Che cosa vuol dire “progresso”?

Non ho mai sostenuto d’essere contrario al progresso tecnico-scientifico. Sarebbe molto sciocco esserlo. Ciò che non mi ha mai convinto è stata l’idea, di origine borghese, che lo sviluppo tecnologico fosse di per sé indice di progresso. Ogni volta che si esamina un fenomeno, bisogna sempre chiedersi quali sono state le motivazioni che l’hanno generato e quali hanno contribuito a farlo sviluppare in una direzione e non in un’altra.

Penso che debba essere considerato come un dato di fatto che l’essere umano possieda un certo desiderio di cercare nuove forme di vita, di fare nuove esperienze. L’esigenza di conoscere l’ignoto, di gestire razionalmente ciò che sembra sfuggire al controllo, di creare ordine da ciò che appare caotico, appartiene da sempre a ogni popolo della storia. In tal senso dovremmo ringraziare la prima donna del genere umano che, trasgredendo un divieto e convincendo il marito a fare altrettanto, ha permesso il sorgere di qualcosa che prima non c’era.

Eppure ciò è avvenuto in maniera anomala, trasgredendo appunto un divieto, cioè un’esperienza pregressa, delle tradizioni comuni, dei valori più o meno consolidati. Gli esseri umani sono usciti da una condizione d’ingenua innocenza per avventurarsi in un’esperienza di vita, perlopiù negativa, dalla quale non avrebbero più potuto prescindere.

Cosa c’era di sbagliato in quella scelta? Non eravamo forse destinati a compierla? L’unica cosa sbagliata era la tipologia della modalità. Gli esseri umani (almeno una parte di essi) avevano deciso di vivere una vita che rompesse col loro passato e che affermasse una sorta di esperienza arbitraria, del tutto inedita.

L’essere umano è destinato, per natura, a progredire infinitamente nella conoscenza e nel modo di applicare le nozioni che apprende. Tuttavia deve imparare a farlo secondo natura e secondo l’etica che lo caratterizza umanamente, rispettando le condizioni spazio-temporali in cui è chiamato a vivere. Per ogni cosa ci sono le dovute modalità e c’è anche il suo tempo: ogni arbitrio e ogni anticipazione sono indebiti.

Indubbiamente il pianeta contiene aspetti negativi che vanno superati. Ma questi aspetti sono naturali: servono a formare il carattere, a migliorare se stessi. Abbiamo bisogno di avversità climatiche, di asperità ambientali, di sconvolgimenti tellurici non solo per capire che siamo soltanto “ospiti” della madre Terra, ma anche perché è l’affronto delle contraddizioni che ci fa crescere, che ci rende forti. Questa pedagogia è universale e ci riguarderà anche quando non esisterà più il nostro pianeta: cambieranno soltanto le forme, i mezzi e le strategie di affronto dei problemi.

In realtà il vero nodo gordiano da sciogliere è un altro: come affrontare le contraddizioni restando umani, cioè senza perdere le caratteristiche fondamentali che qualificano la nostra specie. Questo, da quando è nato lo schiavismo e sino ad oggi, è diventato il nostro problema principale, cui non sappiamo trovare una soluzione convincente.

Alcuni studiosi attribuiscono tale transizione negativa, cioè il momento della nascita della tragedia, alla scoperta dell’agricoltura. Tuttavia in sé non c’è nulla che possa impedirci d’essere noi stessi. L’agricoltura ha cominciato a costituire un grave problema (le cui contraddizioni apparivano insormontabili) soltanto quando si è imposta la proprietà privata, non prima.

Si badi: che questa proprietà appartenga a sfruttatori individuali o che sia gestita, a livello statale, da una élite burocratica, risulta abbastanza irrilevante. Se si guardano i progressi compiuti sul piano tecnologico e quindi economico, dovremmo dire che la proprietà privata ha prodotto risultati più significativi di quella statale. Ma se guardiamo la stabilità dei sistemi, dovremmo dire il contrario, tant’è che storicamente la prima forma di proprietà a imporsi (Egitto, India, Cina, Mezzaluna fertile, Civiltà precolombiane) è stata quella statale, gestita da un sovrano imperiale o da una città-stato.

Infatti, quando gli imperi caratterizzati dalla proprietà statale sono crollati, ciò non è avvenuto per motivi endogeni, ma perché essi incontrarono altri imperi che, essendo basati sulla proprietà privata (e quindi su una forte competizione interna), avevano sviluppato meglio le tecnologie e gli apparati militari. A volte gli scontri epocali erano tra popoli stanziali e popoli nomadici o tra allevatori e agricoltori. Ma la storia ha deciso che dovesse prevalere la stanzialità, prima agricola e poi industriale.

Oggi lo Stato che sembra conciliare meglio istanze private di business con forme di autoritarismo politico-statale, sembra essere la Cina, il paese più idoneo a sostituire la leadership degli Stati Uniti, il cui capitalismo è fondamentalmente privato e lo Stato interviene soltanto per correggere le sue storture, facendone pagare interamente il prezzo al comune cittadino.

La mistica della morte

Quando nel quarto vangelo viene fatto dire a Gesù, già entrato a Gerusalemme per compiere l’insurrezione nazionale anti-romana, che “il figlio dell’uomo deve essere glorificato” (12,23), con questo verbo, usato al passivo, come se la cosa non dipendesse completamente da lui ma da un’entità superiore (che ai vv. 27-8 viene identificata esplicitamente col “Padre”, il dio dei cieli), gli autori intendono non il fatto ch’egli sarebbe dovuto diventare un leader politico, riconosciuto a livello nazionale, per la liberazione dell’intero paese, bensì l’idea, del tutto mistica e quindi tendenziosa e falsificante, ch’egli avrebbe dovuto immolarsi, cioè sacrificare la propria vita per indurre gli uomini alla salvezza.

“Ora la mia anima è turbata” (di fronte alla propria auto-immolazione non può non esserlo, poiché deve per forza chiedersi se il gesto che sta per compiere servirà davvero a qualcosa); “e che dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma se è proprio per questo che ho atteso quest’ora!” (v. 27). Cioè non ha senso avere dei dubbi nel momento stesso in cui si ha la possibilità di dimostrare finalmente quel che si vale al mondo intero. La “determinazione in carattere” va considerata assolutamente decisiva, per usare una terminologia kierkegaardiana; anche se qui ovviamente non si può escludere che, in una concezione così irrazionalistica della vita, il martire non possa avvalersi di strumenti idonei per indurre il potere a eliminarlo. In fondo sta anche nella sua destrezza far passare il proprio suicidio religioso per un omicidio di stato. E, nel caso in oggetto, si potrebbe facilmente pensare che l’ingresso nella capitale, proprio in occasione della Pasqua, sarebbe stata un’occasione ottima per provocare le autorità costituite, occupanti e colluse.

Il “granello di frumento” – di cui si parla al v. 24 – deve “morire” per poter produrre “molto frutto”. Questa mistica della morte è stata elaborata per falsificare un progetto di liberazione politica (ovviamente anche sociale e culturale), di cui i discepoli più stretti (in primis Pietro) non hanno voluto ammettere il fallimento a causa della loro incapacità o inettitudine, non essendo stati sufficientemente risoluti per impedire che avvenisse o per proseguire quel progetto anche dopo l’esecuzione capitale del loro leader, che i Romani riservavano appunto ai sediziosi o rivoltosi.

La morte in croce di un capo politico è stata trasformata in una suggestione psicologica e morale per una salvezza esclusivamente religiosa. Qui infatti si è in presenza di una sorta di paradossale provocazione di tipo metafisico, non scevra da effetti scenico-teatrali, che ricordano le tragedie greche.

La morte accettata consapevolmente, da parte di chi avrebbe potuto evitarla, viene qui considerata come la prova suprema della verità di sé e dell’operato dei propri discepoli, di fronte alla quale il popolo non potrà rimanere indifferente. Il Cristo è “testimone di verità” proprio in quanto martire. Un’equivalenza, questa, la cui forzatura venne sottolineata dal primate danese Martensen al suddetto filosofo Kierkegaard, intento a cercare motivazioni per contestare la chiesa di stato. Un’equivalenza che ancora oggi troviamo in tante religioni fondamentalistiche.

La salvezza sta quindi nel fatto che ci si deve convertire solo interiormente, opponendo una forma di resistenza etico-religiosa ai poteri costituiti. La vittoria starà soltanto in una progressiva espansione pacifica della virtù, nei cui confronti il potere dovrà ad un certo punto cedere. Infatti, se i credenti seguiranno l’esempio del loro maestro, tutte le persecuzioni non faranno che allargare il consenso. Il seme dà frutto proprio quando muore, cioè quando, penetrando nella terra (nei cuori degli uomini), esplode e fa crescere la pianta, che dà molti frutti.

“Chi ama la sua vita”, cioè chi non è disposto ad accettare il martirio, “la perde”, cioè non si salva, non può diventare un seguace significativo dell’esempio che dovrebbe imitare, e non semplicemente ammirarlo sul piano etico o apprezzarlo su quello intellettuale; “e chi odia la sua vita in questo mondo”, ritenendola un nulla al cospetto del bene supremo, della verità che deve affermare, che vuole vedere affermarsi, “la conserverà in vita eterna”, cioè avrà un premio nell’aldilà (“il Padre l’onorerà”, v. 26).

Mistica della morte vuole appunto dire questo, che si deve accettare il martirio non tanto per realizzare la giustizia su questa Terra, quanto piuttosto per poter fruire di una salvezza personale nel regno dei cieli. Su questa Terra, infatti, se il modello originario non è riuscito a realizzare il bene assoluto, è impossibile che vi riesca la sua copia sbiadita, per usare un linguaggio platonico. Il peccato originale ha reso gli uomini incapaci del vero bene. L’unico che possono realizzare è quello di accettare una persecuzione sino alla morte, mostrando che di questo mondo non amano nulla, nemmeno se stessi. L’unica cosa che amano è la salvezza della loro anima, che non vuole contaminarsi spiritualmente con alcunché.

Il cristianesimo – direbbe Nietzsche – è la religione degli sconfitti, quelli che vogliono trasformare il fallimento del progetto politico di liberazione in una occasione di redenzione meramente spirituale, una liberazione dalle tentazioni del mondo, da tutte le sue forme di corruzione. “La nostra battaglia – dirà Paolo, il vero fondatore del cristianesimo – non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef. 6,11).

È quindi impossibile che gli autori di questo vangelo non appartengano a una comunità di tipo monastico: la scelta stessa dell’esempio del chicco di frumento lo dimostra. Un monaco agricoltore si accorge facilmente quando il seme non riesce a dar frutto, o perché beccato dagli uccelli o perché seccato dal sole o perché soffocato dalle erbacce.

Per essere coerenti con se stessi, il più possibile, dovevano necessariamente isolarsi dai contesti urbani, cercando di vivere esclusivamente di autoconsumo, di cui il pane era l’alimento principale. Essi finirono col riprodurre una forma di esistenza sociale simile a quella degli Esseni di Qûmran, con la differenza che mentre questi aspettavano un messia liberatore della Palestina, i redattori monaci del vangelo attribuito a Giovanni davano invece per scontato che tale messia era già arrivato e che non sarebbe più tornato sino alla fine dei tempi.

La scelta monastica quindi non sarebbe stata provvisoria, ma definitiva. Dalla comunità monastica non sarebbe più uscito un nuovo predicatore, come p.es. Giovanni Battista, il quale si era reso conto che occorreva rivolgersi più direttamente al proprio popolo, senza aspettare che fosse quello ad accorgersi del valore della comunità. La comunità cristiana monastica avrebbe dovuto soltanto attendere passivamente, con assoluta rassegnazione, la fine della storia, il ritorno glorioso del Cristo giudice, confidando nel fatto che la scomparsa misteriosa del suo cadavere dalla tomba concessa da Giuseppe d’Arimatea fosse un chiaro segno della sua “divina resurrezione”.

L’unica fatica da fare era quella di resistere alle tentazioni della vita mondana: le comodità, il benessere, i piaceri della carne, la ricerca di un potere personale. Il monaco cristiano doveva continuamente mortificare il proprio corpo, e persino il proprio spirito, se questo gli avesse impedito di vivere in armonia coi compagni di fede.

La democrazia comunale nel Medioevo

In epoca feudale non tutte le città erano dei Comuni. Per esserlo ci voleva uno Statuto, cioè una volontà politica associativa. Nel Medioevo le città sono sempre esistite, anche se la loro importanza era inferiore a quella delle campagne, ove dominava la figura del nobile proprietario terriero, che sfruttava i suoi tanti servi della gleba.

In un sistema sociale basato prevalentemente su autoconsumo e baratto, la terra aveva molto più valore della moneta, e quindi la città si trovava ad essere subordinata alle esigenze della campagna.

Generalmente nelle città si trovava la sede episcopale, che svolgeva funzioni amministrative, connesse alla gestione dei sacramenti, e culturali, per l’istruzione del clero e della nobiltà e di chiunque potesse permettersi di pagarla.

Per tutto l’alto Medioevo, cioè fino al Mille, le città, con esclusione di quelle marinare, non ebbero neanche lontanamente un ruolo paragonabile a quello che avevano avuto in epoca greco-romana. Questo perché le popolazioni germaniche e slave provenienti da oriente e penetrate nell’impero romano, non erano urbanizzate. Sicché quando, intorno al Mille, iniziarono a formarsi i primi Comuni, si ebbe la trasformazione delle città da qualcosa di meramente amministrativo, gestito dai vescovi, a qualcosa di specificatamente politico, gestito da una nuova classe sociale: la borghesia, che comprendeva i mercanti, gli artigiani e i liberi professionisti.

Da dove provenivano queste categorie sociali, visto che per tutto l’alto Medioevo dominava la figura del contadino, che insieme era artigiano (anche con l’aiuto delle donne, che filavano e tessevano) e commerciante delle proprie eccedenze alimentari, che sul mercato barattava con le eccedenze altrui? La stessa cultura era patrimonio quasi esclusivo del clero, soprattutto di quello regolare, che non la usava per giustificare pratiche di tipo commerciale. Generalmente i contadini erano analfabeti, in quanto si accontentavano della trasmissione orale di conoscenze ancestrali.

Le nuove categorie sociali si formarono in virtù dei contatti che le città marinare tenevano con l’area bizantina, la quale, a sua volta, faceva da ponte tra il mondo asiatico e quello europeo. Poi, quando l’espansione araba, una volta arrivata in Spagna, smise di essere aggressiva, forti divennero i contatti commerciali anche con questa civiltà, almeno fino al periodo delle crociate, quando s’interruppero per colpa degli ottomani e degli europei.

Bisanzio non aveva subìto le devastanti invasioni barbariche, poiché aveva saputo farvi fronte in maniera intelligente. Roma invece, che mal aveva digerito il trasferimento costantiniano della capitale dell’impero sul Bosforo, non ebbe mai la stessa lungimiranza e rinunciò a coordinare le proprie forze con quelle dei cristiani d’oriente.

I commerci col Levante erano proseguiti, senza soluzione di continuità, sin dall’epoca romana, estendendosi anche al mondo slavo. Di questi commerci si favoleggiava enormemente in Europa occidentale, e città come Amalfi, Pisa, Genova, Venezia, ma anche Bari, Brindisi, Palermo e altre ancora sapevano molto bene che l’impero bizantino era economicamente florido. Di tutte queste città Venezia fruiva di un ruolo privilegiato, di cui approfitterà notevolmente in occasione della quarta crociata (1204), tradendo la fiducia del basileus.

Furono gli scambi col mondo bizantino e quindi la possibilità di ottenere oggetti preziosi, introvabili in occidente, di ottima fattura, inizialmente alla portata di pochi privilegiati, che favorì la nascita dei ceti mercantili. Gli artigiani non erano altro che ex-contadini particolarmente abili nel fare qualcosa che poteva essere venduto sul mercato (p.es. sapevano usare bene il tornio o il fuoco). Lo stesso lavoro tessile svolto dalle donne per le esigenze domestiche, poteva essere valorizzato da qualche mercante, che, dopo aver offerto la materia prima, andava a vendere il prodotto finito in un mercato locale, che poi diventerà sempre più europeo.

Quanto ai liberi professionisti (avvocati, notai, medici, architetti, artisti, insegnanti, cambiavalute, banchieri o finanzieri ecc.), è evidente che la loro provenienza implicava una buona dose di cultura (che p.es. non mancava mai agli ebrei). Invece di diventare teologi o chierici o militari mercenari, i nobili di rango inferiore (quelli esclusi dall’asse ereditario, in quanto cadetti) potevano anche scegliere funzioni amministrative o di rappresentanza, di cui la borghesia aveva sempre più bisogno per svolgere i propri affari o per tenere in piedi le sorti degli stessi Comuni.

Tutte queste nuove figure sociali assumono, col tempo, una particolare veste politica, basata su una variegata attività produttiva, commerciale e amministrativa, con cui si riuscirà a trasformare la decadente città alto-medievale in un fiorente Comune di epoca basso-medievale. Infatti quando si parla di “democrazia” in epoca feudale, ci si deve necessariamente riferire a una nuova tipologia di città: i Comuni.

Si può parlare di “Comuni” in riferimento all’area bizantina? No, si può parlare soltanto di città. I Comuni sono il prodotto spontaneo di una serie di figure sociali che si sentono libere proprio in quanto hanno giurato fedeltà a uno Statuto che loro stesse si sono date. Una cosa del genere non l’avrebbero permessa né le autorità bizantine, né quelle islamiche o slave e neppure quelle cinesi o indiane. Infatti il potere politico-istituzionale poteva sì permettere l’attività commerciale (che comunque teneva sempre sotto controllo), ma non poteva permettere che sulla base di un’attività del genere si potesse formare un potere politico autonomo, potenzialmente concorrente. Ecco perché quando si parla di “Comuni” si deve intendere qualcosa di specificatamente italiano.

Questi Comuni si sentivano in rivalità coi poteri feudali della grande aristocrazia terriera e cercavano di realizzare dei rapporti reciprocamente vantaggiosi con la diocesi vescovile e il papato, anche in funzione anti-imperiale. Inizialmente la borghesia non è nemica della chiesa, ma anzi cerca di essere la sua principale alleata, scalzando il ruolo dell’aristocrazia terriera.

Quando avverrà la lotta per le investiture ecclesiastiche, la borghesia starà sempre dalla parte del papato, proprio perché sapeva bene che gli imperatori volevano sfruttare fiscalmente le città e tenere sotto controllo tutti i loro commerci. I due grandi imperatori svevi: Federico Barbarossa e suo nipote, Federico II, furono sostanzialmente sconfitti dai Comuni.

Solo quando la borghesia avrà acquisito un certo potere economico, ridimensionando di molto quello della nobiltà, essa comincerà a rivendicare un proprio potere politico, separato da quello della chiesa e anzi, per molti versi, ostile a quest’ultimo.

A questo punto però la domanda cui bisogna cercare di dare una risposta è la seguente: com’è stato possibile un tale sviluppo della borghesia comunale? E perché esso è avvenuto anzitutto in Italia? Perché uno sviluppo del genere non si è verificato nell’area bizantina, dove i commerci sono sempre stati molto fiorenti, almeno sino all’occupazione turca? La risposta è molto semplice: in Italia la corruzione della chiesa, nei suoi livelli gerarchici (soprattutto pontifici), era molto forte, a motivo del fatto ch’essa voleva porsi come chiesa politica, in competizione col potere imperiale bizantino, al punto da desiderare due cose che suscitarono non poco scandalo tra i cristiani orientali: la prima fu quella di attribuire il titolo di “imperatore” a Carlo Magno, quando a Bisanzio ne esisteva già uno; la seconda fu quella di rompere l’unità del mondo cristiano, separandosi nettamente dalla chiesa ortodossa nel 1054, dopo secoli di controversie dogmatiche risoltesi negativamente. Nel primo caso ebbe bisogno dell’alleanza nobiliare, nel secondo di quella borghese, tant’è che le crociate scoppiarono subito dopo l’affermazione della teocrazia pontificia. L’alleanza con la grande borghesia fu decisiva per affermare la propria ideologia teocratica assolutistica.

Ora, quando a livello politico-istituzionale s’impone una corruzione così marcata, diventa poi molto difficile, da parte delle istituzioni, impedire un’autonoma gestione dell’economia, in cui il criterio del profitto privato risulta essere la regola dell’agire comune. Con questo non si vuol dire che l’impero bizantino e tutte le altre compagini governative del periodo medievale fossero esenti da corruzione. Si vuol semplicemente dire che solo in Europa occidentale si era formata una chiesa che voleva svolgere un ruolo direttamente politico, considerando lo Stato (impersonato dagli imperatori) un proprio braccio secolare.

Questa incapacità di distinguere gli aspetti laici da quelli ecclesiastici, l’uso della ragione da quello della fede, l’etica dalla religione è stata la causa principale del sorgere della borghesia, la quale ha potuto svolgere i propri traffici individualistici proprio perché sapeva bene che la chiesa, nel proprio assoluto integralismo, era sommamente corrotta e quindi non titolata a “giudicare” una pratica che lo era altrettanto sul piano sociale. Una volta acquisito il necessario potere economico, la stessa borghesia ha poi potuto esigere che sul piano politico si tornasse a fare differenza tra sacro e profano, relegando il sacro in un ambito sempre più privato o comunque trasformandolo in una pratica sempre meno significativa. Di qui la trasformazione della chiesa da cattolica a protestante.

La borghesia non è nata direttamente dalla chiesa romana, ma è stata un suo involontario prodotto derivato, che, ad un certo punto, le è sfuggito di mano, sicché la stessa chiesa si è sentita indotta a darsi una veste meno esigente sul piano politico e ideologico, più conciliante con l’attività affaristica, anche perché il tentativo di frenare questo processo con la strategia della Controriforma si rivelerà del tutto fallimentare nell’Europa del Nord.

Solo quando nascerà il proletariato industriale, principale nemico della borghesia imprenditoriale, quest’ultima avvertirà il bisogno di ritrovare anche nella chiesa romana l’alleata di un tempo; e il papato, con lo strumento del Concordato e soprattutto con la svolta del Concilio Vaticano II, accetterà il nuovo “patto d’acciaio”, anche per far fronte alla dilagante indifferenza verso le questioni religiose.

Fatti e interpretazioni

I fatti in sé non sono molto importanti nella storiografia, poiché su di essi si possono dare le versioni più disparate. Sono le interpretazioni che contano e soprattutto quelle supportate da classi sociali, da movimenti popolari. È su di esse che gli storici si devono confrontare. I fatti possono essere utilizzati a sostegno delle interpretazioni. Ma, in ultima istanza, non c’è fatto che provi qualcosa al 100%, proprio perché i fatti non sono mai in sé evidenti, in quanto non offrono la possibilità di una lettura univoca.

Che i discepoli del Cristo abbiano potuto constatare una tomba vuota, può essere considerato un fatto; che il corpo sia “risorto” è certamente un’interpretazione. Ci sono voluti però 2000 anni prima che si cominciasse a parlare di altre ipotesi esegetiche: trafugamento del cadavere, morte apparente, misteriosa scomparsa, trasformazione della materia, leggenda religiosa, mito ancestrale…

Non sono mai sicure le cause che generano i fatti. O meglio, ci possono essere cause prevalenti e cause secondarie o concause, cioè cause collaterali, che hanno inciso in maniera indiretta ma efficace. Apparenza e realtà non coincidono: la realtà è sempre incredibilmente complessa, spesso determinata da fattori del tutto imponderabili o comunque non chiaramente definibili. Come un effetto può essere stato determinato da più cause, così una causa può determinare più effetti. Di qui l’impossibilità di fare delle generalizzazioni troppo semplificate.

La storia è la scienza della libertà umana, non della necessità. La necessità subentra dopo che si son fatte delle scelte, ma anche dopo averle fatte, la possibilità è sempre dietro l’angolo. Infatti ogni necessità, col tempo, rivela i propri limiti, le proprie contraddizioni, che vanno superate. È la libertà che impedisce di dare interpretazioni univoche o di dare per scontate le cose. Tutto è in perenne movimento e ciò rende precaria, per definizione, qualunque storiografia.

Non ha senso pensare che l’interpretazione emerga dall’analisi dei fatti. Uno storico può anche procedere dai fatti all’interpretazione, facendo in modo che sia il lettore a giungere alle sue stesse conclusioni, non enucleate in via preliminare come ipotesi interpretative. Tuttavia il fatto d’indurre il lettore a non avere l’impressione d’essere stato a ciò condizionato, è soltanto una procedura psicopedagogica o didattica. Nella sostanza lo storico ha già proprie idee interpretative dei fatti prima ancora di prenderli in esame. Anzi, il più delle volte sono proprio queste idee preliminari a indurlo a fare delle ricerche per trovare delle conferme alla loro giustezza. Il che non vuol dire che uno storico non possa imbattersi casualmente in determinati fatti e sentirsi solleticato a esaminarli; in tal caso però, pur non avendo idee precostituite su tali fatti, egli resta pur sempre un essere pensante, che non può fare a meno di avere determinate idee. Quanto più è consapevole di questo, tanto più sarà onesto con se stesso.

Tale pre-comprensione raramente viene smentita dai fatti. Perché lo sia, occorre almeno una delle due condizioni: una’interpretazione alternativa alla propria, della cui fondatezza il ricercatore si convince personalmente, sulla base di un proprio percorso ermeneutico; oppure ci si avvale di fatti drammatici (come p.es. una guerra), contemporanei alla vita dello storico, che possono in qualche modo sconvolgere le sue certezze.

La storiografia quindi è soltanto uno scontro di interpretazioni, che mutano al mutare delle condizioni socio-ambientali in cui gli storici si trovano a vivere. In tal senso è del tutto naturale che talune interpretazioni, cadute in oblio per un certo periodo di tempo, vengano successivamente riprese e adattate alle nuove circostanze di tempo e luogo.

Quando Aristotele venne riscoperto dalla Scolastica, non era esattamente l’Aristotele originale; così come non si può parlare di fedeltà al Platone storico da parte del neoplatonismo umanistico-rinascimentale. Non bisogna essere contrari a tali usi strumentali, proprio perché sono del tutto naturali: la storia è una sorta di evoluzione, in cui, anche se le cose si ripetono, non lo sono mai in maniera identica.

In che senso una storiografia obiettiva?

Può uno storico affermare di non essere schierato politicamente? Se lo fa, non sa quel che dice, poiché lo “schieramento” è inevitabile, anche se non lo si esplicita personalmente. Sono anzitutto gli altri che ci chiedono di identificarci, e ce lo chiedono con tanta maggiore insistenza quanto più lo esigono i tempi. Vi sono infatti dei momenti in cui le tensioni politiche sono molto più sentite dalla società. In quei momenti chi si dichiara “neutrale” passa facilmente per opportunista.

Tuttavia, per uno storico essere schierato politicamente ha senso se affronta argomenti relativi alla sua contemporaneità. Se ci si riferisce a periodi antecedenti, lo schieramento diventa più generico. Diciamo che diventa più “culturale” che “politico”. Col termine “politica”, infatti, intendiamo qualcosa che ha attinenza con l’attività di partiti o di movimenti, materialmente esistenti. Uno storico può fare riferimento a qualche partito o movimento o associazione, pur senza esplicitarlo espressamente: il riferimento diventa di tipo “ideale”.

Riferirsi politicamente a un partito o a un movimento non significa esservi iscritti. Lo storico è un intellettuale che non fa attività politica in senso stretto e che non è tenuto ad avere la tessera di un partito. Però è tenuto a fare riferimento a delle correnti di pensiero, proprio perché la neutralità non esiste, in nessuna disciplina dello scibile umano.

Se uno si limitasse a sviluppare materie scientifiche, farebbe politica? Certamente. La separazione della scienza dall’etica è una caratteristica del mondo moderno. Si vuole un continuo sviluppo scientifico e tecnologico, prescindendo il più possibile da valutazioni etiche, proprio perché tale sviluppo va subordinato alle esigenze del profitto economico. La borghesia tende anche a separare la scienza dalla politica, salvo quando chiede alla politica di supportare economicamente la scienza o quando è la stessa politica che si serve della scienza per condurre sul piano scientifico e quindi ideologico una battaglia non militare contro i propri nemici (come p. es. fecero gli Usa quando, con Kennedy, vollero andare sulla Luna per dimostrare la superiorità del loro sistema di vita rispetto a quello sovietico).

Gli scienziati che hanno voluto separare la scienza dall’etica hanno prodotto la bomba atomica, che la politica ha poi voluto usare senza alcun riguardo per l’etica. Se ci abituiamo a tenere separate cose del genere, alla fine non saremo in grado d’impedire alcuna strumentalizzazione. Quando l’uso strumentale della scienza da parte del potere politico sarà particolarmente evidente, quale scienziato potrà trincerarsi dietro la scusa che non avrebbe mai potuto immaginare conseguenze così gravi? Sotto il capitalismo il confine tra ingenuità e ipocrisia è quasi impercettibile.

Se si esaminano fenomeni storici di un lontano passato, lo schieramento avviene più sul piano culturale, ma non senza riferimento a quello politico generale. Quali sono le idee nei cui confronti uno storico dovrebbe schierarsi? Sono sostanzialmente quattro: 1. il rispetto della natura; 2. l’idea di laicità; 3. l’idea di democrazia; 4. l’idea di socialismo.

P. es. la nascita delle civiltà s’è posta in antitesi alla tutela ambientale. La loro nascita è andata di pari passo con lo sviluppo della religione, dell’autoritarismo e degli antagonismi sociali. Questi processi non sono avvenuti separatamente, ma in maniera strettamente correlata tra loro. Uno storico che esaminasse soltanto lo sviluppo tecnico-scientifico di una civiltà, disinteressandosi delle ricadute negative sull’ambiente, non potrebbe certo fare una storiografia obiettiva. Se esaltasse la democrazia ateniese della Grecia classica, senza specificare ch’essa si riferiva a una ristretta categoria di persone, che vivevano sfruttando il lavoro schiavile, inevitabilmente finirebbe col fare gli interessi del sistema dominante in cui vive, un sistema che ha riprodotto quegli stessi rapporti di sfruttamento in altre forme e modi.

Uno storico non può schierarsi dalla parte sbagliata, altrimenti le sue ricerche perderanno di obiettività. Le interpretazioni di uno storico dovrebbero essere soltanto più o meno obiettive: non possono essere falsate già nei loro presupposti metodologici. Uno storico che offre volutamente un’interpretazione distorta dei fatti, solo perché vuol fare gli interessi di un partito o di un governo o di un sistema sociale di riferimento, è uno storico che non merita alcuna considerazione. E se è così ingenuo da non capire quando un’interpretazione è falsata in partenza, sarebbe meglio che si dedicasse a un’attività meno impegnativa, meno gravosa per la formazione dei cittadini.

Uno deve sforzarsi d’essere il più obiettivo possibile, evitando di contrapporre la cultura alla natura, la religione all’ateismo, la dittatura alla democrazia e l’individualismo al socialismo. Questi quattro aspetti non sono specifici della nostra contemporaneità: si ritrovano in ogni epoca storica, sotto forme, modi e denominazioni diverse. L’unica epoca che non li ha conosciuti è quella che, con molta supponenza, gli storici chiamano “preistoria”.

Una lettura olistica della storia

Una lettura olistica della storia permette di assegnare a ogni avvenimento delle coordinate specifiche, che gli sono proprie e che non si ripetono mai in maniera identica, proprio perché la storia è soggetta a un movimento perenne, pur avendo a che fare con una medesima tipologia umana: essa ha la forma geometrica della spirale.

In tal senso lo schiavismo allestito dagli europei nelle loro colonie era sostanzialmente diverso da quello antico, e per almeno tre ragioni:

  1. gli schiavi greco-romani non lavoravano per un’esportazione di tipo capitalistico, in cui quello che conta è accumulare capitali. L’obiettivo era quello di far vivere nel lusso lo schiavista e i suoi parenti, che in genere sperperavano i loro capitali o ambivano ad avere cariche prestigiose e assai raramente si preoccupavano di migliorare le tecniche produttive. Viceversa sotto il capitalismo l’obiettivo finale della produzione non dipende neppure dalla volontà del singolo imprenditore;
  2. là dove è presente un rapporto di lavoro di tipo contrattuale, lo schiavismo viene considerato economicamente superato e politicamente viene combattuto (si veda p.es. la guerra civile tra nordisti e sudisti: gli americani poi si presenteranno in tutta l’America latina come “liberatori dallo schiavismo ispano-lusitano”);
  3. là dove è radicato il cristianesimo, il rapporto schiavistico è malvisto se lo stesso schiavo è un cristiano: di qui la sua trasformazione in servaggio, dove il lavoratore ha una parte di diritti. In America latina, dopo l’arrivo degli europei, si passò abbastanza facilmente, grazie agli statunitensi, dallo schiavismo rurale (impiantato da un cristianesimo para-feudale, col pretesto che gli indigeni non erano cristiani e che dall’Europa si faceva fatica a controllare l’operato di questi neo-schiavisti) al capitalismo vero e proprio, saltando la fase del feudalesimo. Infatti lo schiavismo delle colonie era già finalizzato a una produzione capitalistica (l’esportazione di materie prime: cotone, cacao, caffè, spezie, tabacco ecc.) verso i paesi capitalistici europei e verso gli stessi Usa. Quest’ultimi cioè non ebbero bisogno di dimostrare che l’operaio salariato era più libero del servo della gleba, ma che lo era molto di più nei confronti dello schiavo rurale creato dagli europei nelle colonie. E vi riuscirono molto facilmente proprio perché nella cultura urbanizzata si percepiva come intollerante (anche perché poco produttivo), quel tipo di rapporto di lavoro.

D’altro canto senza cristianesimo il capitalismo sarebbe impensabile. Il capitalismo non è altro che cristianesimo laicizzato, prima nella forma cattolica (1000-1500), poi in quella protestantica (1500-2000), e quest’ultima nelle colonie non ha ovviamente dovuto ripercorrere le stesse tappe emancipative dell’Europa occidentale, così come non fece la Russia, quando passò dal feudalesimo al socialismo di stato.

Il capitalismo calvinista è tuttora dominante nel mondo, benché in Cina si stia sviluppando una forma di capitalismo che non proviene direttamente dal calvinismo, ma da tradizioni culturali autoctone, che hanno assemblato lo stalinismo agrario chiamato maoismo, l’antico modo di produzione asiatico e le varie religioni che impongono il rispetto delle autorità. In un qualunque paese asiatico il capitalismo non deve comunque essere tenuto sotto il controllo di un’istanza politica superiore. Qui il concetto di “persona” è molto debole, ma in compenso è molto forte quello di Stato, che in genere è proprietario di tutta la terra. Questo tipo di capitalismo non è esportabile finché i governi dittatoriali non comprenderanno l’importanza della finzione giuridica che garantisce la libertà formale e quindi l’importanza della democrazia borghese come sistema politico. La Cina in futuro potrà davvero superare gli Usa solo quando l’uso della forza dello Stato sarà accompagnato da un uso spregiudicato del diritto e dei valori umani, che non potrà certo essere inferiore a quello delle attuali forze occidentali.

Ecco perché, se vogliamo davvero parlare di schiavismo in epoca moderna e contemporanea, dobbiamo intenderlo in maniera traslata, come “schiavitù salariata”, in cui la libertà formale giuridica è parte strutturale, organica a un rapporto di lavoro iniquo (cosa che nello schiavismo classico era impensabile, proprio perché non si aveva in alcun modo il concetto di “persona”, avente diritti inalienabili di natura).

Che cos’è l’eresia?

Per capire astrattamente che cos’è l’eresia, a prescindere dai contesti di spazio e tempo in cui si forma, che pur sono fondamentali per cogliere oggettivamente il senso di qualunque fenomeno storico, è sufficiente mettere in relazione quattro tipi di verità, che ci si presentano in una qualunque storia del pensiero umano.

Le quattro verità sono le seguenti: assoluta, relativa, oggettiva e soggettiva.

Le verità assolute in genere sono quelle che vengono messe per iscritto, come i dieci comandamenti ebraici, nei cui confronti si deve avere un atteggiamento ossequioso, categorico. Le verità assolute non possono essere messe in discussione. Chi lo fa rischia una gravissima sanzione: l’esilio, la punizione fisica, la riduzione in schiavitù e persino la condanna capitale. Credere in verità assolute significa credere in una dittatura del pensiero, sostenuta spesso da una vera e propria dittatura politica, anche se ai nostri tempi questa non è indispensabile, essendo noi più che altro dominati da una dittatura economica.

Con questo si vuol forse dire che non esistono verità assolute? No, una esiste: quella della libertà di coscienza, che non può essere coartata da nulla. Gli uomini sono fatti per essere liberi e devono avere tutte le condizioni per poterlo essere: solo una non possono riceverla dall’esterno, quella appunto che hanno dalla nascita.

La libertà è il loro bene più prezioso, anche perché è l’unico che permette loro di capire come vadano interpretati i fenomeni, i valori, le istanze. In nome della libertà di coscienza noi diciamo che tutte le verità sono relative, poiché la loro fondatezza o legittimità dipende da come vengono messe in pratica.

Non uccidere è forse una verità assoluta? Anche di fronte ai nemici della patria? Perché siamo autorizzati a uccidere qualcuno quando è in gioco la nostra vita? Per salvarci, non facciamo forse valere il principio della legittima difesa? Obiezioni del genere si potrebbero fare nei confronti di qualunque verità assoluta.

Scopo dell’eresia è sempre stato quello di relativizzare delle verità ritenute assolute, incontrovertibili, delle verità che, in nome della loro assolutezza, producevano forme di esistenza disumane. Il Novecento è stato uno dei secoli più barbari della storia, eppure nulla è stato fatto senza rispettare formalmente la democrazia.

Ma possiamo dire con sicurezza che tutte le eresie sono state un progresso per lo sviluppo della libertà di coscienza? È qui che ci vengono in soccorso, quando dobbiamo interpretare i fatti, le altre due verità: soggettiva e oggettiva.

L’eresia relativizza, l’abbiamo capito: ma con quale fine? Vuol forse distruggere le verità assolute per affermare soltanto delle verità soggettive, connesse a interessi particolari, individualistici o di piccoli gruppi, disinteressandosi delle esigenze generali delle grandi collettività o della grande maggioranza delle persone coinvolte in determinati processi storici? Oppure l’eresia vuol fare della propria verità soggettiva, particolare, che all’inizio si stenta persino a comprendere, in quanto i poteri costituiti hanno abituato la società ad ascoltare solo un certo tipo di verità: vuol fare di questa verità soggettiva un qualcosa di condivisibile dalle masse?

Quand’è che una verità soggettiva può diventare oggettiva? La risposta è semplice, anche se difficile da realizzare: quando trova ampi consensi. Quando la gente vi aderisce perché ne è personalmente convinta. La verità diventa oggettiva quando è condivisa dai più. Ecco che allora le parti si rovesciano: l’eresia si trasforma in ortodossia e la precedente ortodossia diventa un’eresia. Non si può forse leggere così la transizione dall’ebraismo al cristianesimo?

La storia però c’insegna che, finite le rivoluzioni, una tragedia incombe sempre sulla nuova ortodossia: la sua verità oggettiva viene trasformata dai poteri costituiti in verità assoluta, non modificabile. Spesso anzi queste verità vengono sbandierate come assolute per il popolo sottomesso, mentre i potenti perseguono proprie verità soggettive, come quando p.es. la Democrazia cristiana diceva d’essere un partito “cattolico” e però, sottobanco, faceva patti scellerati con la mafia. O come quando il fascismo e il nazismo dimostravano d’avere, nei loro programmi iniziali, degli ideali socialisti, che poi, ottenuto il potere, tradirono clamorosamente.

Le rivoluzioni sembrano essere delle inutili fatiche di Sisifo. Che siano di destra o di sinistra non fa molta differenza. Stalin creò una dittatura mostruosa proprio mentre diceva di voler combattere l’egoismo dei contadini più ricchi.

Nessuna eresia, fino ad oggi, è riuscita a spezzare questa perversa catena che ci obbliga a diventare il contrario di ciò per cui abbiamo lottato. Nessuna eresia ha ancora capito quale sia il criterio per non trasformare una verità oggettiva in una verità assoluta.

Molti sostengono che l’essere umano sia bacato dentro, e che non ha nessuna possibilità di vivere un’esistenza davvero felice su questa Terra. Spesso però sono proprio queste persone che impediscono alle altre di uscire dal labirinto.

Di sicuro sappiamo che nessuno può venire in soccorso all’essere umano: se non comprende gli errori che fa e come porvi rimedio, sarà destinato a ripeterli, e il fatto di ripeterli in forme e modi diversi contribuirà soltanto ad aumentare le sue illusioni e, insieme, le sue frustrazioni.

Ateo è bello ma non banale

Sul n. 5/2013 di “MicroMega” (Ateo è bello!), interamente dedicato all’ateismo, la Presentazione di Paolo F. D’Arcais merita d’essere commentata. Proprio perché di alcuni luoghi comuni in materia di ateismo non se ne può più, soprattutto da parte degli intellettuali.

Continuare a ribadire che devono essere i credenti a esibire “prove” della loro fede, quando ormai il concetto di “prova” è stato di molto ridimensionato dalla stessa scienza contemporanea, nel senso che nessuno può vantarsi d’averne in maniera inconfutabile, è quanto meno un segno d’arretratezza culturale. L’esempio del Sole che, sin dal tempo degli eliocentristi perseguitati dalla chiesa, sta lì nel mezzo mentre la Terra gli gira attorno, come volevasi appunto “dimostrare”, è ridicolo: sia perché anche il Sole si muove insieme a noi, sia perché sul piano pratico la cosa è abbastanza indifferente all’uomo comune, sia perché, infine (e questo lo dice Wittgenstein, che credente non era), non c’è nulla sul piano logico che obblighi il Sole a risorgere una volta tramontato.

D’Arcais afferma che “il ricorso alla parola ‘mistero’ è impraticabile in ogni discussione razionale”. Bene, così abbiamo fatto un bel regalo alla religione: l’unica titolata a parlarne! Chissà che tipo di parola dovremo trovare per definire quel 90% di materia di cui ancora non sappiamo un fico secco.

Servirsi poi delle argomentazioni ingenue dei classici filosofi greci, le quali ritenevano incompatibile la presenza di un dio assoluto con la presenza di un male così radicato sulla Terra, è quanto meno puerile: qualunque religione un po’ scafata obietterà che dio non può violare il libero arbitrio, altrimenti si sarebbe limitato a creare animali non esseri umani. Un qualunque credente arriva molto facilmente a sostenere l’esistenza di dio, proprio partendo dal fatto che l’azione umana, nonostante il male compiuto, alla fine rientra sempre in un progetto salvifico più generale. Semmai a un credente del genere si potrebbe far presente che proprio l’esistenza del male dimostra, seppur negativamente, ch’esiste un “dio” chiamato “uomo”, l’unico essere dell’universo che compie il male contro il proprio istinto di bene, e che non ha bisogno di nessun altro dio per comportarsi diversamente.

Invece D’Arcais preferisce parlare di “caso e contingenza”, che per essere smentiti avrebbero bisogno di un “determinismo assoluto e onnipervasivo”, che per fortuna – dice lui – nella realtà non esiste. E’ ridicolo. Il caso ovviamente esiste, ma ha un ruolo determinato, entro un certo ventaglio di possibilità: come scegliere una carta nel mazzo. Se il caso fosse assoluto, sarebbe relativa qualunque parola usassimo per definirlo. Ed è curioso che un atteggiamento che si presume “scientifico” attribuisca al caso l’origine di tutto. Se c’è una categoria che la scienza dovrebbe detestare è proprio quella della “casualità”: infatti, proprio nel momento in cui la usa, smette d’essere “scientifica” e diventa “filosofica”.

E’ assoluta o relativa la libertà di coscienza? Se relativa, perché ci diamo così tanto da fare per tutelarla? perché addirittura morire per difenderla? Quando lo fanno i credenti, dobbiamo pensare che a ciò siano meno legittimati, in quanto il dio della loro rivendicazione è qualcosa di indimostrabile? La libertà di coscienza non è forse fonte di una morale umana universale, a prescindere dalle sue pratiche realizzazioni, sulle quali comunque è sempre bene confrontarsi?

“L’azione del ‘caso’ rende imprevedibile l’esito”, dice D’Arcais. In che senso? Nessun esito può essere così imprevedibile da violare le leggi di natura. O forse, per togliere ai credenti l’idea di creazione predeterminata, vogliamo negare che l’essere umano sia soggetto a leggi di natura, indipendenti dalla sua volontà? Non è certo un caso che mutazioni genetiche avvengano in popolazioni che non praticano l’esogamia o che sono sottoposte a inquinamenti ambientali. Davvero “il caso esclude il finalismo”? Davvero è così assurdo pensare che un puntino insignificante dell’universo, chiamato Terra, possa pretendere, all’interno di tale contenitore, d’avere uno “scopo” e un “senso”? Anche l’embrione umano appena concepito è, nell’utero, un puntino insignificante. Anche il Tirannosauro nell’uovo che l’ha generato. E allora?

E con quale sicurezza si può sostenere che “tutte le facoltà che chiamiamo ‘spirituali’ cessano con la morte”? E se fosse la “morte” a non esistere? Come possiamo sapere che questa non sia soltanto una parola imprecisa con cui cerchiamo di definire un “trapasso naturale” da una condizione a un’altra? Quando mai nell’universo si può parlare di “morte” senza parlare, nel contempo, di “trasformazione”? L’antimateria esiste, eppure noi non la vediamo: gli scienziati si limitano a supporla, e nessuno ha l’ardire di definirli “credenti” solo per quest’ammissione di ignoranza.

Per concludere. Quando si dialoga coi credenti è meglio partire dal presupposto che non esiste “prova” che non possa essere smentita. Più che aver la pretesa di “dimostrare” qualcosa, dovremmo limitarci a “mostrarla”, usando sì argomentazioni a supporto, ma senza privilegi di esclusività. Le cose assumono significati diversi a seconda delle circostanze di spazio e tempo e del punto di vista con cui o da cui vengono osservate, benché non si possa escludere l’esistenza di leggi di natura, universalmente valide.

Dobbiamo accontentarci di argomentazioni che rendono soltanto plausibili determinate affermazioni, cioè ragionevolmente possibili, senza che ciò comporti alcuna forma di misticismo, laica o religiosa che sia. Non possiamo rischiare di assumere un atteggiamento “mistico” anche nei confronti dello stesso concetto di “prova”, col risultato di fare della scienza una nuova religione. Un’evidenza che presuma di auto-dimostrarsi è una semplice tautologia, avente quindi un contenuto semantico poverissimo. In campo astronomico la parola “mistero” non è l’eccezione ma la regola. Ma anche in campo medico, quando le guarigioni vengono ottenute per cause psichiche.

Il mistero fa parte della natura in generale e di quella umana in particolare, in quanto, in ultima istanza, resta sempre qualcosa d’insondabile nella natura delle cose, ed è proprio questo aspetto che stimola la ricerca e permette alle cose di assumere forme o fisionomie sempre diverse. Non c’è mai nulla di uguale a se stesso.

E’ assurdo pensare che le popolazioni del passato, solo per il fatto di non avere le nostre stesse conoscenze, non fossero “razionali”. Non ha alcun senso sostenere che è “vero” solo ciò che è empiricamente dimostrabile. Questo è fanatismo scientifico. Neppure l’amore tra due persone è “dimostrabile” empiricamente, eppure diciamo di non aver dubbi a riguardo. Qualunque risposta a qualunque perché “ontologico” resta scientificamente indimostrabile. Dobbiamo elaborare un altro concetto di “scienza”, più legato non tanto alla tecnologia quanto alle profondità dell’umano, che sono poi le stesse della natura.

Che cos’è il caso?

Il caso non è che l’espressione di una libertà universale. E’ un gioco delle probabilità, una scommessa col destino.

Lawrence d’Arabia si riteneva imprendibile nel deserto, ma mentre s’aggirava, con fare spionistico, in una cittadina turca, fu casualmente arrestato e pagò il suo rischio mal calcolato a caro prezzo. Esempi come questi se ne potrebbero fare a migliaia.

Quante cose accadono per caso? Probabilmente tantissimi incidenti stradali, almeno tutte le volte che non andiamo a cercarceli a causa della nostra imprudenza.

Tuttavia gli atei usano il caso come categoria ontologica, proprio per togliere all’universo un qualunque finalismo o per negare che possa esistere una originaria causa efficiente che abbia dato il via a tutte le cose. Se tutto dipende dal caso, dio non esiste, dicono gli atei.

Che significa questo? che forse, solo per questo, dovremmo sostenere che il caso deve per forza prevalere su una causa specifica? ovvero che ogni cosa nell’universo si è prodotta senza una ragione specifica?

Nel mondo della natura vi sono leggi ferree che producono eventi necessari. Questo ovviamente non vuol dire ch’esista un dio, né che nell’ambito di queste leggi non si possano produrre eventi casuali. Semplicemente dovremmo ammettere che la casualità trova la sua ragion d’essere nell’ambito della libertà, che è infinita nelle sue espressioni, eterna nella sua durata, universale nella sua estensione: e che tale rimane anche quando gli uomini sanno creare situazioni che solo apparentemente sembrano casuali.

Se fosse il caso a dominare, bisognerebbe arrivare a dire che anche la libertà potrebbe un giorno scomparire. Ma noi ce la sentiremmo davvero di dire che la nostra libertà di coscienza è un mero prodotto del caso e che non c’importerebbe nulla di perderla?

Lo sanno gli atei deterministici che se scompare la libertà, il caso diventa una “necessità”, e che quindi smetterebbe d’essere se stesso, cioè appunto “casuale”? Il caso trova la sua ragion d’essere nel fatto che rappresenta un’eccezione che conferma la regola. La sua funzione è proprio quella di dirci che non dobbiamo sentirci troppo sicuri di noi. Se ne accorse anche Lenin quando, appena finito uno dei suoi discorsi a Mosca, la Kaplan gli sparò due pallottole avvelenate, che solo per caso non l’uccisero.

La regola ha una ragione che il caso non può conoscere, appunto perché esso mira a sostenere che, in ultima istanza, non vi sono ragioni, ma solo delle casualità, degli eventi fortuiti, per i quali non val la pena darsi delle regole.

Noi umani accettiamo il caso, ma come conferma del fatto che esiste una libertà immensa, che è la condizione, per eccellenza, perché tutte le regole abbiano un senso. E non a caso, quanto meno questa libertà riesce ad esprimersi, tanto più siamo indotti a credere che tutto sia strettamente necessario, voluto da un destino avverso. Vediamo il caso come un aspetto che conferma una nostra concezione negativa della vita. Affidiamo al caso le ragioni delle nostre sconfitte. E pensare che neppure il cinico Machiavelli era così pessimista: infatti al massimo attribuiva al caso il 50% delle nostre disgrazie o fortune, il resto era virtù.

Una volta il cerimoniale cattolico del matrimonio conteneva l’espressione: “Amatevi nella buona e nella cattiva sorte”. Poi siccome la parola “sorte” sembrava troppo affine alla parola pagana “destino”, si preferii sostituirla con la parola “salute”, togliendo così pregnanza esistenziale a quell’antica espressione, che doveva vincolare i coniugi a un amore indissolubile, a prescindere dalle condizioni sociali in cui l’avrebbero vissuto (un modo di vedere tipico dell’astratto idealismo religioso).

La “salute” invece sembra riguardare qualcosa di “fisiologico” e quindi inevitabilmente si riferisce a una condizione individuale, che, senza dubbio, col passare degli anni, tende sempre più a peggiorare. Bisogna amarsi anche quando si è malati.

In realtà sarebbe bastato dire: “Amatevi sempre, perché nulla è più grande dell’amore”. Detto però da una chiesa misogina e maschilista come quella cattolica, che ha fatto del celibato del clero un motivo di elezione sociale, sarebbe stato – bisogna ammetterlo – molto difficile.

Che cos’è la sostanza delle cose?

Noi e la natura ci apparteniamo reciprocamente e, anche se non possiamo dimostrarlo ma solo intuirlo, esistiamo dall’eternità, in quanto, in natura – dice Antoine-Laurent de Lavoisier – nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Il sillogismo in fondo è molto semplice: se l’universo è eterno e infinito, e noi ne siamo parte organica, anche noi siamo eterni e infiniti. Cioè la nostra eternità e infinità non ha nulla né di superiore né di inferiore a quella della natura.

In tal senso dovremmo smetterla di dare l’attributo di “sostanza” a qualcosa che non sia anche naturale. E d’altra parte, in quanto esseri umani non possiamo attribuire la sostanza delle cose solo alla natura e tanto meno a cose extra- o sovrannaturali.

L’unico aspetto che distingue la specie umana da tutte le altre specie è la libertà di coscienza, in virtù della quale possiamo compiere scelte deliberate e non meramente istintuali, dettate da leggi assolutamente necessarie. L’essere umano può, entro certi limiti (quelli appunto naturali), scegliere come vivere. In tal senso è esatto dire che la libertà di coscienza è un prodotto della natura: quello più profondo, più complesso, irriducibile a qualunque definizione astratta o interpretazione univoca, quindi, in ultima istanza, indicibile.

La libertà di coscienza è, in natura, il massimo della libertà possibile; ed è una facoltà che, ogni volta che pretende di andare al di là dei limiti imposti dalla natura, finisce col negare se stessa. Andare oltre i limiti della natura significa autodistruggersi.

Questo stretto rapporto tra uomo e natura impedisce di credere che possa esistere qualcosa di superiore. Non esiste nulla di esterno all’uomo che non sia la stessa natura, di cui egli però è, da sempre, parte organica. Infatti, la natura non avrebbe mai potuto creare un essere così eccezionale come l’uomo (l’unico vivente a essere dotato di libertà di coscienza), se, almeno in potenza, non l’avesse già dentro di sé. La libertà di coscienza non può essere frutto di evoluzione, altrimenti dovremmo chiederci come mai non si trovi in alcun altro essere vivente, e non possiamo risolvere il problema della nostra sostanza dicendo che siamo un prodotto fortuito dell’universo, poiché non sarebbe razionale sostenere che l’elemento più significativo della materia, e cioè la coscienza, è stato un prodotto meramente casuale.

Un embrione umano fecondato, se venisse trapiantato nell’utero di un mammifero diverso dalla nostra specie, non produrrebbe un essere umano ma un mostro. Viceversa tra gli accoppiamenti animali gli ibridi vengono accettati con molta naturalezza.

L’universo ci è costitutivo e quel che si dice in figura, cioè che siamo “figli delle stelle”, sostanzialmente è esatto. Con una piccola precisazione, che se la coesistenza tra essenza umana ed essenza naturale è eterna, allora, in qualche maniera, anche le stelle sono figlie dell’uomo. All’origine dell’universo non c’è solo un’essenza naturale (la materia), ma anche un’essenza umana (la coscienza). La coscienza non è che l’aspetto immateriale della materia, la libertà impalpabile e insondabile nei suoi livelli più profondi.

Non esiste nulla di esterno all’uomo, di cui l’uomo non possa avere coscienza: non esiste alcun dio, né alcuna forza aliena, nulla che non sia naturale e umano.

Detto questo però, noi dobbiamo ammettere che della materia sappiamo ancora molto poco, anche perché essa stessa è eterna e infinita; e, per quanto riguarda l’essere umano, in questi ultimi seimila anni, siamo addirittura regrediti, in quanto le civiltà antagonistiche ci hanno fatto perdere la consapevolezza naturale dell’essenza umana.

Questa essenza viene vissuta in maniera sempre più artificiale, cioè sempre più alienante e spersonalizzante. Noi non sappiamo più chi siamo, e in queste condizioni ogni conoscenza della natura rischia d’essere falsificata in partenza, tant’è che oggi abbiamo perso il concetto stesso di natura non antropizzata.

Tutta la scienza e la tecnica che usiamo per conoscere la natura, parte sempre dal presupposto che una qualunque conoscenza deve essere finalizzata al dominio e allo sfruttamento delle risorse naturali. Questo significa avere della natura un concetto completamente sbagliato, e tutta la scienza che usiamo per cercare di studiarla, ha un valore prossimo allo zero. Una scienza che vede la natura come qualcosa da soggiogare, non dovrebbe neppure esistere.

I limiti di Mauro Pesce

E’ significativo che lo storico del cristianesimo primitivo Mauro Pesce abbia iniziato a revisionare le sue tesi laiciste in direzione del misticismo a partire dalla fine degli anni Settanta, cioè proprio a partire dal momento in cui poteva essere considerata fallita l’idea di compiere una rivoluzione sociale in nome di un’idea religiosa, quella cristiana, così come l’avevano elaborata i Cristiani per il Socialismo, i Teologi della Liberazione, le Comunità di Base e tanti altri movimenti (per certi versi anche Comunione e Liberazione), più o meno condizionati o suggestionati dalle idee del socialismo scientifico.

Pesce ha compiuto anche la stessa involuzione che subirono i discepoli di Gesù nei confronti del loro maestro l’indomani della sconfitta del movimento nazareno e soprattutto della guerra giudaica: ciò a testimonianza che ogniqualvolta si rinuncia a trasformare politicamente la società o a porre i presupposti culturali perché se ne avverta la necessità, si finisce col diventare revisionisti, persino in senso mistico.

E quando si diventa revisionisti, inevitabilmente si finisce col dire delle sciocchezze, come ad es. la seguente: “la distinzione tra religione e politica… è troppo contemporanea per essere applicata al mondo antico” (cfr L’enigma Gesù, ed. Carocci, Roma 2008, p. 97). Come se il mondo antico non conoscesse minimamente il valore dell’ateismo! Come se gli inizi della filosofia greca siano stati di tipo religioso! Come se Socrate non fosse stato giustiziato proprio per la sua miscredenza! Come se il Buddismo sia nato come “religione per l’aldilà”!

Il vero motivo di questa sua affermazione è che, secondo Pesce, Gesù non poteva non essere “credente”: il che, detto così, è come se si dicesse che oggi, dopo duemila anni di cristianesimo, non possiamo non dirci cristiani.

Poi però, siccome il revisionismo è anzitutto negazione di una qualsivoglia politica o cultura anche solo un minimo eversiva, Pesce arriva ad aggiungere, cercando d’essere più realista del re, che Gesù non era neppure, nello stesso tempo, un uomo “politico” e un “credente”, come poteva esserlo p.es. un fariseo o, ancor più, uno zelote che lottava per la liberazione nazionale in nome della fede giudaica, ma era soltanto “radicalmente sociale e radicalmente religioso”, cioè in sostanza di “politico” non aveva proprio nulla. L’esegesi confessionale dei vangeli naturalmente ringrazia! Il bello è ch’egli spera proprio in questa singolare maniera di sfuggire all’accusa di “misticismo”, quella per cui si vuol fare del Cristo un individuo prevalentemente di tipo “religioso”.

Pesce è convinto d’aver trovato finalmente il vero volto di Cristo, che di “politico eversivo” non aveva nulla e i cui aspetti socio-religiosi in nulla si differenziavano da quelli dei grandi profeti veterotestamentari. A suo dire infatti la spiritualizzazione della figura di Cristo è avvenuta a partire dal III secolo, in seguito alla rinuncia ecclesiastica della componente giudaica della sua vita, per la quale gli aspetti sociali e religiosi non potevano essere disgiunti.

Pur di sostenere l’idea di un Cristo “tutto giudaico” egli arriva a negare ciò che da tempo viene considerata un’evidenza, e cioè che una radicale reinterpretazione dell’evento-Gesù è iniziata con Reimarus. In suo luogo preferisce parteggiare per un illustre sconosciuto: Isaac Ben Abraham di Troki, secondo cui Gesù “ammetteva l’eterna durata della legge mosaica” (p. 100). In tal modo Pesce non solo mostra di non comprendere la differenza tra cristianesimo ed ebraismo, ma si preclude anche la possibilità di dare del cristianesimo un’interpretazione laicizzata, che è l’unica a porre un minimo di basi scientifiche per distinguere Cristo dal cristianesimo petro-paolino.

Alla fine degli anni Ottanta Pesce ha iniziato a condividere gli studi di Adriana Destro, che sul piano antropo-sociologico davano corpo all’idea di un Gesù tutto giudaico, benché in forma indipendente dal potere costituito.

La novità socio-religiosa del Nazareno sarebbe stata una sorta di “protestantizzazione” del giudaismo ortodosso, nel senso ch’egli avrebbe cercato di recuperare un rapporto più diretto tra uomo e dio, non mediato dalle corrotte istituzioni “ecclesiastiche” (tempio e sinagoghe). E questo recupero sarebbe appunto avvenuto in forma “sociale”, costituendo un movimento di discepoli, che avrebbe dovuto rinnovare “spiritualmente” l’intera società, poiché esso non si poneva in maniera separata rispetto a questa (come invece l’essenismo), ma in maniera “interstiziale”, e – si badi bene – non per costruire un nuovo regno davidico (che avrebbe necessariamente implicato l’uso della forza militare), ma semplicemente per porre le basi etiche con cui poi dio, in seguito, avrebbe potuto rinnovare il mondo.

Se questo non è misticismo, allora che cos’è? Ha diritto Mauro Pesce ad essere considerato uno “storico laico” solo perché tende a caratterizzare Gesù in maniera più giudaica di quanto abbia mai fatto la chiesa cristiana? Non si rende conto Pesce che quando cerca d’impostare le cose in questi termini, evitando di riconoscere a buona parte del giudaismo di duemila anni fa il suo carattere fortemente rivoluzionario, mostra di subire un condizionamento di tipo “cristiano”?

L’idea che ha di Gesù Cristo è quella stessa che lui vorrebbe avere della chiesa cattolica, cioè quella di uno studioso che nelle proprie indagini non vuole sentirsi in obbligo nei confronti di alcuna istituzione religiosa. Pesce vorrebbe muoversi come una sorta di cristiano protestante, interfacciandosi con una società di tipo cattolico (non integralistica), e, nel fare questo, è convinto di poter esibire una propria originalità, rivendicando al Cristo un’identità fortemente giudaica, eventualmente nella speranza di trovare significativi consensi presso le comunità israelitiche, che, a questo punto, vien da dire, duemila anni fa avrebbero ucciso Gesù a motivo di un tragico malinteso (quello stesso che secondo il vangelo marciano determinò il giustizialismo di Pilato).

Pesce vuole sottrarre alla chiesa cattolica (che dovrebbe limitarsi a un’opera di edificazione spirituale) il monopolio dell’interpretazione storiografica dell’evento-Gesù, per poi sentirsi libero di trasformarlo in una sorta di esegesi filo-semita. Facendo questo, però, non conserva del giudaismo classico la parte migliore, quella politicamente più significativa, ma quella peggiore, quella più conservativa, sicché, alla fine, non fa che difendere un’altra istituzione religiosa, quella appunto dell’ebraismo ufficiale, ortodosso.

Pesce sembra non rendersi conto che, nell’ambito del cristianesimo, cioè internamente a questa sola confessione, l’unica possibile contrapposizione esistente è quella tra chiesa cattolica (impostata sulla monarchia pontificia) e chiesa ortodossa (impostata sulla collegialità sinodale). Sotto questo aspetto la contrapposizione tra cattolicesimo e protestantesimo resta interna al cattolicesimo, soprattutto quando la si vuole configurare in maniera esclusivamente religiosa. Le idee del protestantesimo erano già presenti in eresie del mondo cattolico almeno mezzo millennio prima che nascesse.

Il protestantesimo non avrebbe fatto altro che “socializzare” un abuso di potere che la chiesa romana ha cominciato a manifestare sul terreno politico sin da quando ha pensato di potersi costituire come “Stato politico”. Il protestantesimo diventa invece interessante per la concezione laica dell’esistenza quando le sue ricerche esegetiche conducono, se svolte in maniera conseguente, a formulare tesi di tipo agnostico o addirittura ateistico. Ma sotto questo punto di vista sono interessanti anche tutte le teologie che, in ambito cattolico, si rifanno alle analisi del socialismo scientifico o anche solo utopistico, pensando di poter realizzare meglio la fede religiosa con una prassi comunitaria di tipo collettivistico.

In ogni caso non c’è alcuna possibilità che un ricercatore sul cristianesimo venga valorizzato dalle istituzioni ecclesiastiche, senza che preventivamente non gli venga chiesto di riconoscerle come autorità dogmatiche. Pesce vuole muoversi come protestante che esalta dell’evento-Gesù la sua componente giudaica, senza rendersi conto che, così facendo, finisce solo col contrapporre all’istituzione cattolica quella ebraica, la quale, proprio come quella cattolica, non può ammettere una fede religiosa senza la corrispondente istituzione (sociale, culturale e politica) che la sostiene.

Pesce vuole rinnovare il cristianesimo con nuove idee religiose mutuate dall’ebraismo, vuole ricondurre Gesù nell’alveo delle più “pure” tradizioni semitiche, e così fa diventare il Cristo uno dei tanti profeti biblici, non più grande certamente del Battista. Egli non pretende di fare un discorso ateistico, ma dice di non voler neppure fare un discorso “confessionale”. All’apparenza, infatti, egli sembra non voler fare un’analisi in senso cattolico tradizionale, però la fa ugualmente, nei panni di uno che la chiesa romana non avrebbe difficoltà a qualificare come un “protestante”, anche se certamente non come un protestante “radicale” (alla Bultmann per intenderci).

Ch’egli sia un autore “religioso”, seppur non strettamente confessionale, è lui stesso che lo spiega là dove afferma che non ha alcuna intenzione di compiere delle analisi contro il cristianesimo o la fede cristiana, anzi, al contrario, il suo obiettivo è quello di “contribuire al rinnovamento del cristianesimo” (p. 111). In tal senso appare curiosa la frase in cui dice d’interessarsi “della figura storica di Gesù, non della fede” (ib.), anche perché accetta chiaramente dei vangeli cose per le quali la fede è obbligatoria.

A suo parere infatti le esperienze più significative di Gesù sono state quelle di tipo “religioso” o “sovrannaturale”, come p.es. i cosiddetti “miracoli”. Tutte le ritrattazioni che nell’arco della sua vita Pesce ha fatto sono state a favore di un’interpretazione confessionale dell’evento-Gesù. Lo dice espressamente a p. 112: Gesù “era convinto che Dio stesse per realizzare il suo regno. Vedeva anzi nella propria capacità taumaturgica già una presenza della potenza di Dio che stava finalmente per prendere possesso del mondo… Dopo il giudizio universale sarebbe iniziato il regno di Dio, e tutte le genti (cioè i non ebrei) si sarebbero convertite all’unico Dio… Questo sogno non era altro che il sogno dei profeti biblici”.

A che serve dire altro di Pesce? Non abbiamo bisogno di un’altra testimonianza. Si giudica da solo, direbbe Caifa.

A chi gli obietta di non capire la diversità tra Cristo e il rabbinismo, lui risponde citando alcuni esempi:

  1. Gesù non voleva “dichiarare puri” tutti gli alimenti, altrimenti Pietro negli Atti (10,11ss.) avrebbe saputo come comportarsi.
  2. L’amore dei nemici è “un approfondimento che si muove totalmente all’interno dei parametri della cultura biblica, cioè ebraica”.
  3. Gesù non ha mai negato un valore al precetto del sabato.

Cosa obiettare a queste tesi se non ciò che da secoli sostiene l’esegesi laica e in vari aspetti persino quella confessionale?

  1. Gesù aveva semplicemente dichiarato insussistente la questione di poter stabilire una purità interiore sulla base di una purità esteriore. Indirettamente quindi l’atteggiamento nei confronti del cibo era del tutto irrilevante: uno poteva continuare a praticare le regole dietetiche o rinunciarvi del tutto, ma non sarebbe stato in virtù di nessuno dei due atteggiamenti ch’egli avrebbe potuto migliorare la propria coscienza e tanto meno la società attorno a lui.
  2. Nei vangeli l’amore dei nemici viene posto in senso reazionario, per impedire la rivoluzione anti-romana.
  3. Il rispetto del sabato è considerato irrilevante dal Cristo proprio in antitesi alla pretesa giudaica di voler fare, in generale, del mero rispetto della legge la principale condizione della liberazione umana e politica. Concepire il sabato come un feticcio significava essere contrari alla democrazia.

Pesce insomma è convinto di potersi attirare le simpatie dei non credenti dicendo di non volersi porre come “teologo” ma solo come “storico della religione” (e aggiungiamo anche “filosofo della religione”), servendosi per le sue ricerche di scienze umane come l’antropologia e la sociologia. Non vuole presupporre la fede alla sua ricerca storica, ma, in definitiva, non la mette neppure in discussione; vuol soltanto riservarsi di decidere quando usarla e quando no.

In teoria ammette che la fede non è di alcuna utilità per la ricerca storica, di fatto però non ne contesta i presupposti (il primo dei quali è quello di credere in cose che la ragione non può ammettere). Lui difende le proprie posizioni sostenendo la relatività della conoscenza e non si rende conto che non si può essere così relativisti da rischiare di dover fare gli interessi della religione: non si possono ammettere delle cose che non aiutano minimamente lo sviluppo di una comprensione obiettiva della stessa fede, che di per sé, a prescindere dai comportamenti di chi la pratica, non ha nulla di razionale.

Di fronte all’evento-Gesù – così fortemente strumentalizzato dalle chiese di tutti i tempi in senso mistico – non è possibile sostenere che “la ricerca storica non è né per la fede, né per la non fede” (p. 122). Posizioni del genere o sono false o sono terribilmente ingenue. Gesù Cristo non può essere paragonato a Giulio Cesare o Alessandro Magno. Qui non abbiamo a che fare con un personaggio qualunque della storia, ma con un individuo in cui credono ancora, senza alcuna vera razionalità, miliardi di persone.

Professare equidistanza nei confronti delle chiese o delle fedi religiose o delle teologie, rinunciando a una propria posizione laicistica, significa, inevitabilmente, fare il gioco dei clericali. Il fatto stesso ch’egli dica d’aver avuto come maestri H. Schlier, J. Dupont e R. Schnackenburg, e come fonti ispirative W. G. Kümmel e Ph. Vielhauer, e di tenere costantemente conto di R. Brown, G. Theissen e altri, la dice lunga sulle fonti laiche di Pesce.

L’unico, tra quelli citati nella pubblicazione, che avrebbe potuto aiutarlo a fare un minimo di chiarezza nella sua confusa storiografia del cristianesimo primitivo era S. Brandon, su cui però egli dice di aver scritto decine di pagine di “aspra critica”.

Letteratura: cui prodest?

La letteratura italiana è nata nel Duecento ed è morta nel Novecento. E’ nata come fenomeno intellettuale della borghesia, che in quel momento era in ascesa, ed è morta come fenomeno intellettuale della stessa borghesia, entrata in un declino irreversibile.

La borghesia ha svolto una funzione progressiva contro il clero e la nobiltà, ma ha distrutto la classe contadina e artigianale, trasformando tutti in operai salariati, ivi inclusi gli intellettuali.

Tutta la letteratura borghese è rimasta ottimistica finché le contraddizioni sociali non sono esplose, dopodiché è diventata decadente, in quanto la borghesia non solo è incapace di risolvere i propri problemi, ma non ha neppure alcun interesse a farlo.

La domanda che oggi dobbiamo porci è la seguente: che tipo di letteratura possiamo fare senza ricalcare gli stili di vita borghese? Le classi marginali non sembrano essere in grado di fare una letteratura di pari livello, perché non ne hanno le capacità; forse non sono in grado di fare alcun tipo di letteratura, almeno non secondo i canoni tradizionali, e se anche riescono a fare qualcosa di significativo, sul piano letterario, non hanno poi i mezzi per divulgarla. Se un intellettuale fa letteratura “per” le classi marginali, la fa da “borghese”, per cui la sua produzione è viziata in partenza. Se, di tanto in tanto, emerge qualche scrittore pregevole dalle classi subalterne, è assai raro ch’egli non voglia diventare un intellettuale borghese.

E’ proprio la separazione di teoria e prassi, di lavoro intellettuale e manuale che rende l’odierna letteratura una cosa del tutto inutile per i ceti marginali. Ecco perché diciamo che la letteratura italiana (e forse europea o addirittura occidentale), davanti agli orrori del Novecento prodotti dalla borghesia, è morta, in quanto non ha saputo creare alcuna valida alternativa.

La borghesia ha soltanto avuto un momento di contrizione, di pentimento, s’è leccata le ferite e poi ha ricominciato a comportarsi come prima, differenziando la propria attività solo negli aspetti formali, oggi dominati dal globalismo e dall’infotelematica.

Una qualunque letteratura borghese oggi è falsa per definizione. E di fronte a un qualunque tipo di letteratura, la prima da cosa da chiedersi è: a chi giova?

Noi dovremmo ripensare completamente il concetto di “letteratura”, poiché quello che abbiamo non serve a farci uscire dalla crisi, e star lì a pensare di dover scrivere qualcosa che in definitiva è solo fine a se stesso, è un lusso che non possiamo permetterci. La situazione è diventata troppo grave.

La letteratura non può più essere un semplice romanzo: “semplice” non perché il romanzo non possa essere qualcosa di molto complesso, ma perché la vita non può più essere “romanzata”. La vita sta diventando troppo dura da vivere.

Noi dobbiamo scrivere qualcosa che serva per uscire da questo tormento. E siccome da questo tormento non si può uscire da soli, ci vorrebbe, prima di scrivere qualunque cosa, una sorta di esperienza comune, di cui la letteratura possa diventare il riflesso.

Questa cosa andrebbe fatta subito, perché non è possibile aspettare un’ennesima tragedia nazionale o europea prima di veder emergere una nuova buona letteratura. Dobbiamo uscire da quel maledetto circolo vizioso dei corsi e ricorsi.

Sul fatto che gli ex-tossici si raccontino ad estranei

E’ consuetudine che le scuole superiori vengano periodicamente visitate da ex-tossici che raccontano, in forma assembleare, la loro esperienza o che gli studenti li vadano a trovare nelle loro comunità per conoscere i loro ambienti e percorsi di recupero, le loro motivazioni ecc.

Ci si chiede se tutto quello che si fa in questi incontri sia pedagogicamente utile. Molte cose lo sono sicuramente, ma forse una no: quella di raccontare ad estranei, da parte dell’ex-tossico, i propri problemi più intimi, più personali.

Questi ex-tossici vivono ancora nelle comunità di recupero per una qualche ragione: hanno superato la dipendenza fisica ma non quella psichica, oppure hanno scelto di vivere definitivamente nella propria comunità (come spesso succede in quella di San Patrignano, dove lavorano, si sposano ecc.), oppure vengono giudicati “utili” dai loro dirigenti come forma di testimonianza positiva da divulgare appunto nelle scuole e in altri ambiti sociali.

Ho l’impressione che il fatto di mettersi a raccontare tutto di sé a chi viene visto per una sola volta rischi di diventare una forma di violenza nei confronti di se stessi, anche nel caso in cui vi si acconsenta liberamente. E’ infatti difficile pensare che una persona che ha scelto di vivere in una di quelle comunità invece che in carcere, possa sentirsi così libera nei confronti di chi gli chiede (o anche solo gli propone) di offrire una testimonianza del genere.

Indubbiamente non si sta qui a mettere in discussione l’utilità terapeutica di raccontare la propria esperienza a chi vive problemi analoghi o a chi si pensa che in qualche modo possa aiutarci a risolverli. La domanda che ci si pone è un’altra: siamo sicuri che il raccontare la propria esperienza a soggetti del tutto estranei non rischi di diventare una forma di esibizionismo (in relazione alla propria capacità di affrontare e superare il problema della dipendenza), o, peggio, una forma di propaganda a favore della propria comunità di recupero?

E’ noto infatti che sono gli stessi gestori di tali comunità che si servono dei propri ex-tossici (o ex-alcolisti) per far conoscere la propria struttura, per far vedere i loro successi e per chiedere sostegni finanziari alle istituzioni. Gli ex-tossici raccontano al mondo le loro esperienze anche perché le varie comunità di recupero sono in concorrenza tra loro. Questo rischia di trasformarsi in un modo non di raccontarsi ma di vendersi.

Se un ex-tossico va in giro a raccontare ad estranei tutta la propria storia, rischia di mettersi in faccia una maschera, quella appunto dell’ex-tossico. Prima si sentiva disperato, ora si sente esaltato, poiché ha visto che può fare della propria disperazione un’occasione di autostima, di orgoglio, e non s’accorge d’essere strumentalizzato dai propri dirigenti. Prima s’illudeva d’essere qualcuno “facendosi”, ora s’illude d’essere qualcuno “non facendosi”.

Chi ascolta queste storie forse non ha davvero bisogno di sentirsele raccontare da chi le ha vissute: è sufficiente che le raccontino gli esperti del settore. Anche perché non si deve alimentare l’emotività o la curiosità fine a se stessa. Gli studenti non devono essere “spettatori” di un evento che rischia di porsi in maniera “teatrale”, che tale è in quanto, subito dopo averlo osservato, non potranno fare alcunché (se non riflettere su di sé fino al momento in cui, e sarà abbastanza breve, ciò che hanno visto resterà impresso nella loro mente).

Le storie personali devono restare appunto “personali” per gli estranei. Non si può rinunciare alla privacy solo perché si è vissuto nel fango una parte della propria vita. Supponiamo infatti che chi si mette a nudo s’incontri di nuovo, una volta uscito dalla comunità, con le stesse persone che hanno conosciuto per filo e per segno tutta la sua storia. E’ vero, questo è difficile che accada, poiché generalmente i drogati vengono collocati in comunità lontane dai loro luoghi d’origine, oppure, quando escono, vanno a vivere in luoghi lontani dalle loro stesse comunità.

Ma supponiamo per un momento che ciò accada. Chi racconta tutto di sé al primo venuto, riuscirà, una volta uscito dal gruppo che l’ha accolto quando aveva un problema, a sentirsi davvero libero, a stabilire dei rapporti normali con chi sa che in passato si drogava, rubava, mentiva, si prostituiva, era violento ecc.? Ci si può fidare al cento per cento di uno che nel passato s’era comportato in questo modo? Non è forse meglio che non si sappia nulla del suo pregresso e si stabilisca con lui o lei un rapporto ex-novo, alla pari?

Quando uno racconta il peggio di sé al primo venuto, sarebbe meglio, una volta uscito dalla propria comunità, che andasse a vivere molto lontano dal luogo del suo recupero (o del suo raccontarsi), proprio per essere più sicuro di potersi rifare completamente una vita. Se bisogna uscire dalla comunità dopo aver risolto il proprio problema, non si può uscirne con appiccicata in fronte l’etichetta “ex-problema”. Se non ha senso fare del proprio problema un motivo di vanto per averlo superato, non è neppure giusto doverselo portare dietro dopo averlo superato.

Se io fossi un ex-drogato o un ex-alcolista o un ex-carcerato o un ex-terrorista o un ex-mafioso ecc., mi piacerebbe guardare in faccia un estraneo in piena libertà, senza dover neanche per un momento sospettare che quella persona sta pensando al mio passato (o che può comunque pensarci in qualunque momento). Il mio debito l’ho già pagato; questo debito m’ha segnato profondamente e preferirei che non me lo si ricordasse ogni volta, anzi vorrei essere sicuro che a nessuno possa sfiorare il pensiero che io ho avuto un determinato problema. Vorrei essere sicuro che chi mi guarda o mi parla o vive o lavora con me, mi dia la possibilità di sentirmi del tutto libero dal mio passato e vorrei che anche lui si sentisse libero di rapportarsi a me senza essere minimamente condizionato da ciò che io ho fatto nel passato.

Se io avrò voglia di raccontare tutta la mia vita a chi mi pare, lo farò dopo essere uscito dalla comunità di recupero, senza condizionamenti esteriori, senza che qualcuno me lo chieda. Non voglio spettacolarizzare il mio dolore, a meno che non voglia appunto farlo come forma di “spettacolo”, liberamente, in cui la finzione viene usata su un palcoscenico, nella piena consapevolezza di stare recitando una parte. In tal caso mi lascerò coinvolgere solo quel tanto che basta a produrre un determinato effetto. Magari su una cosa del genere potrò anche trovare di che vivere, e se non sono capace di recitare, potrò sempre chiedere che lo faccia un altro al mio posto, oppure mi metterò a scrivere un libro o la sceneggiatura di un film. L’importante è che tutto questo venga fatto nel rispetto della mia libertà di coscienza.

Libertà di coscienza vuol appunto dire anche questo: sentirsi liberi di aver avuto un problema senza che tutto il mondo debba per forza saperlo.

Non ha alcun senso dover soddisfare delle conoscenze o curiosità intellettuali da parte dei giovani: non si evita di cadere nella droga semplicemente ascoltando storie raccontate da ex-drogati, anche perché per drogarsi le occasioni sono infinitamente di più. Non sono le storie drammatiche, quelle a maggior impatto emotivo, che aiutano meglio a non cadere negli stessi errori, a non avere gli stessi problemi: se fosse così facile, la droga, l’alcool, il fumo ecc. neppure esisterebbero.

I giovani hanno bisogno di esempi positivi quotidiani, hanno bisogno di credere che la vita abbia per loro un senso. Se proprio hanno bisogno di “emozioni forti” per crescere, è sufficiente far vedere queste storie drammatiche nei film, mediante attori professionisti, che sanno recitare alla perfezione, magari con la scritta in calce: “Tratto da una storia vera”.

Se proprio, per crescere in questa difficile fase della vita che è l’adolescenza, hanno bisogno di toccare con mano certe situazioni inusuali, gliele si faccia sperimentare da vicino, per un breve periodo di tempo, affiancandoli da esperti e specialisti, e rinunciando a priori a degli incontri estemporanei che servono soltanto a illudersi, sia da parte di chi parla, sia da parte di chi ascolta.

E’ possibile una verità storica?

La storia non può finire con l’esperienza terrena, poiché in questa dimensione la verità, nel senso pieno della parola, è impossibile. Finché esistono civiltà antagonistiche, i cui poteri dominanti decidono l’ideologia ufficiale, avendo il monopolio dei mezzi comunicativi, nessuna verità è possibile. Al massimo sono possibili delle “mezze verità” o delle critiche alle verità ufficiali del governo, delle istituzioni, ma la vera verità, quella che una volta si definiva “pura”, è fuori della nostra portata.

Possiamo soltanto avvicinarci ad essa, in maniera approssimativa, facendoci aiutare da chi ha una visione opposta a quella dei poteri dominanti, a quella di chi non tiene in alcun conto le classi marginali; ma dobbiamo farlo senza credervi ciecamente, poiché non c’è nulla che indichi la verità come un’evidenza. Infatti dobbiamo accontentarci di un’approssimazione per difetto. L’insieme sfugge alla nostra comprensione, anche se un lavoro d’équipe è certamente più significativo di quello del singolo, per quanto intelligente sia.

Il nostro giudizio è condizionato soprattutto da due fattori. Il primo è che quando gli aspetti privati confliggono con quelli pubblici, diventiamo cinici se preferiamo quelli pubblici (quanti grandi personaggi sono stati fatti fuori dalla cosiddetta “ragion di stato”? Socrate, Cristo, Tommaso Moro, sino al deputato Aldo Moro). Se invece preferiamo quelli privati diventiamo sentimentali, troppo condiscendenti.

I conflitti sociali di queste civiltà inducono a dare più importanza alla politica che alla morale, anche quando non si è politicamente impegnati; sicché la morale si guasta, subisce dei condizionamenti che le fanno perdere lo spessore umano. Chi fa politica per mera esigenza di potere fa diventare cinico anche chi non la fa, cioè anche chi preferisce dedicarsi agli affetti familiari, agli amici, ai propri hobby.

“Il potere logora chi non ce l’ha” – questa tristissima massima di uno dei principali protagonisti del delitto Moro, in fondo pesca nel vero, poiché nell’antagonismo sociale l’emarginato s’incattivisce, si disumanizza, perde la faccia di bronzo che caratterizza chi sta al potere, per il quale l’assenza di morale va vissuta con assoluta indifferenza.

Chi invece pensa che gli aspetti etici siano da coltivare molto di più di quelli politici, finisce col diventare ingenuo, col non capire fin dove si può spingere il cinismo della politica, dove la regola è quella di dire sempre il contrario di ciò che si pensa.

Il secondo fattore da considerare, che ci impedisce di avere una visione obiettiva delle cose, è il fatto che tendiamo a dare ragione a chi soffre, tendiamo a giustificarlo, anche quando sappiamo che politicamente ha torto. Gli aspetti umani ci commuovono, ci mettono in confusione e offuscano l’interpretazione obiettiva della realtà, quella che deve tener conto dei conflitti di classe, dei rapporti di proprietà. Quanti militari tedeschi sopravvissuti alla battaglia di Stalingrado hanno pianto i loro compagni perduti, senza rendersi conto del genocidio che stavano compiendo ai danni dei russi?

Ecco perché non siamo capaci di vera verità. Il fatto è purtroppo che non siamo automi, in grado di accontentarci di verità evidenti, di tipo matematico. E’ un bisogno della natura umana quello di conoscere il senso delle cose, quello profondo o “ultimo”. E sappiamo bene che se non riusciamo a soddisfarlo, meno ancora vi riusciranno le generazioni future, per quanto a volte la lontananza dagli interessi in gioco possa aiutare nella ricerca nella verità.

Noi rischiamo continuamente di compiere azioni di cui non saremo noi a vergognarci, ma le generazioni future, le quali, se e quando prenderanno consapevolezza dei nostri errori, non avranno modo di rinfacciarceli. Già faranno una fatica immane a scoprire le nostre falsificazioni, in quanto noi avremo lasciato loro un’interpretazione dei fatti del tutto edulcorata. Ma anche quando vi riuscissero, con chi se la prenderanno? Non è forse un’ingiustizia che una generazione compia impunemente degli abusi e ne scarichi le conseguenze sulle generazioni successive?

Questa mancanza di senso della storia non ci permetterà mai di raggiungere la verità. Ecco perché abbiamo bisogno di un’altra dimensione per chiarirci definitivamente, e chissà fino a che punto sarà possibile farlo a mente fredda: le cose a volte s’interiorizzano così tanto che neppure a grande distanza di tempo si riesce a metabolizzarle. Quando i sopravvissuti dei lager ricordano quello che hanno passato si commuovono ancora, come se fosse successo ieri, e si commuovono persino i loro figli, quanto i genitori sono morti già da tempo.

L’importante, sin da adesso, è non acquisire la psicologia della vittima innocente, quella di chi vuole reagire a tutti questi soprusi con spirito vendicativo. Noi non possiamo rischiare di comportarci peggio delle precedenti generazioni, anche se è nostro compito smascherare chi sostiene d’essersi comportato in una certa maniera per assicurarci un’esistenza dignitosa.

La sofferenza va relativizzata: di per sé essa non rende più vera la verità; anzi, il più delle volte la falsifica, poiché uno pensa che in nome del proprio dolore tutto gli sia lecito. Quando Dante incontrò Brunetto Latini e lo sentii inveire pesantemente contro i fiorentini, lui che, in fondo, da loro aveva ottenuto un danno alquanto modesto, così gli rispose: “Son pronto ad affrontare la sorte, qualunque cosa essa mi riservi, purché la mia coscienza non mi rimproveri” (Inferno, XV, 91-93).

Apparenza e realtà tra etica e scienza

Per millenni abbiano creduto vera un’apparenza – che fosse il sole a girarci intorno -, eppure siamo vissuti lo stesso e dignitosamente.

Sostenere che il progresso sia iniziato quando abbiamo scoperto la verità, sarebbe sciocco. Di per sé la verità scientifica non dice nulla sulla verità etica o filosofica o politica di una società, tanto meno sul suo “progresso”. Questa è una verità elementare ma sconosciuta, in genere, agli autori dei manuali scolastici di storia, che vedono il presente migliore del passato.

Il Medioevo non è più falso della Modernità perché più ignorante, né la Modernità è più vera perché più sapiente. L’ignoranza non ha alcun rapporto con la falsità. L’apparenza, di per sé, non è più falsa della realtà. Esiste forse materialmente l’arcobaleno? No, eppure lo vediamo e ci costruiamo sopra persino dei miti, proprio a causa di questa sua particolarità.

Se qualcuno, di fronte al cucchiaino spezzato in un bicchier d’acqua, ci spiega il fenomeno della rifrazione, noi forse smettiamo, solo per questo, d’avere una percezione magica della realtà? E allora perché c’illudiamo di poter pagare i nostri debiti col gioco d’azzardo o le lotterie o gli imbonitori alla Vanna Marchi? Perché pensiamo di poter un giorno recuperare le nostre perdite in borsa? Perché pensiamo che un semplice cambio di governo possa migliorare, stante l’attuale sistema, la nostra situazione disastrata? Perché usiamo le medicine come un toccasana miracoloso? E così via.

Semmai la falsità subentra quando si vuol negare che l’apparenza sia solo un’apparenza, ovvero che non possa o, peggio, non debba esistere una realtà opposta, cioè che non possa essere dimostrata un’altra verità, come appunto sosteneva la chiesa ai tempi di Galileo.

Oggi diciamo che l’ignoranza della verità non è ammessa, ma lo diciamo perché siamo illuministi e positivisti, cioè ideologici. Noi in realtà ci illudiamo che la verità etica possa dipendere da quella teoretica o gnoseologica. Ma son due cose del tutto separate, com’è giusto che sia.

Uno deve poter essere giudicato anche nella sua ignoranza, non in quanto ignorante, ma in rapporto al suo modo di vivere il bene. Il bene può essere vissuto anche nell’ignoranza.

Il bene è verità? Se lo è, allora la verità può anche essere ignorante. Il fatto di non sapere non può essere usato come scusa o pretesto per “non-essere”. Non è possibile dire: “Mi sono comportato male perché non sapevo”. La percezione del bene e del male va al di là della conoscenza della verità o della falsità.

Si può però dire: “Ora so quale sia la verità, cambierò atteggiamento”, cioè “se ho sbagliato in qualcosa, per mia ignoranza, rimedierò”. Ma una disponibilità del genere – bisogna ammetterlo – lascia supporre che anche l’errore in causa non fosse molto grave. Questo perché l’etica è sempre superiore alla gnoseologia, altrimenti non avremmo fatto alcun passo avanti rispetto alla Grecia classica, quando i filosofi dicevano che la colpa sta nell’ignoranza.

Nell’ignoranza esiste la buona fede, che viene sempre moralmente (benché non giuridicamente) giustificata, tant’è che diciamo: “errare è umano”, ma non per questo diciamo che un errore gnoseologico porta automaticamente a un errore del comportamento. Il male non viene prodotto dall’ignoranza in sé, ma da un modo sbagliato di vivere il bene, cosa possibile anche nella conoscenza della verità.

Un contadino cattolico, che ha sempre obbedito alle leggi e pagato le tasse, può odiare lo straniero islamico se gli viene fatto credere che può essere un suo nemico. Una persona buona può diventare cattiva nella sua ignoranza, ma non è la sua ignoranza che la fa diventare cattiva: è piuttosto l’abitudine a obbedire ciecamente, a fidarsi dei propri superiori, come in genere avveniva nel Medioevo, e se vogliamo anche oggi, nonostante la nostra sterminata conoscenza.

Tant’è che è vero anche il contrario, e cioè che non è la certezza del carattere inoffensivo dello straniero che ci porterà a non odiarlo. L’atteggiamento nei confronti del bene è soggetto a valutazioni che esulano dalla conoscenza della verità in senso stretto.

Gli indiani del Nord America sapevano bene che i bianchi mentivano quando firmavano i loro trattati, eppure, siccome erano abituati a credere nel valore della parola data, continuavano a credere nella verità di quei trattati e nella sincerità di chi li firmava; l’uomo bianco aveva la lingua biforcuta, ma l’indiano, nella sua ingenua buona fede, si sentiva in dovere di credere nelle promesse di lui: se voleva continuare a vivere nel bene, sentiva di non avere alternative.

E così il genocidio degli indiani non è stato solo uno sterminio della buona fede ma anche della verità e del bene in generale, al punto che oggi l’uomo bianco non sa più distinguere il bene dal male, e quando parla fa fatica a credere nelle sue stesse parole. La finzione s’è sostituita alla realtà, tanto che qualunque animale, nella semplicità dei suoi istinti, è diventato più “vero” di qualunque essere umano.

Siamo diventati falsi proprio nella nostra grande conoscenza, non perché la conoscenza renda falsi, ma perché quando non si vuol vivere il bene, quando non si vuole “essere”, non c’è conoscenza che tenga: la sua funzione si riduce soltanto a mistificare meglio il “non-essere”.

Ciò detto, resta da stabilire cosa s’intenda con la parola “bene”. Ma questo è un discorso che la filosofia non può fare, neppure la filosofia della morale o l’etica in generale. Per comprendere la natura del “bene”, bisogna storicizzarlo, calarsi nelle determinazioni di spazio e tempo, fare considerazioni che riguardano i comportamenti umani in senso stretto, che concernono discipline come l’economia, la politica ecc. Parlare del “bene” in astratto, senza considerare i rapporti di proprietà o i conflitti sociali, non serve a nulla.