formali, negli strumenti che si usano: la sostanza invece è la stessa.

Se sentiamo fortemente i problemi del presente, il passato ci può essere più vicino di quanto non lo sia stato per chi lo viveva con una consapevolezza superficiale. Per certe cose noi possiamo avere la medesima memoria di chi ci ha preceduto di secoli e secoli.

Quali cose è presto detto: il senso della libertà, della giustizia, della verità, dell’onestà… Noi possiamo capire chi ha sofferto ingiustamente nel passato, meglio di quanto abbia potuto farlo lui stesso o un suo contemporaneo. Dipende dall’intensità con cui si affrontano le cose.

Noi abbiamo memoria della sofferenza di tutta la storia e non riusciamo a dimenticare nulla, anzi preferiamo immedesimarci con la sofferenza di tutti e ci chiediamo sempre cosa avremmo fatto al loro posto, e ci duole il fatto di non poter parlare coi diretti interessati e di doverci inventare degli ipotetici dialoghi.

Sarebbe bello poter ricapitolare, tutti insieme, la storia del genere umano, per poterci chiarire sul perché delle scelte compiute. Abbiamo bisogno di fare chiarezza, ripulendo la nostra memoria dalle incrostazioni dei pregiudizi.

Una nuova periodizzazione della storia

Una delle più grandi disgrazie dell’umanità è stata la scoperta dell’uso dei metalli, la metallurgia, che gli storici invece definiscono come la più importante innovazione tecnologica del mondo antico, insieme alla ruota e all’aratro.

Con la metallurgia l’uomo smette definitivamente d’essere “naturale”, soprattutto quando arriva al “bronzo”, che in natura non esiste. Comincia in sostanza a sovrapporsi a ciò che l’ambiente naturale gli mette a disposizione. Fino a quel momento infatti – cioè per milioni di anni – aveva usato la pietra, l’osso, il legno, l’avorio… tutto quello che la natura gli offriva e che si poteva facilmente trovare, sostituire, riciclare e riconvertire in altro.

Era l’abbondanza stessa della natura che rendeva inutile l’esigenza di utilizzare i metalli. Quindi si può presumere che tale esigenza sia maturata anzitutto in un territorio molto ostile, impervio, difficile da vivere (p.es. le paludi o le aree acquitrinose e melmose dei fiumi che esondano periodicamente); territori prodottisi a causa di imprevisti o improvvisi mutamenti climatici o di errati comportamenti umani. Non è infatti da escludere che le cosiddette “civiltà” siano nate presso popolazioni disadattate o emarginate o addirittura escluse dal consesso di altre popolazioni, a causa di certi loro atteggiamenti.

Non dimentichiamo che sono state proprio queste popolazioni sui generis che, per giustificare taluni atteggiamenti arbitrari, hanno inventato la religione, la quale non ha solo la funzione di reprimere chi non si adegua al regime dominante, ma anche di legittimare la disuguaglianza sociale (tra uomo e uomo e tra uomo e donna), che poi si traduce in oppressione dell’uomo nei confronti della natura. Dio sostituisce la natura quando un particolare ceto sociale vuol far valere i propri interessi su una collettività e si serve appunto della religione per far credere che i propri interessi appartengano all’intera collettività.

In origine ciò che fu insensato fu il passaggio dall’agricoltura allo sviluppo urbano. Già il passaggio dal nomadismo alla stanzialità (che gli indiani nordamericani sino alla metà dell’Ottocento non avevano mai conosciuto) era foriero di rischi imprevedibili. Quando poi, nella stanzialità, si passò all’urbanizzazione, l’uso sistematico dei metalli divenne inevitabile: rame, stagno, bronzo, ferro, oro, argento… E coi metalli non si facevano solo oggetti d’uso domestico, ma anche armi, e non tanto per cacciare quanto piuttosto per fare guerre di conquista e di sterminio.

E siccome le cave, le miniere, le fonti di rifornimento erano poche e facilmente esauribili (non essendo rinnovabili), il bisogno di ampliare i mercati o d’impadronirsi di territori altrui divenne sempre più forte. S’era imboccata una via irreversibile, che rendeva tutto innaturale.

La storia è diventata col tempo un gigantesco mattatoio tra popolazioni dedite alla cosiddetta “civilizzazione”, sia che questa fosse espressamente voluta, sia che fosse passivamente ereditata: in entrambi i casi infatti s’è dovuta imporla con tutta la forza e l’astuzia possibile a quelle popolazioni ancora caratterizzate dall’ingenuo collettivismo dell’innocenza primordiale.

A volte queste aggressive popolazioni sono state sconfitte militarmente da altre che, dal punto di vista della “civilizzazione”, erano più indietro (perché p.es. ancora nomadiche, prive di città ecc.), ma col tempo queste popolazioni tecnologicamente più arretrate sono state assorbite, hanno “modernizzato” il loro stile di vita, si sono lasciate corrompere, diventando come le popolazioni che avevano sconfitto (vedi p.es. i “barbari” nell’alto Medioevo europeo).

Il virus dell’antagonismo sociale si è lentamente ma progressivamente diffuso in tutto il pianeta. Le catastrofi epocali che questo stile di vita ha prodotto non sono mai state sufficienti per ripensare i criteri che determinano il concetto di “civiltà”. Tutto quanto è anteriore a un certo periodo noi continuiamo a chiamarlo col termine di “preistoria”.

Ecco perché dobbiamo ripensare i criteri di periodizzazione con cui siamo soliti distinguere i periodi storici. La civiltà è una sola, quella umana. Semmai sono le forme a essere diverse. Da una storia fondata sul collettivismo democratico siamo passati a una storia basata sull’antagonismo sociale, gestito, a seconda dei casi, da gruppi privati (monopolistici) o da istituzioni statali (burocratiche). I gruppi privati sono tipici dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti (dove lo Stato è alle loro dipendenze); le istituzioni statali sono invece tipiche di molti paesi asiatici (anzitutto la Cina, ma il collettivismo forzato ha caratterizzato anche tutto il cosiddetto “socialismo reale”).

Vita e Scrittura. Riflessione metalinguistica

Quando si scrive una qualunque cosa, bisogna arrivare a un punto oltre il quale deve esistere la vita allo stato puro, cioè non mediato dalla scrittura stessa, che è appunto “assenza di vita”.

Non ci si appropria della vita attraverso la scrittura, che non ha neppure il potere di rappresentarla adeguatamente. La vita può essere rappresentata solo da se stessa, come qualunque altro sentimento o valore umano, e la scrittura, in tutte le sue forme, è solo una forma di illusione (che va smascherata); non foss’altro – nel migliore dei casi – che per una ragione molto semplice: tutto quello che la scrittura tocca, diventa “passato”. Anche quando parla del futuro, lo schematizza in maniera arbitraria, in quanto lo fissa su una determinata ipotesi.

E che la scrittura sia un mezzo molto limitato, lo dimostra il fatto che quando un autore vuole diversificare le proprie ipotesi interpretative, cade sempre in un insopportabile o insostenibile artificio retorico o intellettualistico, usato con l’intenzione di intrigare, di suscitare un interesse, ma che sortisce soltanto l’effetto di riempire un vuoto di noia. Spesso queste diversificazioni meramente logico-astratte vengono utilizzate per produrre opere in serie (commerciali), il cui valore culturale, esistenziale, spirituale è prossimo allo zero (si vedano p.es. i gialli, l’horror, il noir, i romanzi rosa tipo Harmony, le saghe alla Harry Potter, ma anche certi raccolti cervellotici di Pirandello, ecc.).

Una scrittura potrebbe avere una qualche utilità se anzitutto chiarisse i limiti (epistemologici) entro cui si muove. Purtroppo però chi scrive ha proprio, generalmente, la pretesa contraria, e cioè quella di mostrare una solida coerenza interna (espressa in positivo o in negativo), che nella realtà, nella vita (propria o altrui) non esiste mai, in senso stretto. Una coerenza assoluta può anche essere una forma incredibile di fanatismo, di folle miopia.

Il pregio fondamentale dell’esistenza sta proprio nella dialettica degli opposti, che non può essere ipostatizzata o cristallizzata in alcuna teoria, neanche in una che facesse di questa stessa dialettica il criterio dell’agire.

La scrittura è sempre una finzione, un inganno, un’apologia se non addirittura una sorta di agiografia di qualcosa o di qualcuno (in maniera diretta o indiretta, poiché qualunque buon scrittore sa che la migliore apologia è quella in cui l’oggetto non è palese ma occulto).

Una scrittura ha valore solo se si auto-nega, cioè solo se mostra i suoi stessi limiti, rispetto alle esigenze della vita. Non solo, ma chiunque si accinga a usare la scrittura in questa maniera, deve sapere che il tempo che le dedica, inevitabilmente lo sottrae alla vita. E dovrebbe altresì chiedersi, in tal senso, se, a parità di fatica, non si ottengono cose migliori, o semplicemente maggiori, dedicandosi alla vita pratica che non elaborando opere teoriche. Lenin lo disse chiaramente: è meglio farla, la rivoluzione, che scriverci sopra. Uno non dovrebbe mai arrivare al punto da indurre la propria moglie a dire: “è in biblioteca ad ammazzare il tempo”.

La scrittura può servire per riflettere sopra un’esperienza di vita, ma non ha più potere della parola. La scrittura è un’operazione che si compie in solitudine; la parola è un mezzo che implica, in una situazione normale, la presenza almeno di un’altra persona; tant’è che quando vediamo uno parlare da solo, sospettiamo che sia matto. Non lo diciamo anche di uno che scrive da solo, poiché ci appare come un intellettuale (o anche un artista) in atto di produrre qualcosa. Solo dopo aver esaminato il suo prodotto, ne scopriamo i pregi e i difetti.

Beato quello scrittore che non permetterà a un critico di dire: “Era arrivato a un passo dal capire l’inutilità della scrittura, ma non fece in tempo”. Beato soprattutto quello scrittore che, dopo tanto scrivere, non decide di togliersi la vita per non averla saputa vivere a causa della propria scrittura. La “retta via” può essere smarrita in tanti modi, ma certamente non la si recupera scrivendo un’imponente Commedia.

Mettiamo un fiore sulla tomba di quanti han cercato disperatamente nella propria scrittura una ragione della propria vita, senza riuscire a trovarla. L’elenco è lunghissimo: Kierkegaard, Nietzsche, Pavese, Hemingway, Primo Levi, Sylvia Plath, Majakovskij, Esenin, Antonia Pozzi, Emilio Salgari, Virginia Woolf e tanti altri.

La comunicazione deve sempre presumere una relazione (quella minima è interpersonale); tuttavia la scrittura non diventa più significativa quando un testo viene scritto a quattro mani. Se si vuole usare uno strumento comunicativo in maniera relazionale (il che non necessariamente vuol dire in maniera “razionale”), cioè in maniera che l’opera sia il prodotto di qualcosa di “collettivo”, il frutto di una tradizione comune, di valori di vita condivisi, la scrittura non è il mezzo migliore per farlo, in quanto non è olistica, ma intellettualistica, settoriale. La scrittura è un’operazione del cervello, esattamente come la lettura.

Se proprio si vuol scegliere la scrittura, bisogna ch’essa sia poeticizzata al massimo e possibilmente letta o recitata o cantata in pubblico, come in passato i greci facevano col teatro e le gesta epiche degli eroi, i trovatori con le liriche provenzali, i menestrelli con la letteratura cortese, i cantori con le saghe popolari, gli adulti con le fiabe e le favole per i bambini, i sacerdoti con i vangeli per i credenti, gli ebrei coi salmi cantati ecc.

Ma qualunque cosa si faccia con la scrittura, bisogna che la voce, con cui la si usa, arrivi a toccare il cuore e non sia un mero esercizio della mente. E chi non è capace di farlo con la scrittura, lo faccia con la pittura o con la musica, che sono arti di una straordinaria bellezza, sicuramente molto più olistiche di qualunque testo scritto. Un popolo che pretende di definirsi “popolo del libro”, è solo pedante e cavilloso.

Sulla cinematografia americana (VI)

In fondo è solo una questione tecnica quella di far credere che chi soffre ha sempre ragione. Se si dovesse analizzare il dolore (fisico o morale) soltanto da un punto di vista etico, non si riuscirebbe ad avere alcuna visione obiettiva delle cose, neppure minima.

Certo, l’obiettività è sempre relativa, ma è importante, per riuscire ad avvicinarvisi il più possibile, sforzarsi di guardare le cose in maniera storica o, se si preferisce, olistica, poiché, se ci si limita a guardarle in maniera soggettiva, che è appunto quella della morale, di sicuro si resterà lontanissimi dalla verità.

Una visione etica della vita, che prescinda totalmente dalla storia (che nelle civiltà antagonistiche è sostanzialmente “storia di lotta di classi”, e quindi storia politica oltre che economica), finisce col diventare del tutto astratta e fuorviante. Basta vedere, in tal senso, di quanti stereotipi si è alimentata la cinematografia americana: cow boy e indiano, militare yankee e vietnamita (o giapponese o nazista ecc.), spia russa e controspionaggio anglo-americano, criminale e poliziotto; fino a poco tempo fa anche maschile e femminile, bianco e nero… tutte categorie predefinite, grazie alle quali è stato ed è ancora possibile farci dei film o dei telefilm in forma seriale, come un prodotto industriale.

Ecco perché diciamo che suscitare una commozione di fronte a una situazione di dolore (fisico o morale) può essere soltanto una questione di abilità tecnica, soprattutto psicologico-comunicativa. In tal senso gli americani, con la loro cinematografia basata sul soggettivismo, sono a dir poco superlativi.

La loro cinematografia è sempre stata maestra nel saper creare dei ruoli prestabiliti, nel saper ottenere determinati effetti (psicologici) sulla base di determinati artifici scenici e recitativi. Là dove è massima la finzione, come appunto nella cinematografia, lì è minima l’identità umana, cioè la possibilità di individuare il lato umano della persona.

L’individuo è caratterizzato solo scenicamente, sulla base di una sceneggiatura ben predisposta, che si deve rispettare alla lettera, proprio perché il prodotto non è “artigianale” ma “industriale”. La tecnica del “far commuovere” o del “far ridere” o del “far ragionare in maniera logica” (si pensi p.es. ai gialli) deve avere un’efficacia planetaria, essendo utilizzata per ottenere un guadagno che prescinda da differenze di qualsivoglia genere: etnico, religioso, geografico, linguistico, culturale… Quando parlano, gli attori devono usare un linguaggio di facile comprensione, dove persino le frasi idiomatiche sono universalmente accettate.

Su set si recita, non si è mai se stessi; anche quando si è convinti di esserlo, si sta sempre recitando un copione prestabilito. Il regista non si pone il compito di trovare delle persone. Deve soltanto trovare gli attori adatti per una determinata parte che lui ha in mente. A ognuno il suo ruolo, la sua funzione. Non ci sono “persone” nei film, ma marionette senza una vera personalità, burattini mossi da fili invisibili.

Gli attori lo sanno benissimo, tant’è che quelli di maggior successo sono anche i più docili, e loro pensano di rifarsi, di questa strumentalizzazione, semplicemente nella fase dell’ingaggio, della contrattazione commerciale. Poi ci sono anche gli attori che s’immedesimano talmente nella loro parte che quasi non riescono più a distinguere la realtà dalla finzione, e vanno in depressione quando qualcuno glielo fa notare.

Un film è riuscito quando fa ridere o quando fa piangere, non quando aiuta a scoprire la verità, o a far riflettere sulle contraddizioni sociali, a meno che la cosiddetta “verità” non sia meramente logica, come nei film ove è necessario scoprire un colpevole, che sono in assoluto quelli più standardizzati. I registi non amano, in genere, gli attori egocentrici, nervosi, agitati, che parlano gesticolando o balbettando o che pronunciano le battute troppo in fretta, senza fare pause, a meno che ciò non serva per fare un film comico.

Naturalmente attori del genere possono esserci in tutti i film, ma non diventeranno mai dei “grandi attori”, non prenderanno mai dei premi, che vengono appunto dati a chi sa meglio spersonalizzarsi. Il miglior attore infatti è quello che non ha una propria personalità (è quello che – come si diceva di Brando – con un occhio piange e con l’altro, contemporaneamente, ride). Non deve far pesare se stesso su ciò che gli viene richiesto, non deve sovrapporsi o cercare delle mediazioni: deve solo lasciarsi fare, anche perché non vede la scena come la vede il regista.

L’attore è semplicemente il “prodotto finito” che deve sostenere finanziariamente quell’enorme background di professionisti che l’ha creato. Non si può sbagliare nella scelta degli attori, anche perché al 99% i film commerciali americani (e lo sono tutti quelli che entrano nel circuito internazionale) vengono fatti proprio sulla base di determinati attori.

Non esiste quasi mai una “storia in sé” da far vedere, ma una storia che gira attorno a uno o più attori: sono loro che la rendono interessante a un pubblico di massa. Ecco perché negli Usa è importantissimo andare a scuola di recitazione, anzi, devono farlo persino quelli che, propriamente parlando, “non recitano”, come p.es. i Presidenti della Repubblica.

Il tempo scaduto dell’occidente

Perché s’imposero le moderne monarchie nazionali sull’impero e sui potentati feudali? Semplicemente perché l’idea di “impero cristiano” era stata profondamente corrotta dalla pretesa teocratica dei pontefici.
In Italia, pur di affermare questa pretesa contro gli imperatori, il papato finì con l’appoggiare le rivendicazioni borghesi dei grandi Comuni settentrionali, nella convinzione che, una volta ridimensionato il potere imperiale (germanico), la chiesa non avrebbe avuto problemi a circoscrivere quello degli stessi Comuni. Cosa che se in Italia riuscì effettivamente a fare, con l’aiuto della Spagna controriformistica, sino al momento dell’unificazione nazionale, non poté però fare nel resto dell’Europa, dove le grandi città avevano creato le monarchie assolutistiche appoggiate dalla borghesia.
In realtà quindi la crisi dell’impero cristiano-feudale d’occidente coinvolse non solo gli imperatori tedeschi ma anche i pontefici: i primi a tutto vantaggio dei grandi feudatari, che disponevano di enormi territori da trasmettere ai propri discendenti (anche se poi questa nobiltà nulla potrà fare contro l’avanzata della borghesia); i secondi a vantaggio delle chiese nazionali, che sempre più legavano i loro interessi a quelli delle monarchie dei loro paesi, fino al punto in cui la fine dell’impero feudale, accelerando il processo di laicizzazione della fede, aprirà le porte al successo della riforma protestante.
Da quando era salito al trono Carlo Magno, le istituzioni ragionavano solo in termini politico-militari, dove gli aspetti etico-religiosi svolgevano un ruolo del tutto subordinato, di mera facciata, funzionale alla conservazione e anzi all’ampliamento di un potere politico ed economico sempre più autoritario, sempre meno legittimato.
Gli ideali venivano usati in maniera strumentale, al fine di ripartire questo potere in mani diverse: p.es. dagli imperatori ai feudatari, dai feudatari alla borghesia. Ovvero gli ideali affermati in sede giuridica, politica, filosofica, etica e religiosa, venivano sistematicamente smentiti da una pratica politica, sociale ed economica tutt’altro che umana e democratica.
Persino quando, col socialismo, si pensò di fare gli interessi del proletariato, emersero delle situazioni non molto diverse da quelle delle peggiori dittature borghesi. Questo perché non si volle ripensare sino in fondo tutta la struttura della società borghese.
Nonostante le immani catastrofi belliche, di cui l’Europa occidentale è stata oggetto e soggetto, coinvolgendo il più delle volte dei territori extraeuropei, dall’inizio del Sacro Romano Impero sino alla seconda guerra mondiale, non si è ancora stati capaci di trovare una coerenza significativa tra ideali teorici e pratica politica ed economica.
Questo potrebbe anche portare a pensare che l’Europa occidentale, come d’altra parte gli Stati Uniti, che dell’Europa moderna sono l’erede più significativo, non hanno più titoli per guidare le sorti dell’umanità o per proporsi come modello da imitare.
Per poter dimostrare la loro coerenza, il tempo che gli europei e gli statunitensi hanno avuto, è finito. E’ giunto il momento di ripensare le relazioni internazionali. E per poterlo fare è necessario riprendere in esame, a titolo esemplificativo, i rapporti tra feudatari locali-regionali e monarchie nazionali.
Dunque per quale motivo in Europa occidentale vinse la borghesia, che appoggiava i re nazionali? Semplicemente perché i feudatari non vollero abolire il servaggio e usavano la religione come strumento di potere. Quando i feudatari si opponevano alla borghesia, non incontravano il favore dei contadini. E questi, a guerra finita, si trovarono a vivere, sotto la monarchia nazionale borghese, una situazione peggiore di quella che avevano vissuto sotto il giogo feudale. Una situazione che invece a molti sembrò migliore solo perché in realtà le contraddizioni insanabili del capitalismo vennero fatte pagare, col colonialismo, ai paesi più deboli sul piano militare (africani, asiatici e sudamericani).
Mezzo millennio fa si lottò per affermare il livello nazionale contro quello locale-regionale. Poi ci fu lo scontro tra le nazioni, durante le ultime due guerre mondiali, da cui emerse lo strapotere degli Usa, che, per dominare, si servono di organismi internazionali (Onu, Fmi, Banca Mondiale, Nato, Wto, Ocse ecc.).
Oggi abbiamo il problema inverso: come uscire da questo mondialismo globalizzato, riaffermando il valore del livello locale-regionale, da gestirsi però non in maniera feudale, ma secondo i principi del socialismo democratico e dell’umanesimo laico.
Dobbiamo spezzare il cerchio dell’incoerenza tra teoria e pratica, riprendendoci i beni che ci permettono di vivere dignitosamente. Dobbiamo eliminare la dipendenza nei confronti di chi decide arbitrariamente i nostri destini.

La principale contraddizione dell’impero romano d’occidente

Lo svolgimento dell’impero romano d’occidente, sino a quando Costantino non deciderà di trasferire la capitale a Bisanzio, non è per così dire una semplice lotta tra le prerogative aristocratiche del Senato e quelle militari degli imperatori, poiché nessun imperatore avrebbe potuto sussistere senza l’appoggio politico del Senato, anche se il Senato si opponeva sempre a quei provvedimenti imperiali che intaccavano le sue prerogative, e che in genere venivano presi proprio perché la situazione economica della società e finanziaria dello Stato era sempre ai limiti del collasso, proprio a causa dell’atteggiamento irresponsabile (schiavistico e monopolistico) dei senatori.

Nella fase imperiale il Senato non vuole rinunciare ai privilegi acquisiti così faticosamente in età repubblicana, dopo secoli di guerre puniche, di guerre di conquista e di guerre civili. Solo che questo atteggiamento provoca tensioni a non finire, che rischiano di destabilizzare l’impero. Almeno sino ad Ottaviano l’Italia è flagellata da continue guerre interne, più devastanti di quelle esterne. E’ sufficiente fare un esempio per rendersene conto: per abbattere i congiurati di Cesare (Bruto e Cassio), nella battaglia di Filippi si scontrarono 200 mila militari e di nuovo, altri 200 mila quando Ottaviano volle far fuori Antonio, ad Azio (1).

Antonio passava per traditore perché voleva trasferire la capitale dell’impero ad Alessandria d’Egitto, dopo aver sposato Cleopatra, ma forse aveva capito, prima di Ottaviano, che democratizzare il Senato sarebbe stato impossibile, anche dopo averne massacrato un terzo degli appartenenti, con in effetti lui e Ottaviano fecero, riducendolo da 900 a 600 membri, e sperando, illusoriamente, che almeno quest’ultimi fossero “fidati”.

Agli occhi della plebe e dei militari gli imperatori passavano per “salvatori della patria”, proprio perché il Senato appariva come il luogo per eccellenza dell’arbitrio e della corruzione. Ma se i militari ebbero modo di sfruttare questa convinzione, ottenendo, a loro volta, privilegi a non finire, la plebe rimase oppressa come prima, al punto che finì col favorire la penetrazione dei barbari nei confini dell’impero, e a trasformarsi progressivamente da “pagana” a “cristiana”.

La democrazia degli imperatori fu, nei confronti delle masse proletarie, solo propagandistica, in quanto il contrasto col Senato in ultima istanza restò apparente. Gli imperatori non si servirono mai delle sommosse popolari per dirigerle contro gli aristocratici terrieri, anzi, le repressero tutte molto duramente; persino i cristiani, che certamente rivoluzionari non erano, furono costantemente usati come capro espiatorio delle contraddizioni sociali, almeno sino alla svolta costantiniana. E questo inevitabilmente indebolì l’impero nei confronti della pressione esterna dei germanici.

Quando proprio non ne potevano più dei condizionamenti del Senato, gli imperatori, sotto pretesti di tipo militare, trasferivano le loro sedi operative in zone strategicamente rilevanti (più vicine ai confini). L’unica cosa significativa che gli imperatori riuscirono a ottenere contro il Senato, al fine di ridimensionarne i poteri, fu quella di estendere il diritto di cittadinanza a tutti gli abitanti delle province, cioè a fare della borghesia di queste colonie un puntello del loro potere militare.

Tuttavia l’idea di gestire l’impero in maniera assolutamente centralizzata, accentuandone gli aspetti fiscali e burocratici, che continuò anche dopo Diocleziano, il cui assolutismo monarchico poté essere imitato con successo da Costantino proprio grazie ai cristiani, fu un disastro assoluto per le sorti dell’impero, i cui abitanti, ridotti allo stremo, cominciarono a vedere i “barbari” come i propri liberatori.

Questa smania di centralizzare vasti territori geografici tornerà in auge, nell’Europa occidentale, al tempo del feudalesimo carolingio, con la benedizione della chiesa romana, che se ne servì per sbarazzarsi, in Italia, sia dei longobardi ariani che dei bizantini ortodossi, riuscendo a costituire un proprio Stato politico che durerà circa mille anni, e che anzi, seppur ridotto al minimo, permane ancora oggi.

In pratica le ambizioni del vecchio Senato pagano erano state ereditate dal nuovo “Senato” cristiano, anzi “cattolico-romano”, influenzando i destini di tutta l’Europa occidentale e, se vogliamo, del mondo intero, poiché sarà proprio sulla base dell’arroganza politica del clero cattolico che nascerà, come reazione, la prassi borghese, che seppe sostituire al primato della forza fisica quella della forza economica, al primato della terra quello del capitale, sfruttando proprio le ambiguità della religione cristiana, che predica l’umanesimo teorico e permette il peggior antiumanesimo pratico.

(1) Da sottolineare che quello fu il momento di maggior debolezza dell’impero e fu davvero un peccato  che in Palestina non si riuscì a compiere l’insurrezione del movimento nazareno.

Sulla cinematografia americana

I

In una società d’ispirazione calvinista – e ogni società capitalistica lo è e quella americana in particolare – il trovarsi dalla parte del “bene” o del “male” è una condizione data dal destino, con un lieve margine di possibilità di scelta. Questo è molto evidente nei film americani.

Naturalmente sono possibili varie gradazioni di bene e di male, ma quello che è quasi impossibile è il passaggio dal male al bene, in quanto è molto più facile il contrario.

Chiunque passi dal male al bene resta un soggetto a rischio, che sicuramente non farà mai nulla di particolarmente significativo, o, in ogni caso, resta un personaggio che se anche può compiere, in una certa sequenza del film, un gesto positivo, normalmente muore nel momento stesso in cui lo compie, oppure viene fatto morire prima che lo scherno o la derisione di qualcuno del suo passato possa farlo ricadere negli errori di sempre.

Nei confronti di chi invece dal bene passa al male, si avrà un occhio di riguardo, sempre che il male non sia stato troppo grande e soprattutto che non si ripeta, e comunque il regista potrà sempre ricorrere alla soluzione della morte come rimedio alla colpa.

In una società calvinista è solo una questione di ruoli, di gioco delle parti, in quanto non c’è vera differenza tra bene e male: lo dimostra il fatto che spesso i mezzi e i metodi usati, dai “buoni” e dai “cattivi”, sono gli stessi.

Il bene che si vive nei film americani è quello di una vita agiata, convenzionale, individualistica e solo formalmente socializzata; anche quando l’eroe sembra rifiutare questo tipo di vita, alla fine, se il rifiuto è radicale, è lui a rimetterci.

Si è così convinti di questo che si è persino disposti a transigere nei confronti di chi cerca con mezzi illegali di acquisire una ricchezza personale, sempre che ovviamente il criminale dimostri sul piano del carattere d’essere accattivante o di avere comunque una personalità interessante.

Gli americani hanno una storia troppo truce per non sapere che nella loro società il “male” non è che un modo illegale o convenzionale di fare le stesse cose del “bene”. Tant’è che nei confronti della mafia la cinematografia americana è sempre stata molto indulgente. Forse ancora di più che nei confronti di quella criminalità individualistica alla Jesse James o alla Bonnie and Clyde, che pur rispecchiava meglio la natura individualistica degli americani.

La mafia, pur costituendo un prodotto d’importazione, è sempre stata trattata con molta circospezione nella cinematografia americana, perché comunque essa rappresentava, nella consapevolezza degli americani, il tentativo di dare una veste organizzata e ufficiale, soggetta a regole, all’esigenza di benessere da parte di strati marginali.

La criminalità individualistica invece è, per definizione, priva di regole e quindi ingestibile nell’immaginario collettivo. Il piccolo criminale, non affiliato ad alcuna organizzazione, è un perdente per sua natura ed è sempre destinato ad essere catturato.

II

Nella cinematografia americana l’individualismo è ben visibile là dove si cerca di esprimere dei valori positivi nelle situazioni più critiche. Nella tragedia vien fuori l’eroe, cioè colui che soffre ma non si dispera, che affronta con coraggio le proprie angosce, spesso in condizioni tali da non poter contare neppure sulle forze dell’ordine.

L’eroe americano deve sbrigarsela da sé. La polizia interviene all’ultimo momento, per legittimare una vittoria personale. E se l’eroe è proprio un poliziotto, allora immancabilmente i suoi metodi non piaceranno a chi lo comanda, ai suoi superiori, i quali però sanno di aver bisogno di lui.

I film americani, in fondo, essendo fatti in serie, rispecchiano determinati cliché (uno dei più usati è quello del poliziotto burbero ma bonario). La cultura americana è facile vederla nei film, poiché lì viene rappresentato quel che si vorrebbe essere e non si è.

Cultura individualistica vuol dire che nella prosaicità della vita quotidiana ci si sente schiavi dell’interesse, del denaro, dell’apparenza, dei poteri forti e si riesce a essere “umani” solo nelle situazioni-limite, dove il male è così evidente che basta poco per apparire umani, anche se per dimostrare di esserlo, ci vuole molto coraggio, spirito di sacrificio, coerenza coi propri ideali, attenzione per i più deboli, capacità di discernimento… Tutte cose che possono essere scritte in un libro o proiettate su uno schermo, ma che nella vita quotidiana risultano essere molto difficili da viversi.

La cinematografia, sotto questo aspetto, essendo una fabbrica di sogni e di miti, svolge un ruolo molto simile a quello della religione. I nuovi sacerdoti sono gli attori e il regista fa la parte del deus ex-machina, che fa recitare gli attori nella maniera più convincente possibile, al punto che lo spettatore deve arrivare a confondere fantasia con realtà.

Nei film americani c’è molto teatro greco, molto ritualismo cattolico laicizzato, molta predestinazione calvinista. Gli americani, per poter sopportare la loro società profondamente individualista, hanno bisogno di vedersi rappresentati all’opposto di quel che sono. Sanno bene che nella vita domina la legge del dollaro, ma nei film amano gli eroi che possono vivere senza pensarci, sapendo che di tanto in tanto ricevono lauti compensi per aver compiuto coraggiose missioni.

La cultura individualista può funzionare (e poi soltanto relativamente) quando si è in pochi in un territorio immenso e pieno di risorse, come furono appunto gli Usa sin dalla loro nascita, i quali però dovettero prima sterminare gli indigeni che da secoli abitavano il continente.

Tuttavia, essendo una cultura della sopraffazione (il forte deve dominare il debole), essa si trasforma ben presto in una cultura distruttiva, non solo per le popolazioni interne, ma anche per quelle esterne alla nazione. E’ una cultura violenta sia nei confronti di se stessi che nei confronti degli altri. E’ distruttiva e autodistruttiva. La guerra contro un nemico esterno è vista come rimedio ai problemi interni.

Propriamente parlando, non può neppure essere una “cultura nazionale”, poiché, all’interno di una nazione, essa rappresenta una classe sociale minoritaria, la quale, detenendo il potere economico e quindi politico, impone la propria cultura al resto della popolazione, tant’è che negli Usa ci si difende dai poteri forti puntando sull’appartenenza etnica, ma l’individualismo resta così forte che anche le etnie sono le une contro le altre armate.

La cultura americana è figlia di quella europea: ha avuto quella protestante come padre e quella cattolica come nonno. La differenza è che da noi le due culture continuano a convivere, mentre da loro la più moderna ha prevalso sulla più antica, sicché la storia, nei loro manuali, è sufficiente che parta dall’epopea di Colombo.

III

La cinematografia americana è così standardizzata nei contenuti immessi nel circuito della comunicazione ideologica di massa che è possibile stabilire delle regole interpretative generali per individuare le sue invarianze.

Anzitutto gli americani non mettono mai in discussione il principio di doversi sentire migliori di chiunque altro. Anche quando fanno un film che critica la loro società, tendono a considerare questa critica la migliore possibile e la loro stessa società viene considerata come il modello per tutte le altre, per cui essi la ritengono in grado di anticipare, nel bene e nel male, il futuro delle altre società che hanno abbracciato il capitalismo.

Gli americani pensano di anticipare il futuro sia sul piano tecnico-scientifico che sul piano delle conseguenze che questa tecnologia ha sull’ambiente e sulla società in generale.

Sono convinti di essere superiori proprio per il fatto di aver dovuto accettare, sin dall’inizio della loro storia, tutte le etnie e le lingue e le culture possibili. Pensano cioè di aver creato una società capitalistica unica nel suo genere, aperta a tutti (come sta avvenendo nell’attuale Europa), quando in realtà l’integrazione è avvenuta solo in nome di valori strettamente borghesi (profitto, interesse, rendita, individualismo ecc.).

In secondo luogo tutti i registi operano una stretta identificazione tra tecnica ed etica, nel senso che il tasso di moralità viene giudicato equivalente al tasso di scientificità che loro sono in grado di esibire (scientificità non solo all’interno dei contenuti del film ma anche nel modo stesso di girarli: non a caso ancora oggi diciamo che i film americani sono i migliori del mondo).

Non c’è problema tecnico che loro non possano risolvere in maniera tecnica. Questa superiorità tecnologica viene considerata come indice fondamentale di ogni tipo di superiorità: etica, politica, culturale ecc.

In terzo luogo nei film americani il fatto di fare il militare viene utilizzato per dimostrare il proprio valore etico. Il soldato americano si propone come difensore della democrazia nel mondo, ovunque essa venga minacciata: non ha bisogno di vedere la propria nazione attaccata da qualche nemico, anche se nei film catastrofisti questa è la regola (ma questi film, pur facendo largo uso di effetti speciali, sono culturalmente poco raffinati).

Chi fa il militare è autorizzato a dire qualunque cosa, proprio perché ha accettato un grandissimo sacrificio personale. Rambo, in tal senso, rappresenta l’unica eccezione, in quanto, avendo perso la guerra contro il Vietnam, è tornato frustrato in patria e si è difeso contro quanti non l’hanno capito, dicendo continuamente che gli yankee non potevano vincere “con un braccio legato”.

Negli anni Settanta infatti la società americana protestava contro la guerra in Vietnam e non ha permesso ai soldati di vincerla (vincere per i generali voleva dire usare tutte le armi a disposizione, incluse quelle nucleari); sicché quando i militari sono rientrati in patria, non hanno potuto integrarsi, erano malvisti.

Poi i registi hanno cominciato a dire, per giustificare in qualche modo quell’assurda guerra anticomunista in cui sono morti oltre 50.000 americani, o che erano andati là soltanto perché erano stati mandati dai loro superiori (cioè senza capire le vere ragioni di quel massacro), o che, andando là, si erano comunque fatti una personalità matura, loro che erano “figli di papà”, o che, come nel caso di Rambo, sarebbero stati anche disposti a fare di più se solo la patria glielo avesse permesso, infine che, andando a riprendere i soldati catturati e mostrando le condizioni inumane in cui venivano tenuti, gli Usa, pur avendo perso quella guerra, avevano tutte le ragioni “morali” di farla.

In ogni caso in questi film non si vuole soltanto dimostrare che si vince con la forza (qualunque essa sia: militare, culturale, ideologica, economica, finanziaria, tecnica, scientifica), ma anche che la si sta usando per un fine di bene, quello di assicurare la democrazia americana in tutto il mondo.

Miti sul comunismo primitivo e sogni su quello futuro

Interamente dedicato alla transizione dalle società comunistiche primordiali alle civiltà antagonistiche, il n. 27 (aprile 2010) della rivista n+1 (del sito www.quinterna.org), merita una serie di riflessioni, prima ancora che sui contenuti storiografici, sull’impostazione metodologica che regge la tesi fondamentale (che è storica e insieme politica), chiaramente delineata alla pag. 68, e che si può riassumere, nella sua prima parte, nel modo seguente:

  1. nella storia dell’umanità vi è stata un’unica fondamentale transizione, quella dal comunismo primitivo alle società divise in classe contrapposte;
  2. la prossima fondamentale transizione sarà quella da una delle attuali società classiste (il capitalismo) al socialismo democratico, che riprenderà l’organizzazione del comunismo primordiale in forme e modi ovviamente diversi.

Fin qui nulla da eccepire, anche perché è certo che sia avvenuto così e si può ipotizzare o auspicare che avverrà di nuovo così, in quanto solo un collettivismo autenticamente democratico è in grado di sussistere all’infinito.

Le perplessità emergono però nella seconda parte della tesi e riguardano proprio le modalità della transizione. Gli autori infatti guardano i passaggi epocali da una formazione sociale a un’altra coi criteri evolutivi del determinismo economico. Come ritengono politicamente inevitabile la transizione relativa ai nostri tempi, in quanto il capitalismo non è in grado di risolvere le proprie contraddizioni (e tutte le volte che ci prova non fa che peggiorarle), così ritengono che anche la prima transizione sia stata storicamente inevitabile.

Ma per sostenere l’inevitabilità di una transizione, bisogna rinunciare in un certo senso al concetto di “rottura”, che di per sé implica una scelta di campo consapevole e non solo una semplice costatazione di fatto.

Per Quinterna invece, come non è esistito una sorta di “peccato originale” per la prima transizione, così non esisterà una “apocalisse” per la seconda. In luogo di “rottura” gli autori preferiscono parlare di “società ibrida”, quella secondo cui possono coesistere degli elementi sociali che solo in apparenza sono opposti, negando con ciò uno dei presupposti fondamentali di qualunque storiografia marxista, e cioè che mentre ci può essere continuità tra un modello di sviluppo antagonistico e un altro, non ci può essere alcuna vera compatibilità tra socialismo e antagonismo. Detto altrimenti, come il socialismo non potrà mai svilupparsi dentro i confini del capitalismo, così l’obiettivo fondamentale che hanno avuto le prime civiltà della storia fu proprio quello di eliminare il comunismo primordiale.

Trattando del comunismo originario, quali sono questi elementi apparentemente opposti? Gli autori ritengono che detto comunismo si trovasse ancora largamente presente nell’ambito delle prime civiltà della storia, quelle cosiddette “fluviali”, alle quali ovviamente viene risparmiato l’appellativo di “schiavistiche”.

Essi non credono vi fossero particolari contraddizioni tra l’aspetto “naturalistico” del primo comunismo e l’organizzazione urbana delle prime civiltà. Sarebbe stato un errore degli storici borghesi (archeologi, etno-antropologi ecc.) vedere la nascita delle civiltà classiste nella piena urbanizzazione del territorio.

In realtà l’antagonismo sociale vero e proprio – secondo questo saggio monografico – sarebbe nato molto tempo dopo (in Europa p.es. con la civiltà greco-romana). Se nelle prime civiltà esistevano forme di “schiavismo”, non si ponevano certo “a sistema” di un modo produttivo e, al massimo, potevano essere equiparate a una servitù di tipo domestico. Gli autori non fanno differenza di forme nell’ambito dello schiavismo, non si parla neppure del rapporto oppressivo tra uomo e donna (che potrebbe essere considerata la prima forma di schiavitù) e si tacciono le devastanti conseguenze ambientali delle prime civiltà (deforestazioni con conseguenti desertificazioni), vedendo in esse, al contrario, un contributo alla bonifica delle zone paludose.

Per quale motivo Quinterna fa un’analisi storica di questo tipo, che contrasta non solo con quella della storiografia borghese, ma anche con quella di buona parte della storiografia socialista? Il motivo sta nell’analisi politica che essa dà della transizione che ancora deve avvenire.

Infatti, gli autori della rivista sostengono che se va considerata possibile “la persistenza di una struttura comunistica primitiva in ambiente sociale assai avanzato, alle soglie della forma statale”(p. 68), allora deve essere possibile anche il contrario, e cioè che si può anticipare “una struttura comunistica avanzata in ambiente sociale ancora arretrato, cioè con retaggi capitalistici”(ib.). In sostanza si postdata la fine del comunismo primitivo, così come si anticipa la nascita di quello futuro.

In altre parole, se si può parlare di “comunismo originario” in presenza di un’organizzazione sociale evoluta (non definibile come “Stato”, in quanto questo è sempre uno strumento nelle mani della classe egemone), così oggi si può parlare di “comunismo in fieri” negli aspetti più propriamente tecnico-scientifici e produttivi della società, che attendono d’essere usati in maniera davvero “razionale” quando al posto della proprietà privata dei mezzi produttivi si sarà affermata quella sociale.

Cosa c’è che non va in questa analisi? Almeno due cose: la prima è relativa all’idea che vi possa essere uno sviluppo tecnico-scientifico indipendente, nel suo significato sociale e culturale, dalle esigenze di uno specifico modo produttivo. Cioè il fatto che oggi scienza e tecnica abbiano raggiunto livelli che solo molto debolmente potevano essere intuiti da uno dei più grandi geni dell’umanità, come Leonardo da Vinci, non può essere considerato di per sé come una forma di progresso, come qualcosa che meriti assolutamente d’essere conservato per quando si realizzerà il socialismo democratico.

Quando i Germani entrarono nell’impero romano d’occidente non eliminarono soltanto lo schiavismo come sistema produttivo, ma anche buona parte di quanto serviva per tenere in piedi una civiltà basata sulle città e sui commerci (dalle terme alle monete, tanto per fare un esempio), proprio perché non erano cose che ritenevano indispensabili per costruire una civiltà basata su autoconsumo rurale e baratto.

La seconda cosa che non va nell’analisi di Quinterna è che nella storia non esistono le evoluzioni, ma solo traumatiche rotture, le quali possono sì creare qualcosa di progressivo rispetto allo stadio precedente ma non in maniera automatica e tanto meno in maniera definitiva.

L’unica evoluzione esistita è stata appunto quella tutta interna al comunismo primordiale (in cui p.es. si passò dal chopper all’amigdala senza creare rivolgimenti di sorta), ma, a partire dal momento in cui si è rinunciato a questo sistema equilibrato di vita, qualunque aspetto di tipo “evolutivo” (p.es. nelle tecniche produttive o di scambio) ha sempre avuto enormi prezzi da pagare in termini sia sociali (sfruttamento del lavoro altrui e guerre di rapina) che ambientali (non può certo essere un caso che i maggiori deserti del mondo siano spesso prossimi alle civiltà antagonistiche).

L’evoluzione vista secondo le esigenze delle società classiste è sempre, inevitabilmente, una involuzione, più o meno culturalmente mascherata, mistificata, con caratteristiche sempre più gravi per i destini dell’umanità.

Ecco dunque spiegato il motivo per cui gli autori di questo saggio vogliono vedere strette analogie tra le due suddette forme di transizione. Se si pensa che il passaggio dal capitalismo al socialismo debba avvenire in maniera deterministica, come una inevitabile esigenza naturale, è più facile pensare che ciò si realizzi quanto più si accetta l’idea che il socialismo futuro debba essere tecnologicamente evoluto; ma se è così, allora anche il comunismo primitivo poteva e anzi doveva esserlo, senza che ciò fosse un riflesso di rapporti squilibrati tra gli esseri umani e tra questi e la natura.

Tuttavia a questo ragionamento si può obiettare che se c’è solo “evoluzione” e non “rottura”, non ci può essere neppure organizzazione della lotta rivoluzionaria, ma soltanto attesa passiva che le contraddizioni scoppino da sole, dopodiché si può facilmente immaginare che qualcuno, dall’alto della propria scienza, faccia capire alle masse che il capitalismo, stante la proprietà privata dei mezzi produttivi, non ha alternative, e che se invece accetta quella sociale, tutto il resto può rimanere come prima.

Ecco perché quando parliamo di miti nei confronti del passato comunismo, dobbiamo parlare anche di sogni in relazione a quello futuro. Di fatto noi oggi possiamo essere sicuri solo di due cose: la prima è che con uno sviluppo planetario del capitalismo (che ora ha investito anche vari paesi dell’ex-socialismo burocratico), la natura verrà completamente distrutta, con conseguenze inimmaginabili sul futuro dell’umanità; la seconda è che senza rivoluzione politica in senso socialista, il capitalismo durerà in eterno o comunque si evolverà in forme che non ne intaccheranno la sostanza (come già sta facendo quello cinese rispetto a quello occidentale).

Il capitalismo dal feudalesimo ad oggi

Intorno al Mille il capitalismo non nacque solo come reazione al feudalesimo in generale, altrimenti dovremmo chiederci il motivo per cui non sia nato anche in Europa orientale, dove il servaggio era pur sempre presente.

Il capitalismo è stato anche la conseguenza, più o meno inevitabile, di un certo tipo di feudalesimo: quello appunto dell’Europa occidentale, sviluppatosi sotto l’influenza del cattolicesimo latino. E’ stato, in un certo senso, una risposta sociale individualistica a un’affermazione politica individualistica.

Se vogliamo il capitalismo, ai suoi albori, cioè nella fase meramente mercantile e manifatturiera, non è neppure stato un’esplicita reazione al feudalesimo corrotto dei Franchi, dei Sassoni e soprattutto della chiesa romana.

Sarebbe meglio dire che, almeno nella sua fase iniziale, il capitalismo ha potuto convivere in maniera relativamente tranquilla col feudalesimo occidentale, proprio perché qui il livello di eticità dei poteri forti era piuttosto basso.

Essendo i vertici governativi (sovrani laici ed ecclesiastici) molto corrotti (i Franchi, che permisero al papato di diventare una potenza politica, avevano preso il potere con vari colpi di stato e cattolicizzarono con la forza i Sassoni), inevitabilmente col tempo lo era diventata anche la società (specie quella delle realtà urbane), e quanto più questa si corrompeva, tanto meno i vertici erano in grado di controllarla, salvo usare, di tanto in tanto, durissime contromisure (inquisizioni, scomuniche, crociate ecc.), le quali però incontravano resistenze ancora più forti, e non necessariamente in positivo, ma anche solo in negativo, come quando, p.es., dopo tutte le inaudite repressioni a carico dei movimenti ereticali medievali, scoppiò improvvisamente la riforma luterana, che certo non faceva della povertà evangelica uno stile di vita.

Il capitalismo euroccidentale ha incontrato un’opposizione esplicita da parte del feudalesimo soltanto quando ha preteso una rilevanza politica. Infatti, finché si è mantenuto entro i limiti dell’opposizione economica, è stato relativamente tollerato, nel senso che ci sono stati periodi di maggiore e minore acquiescenza, a seconda delle particolari situazioni.

Il primo vero scontro politico tra feudalesimo e capitalismo è avvenuto con la riforma protestante; il secondo con la rivoluzione francese (anticipata da quella americana, che però più che uno scontro tra feudalesimo e capitalismo, fu uno scontro nell’ambito del capitalismo, tra madrepatria e colonia, in quanto in quest’ultima il feudalesimo era praticamente inesistente. Gli inglesi giunti nel Nordamerica, ma anche i francesi, gli olandesi ecc., avevano sin dall’inizio l’intenzione di comportarsi come capitalisti, e hanno potuto farlo molto agevolmente proprio perché non incontrarono opposizioni di sorta, salvo quella indigena, che però non ebbe mai una direzione centralizzata per opporsi efficacemente: l’unica fu quella di Sitting Bull).

Si può in sostanza dire che il feudalesimo ha avuto il suo picco trionfale col Congresso di Vienna del 1815, cui subito dopo fecero seguito vari moti popolari che portarono alle rivoluzioni del 1848-49, sino alle ultime del 1860-61 e 1870-71.

La borghesia riuscì finalmente a rovesciare dal trono l’aristocrazia politica e a gestire il potere in proprio, senza peraltro riconoscere alcun vero diritto agli operai e soprattutto ai contadini che l’avevano aiutata in questa impresa. Ecco perché si parla, in riferimento all’Ottocento, di rivoluzioni tradite.

La borghesia non volle spartire il potere con nessuno, anzi, una volta acquisito definitivamente quello di tipo politico-nazionale, scatenò una fase colonialistica su scala mondiale (imperialismo), riducendo a un nulla il primato storico degli imperi coloniali di quelle nazioni che non erano mai diventate capitalistiche in senso industriale (Spagna e Portogallo) e che pensavano di poter campare di rendita in eterno.

Olanda, Francia e Inghilterra dominarono il mondo, proprio perché la borghesia, una volta andata al potere, non ebbe ripensamenti di sorta, voleva arricchirsi a tutti i costi, usando qualunque mezzo.

Al loro posto avrebbero dovuto esserci l’Italia e la Germania, che con l’Umanesimo, la prima, e la riforma protestante, la seconda, erano riuscite ad anticipare tutti. Ma la borghesia di questi due paesi fu pavida e, per timore di non farcela, cercò i compromessi coi poteri forti del feudalesimo: la chiesa in Italia, i latifondisti in Germania.

Ecco perché furono proprio questi due paesi a scatenare le due guerre mondiali o comunque a mettere gli altri paesi in condizioni di doverlo fare. Avevano bisogno di recuperare il tempo perduto, di rimettere in discussione la spartizione della torta coloniale. Avevano soprattutto bisogno di eliminare gli ultimi residui europei di imperi feudali: russo, turco e austro-ungarico. Cosa che se riuscirono a fare con gli ultimi due, nulla poterono col primo, dove l’inaspettata rivoluzione bolscevica, con un colpo solo, aveva posto fine tanto all’autocrazia zarista quanto al neonato capitalismo.

Gli operai e i contadini al potere preoccuparono così tanto le nazioni borghesi che, ad un certo punto, alle loro rivalità interimperialistiche prevalsero le intese anticomuniste. Si volle sì condannare il nazifascismo, ma solo rispetto alla democrazia parlamentare borghese.

Oggi la dialettica storica ci porta a questa situazione paradossale: proprio mentre il capitalismo occidentale è riuscito a imporsi a livello mondiale, riuscendo persino a dimostrare che il socialismo di stato non era in grado di reggere il confronto, le leve del potere economico sembrano trasferirsi alle potenze asiatiche (Cina e India), le quali, nel prossimo futuro, inevitabilmente, si sentiranno impegnate a togliere all’area occidentale (statunitense, europea e nipponica) anche le leve del potere politico.

La Russia sta cercando di recuperare i ritardi del proprio sviluppo capitalistico, sfruttando le enormi riserve della Siberia, ma non ha i numeri demografici sufficienti per farlo e non ha neppure (se non nelle grandi città, ma questo, al momento, vale anche per Cina e India) la mentalità giusta per compiere un’autentica rivoluzione borghese. Perché la mentalità cambi occorre acquisire l’ideologia dei diritti umani teorici, delle libertà giuridiche formali: è proprio questa ideologia che permette di mascherare le forme economiche dello sfruttamento.

Due incognite, al momento, restano il Sudamerica e l’Africa, che non riescono a liberarsi del neocolonialismo economico che le lega agli interessi del polo occidentale (anzi, in questo momento, stanno subendo anche la penetrazione delle merci e dei capitali cinesi). In ognuno di questi due centri del Terzo Mondo le nazioni, prese singolarmente, sono troppo deboli per potersi opporre con successo all’imperialismo del capitale.

Dal Mille ad oggi

I
Potremmo chiederci il motivo per cui lo sviluppo di una borghesia di tipo industriale-capitalistico (e non semplicemente di tipo mercantile-commerciale) abbia richiesto così tanto tempo in Europa occidentale e non abbia trovato un proprio equivalente nel resto del mondo, se non dopo la nascita del colonialismo europeo.
La nascita della borghesia commerciale, in Europa, viene fatta risalire intorno al Mille. Ma in quel periodo esisteva una borghesia commerciale anche in altre parti del pianeta: p.es. nell’impero bizantino, in Cina, in India, nel Medio oriente islamico, per non parlare del fatto che quando nacquero le prime civiltà commerciali in Mesopotamia, noi in Europa eravamo ancora all’età della pietra.
Dunque perché solo la borghesia commerciale del Medioevo europeo è riuscita a diventare industriale, condizionando il mondo intero? Cioè per quale ragione è riuscita a compiere un passaggio del genere una borghesia che sul piano commerciale non era più evoluta di altre borghesie del pianeta?
La risposta non sta ovviamente in qualcosa di genotipico e neppure in alcuna condizione ambientale o materiale, ma sta soltanto nella cultura di riferimento, che nel caso della borghesia euroccidentale è stata prima cattolica e poi protestantica.
Che particolarità aveva la cultura cattolico-romana per permettere lo sviluppo di una borghesia diversa da tutte le altre? Essa aveva la particolarità di permettere alla persona di sdoppiarsi in credente davanti alla chiesa e in mercante davanti alla società.
Per quale motivo la chiesa permetteva al borghese di scindersi in due persone così diverse? La risposta è semplice: essa stessa, al suo interno, era divisa tra una base contadina credente e un vertice ecclesiastico corrotto.
Quando all’interno di un’organizzazione collettiva di potere (quale appunto era la chiesa romana feudale), il vertice ecclesiastico afferma determinati valori (etico-religiosi) e ne pratica altri di natura opposta, riuscendo a ingannare la propria base, se anche tra quest’ultima emerge qualcuno che s’accorge dell’abuso e vuol cercare di approfittarne per ritagliarsi uno spazio di manovra in cui poter esercitare la medesima doppiezza, i vertici di quella organizzazione avranno pochi motivi per impedirglielo, soprattutto se questa imitazione della corruzione non ha come fine immediato quello di rovesciare il potere costituito.
La borghesia non va considerata come un figlio bastardo della chiesa romana, ma come un figlio legittimo, benché cadetto, in quanto il primogenito restava il contadino ubbidiente, disposto ad accettare il servaggio senza reagire. Nei confronti della borghesia la chiesa romana sperava di poter esercitare una funzione di controllo, approfittando nel contempo di tutti i benefici economici che poteva ricavare da un rapporto particolare con tale classe; la quale sicuramente, coi propri traffici, era in grado di far diventare la chiesa ancora più ricca e potente.
La chiesa infatti poté politicamente opporsi agli imperatori e ai grandi feudatari grazie all’appoggio economico della borghesia (comunale e signorile). Nessun’altra ideologia del mondo riuscì a compiere lo stesso percorso di quella cattolico-romana, proprio perché in quest’ultima, nei suoi ranghi di livello elevato, l’ipocrisia non era l’eccezione ma la regola. In ogni altra parte del mondo l’attività borghese restava strettamente controllata dallo Stato, oppure era disprezzata in quanto contraria alla pratica dei valori religiosi.
Certo, la borghesia – come già detto – è esistita anche prima del cristianesimo, ma non poteva avere la stessa falsità. Quando una persona viene considerata schiava dalla nascita o può finire in una condizione schiavile semplicemente per una sconfitta militare o per un debito non pagato, non è indispensabile sforzarsi di cercare mille ragioni per dimostrare a questa persona che le cose non stanno così.
La retorica del cristianesimo primitivo sotto questo aspetto fu incredibile: il Cristo s’era fatto “servo di dio” ed era morto per i peccati di tutto il genere umano, rendendo irrilevante essere liberi o schiavi di fronte a dio, chi si abbassa sarà esaltato, gli ultimi saranno i primi, se uno ti percuote porgi l’altra guancia, e così via.
La cultura pagana non era mai arrivata a principi del genere, che, come minimo, sarebbero stati equiparati a una forma di pusillanimità: una sofferenza ingiusta andava sempre punita e la vendetta era una forma di giustizia. L’ipocrisia del paganesimo raggiunse il vertice quando si volle dimostrare che il passaggio alla civiltà commerciale era giustificato dal fatto (puramente inventato) che in quella agricolo-pastorale gli uomini erano simili agli animali (l’esempio eclatante era Polifemo).
E’ ben noto tuttavia che lo schiavismo si ripropose anche dopo lo sviluppo del cristianesimo, nei confronti di chi non era mai stato “cristiano”, verso cui quindi non era necessario usare l’arma della doppiezza. Ma, anche a prescindere dal fatto che a questa pratica schiavile si opposero alcuni esponenti di rilievo dello stesso cattolicesimo, ciò che più conta dire è che il capitalismo non si sviluppò affatto all’interno di questo rapporto schiavile. Il capitalismo si sviluppa soltanto – Marx lo disse migliaia di volte – quando sul mercato si trovano, l’una di fronte all’altra, due persone giuridicamente libere, di cui una può vendere soltanto la propria forza-lavoro.
II
La nascita dell’individualismo borghese post-schiavistico è strettamente correlata allo sviluppo dell’individualismo dei vertici ecclesiastici nell’ambito del collettivismo cattolico. Quest’ultimo infatti riguardava più che altro il mondo contadino, ma le sue leggi erano in contraddizione con quelle del potere autoritario, assolutistico, che s’andavano affermando attorno alla figura del pontefice e dei suoi vescovi.
Dunque la prima borghesia commerciale e imprenditoriale nasce, in epoca feudale, sotto il patrocinio delle autorità ecclesiastiche, le quali però, quando videro che la borghesia era intenzionata a compiere rivendicazioni anche sul terreno politico, si spaventarono e fecero marcia indietro. Permettendo alla borghesia di svilupparsi economicamente, in funzione antifeudale, la chiesa pensava di farsela alleata, invece ad un certo punto dovette prendere atto ch’essa non sopportava più i condizionamenti di nessun potere politico e che anzi aveva intenzione di diventare “protestante”.
Di fronte al rifiuto che la chiesa romana diminuisse il proprio potere, la borghesia prese a usare la forza: dapprima quella intenzionata a modificare l’ideologia stessa della chiesa, affinché l’attività del borghese avesse più facilità etica di manovra; in seguito si usarono le pressioni di tipo politico-militare, al fine di rovesciare lo stesso temporalismo ecclesiastico. In Italia, prima ancora della riforma protestante, s’imposero, per un certo tempo, le signorie e i principati, che non misero in discussione i principi religiosi della fede, ma solo il loro uso politico. Poi s’affermarono culture umanistiche che, invece di mettere in discussione i principi della fede (come invece fecero i movimenti pauperistici ereticali), si limitarono a porre le basi del moderno agnosticismo ed ateismo.
La riforma protestante e le rivoluzioni borghesi servirono appunto per togliere alla chiesa romana i poteri ideologico e politico. Col calvinismo la borghesia poteva avere finalmente ampie giustificazioni per agire senza alcuno scrupolo religioso, e nel contempo poteva riconoscersi in uno Stato che, sebbene religioso, agiva in maniera indipendente dalla chiesa.
Questo processo fu lunghissimo: partito intorno al Mille, dovette superare la Controriforma per affermarsi in maniera definitiva. Fu la sicura autonomia dal potere ecclesiastico che determinò il passaggio dalla fase commerciale a quella industriale della borghesia. Non ci sarebbe stata nessuna rivoluzione industriale se la borghesia non avesse appreso perfettamente come rendere schiavo un operaio dicendogli che giuridicamente era libero di non esserlo. Che l’aria di città rendesse liberi, i Comuni italiani iniziarono a dirlo almeno cinque secoli prima degli altri paesi europei.
Dopodiché tutto il mondo dovette subire le conseguenze di questo sviluppo anomalo dell’economia, profondamente ambiguo e, alla resa dei conti, disumano. La cosa stupefacente è stata che questo sviluppo, pur essendo partito da un’infima propaggine del continente asiatico (perché in fondo per gli asiatici l’Europa occidentale altro non è che questo), non solo non è riuscito a incontrare una valida resistenza da parte delle altre culture mondiali, ma da queste è stato addirittura adottato. Volente o nolente oggi tutto il mondo è dominato dal capitale.
Una certa resistenza la si è vista con la rivoluzione d’ottobre in Russia, con la nascita del cosiddetto “socialismo reale” nell’Europa orientale e in Cina, e con la decolonizzazione dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma dopo il crollo di quello che si rivelò essere un “socialismo da caserma”, il capitalismo ha assunto proporzioni gigantesche, senza ostacoli di sorta sul suo cammino.
La contraddizione principale non è più quella tra due sistemi sociali che dicevano d’essere opposti, ma è tutta interna a un unico sistema, dove la gran massa dei lavoratori si trova schiacciata da un crescente monopolio produttivo e potere finanziario che sfuggono a ogni controllo. La concentrazione delle ricchezze è in mano a pochissime strutture economiche: le multinazionali e gli istituti di credito (che tendono, a loro volta, a trasformarsi in imprese). Una crescente globalizzazione dell’economia, priva di regole efficaci, soggetta a speculazioni finanziarie di ogni tipo, che minacciano continuamente paurosi crolli borsistici, sta caratterizzando il nostro tempo, in cui non si vedono elementi in controtendenza.
Nel passato, quando una civiltà voleva imporre i propri valori commerciali oltre misura, si scontrava con altre di tipo nomade, che con ferocia la spazzavano via. Ma oggi, se la resistenza non si formerà dall’interno, difficilmente verrà qualcuno a “salvarci”.

Il vero e l’intero

Nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, per dire che “il vero è l’intero” Hegel mostra un esempio di grande squisitezza: “Il boccio scompare nella fioritura e si potrebbe dire che quello viene confutato da questa; similmente, all’apparire del frutto, il fiore viene dichiarato una falsa esistenza della pianta e il frutto subentra al posto del fiore come sua verità”.

Il vero è l’intero nel senso che solo dopo aver constatato un certo sviluppo, si può dire che cosa sia una determinata realtà e quale sia la sua verità.

Detta così, sembra una banalità, ma se l’applichiamo alla teologia, contiene un aspetto alquanto eversivo. L’assoluto, cioè dio, può essere dato, nella filosofia hegeliana, solo alla fine di un determinato processo, non certo prima. Concetti come “principio”, “cominciamento”, “creazione”… non sono che vuote astrazioni. Persino dio deve prima “incarnarsi” per essere qualcuno; e “incarnarsi” per Hegel poteva significare solo una cosa: “negarsi”.

Ciò che resta uguale a se stesso e non si nega, non vale nulla, anzi è nulla, in quanto mera astrazione, la cui vuotezza al massimo può essere intuita, certamente non compresa, e quel che non è intelligibile, è inutile, vacuo. Su questo Hegel scherzava poco.

Da qui all’ateismo come postulato di qualunque pensiero metafisico il passo era breve, ma lo faranno soltanto i suoi discepoli più radicali.

Hegel era stato comunque il primo a capire che il significato della vita, dei suoi valori e soprattutto della libertà (il principale dei suoi valori) sta nella negatività che va superata, cioè nella contraddizione che deve trovare una mediazione, un punto di raccordo col suo opposto.

Tuttavia, dire che la vera verità si ha solo nell’interezza della realtà, è come dire che la verità assoluta non può mai essere compresa, poiché nessuno è in grado di dire – se non giusto Hegel, che però su questo fu sempre molto contestato – quando la realtà ha raggiunto la propria interezza (che per lui coincideva con la Prussia del suo tempo, di cui il proprio idealismo voleva rappresentare la quintessenza teoretica).

L’Umanesimo e il Rinascimento non sono forse nati dopo mille anni di Medioevo? E allora perché gli intellettuali, gli artisti erano convinti che le loro basi stessero nell’antichità greco-romana? E se dopo altri mille anni di epoca moderna si tornasse al Medioevo, cosa dovremmo pensare? Qual è la verità della storia se la parabola conclusiva di una civiltà fa recuperare lo stile di vita, la cultura, la mentalità della civiltà precedente?

Il senso della storia sta forse nel rivivere il passato in forme e modi non coincidenti, ma semplicemente simili, equivalenti? E se invece stesse nella necessità di fermare questo continuo andirivieni, cercando una soluzione relativamente stabile?

Noi sappiamo che il servaggio s’è formato a causa dei limiti insopportabili dello schiavismo e che la modernità (col suo profitto economico e la finzione egualitaria del diritto) s’è formata a causa della crisi del servaggio, ripristinando in un certo senso la schiavitù, con la variante del rapporto salariato, in cui il lavoratore è formalmente libero. Il problema però è appunto quello di trovare una soluzione che ci impedisca di rimpiangere il passato o di illuderci di poter avere un futuro radioso.

Noi dobbiamo star bene nel presente, dobbiamo cioè fare in modo che il concetto di “intero” possa trovare il suo riscontro nel presente, in modo da poter aver chiari i limiti entro cui bisogna vivere per affermare la verità delle cose.

Dopo seimila anni di civiltà dovremmo aver capito cosa è bene e cosa è male per noi umani. Non è possibile sostenere che alla verità non possiamo arrivarci finché l’intero non si sarà realizzato.

Infatti, anche solo per via negativa, vedendo i risultati nefasti delle tante civiltà, già sappiamo in maniera relativamente sicura che per ottenere la liberazione umana occorre la proprietà comune dei mezzi produttivi, il rispetto della libertà di coscienza, la tutela dell’ambiente naturale ecc.

La verità assoluta è un concetto astratto, filosofico: ci basta conoscere la differenza tra verità soggettiva e oggettiva, cioè tra arbitrio e necessità. Il processo della negazione della negazione non dovrebbe durare all’infinito, poiché se da un lato dà speranza, dall’altro angoscia. E’ infatti avvilente pensare che debba sempre esserci una negatività da superare.

Non è possibile che l’uomo non riesca a trovare pace con se stesso, che sia sempre indotto a negare la propria umanità, per poi necessariamente doverla recuperare. Anche perché in tale processo di continuo superamento del negativo non si è mai sicuri al cento per cento di aver scelto l’opzione più giusta, quella definitiva.

Spesso il superamento è solo illusorio, è solo una modifica della vivibilità della contraddizione che più ci affligge: l’antagonismo sociale. Non viene negata la sua sostanza, ma soltanto le sue forme, finché nuove forme creano l’esigenza di un loro nuovo superamento.

Il superamento della negatività non può essere una questione di forma, lo sforzo di un diverso adeguamento dell’io alla realtà. L’essere umano ha bisogno di certezze. Non possiamo sentirci obbligati da chissà quale destino a vivere tutte le forme possibili della negatività, prima di arrivare a capire qual è la verità delle cose.

La negatività potrebbe anche essere così forte da non permetterci di porre più alcuna domanda.

La percezione del tempo

La nostra percezione del tempo si pone a diversi livelli.

1. Astronomico: è il sistema solare che dà un concetto oggettivo dello scorrere del tempo al nostro pianeta; e questo è su base annuale, mensile, giornaliero. Il nostro calendario del tempo può essere solare, lunare, lunisolare; possiamo avere mesi divisi in settimane o in decine di giorni; possiamo avere misurazioni quotidiane del tempo molto diverse (per ore, per gruppi di ore ecc.), ma non si può in alcun modo calcolare il tempo in maniera indipendente dal sistema solare (anche quando si usa il calendario lunare, dopo un certo periodo bisogna fare un aggiustamento per evitare le sfasature).
Il motivo di questa dipendenza oggettiva ci è ignoto: sappiamo soltanto che se agiamo in modo tale da non tenerne conto, subiamo degli scompensi: il nostro organismo, inclusa la nostra mente, subisce pericolose o innaturali modificazioni (p.es. insonnia, allucinazioni, stress…). Noi abbiamo bisogno di essere regolati da un preciso movimento del tempo (cosa che nelle donne è ancora più visibile che nell’uomo).
Il fatto stesso che esista un periodo di veglia e un periodo di sonno lo dimostra. L’assenza di luce, in maniera naturale, ci fa piombare nel sonno, come se la natura volesse dirci che abbiamo bisogno di riposare dalle fatiche sostenute nel periodo di veglia (e chi vive di notte, se non riesce a dormire di giorno, impazzisce).
Quando si dorme si ricaricano le pile della nostra esistenza: un terzo della nostra vita lo passiamo dormendo. La natura non ha bisogno della nostra attività per 24 ore al giorno. Siamo noi che abbiamo bisogno di comportarci in maniera naturale, accettando l’invito a dormire. E se è così, qualunque cosa che ostacoli questo processo, andrebbe vietata.
2. Fisico: ogni essere umano è soggetto inevitabilmente a morire. Noi possiamo anche non sapere quando siamo nati, chi ci ha messo al mondo e dove l’ha fatto, ma non possiamo sottrarci all’esperienza della morte. Sappiamo cioè, guardando i nostri simili, che, oltre una certa età, si moltiplicano vistosamente le possibilità di morire.
I processi degenerativi sono parte costitutiva del nostro fisico e dobbiamo accettarli come un fenomeno naturale. Ogni tentativo di ritardarli, di ridurli, di renderli addirittura impossibili attraverso un uso scriteriato della scienza e della tecnica (ibernazione, coma artificiale ecc.), serve soltanto ad aumentare la frustrazione, a creare ingiustificate aspettative.
Se si accetta la propria morte con naturalezza, la si affronterà con maggiore serenità, anzi come occasione di liberazione di un corpo malato, indebolito, non più in grado di rispondere alle nostre esigenze.
La morte è necessariamente il trapasso da una condizione di vita a un’altra, poiché nell’universo tutto si trasforma. Se il nostro spirito morisse progressivamente col nostro fisico, non avvertiremmo la morte come una liberazione, ma come un’inspiegabile condanna.
3. Psicologico: il tempo che viviamo è in funzione delle nostre aspettative. Questa è una caratteristica tipicamente umana, sconosciuta al mondo animale. Noi abbiamo la percezione che il tempo sia lungo o corto, leggero o pesante, intenso o noioso, a seconda di come ci poniamo nei confronti della vita.
Quanto più forti sono i nostri desideri, tanto più un tempo breve ci apparirà lunghissimo; quanto meno sono intensi, tanto più accadrà il contrario. E l’età che abbiamo sicuramente ci condiziona nell’avere uno dei due atteggiamenti: i giovani vogliono “essere”; gli anziani si accontentano di “non essere”.
Lo scorrere del tempo diventa insopportabile, ci angoscia o addirittura ci impaurisce quando i nostri desideri non si realizzano e soprattutto quando abbiamo la percezione che sia giunta la nostra “ora” (che può essere sì quella di morire, ma anche quella di andare in esilio o di nascondersi per non finire nelle mani del nemico).
Quando arriviamo ad aver paura del tempo, dovremmo chiederci che cosa fare per mutare la situazione che ci induce in questo stato d’animo innaturale. Se il tempo ci pesa, perché ci pesano le contraddizioni dello spazio in cui lo viviamo, dovremmo reagire e non comportarci come talpe, conigli o camaleonti.
Ci è dato da vivere un tempo proprio per soddisfare le esigenze identitarie dell’io, nel rispetto di quelle altrui. Chiunque ostacoli questo processo, andrebbe messo nella condizione di non nuocere.
4. Logico: spazio e tempo vengono costantemente usati nelle scienze esatte (matematica, geometria, fisica, astrofisica, chimica ecc.). Sono forme computabili, calcolabili, proprietà dell’intelletto – direbbe Hegel -, non della ragione, proprio perché una verità tende a escludere l’altra, a meno che non si arrivi a dimostrare, dopo molti ragionamenti astratti, la fondatezza di altre verità ancora. Qui lo spazio e il tempo non vengono usati per scoprire la vera essenza delle cose, ma solo le forme in cui metterle tra loro in relazione.
5. Metafisico: spazio e tempo sono categorie usate per interpretare le cause ultime della nostra esistenza, dell’origine del nostro pianeta, del suo sistema solare e di tutti gli altri infiniti sistemi solari dell’universo. E’ questo – dicono i filosofi – il campo della ragione, ma, molto più spesso, sembra il campo della fantasia, specie quando la filosofia s’ammanta di concetti religiosi.

Il senso della scrittura

La nascita della scrittura fu un fenomeno così importante che gli storici la fanno coincidere con la nascita delle civiltà, anzi con la storia in quanto tale, poiché là dove non esiste “scrittura” esiste solo “preistoria”.

Quando Marx scrisse, nel Manifesto, che “la storia di ogni società è stata finora la storia di lotte di classe”, .Engels, nell’edizione inglese del 1888 di quella famosissima opera, dovette specificare, in nota, che per “storia” si doveva intendere soltanto quella che ci era stata tramandata da fonti scritte.

Come si può notare fu una svista di non poco conto, anche perché proprio nel periodo in cui venne scritto il Manifesto esistevano ancora nell’America del Nord decine di migliaia di nativi americani la cui civiltà non aveva mai conosciuto né la scrittura né i conflitti di classe. La stessa Africa, prima del colonialismo europeo ed escludendo l’area egizia, era messa nelle stesse condizioni, e così tantissime aree del pianeta, che si trovarono poi sconvolte dai viaggi di conquista delle principali nazioni europee, delle quali la più ridicola, in tal senso, fu la Spagna, che già al tempo di Colombo, pretendeva d’impossessarsi di terre altrui leggendo le motivazioni del proprio atteggiamento in una lingua, la castigliana, che nessun residente era in grado di capire.

Ma qui val la pena rileggere la suddetta nota di Engels, poiché è indicativa del fatto che gli europei erano soliti prendere coscienza delle cose solo quando loro stessi, autonomamente, lo facevano, cioè quando cominciarono a leggere studi specifici sull’argomento, non quando sarebbe bastato guardare oltre i propri confini.

“Nel 1847 la preistoria della società – l’organizzazione sociale esistente prima della storia tramandata per iscritto – era poco meno che sconosciuta. Da allora, Haxthausen scoprì la proprietà comune della terra in Russia, Maurer dimostrò che essa era la base sociale da cui presero avvio tutte le razze teutoniche nella storia, e presto ci si rese conto che le comunità paesane erano, o erano state, dappertutto la forma primitiva della società, dall’India all’Irlanda. L’organizzazione interna di tali società comunistiche primitive venne svelata, nella sua forma tipica, dalla grande scoperta di Morgan della vera natura della gens e della sua relazione con la tribù. Con il dissolvimento di queste comunità primordiali la società iniziò a differenziarsi in classi separate e, successivamente, antagoniste. Ho cercato di ripercorrere questo processo di dissolvimento in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Stuttgart 1886, seconda edizione.”

Il che, in sostanza, voleva dire che in Europa eravamo così abituati ad accettare i conflitti di classe e la scrittura che neppure riuscivamo ad immaginare un periodo, che poi si rivelerà lunghissimo, in cui le due cose non erano mai esistite.

La scrittura, in realtà, non ha più di seimila anni, esattamente come le civiltà, per cui entrambe rappresentano solo un piccolo anello di quella lunga catena della specie umana. Noi europei, a partire dalla tradizione fenicia, con cui s’inventò l’alfabeto in uso ancora oggi, abbiamo sempre considerato importante la scrittura, poiché con essa, tra le altre cose, si potevano fissare delle regole valide per tutti, ivi inclusi spesso, non sempre, gli stessi uomini di governo. O almeno ci siamo illusi che questo fosse possibile.

In particolare abbiamo saputo apprezzare che un piccolo popolo come quello ebraico si fosse dato delle leggi che, nelle intenzioni del legislatore, dovevano essere uguali per tutti, incluso lui stesso. Cosa che, p.es., non si trova tra i Sumeri (i veri fondatori della scrittura in generale, che coi loro codici – il più famoso dei quali è quello di Hammurabi – facevano chiaramente capire che l’applicazione delle leggi dipendeva da chi le violava e da chi ne subiva le conseguenze), e neppure tra gli Egizi, che consideravano i faraoni ben al di sopra di qualunque legge.

Anche gli antichi Romani avevano elaborato le leggi delle XII Tavole, ma, confrontate con quelle mosaiche, appaiono molto meno democratiche, non foss’altro che per un motivo: si permetteva abbastanza facilmente di schiavizzare un proprio concittadino giudicato insolvente.

In astratto quindi è possibile affermare che il bisogno di darsi delle regole era dettato dall’esigenza d’impedire l’arbitrio da parte di qualcuno: nel senso che la forza o l’astuzia dovevano sottostare alla ragione. Di fatto però le leggi spesso non servivano che a giustificare un abuso già praticato, dandogli una parvenza di legittimazione.

Per millenni le classi oppresse si sono illuse che bastassero delle regole scritte, condivise dai sottoscrittori, per far funzionare democraticamente una società. Mosè fu uno dei primi a rendersi conto che le leggi in sé non servono a nulla se non c’è la volontà politica di farle rispettare. E quando vide il tradimento di Aronne e di una parte del suo popolo, pensò che per applicare le sue leggi non bastava la democrazia tribale, ci voleva anche una volontà autoritaria, che punisse senza pietà i trasgressori. E fu così che sterminò una parte del proprio popolo, servendosi dell’altra metà. Aveva capito che più importante della legge era l’obbligo a farla rispettare.

Con gli ebrei non nasce solo l’ideologia della scrittura, ma anche la cultura giuridica a scopo politico. La legge diventa una sorta di divinità, un totem da adorare e tutta la cultura ruota attorno all’interpretazione che si può dare dei suoi tanti precetti. Ecco perché quello ebraico è stato e ancora oggi è un popolo di intellettuali.

Noi occidentali, in virtù della mediazione cristiana, facciamo risalire queste cose agli ebrei, ma in realtà i Sumeri conobbero la scrittura ancora prima che nascesse il “popolo ebraico”. Gli ebrei presero il meglio dei Sumeri (Abramo uscì dalla terra di Ur) e il meglio degli Egizi (Mosè uscì dalla terra dei faraoni) e lo fusero in una legislazione che ancora oggi è a fondamento di tutte le legislazioni del mondo. Non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza, non desiderare la donna altrui… non sono forse precetti su cui si basano tutte le Costituzioni del mondo? Persino le dittature sono costrette a riconoscerli; anzi, esse sostengono che solo in maniera autoritaria è possibile far rispettare quei precetti.

La dittatura è necessaria perché in presenza della democrazia quei precetti non vengono osservati. Dunque per quale motivo “leggi scritte” e “democrazia” non riescono a stare insieme? Perché ad un certo punto, immancabilmente, la democrazia si trasforma in una sorta di anarchia e le leggi scritte, nonostante il loro indiscutibile valore teorico, non servono a nulla di positivo?

Il motivo è molto semplice. L’esigenza di darsi delle regole scritte non fa parte di una civiltà autenticamente democratica, ma solo di una che al massimo vorrebbe diventarlo e che però non vi riesce. Una civiltà, o anche solo una società democratica, non ha bisogno di alcuna legge scritta, proprio perché la democrazia o esiste effettivamente nella realtà o non esiste affatto. Non può esistere solo sulla carta e quando esiste davvero, non ha bisogno della carta per essere confermata.

Il divieto di mangiare il frutto della conoscenza del bene e del male venne posto quando ormai lo si stava per fare. Si pone un divieto per impedire che dilaghi un determinato arbitrio, ma è evidente che senza autoconsapevolezza il divieto non servirà a nulla, posticiperà soltanto un evento inevitabile.

Quando gli ebrei si diedero i comandamenti, lo fecero allo scopo di darsi un sistema di vita migliore di quello egizio, dove la volontà schiavista dei faraoni, dei sacerdoti e dei nobili poteva imporsi a dispetto di qualunque legge, salvo che i ceti subalterni non si ribellassero. Ma poi, invece di diminuire il valore della legge, lo si aumentò a dismisura, aggiungendo precetti a precetti, in un crescendo continuo, in modo che alla fine la società era divisa tra coloro che conoscevano le leggi per potersene servire a loro piacimento, e coloro che le subivano in tutte le maniere. I vangeli cristiani sono pieni di denunce contro l’ipocrisia di chi “diceva” e non “faceva”, di chi “faceva” secondo la legge e “disfaceva” i rapporti umani (la contraddizione più evidente era quella del sabato). Di fronte all’inefficacia di un precetto i capi giudei provvedevano a formularne un altro ancora più restrittivo, imponendo la necessità di una dittatura per farli rispettare.

In questi ultimi seimila anni la scrittura non è servita a nulla, né a far crescere la democrazia politica né a migliorare il senso di umanità. Forse avevano ragione i Sumeri quando dicevano che l’applicazione delle leggi non può essere assoluta ma relativa, a seconda di chi fa i torti e di chi li subisce: peccato che il legislatore si mettesse sempre dalla parte del più forte. Anche Marx diceva che non ha senso affermare l’uguaglianza di fronte alla legge quando nella vita si è tutti diversi.

E allora cosa fare in attesa che nasca una società o una civiltà totalmente priva di scrittura e, nel contempo, a misura d’uomo? Occorre che nella fase di passaggio si elaborino delle leggi a favore di chi ha meno, per indurre chi ha di più a rispettarle. Il segno che la democrazia sarà aumentata verrà dato dal fatto che le leggi diminuiranno.

Ma chi potrà assicurare che questa diminuzione sarà frutto di una aumentata democrazia e non invece di una trasformazione di questa in una dittatura? Per eliminare progressivamente la scrittura, e quindi le leggi, che ne sono la quintessenza, occorre che la democrazia sia rivoluzionaria e che gli artefici di questa rivoluzione vigilino anzitutto su loro stessi.

Schiavismo e religione

Mi è stato chiesto di delineare i rapporti organici tra schiavismo e religione. Ma su questo argomento esiste già molta pubblicistica in giro, anche in rete: p.es. quest’ottimo intervento di Odifreddi

www.materialismo.it

In sintesi si potrebbe dire che la religione nasce con lo schiavismo come forma di compensazione astratta a una concreta libertà perduta. Ci si inventa un padre generoso e comprensivo nei cieli quando sulla terra si è dominati da un padrone avido e crudele. E il dio-padre diventa tanto più duro nel far rispettare la propria volontà, quanto più l’interpretazione della stessa viene sottratta al popolo e delegata a un personale specializzato (i sacerdoti), che pretende di stabilire in proprio il confine tra bene e male.

Nel Genesi appare chiarissimo che in assenza di schiavismo il dio non è altro che un compagno dell’uomo e della donna, uno che passeggia tranquillamente nel giardino insieme a loro.

Ma la cosa più interessante su cui riflettere è in realtà un’altra: l’ateismo del Cristo.

Su questo tema rimando a un commento scritto non molto tempo fa e dove dimostro non solo che Cristo era ateo ma anche che ebraismo e cristianesimo sono, seppure in parte e nei limiti epistemologici della religione, due forme di ateismo.

CRISTO ATEO O FOLLE?

Commento al capitolo V del vangelo di Giovanni

www.homolaicus.com/nt/vangeli/cristo_ateo.htm