I prezzi del gas si fissano in Olanda

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Prezzi dell’energia, guerra in Ucraina, inflazione. Spesso sono presentati come fossero eventi concatenati. Non è così. L’alta volatilità dei prezzi del gas ha una storia molto più lunga e complessa.

Una delle cause principali dell’inflazione dei prezzi dell’energia è il mercato a termine del gas Ttf di Amsterdam. Il Ttf è stato istituito come parte del mercato energetico dell’Unione europea.

Il Ttf (Title Transfer Facility) è un mercato virtuale (un hub) per lo scambio del gas naturale. Insieme al Nymex (New York Mercantile Exchange) e all’Ice (Intercontinental Exchange) di Atlanta, che è specializzato in contratti derivati otc sull’energia, è uno dei principali mercati di riferimento per lo scambio del gas in Europa e in Italia.

L’indice Ttf mensile è la media aritmetica delle quotazioni giornaliere riferite al mese di fornitura cioè quello precedente. Il valore è in €/MWh, megawattora, l’unità di misura convenzionale di tutte le fonti di energia. Le nostre bollette “traducono” i prezzi in €/Smc, cioè in standard metro cubo. Ma l’andamento dei prezzi non cambia.  

Ecco gli andamenti: il Ttf di aprile 2021 era 20,50 €/MWh, saliva a 63,5 €/MWh a settembre, per arrivare a 110,12 €/MWh a dicembre 2021. Scendeva a 83,03 €/MWh a gennaio 2022, s’impennava a marzo, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, fino a 125,42 €/MWh per poi scendere lentamente a 78,87 €/MWh lo scorso giugno. Il Ttf di agosto, riferito alle forniture di luglio, è già intorno a 110 €/MWh.

Le spiegazioni ”oggettive” dell’impennata del 2021 indicherebbero le cause nella ripresa della domanda, dopo la flessione economica dovuta al Covid, e in una riduzione delle forniture da parte della Norvegia. Il che non regge per niente alla prova dei fatti, anche perché i prezzi dei future erano in grande salita già nella seconda metà del 2021.

L’Olanda è uno snodo centrale per il mercato europeo che consente il trasferimento del gas tramite metanodotti tra Paesi come Francia, Germania, Norvegia, Italia e Gran Bretagna.

Questo mercato spot, molto volatile come tutti i suoi simili, ha progressivamente sostituito i contratti bilaterali a lunga scadenza tra i Paesi. Esso consente non solo ai commercianti all’ingrosso, ma anche ai trader finanziari, di determinare il prezzo dei contratti a termine sul gas naturale. I prezzi future riguardano una consegna più lontana nel tempo e possono essere negoziati più volte prima della scadenza. Per esempio, i prezzi dei Ttf future per i mesi di fine anno sono di circa 200 euro per MWh.

 Le scommesse degli hedge fund sulla borsa Ttf hanno creato una scarsità artificiale di gas e portato i prezzi a un livello insostenibile, ben prima della guerra in Ucraina.

 Si è tornati all’equivalente dei famosi “barili di carta” di prima della grande crisi finanziaria del 2008, quando per un barile di petrolio fisicamente scambiato, sul mercato di New York si negoziavano 100 barili con contratti future. Alla loro scadenza, furono saldati pagando soltanto la differenza di prezzo, senza alcun movimento reale del prodotto. Tali contratti, in milioni, però, determinarono l’impressione di una domanda gigantesca rispetto a un’offerta limitata e, di conseguenza, l’attesa di un forte rialzo del prezzo del petrolio.

“Osservare” il mercato, aspettando che risolva da solo il problema che ha provocato, è come affrontare la siccità e la mancanza d’acqua impegnandosi in una sciamanica “danza della pioggia”.

Ci sono alcuni interventi immediati possibili, mente si lavora per diversificare i fornitori e le fonti di energia. Uno è senz’altro concordare a livello europeo un tetto massimo al prezzo di acquisto del gas. E’ quello che anche il governo italiano ha proposto. Gli interessi europei, nazionali e collettivi devono avere precedenza sugli “appetiti” privati di qualcuno.

In secondo luogo, non è tollerabile che la speculazione detti le leggi ai governi. Al riguardo ci sono due mosse possibili: i contratti future vanno bene ma devono essere conclusi con un effettivo scambio delle merci trattate e, secondo, dovrebbero essere ammessi solo i trader che hanno effettivamente la copertura finanziaria dei contratti che sottoscrivono e non quelli che operano con una “leva finanziaria” costruita sui debiti.

Altrimenti, i cittadini come possono accettare che i loro governi siano stati capaci di imporre la mascherina a tutti e, invece, non sono in grado di mettere la “museruola” agli speculatori, che minano le economie e la stessa autorità dei governi?  Sarebbe un paradosso!

*già sottosegretario all’Economia  **economista

BRICS: creare una nuova moneta per dare l’addio al dollaro

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

In occasione del 14.mo Summit dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), organizzato a Pechino a fine giugno, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che i Paesi membri si stanno preparando a creare una valuta di riserva internazionale.

Parlando in via telematica al BRICS Business Forum, egli ha affermato: “Il sistema di messaggistica finanziaria russa è aperto per la connessione con le banche, proiettando così la necessità di una valuta di riserva BRICS. Il sistema di pagamento MIR russo sta ampliando la sua presenza. Stiamo esplorando la possibilità di creare una valuta di riserva internazionale basata sul paniere di valute dei Paesi BRICS.”.

Dopo le sanzioni imposte dall’Occidente contro la Russia a seguito della guerra in Ucraina, è una mossa quasi inevitabile, attesa da chi analizza i processi politici con un approccio scientifico e realistico senza dettami ideologici o pregiudizi di sorta.  

Tra le varie misure sanzionatorie, le banche russe sono state escluse dal sistema SWIFT dei pagamenti internazionali. Esistono, però, altri sistemi di regolamento globale bilaterale o multilaterale per i servizi finanziari transfrontalieri, come il sistema cinese CIPS. Nel 2021 il CIPS ha elaborato circa 80 trilioni di yuan (11,91 trilioni di dollari), con un aumento di oltre il 75% su base annua. Secondo i dati di SWIFT, ad aprile lo yuan ha mantenuto la sua posizione di quinta valuta più attiva per i pagamenti globali, con una quota del 2,14% del totale.

Da parecchio tempo i BRICS stanno intensificando la cooperazione negli investimenti e nel finanziamento dei principali settori come le industrie strategiche emergenti e l’innovazione digitale nel tentativo di aumentare l’uso delle valute locali nel commercio e nei pagamenti, così da bypassare il dollaro.

Si tenga presente che le sanzioni contro la Russia non sono state sostenute dagli altri Paesi BRICS che hanno, invece, interpretato come la trasformazione del dollaro in un’arma da guerra.

L’Europa continua a sottovalutare il ruolo economico e politico dei BRICS, a ignorarli come potenziale sistema coordinato e considerarli, invece, solo singolarmente. Il blocco di tali Paesi, però, rappresenta il 18% del commercio di merci e il 25% degli investimenti esteri a livello globale. Nonostante l’impatto della pandemia, nel 2021 il volume totale degli scambi di merci dei BRICS ha raggiunto quasi 8.550 miliardi di dollari, con un aumento del 33,4% su base annua.

E’ certamente vero che essi non sono paragonabili all’Unione europea, ma pensare che siano un gruppo senza futuro è una miopia politica, una visione per niente realistica e sicuramente non intelligente. Basterebbe prendere nota che al recente Summit “Plus” sono state invitate altre 14 nazioni: Algeria, Argentina, Cambogia, Egitto,Etiopia, Fiji, Indonesia, Iran, Kazakhstan, Malaysia, Nigeria, Senegal, Thailandia e Uzbekistan. Prendiamo atto che c’è una parte del mondo, la maggioranza dei Paesi del pianeta, che spesso non è in sintonia con l’Occidente e che ha interessi, priorità e progetti differenti. Ignorarli potrebbe essere l’interesse di qualcuno, ma non dell’Europa!  

Si tenga anche presente che la New Development Bank, la banca dei BRICS, che opera molto efficientemente per finanziare concreti progetti di sviluppo e promuovere l’utilizzo delle monete locali nei commerci, ha recentemente incluso tra i suoi membri altri 4 Paesi, l’Egitto, il Bangladesh, gli Emirati Arabi Uniti e l’Uruguay.    

La dichiarazione finale del Summit di Pechino, oltre a dettagliare i vari aspetti del programma dei BRICS per una Partenership di Sviluppo Globale, ha annunciato l’intenzione di includere altri Paesi. Insieme alla prospettiva cinese di una Global Development Initiative, ciò è stato un punto centrale dell’intervento del presidente Xi Jinping.

Anche se il “paniere di monete alternativo non appare nella dichiarazione finale, esso sarà certamente uno degli aspetti cruciali dei lavori futuri. Lo si comprende vedendo l’enfasi posta sull’importanza del Payments Task Force, la piattaforma per la cooperazione nei pagamenti tra le banche centrali, sulla realizzazione del Trade in Services Network, l’uso di strumenti finanziari innovativi nel commercio, e sul rafforzamento e miglioramento del meccanismo noto come Contingent Reserve Arrangement, cioè la rete BRICS di sicurezza finanziaria e monetaria globale.  

*già sottosegretario all’Economia  * economista  

Criptovalute e materie prime della Repubblica Centrafricana

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Molti giustamente si domandano per quale ragione la Repubblica Centrafricana (CAR), la cui popolazione è considerata tra le più povere al mondo, ha lanciato la sua criptovaluta, il Sango Coin. E, bisognerebbe anche chiedersi negli interessi di chi. Il presidente Faustin-Archange Touadéra ha detto che “il Sango Coin sarà la porta d’accesso alle risorse naturali della CAR… L’oro digitale sarà il motore della nostra civiltà del futuro.”. Già lo scorso giugno aveva annunciato l’intenzione di valutare le proprie materie prime in monete digitali.

La popolazione della CAR ha un reddito annuo pro capite di 500 dollari. Il Paese ha un territorio di 622.000 km quadrati, più del doppio dell’Italia, e una popolazione di poco più di 4,8 milioni di abitanti. Il suo sottosuolo è ricchissimo: uranio, petrolio, oro, diamanti, rame, cobalto, coltan, ecc. Senza contare le cosiddette “terre rare”, ambitissime materie prime necessarie per le nuove tecnologie, anche per gli armamenti e per lo spazio. Si stima che il loro valore potrebbe superare i 3.000 miliardi di dollari. Ciò fa gola ai vecchi e ai nuovi Stati colonialisti e alle grandi multinazionali.

Si pensa di usare il Sango Coin per tutte le operazioni di finanziamento, di sfruttamento e commerciali legate alle materie prime e all’accaparramento del territorio, bypassando, in altre parole, il dollaro, l’euro o il franco CFA, che è in via di superamento. E’ prevista anche la costruzione di un’ “isola cripto” sul fiume Oubangui, un hub dove coordinare tutte le operazione legate al Sango Coin.  

Hervé Ndoba, il ministro delle Finanze della CAR, ha affermato che la nuova cripto moneta sarà supportata da Bitcoin, che il governo centrafricano riconobbe come sua moneta ufficiale già lo scorso aprile. Si vorrebbe modernizzare il Paese con la tecnologia usata per il Sango Coin e rendere più facile il trasferimento di denaro per i cittadini, dimenticando che solo una persona su dieci ha accesso a internet e la rete elettrica è quasi assente su gran parte del territorio.

La Banca Mondiale e il Fmi, in merito, sono stati colti di sorpresa, preoccupati per gli effetti finanziari potenzialmente destabilizzanti e di perdere il tradizionale controllo sul Paese. In verità, la tempistica non è stata la migliore! Infatti, il progetto del Sango digitale arriva quando, dalla fine del 2021, la capitalizzazione di mercato delle risorse digitali è diminuita di circa 2.000 miliardi di dollari, con il Bitcoin in calo di oltre il 55% dall’inizio dell’anno.

Le criptovalute sono ammantate di un’attrattiva “ideologia ribelle” contro l’autorità delle banche centrali e dei governi. Sono operazioni finanziarie completamente private molto opache, sospettate di essere a volte strumento anche di movimenti finanziari illeciti e di riciclaggio. E’ vero che le vecchie strutture monetarie e bancarie conosciute non siano sempre state di specchiata chiarezza e correttezza, però, c’è sempre la possibilità di un intervento pubblico di controllo e di regole più stringenti. Con le criptovalute non è così. Perciò, il fatto che il Sango Coin possa godere ufficialmente di riserve in Bitcoin, che è ad altissima volatilità, non garantisce la necessaria sicurezza.

I giovani e la modernizzazione per lo sviluppo sono sicuramente il futuro dell’Africa e anche della Repubblica centrafricana. Non per sua colpa, la CAR è stata in passato preda coloniale e di saccheggio. Nel tentativo di affrancarsi da queste catene, si deve, però, stare attenti a non finire nelle grinfie di moderni predatori.

E’ opportuno essere consapevoli che il controllo delle materie prime è anche al centro dello scontro geopolitico e geoeconomico attuale. La scelta della CAR, in merito, sorprende anche perché nel continente da tempo si parla di creare un’unica moneta africana.

 *già sottosegretario all’Economia  **economista

Il multipolarismo, anche monetario, è una necessità

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Parlare di multipolarismo e di assetti geopolitici in grado di garantire un nuovo ordine mondiale è visto con grande sospetto. Al contrario, l’approccio multilaterale è oggi l’unico strumento per affrontare e risolvere in modo pacifico le molte sfide globali, anche quelle riguardanti la sicurezza. Per fortuna, proprio mentre spirano forti venti di scontro e di guerra, voci importanti stanno rompendo gli indugi per portare il multipolarismo al centro del dibattito. L’ha fatto François Villeroy de Galhau, il governatore della Banque de France, durante l’Emerging Market Forum di Parigi lo scorso maggio con un discorso su “Multipolarity and the role of the euro in the International Financial System”.

Il banchiere centrale francese afferma che “non dobbiamo abbandonare come “obiettivo creativo” l’idea di un sistema finanziario internazionale (sfi) multilaterale cooperativo”. Egli riconosce che “mentre Bretton Woods scompariva quando è venuta meno la convertibilità del dollaro in oro, il sistema monetario internazionale è rimasto basato sul dollaro Usa. L’idea di una valuta globale non ha prosperato nei dibattiti accademici, e ancor meno nelle discussioni politiche.”. Purtroppo! Anche se, già negli anni ’60, Henry Fowler, il segretario al Tesoro sotto la presidenza di Lyndon Johnson, avvertiva che “fornire riserve e scambi a tutto il mondo è troppo da sopportare per un solo Paese e una valuta”.

L’idea del cambiamento era stata ripresa nel 2010 da Michel Camdessus, a lungo direttore generale del Fmi, che aveva lanciato un’iniziativa per mettere in luce le mancanze del sistema finanziario internazionale, in particolare la sua governance globale e l’eccessivo affidamento su una singola moneta. Il punto sollevato dal governatore francese è chiaro. Occorre prendere atto che un sistema finanziario frammentato rappresenta un grave pericolo. Bisogna evitare di passare da un sistema dominato dal dollaro a un non-sistema conflittuale tra il mondo del dollaro e quello del renminbi cinese. Ciò genererebbe instabilità, con il rischio di svalutazioni valutarie competitive. Potrebbe portare allo sviluppo di sistemi di pagamento separati con un’interoperabilità limitata e indebolire la rete di sicurezza finanziaria globale. Egli, comunque, vede dei progressi verso un paniere di monete, come il recente aumento delle risorse del Fmi in diritti speciali di prelievo, la moneta di conto formata dal dollaro, dall’euro, dal renminbi, dallo yen e dalla sterlina, equivalenti a 650 miliardi di dollari. Rileva particolarmente che, per evitare gli errori del passato, avremmo bisogno di uno slancio collettivo verso un sistema finanziario multipolare stabile e orientato al mercato. Farebbe aumentare l’offerta di asset globali sicuri e offrirebbe ai mercati emergenti una maggiore indipendenza dalla politica monetaria americana. Ciò detto, purtroppo, le condizioni politiche per un cambiamento così importante non sono ancora favorevoli. Ma “è un’utopia da mantenere in vita”, ripete Villeroy de Galhau.

Qui dovrebbe entrare in gioco l’Europa. Per passare a un sistema globale più resiliente, l’euro dovrebbe svolgere un ruolo internazionale più importante. È una valuta che conta su un solido record di stabilità di oltre 20 anni, ci ricorda il governatore francese. Sebbene l’euro non sia stato creato per fungere da valuta internazionale, oggi un suo ruolo più forte sarebbe associato a una maggiore autonomia della politica monetaria e a un minore impatto degli choc valutari sull’inflazione. Dopo il dollaro, esso è diventato la seconda moneta più utilizzata a livello globale e rappresenta ben il 20% delle disponibilità valutarie nelle banche centrali e circa il 20% del debito e dei prestiti globali. Secondo i dati SWIFT, quasi il 40% delle transazioni è effettuato in euro.

Il capo della Banque de France ammette che il mercato del debito sovrano in euro è ancora frammentato e solo pochi Stati dell’Ue emettono attività globali in quantità sufficiente. D’altra parte, una valuta internazionale è forte in rapporto alle attività sicure che può offrire. A questo proposito, egli valuta positivamente il programma Next Generation EU che raccoglierà oltre 800 miliardi di euro attraverso un’emissione congiunta di obbligazioni europee.

L’obiettivo, ovviamente, non sarà quello di trasformare l’euro in una valuta dominante. Al contrario, egli afferma, “mireremmo a fare affidamento su più valute per offrire stabilità al sistema finanziario internazionale attraverso la diversificazione dei rischi.”.

 

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Guerra e speculazione: una miscela esplosiva

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Che la pandemia e la guerra in Ucraina abbiano causato grandi turbolenze economiche globali non è in discussione. Dire, però, che siano le sole cause dell’inflazione nel mondo e dell’incipiente recessione economica non sarebbe vero. Non si può nascondere sotto il “tappeto” della pandemia e della guerra tutta l’”immondizia speculativa finanziaria” che ci trasciniamo da decenni. Sarebbe un imperdonabile errore di analisi.  

Anche i recenti avvisi di crisi fatti da alcuni esponenti della finanza non devono trarre in inganno. Jamie Dimon, amministratore delegato di JP Morgan, si aspetta “un uragano economico” provocato dalla riduzione del bilancio della Fed e dalla guerra in Ucraina.

Lor signori sono preoccupati della bolla finanziaria che hanno creato più che delle sorti dell’economia. E’ come il grido di un drogato che non ha più accesso alla droga.

Basta analizzare il bilancio della Federal Reserve per comprendere meglio il problema. Dai 900 miliardi di dollari pre crollo della Lehman Brothers, esso era arrivato a 4.500 miliardi nel 2014. C’è stata un’immissione di liquidità per salvare il sistema. Poi, dall’inizio della pandemia si è passati da 4.100 agli attuali 9.000 miliardi di dollari. Più del doppio in due anni!

Questo comportamento è stato replicato dalla Bce e dalle altre banche centrali.

Negli Usa una parte rilevante è andata a sostenere “artificialmente” le quotazioni di Wall Street e i cosiddetti corporate debt, cioè i debiti delle imprese spesso vicini ai livelli “spazzatura”.

A ciò si aggiunga la politica del tasso zero e negativo che ha favorito l’accensione spregiudicata di nuovi debiti, con il rischioso allargamento del cosiddetto “effetto leva”, e ha generato titoli, pubblici e privati, per decine di migliaia di miliardi a tasso d’interesse negativo.  

Di fatto la Fed, e in misura minore le altre banche centrali, è diventata una vera e propria “bad bank”. L’impennata dell’inflazione ha reso il loro accomodante modus operandi non più sostenibile. L’aumento del tasso d’interesse e la riduzione dei quantitative easing stanno facendo saltare il banco.

Anche la narrazione della crescita dell’inflazione non regge. Non basta sostenere che sia l’effetto degli squilibri generati dalla ripresa economica e dalla guerra. Sarebbe stupido negarne l’effetto. La narrazione, però, fa sempre perno sul meccanismo “imparziale e oggettivo” della domanda e dell’offerta. Cosa che però non si è pienamente manifestata con la diminuzione dei prezzi quando la domanda era scesa all’inizio del Covid. Nei mesi della pandemia non c’è stata una smobilitazione industriale mondiale tanto grande da giustificare le forti pulsioni inflattive generate da una modesta ripresa economica e dei consumi. Anche il rallentamento delle “catene di approvvigionamento” è stato esagerato da una certa propaganda interessata.         

Occorre mettere in conto l’effetto dell’enorme liquidità in circolazione e la necessità per il sistema finanziario di generare a tutti i costi dei profitti, anche con la speculazione. 

Ecco alcuni dati per una più corretta valutazione dell’inflazione. Riguardo all’indice dei Global Prices of Agriculture Raw Materials, le derrate alimentari, la Fed di St Louis riporta che mediamente era di 91 punti ad aprile 2020, 114 un anno dopo e 123 ad aprile 2022. Il prezzo del petrolio WTI, che era di 18 dollari al barile ad aprile 2020, aveva già raggiunto i 65 dollari un anno dopo. A maggio 2022 superava i 114 dollari. Simili andamenti sono riportati dal Fmi per l’indice delle commodity primarie che sale progressivamente dai 60 punti del 2020 per poi crescere vertiginosamente negli ultimi mesi fino a raggiungere i 150 punti. Evidentemente gli effetti della guerra e delle sanzioni incidono non poco sull’impennata dei prezzi di detti prodotti.

L’indice dei prezzi dei fertilizzanti della Banca mondiale, che nell’aprile 2020 era 66,24 a dicembre 2021 era esploso a 208,01, più che triplicato in 20 mesi. L’aumento del 60% negli ultimi due mesi del 2021 ha devastato gli agricoltori di tutto il mondo. A gennaio, un mese prima della guerra in Ucraina, The Wall Street Journal titolava “ Le fattorie stanno fallendo mentre i prezzi dei fertilizzanti fanno aumentare il costo del cibo”.

Più che di fisiologici aumenti dei prezzi ancora una volta la fa da padrone la speculazione, cioè i soliti manovratori del mercato e delle borse. E’ singolare che si chieda, anche giustamente, l’immediata sospensione delle attività belliche e non s’intervenga contro la speculazione i cui effetti devastanti si riverberano a livello globale.

*già sottosegretario all’Economia **economista

James K. Galbraith: “Riusciranno gli Stati Uniti a sopravvivere all’ascesa di un mondo multipolare?”

L’analisi di James Galbraith

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

“Riusciranno gli Stati Uniti a sopravvivere all’ascesa di un mondo multipolare?” Questa domanda d’importanza strategica non è posta da qualche oppositore della politica Usa, bensì da un importante economista americano, James K. Galbraith. Riflette un dibattito molto ampio in corso negli Usa. E non solo.

Galbraith è l’economista dell’Università di Austin in Texas, noto per aver redatto il primo piano legislativo per salvare New York City dalla bancarotta nel 1975. E’ il figlio di John Kenneth Galbraith, stretto collaboratore di molti presidenti americani, a cominciare da F. D. Roosevelt, per il quale durante la seconda guerra mondiale realizzò la politica del controllo dei prezzi. Argomento di cui tanto si discute anche oggi!

Alla domanda, formulata in un suo articolo pubblicato dall’Institute for New Economic Thinking, James Galbraith risponde positivamente ma aggiunge, “non senza uno sconvolgimento politico, stimolato da inflazione e recessione e da un mercato azionario in calo nel breve termine e, infine, da richieste di una strategia realistica in sintonia con l’attuale equilibrio di potere globale”.

Egli afferma che “finora l’ordine basato sul dollaro è stato sostenuto principalmente dall’instabilità altrove e dalla mancanza di un’alternativa credibile.” Ecco perché i titoli del Tesoro americano sono sempre rimasti il bene rifugio primario, anche nella crisi dei mutui subprime.

Oggi il motore economico cinese, sempre più legato alla Russia e all’attrazione gravitazionale della più grande regione demografica, produttiva e commerciale del mondo, rappresentata dall’Unione economica eurasiatica e dall’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, potrebbe diventare la sfida all’ordine internazionale basato sul dollaro. Per Galbraith non è ancora così. Nonostante la Cina sia la più grande nazione commerciale, essa “non svolge né il ruolo finanziario globale né quello di sicurezza e non ha evidenti ambizioni in tal senso”. 

Egli si aspetta che la Cina lavori per “predisporre meccanismi di pagamento bilaterali o multilaterali, con partner disponibili, che aggirino il mezzo convenzionale del dollaro”. Sarà, però, inevitabile che verrà posta la questione di un’alternativa alla riserva in dollari. Oltre al ruolo dell’oro, emergerà “un asset finanziario internazionale, composto di un insieme ponderato di titoli dei Paesi partecipanti, come per l’Eurobond…  Nella realtà dell’Eurasia, ciò significa un’obbligazione basata prevalentemente sulla moneta cinese.”

Secondo Galbraith gli esperti Usa hanno una visione della Russia non corretta, ancorata ai tempi di Yeltsin. Egli afferma, con una certa ironia, che “con il sostegno di Cina, Iran, Bielorussia, Kazakistan e la studiata neutralità dell’India, è in fase di creazione un nuovo sistema finanziario internazionale. È la creazione in un certo senso, non della Russia stessa, ma dei principali responsabili politici e dei pensatoi strategici negli Stati Uniti.”.

La sua previsione è che “il sistema finanziario basato sul dollaro, con l’euro che funge da junior partner, è probabile che per ora sopravviva. Ma ci sarà una rilevante zona no dollaro, no euro, ritagliata per quei Paesi, che Usa e Ue considerano avversari, in primis la Russia, e per i loro partner commerciali. La Cina fungerà da ponte tra i due sistemi: sarà il punto fermo della multipolarità.“.

Se dovessero essere prese dure decisioni nei confronti della Cina, allora una vera e propria divisione del mondo in blocchi isolati, come nella Guerra Fredda, diventerebbe una possibilità.

Galbratih conclude la sua analisi avvertendo che “la prossima svolta della stretta finanziaria globale avverrà in Europa, in particolare in Germania, quando le implicazioni degli alti prezzi dell’energia e delle forniture perennemente scarse diventeranno evidenti. La competitività della Germania è legata alle materie prime russe e ai mercati cinesi; i suoi legami politici e finanziari sono con l’Alleanza atlantica. E’ difficile credere che la Germania subordini in modo permanente la sua industria, la sua tecnologia, il suo commercio e il suo benessere generale a Washington e Wall Street. La tensione tra le forze economiche e politiche non può che crescere nel tempo, portandola o verso la deindustrializzazione o verso un nuovo rapporto con l’Est eurasiatico: una nuova Ostpolitik.”

Riteniamo che le questioni poste da Galbraith dovrebbero, in verità, sollecitare anzitutto l’Onu in quanto rappresentante di ben 192 Paesi nell’affrontare i problemi, non solo finanziari, che riguardano un nuovo assetto complessivo multipolare.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Multilateralismo e NON Stati egemoni (leggi USA)

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Lo scorso 19 maggio i ministri degli Esteri dei Paesi BRICS ( acronimo usato in economia internazionale per riferirsi ai seguenti paesi: Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica ) si sono incontrati, in via telematica, per discutere della situazione strategica globale e per promuovere il loro processo di cooperazione e d’integrazione.

Si tratta di un evento degno di grande attenzione da parte dell’Occidente e in particolare dell’Unione Europea. E’ opportuno sempre ricordare che i BRICS rappresentano più del 40% della popolazione mondiale e ben il 20% del Pil del pianeta.

Ovviamente la guerra in Ucraina è stata affrontata. Al punto 11 della Dichiarazione finale si afferma: ”I ministri hanno ricordato le loro posizioni nazionali sulla situazione in Ucraina espresse nelle sedi appropriate, segnatamente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e l’Assemblea Generale dell’Onu. Essi sostengono i negoziati tra Russia e Ucraina. Hanno anche discusso le loro preoccupazioni per la situazione umanitaria in Ucraina e dintorni ed hanno espresso il loro sostegno agli sforzi del Segretario generale delle Nazioni Unite, delle agenzie Onu e del Comitato Internazione della Croce Rossa per fornire aiuti umanitari in conformità con la risoluzione 46/182 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.”.

Importanza grande ha assunto la sessione separata del gruppo “BRICS Plus”, che ha incluso l‘Argentina, l’Egitto, l’Indonesia, il Kazakistan, la Nigeria, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Senegal e la Tailandia in rappresentanza dei Paesi emergenti e di quelli in via di sviluppo.  E’ in considerazione un possibile allargamento dei BRICS. Se ne discuterà a giugno in Cina al 14° summit annuale, dedicato a una “Nuova era di sviluppo globale”.

Il presidente cinese Xi Jinping, definendo la situazione attuale di grande “turbolenza e trasformazione”, ha chiesto un rafforzamento della cooperazione, della solidarietà e della pace attraverso la Global Security Initiative per una “sicurezza comune” da affiancare alla sua Global Development Initiative (Gdi). Egli ha rilevato che lo scontro tra blocchi contrapposti e la persistente mentalità della guerra fredda dovrebbero essere abbandonati a favore della costruzione di una comunità globale di “sicurezza per tutti”. E’opportuno ricordare che la Gdi è stata valutata positivamente da più di 100 Paesi e da molte organizzazioni internazionali, comprese le Nazioni Unite.

La Dichiarazione fa del multilateralismo l’idea portante della politica dei BRICS. Ribadisce il ruolo guida del G20 nella governance economica globale e sottolinea che esso “deve rimanere intatto per fronteggiare le attuali sfide globali.”. Evidentemente l’aggettivo “intatto” indica la volontà di avere anche la Russia nei meeting del G20, che, dopo l’Indonesia, nei prossimi tre anni saranno presieduti rispettivamente dall’India, dal Brasile e dal Sud Africa.

Un certo disappunto è stato manifestato nei confronti dei Paesi ricchi che nella pandemia Covid non hanno dato una giusta attenzione ai bisogni dei Paesi in via di sviluppo.

In sintesi, di là del dramma della guerra, nel mondo ci sono segnali per realizzare iniziative miranti a un nuovo ordine mondiale. Per esempio, l’ex presidente brasiliano Lula Da Silva, candidato alle elezioni di ottobre, propone esplicitamente la creazione di una nuova valuta, il Sur, da usare nel commercio latinoamericano per non continuare a dipendere dal dollaro.

A marzo diverse società cinesi hanno acquistato carbone russo pagando in yuan. E’ il primo acquisto di merci russe pagate in valuta cinese dopo che la Russia è stata sanzionata dai Paesi occidentali.

Crediamo che sia il momento non solo di valutare meglio gli interessi dell’Unione Europea, ma anche di accentuare il ruolo di maggiore autonomia per contribuire a realizzare un assetto multipolare.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

ALL’ONU L’ITALIA SI ASTIENE SUL NAZISMO (di Manlio Dinucci)

Da notare che questo Andriy Parubiy (scritto anche come Andrij Parubij), fondatore di un partito neonazista ucraino e autore dell’affermazione “Il più grande uomo che ha praticato la democrazia diretta è stato Adolf Hitler”, DAL 2016 AL 2019 è STATO il PRESIDENTE DEL PARLAMENTO DELL’UCRAINA
Memoria
ALL’ONU L’ITALIA SI ASTIENE SUL NAZISMO (di Manlio Dinucci)
L’arte della guerra. Il significato politico di tale votazione è chiaro: i membri e partner della Nato hanno boicottato la Risoluzione che, pur senza nominarla, chiama in causa anzitutto l’Ucraina, i cui movimenti neonazisti sono stati e sono usati dalla Nato a fini strategici
Il Terzo Comitato delle Nazioni Unite – incaricato delle questioni sociali, umanitarie e culturali – ha approvato il 18 novembre la Risoluzione «Combattere la glorificazione del nazismo, neonazismo e altre pratiche che contribuiscono ad alimentare le contemporanee forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza». La Risoluzione, ricordando che «la vittoria sul nazismo nella Seconda guerra mondiale contribuì alla creazione delle Nazioni Unite, al fine di salvare le future generazioni dal flagello della guerra», lancia l’allarme per la diffusione di movimenti neonazisti, razzisti e xenofobi in molte parti del mondo. Esprime «profonda preoccupazione per la glorificazione, in qualsiasi forma, del nazismo, del neonazismo e degli ex membri delle Waffen-SS».
Sottolinea quindi che «il neonazismo è qualcosa di più della glorificazione di un movimento del passato: è un fenomeno contemporaneo». I movimenti neonazisti e altri analoghi «alimentano le attuali forme di razzismo, discriminazione razziale, antisemitismo, islamofobia, cristianofobia e relativa intolleranza». La Risoluzione chiama quindi gli Stati delle Nazioni Unite a intraprendere una serie di misure per contrastare tale fenomeno. La Risoluzione, già adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 2019, è stata approvata dal Terzo Comitato con 122 voti a favore, tra cui quelli di due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Russia e Cina. Due soli membri delle Nazioni Unite hanno votato contro: Stati uniti (membro permanente del Consiglio di Sicurezza) e Ucraina.
Sicuramente per una direttiva interna, gli altri 29 membri della Nato, tra cui l’Italia, si sono astenuti. Lo stesso hanno fatto i 27 membri dell’Unione europea, 21 dei quali appartengono alla Nato. Tra i 53 astenuti vi sono anche Australia, Giappone e altri partner della Nato. Il significato politico di tale votazione è chiaro: i membri e partner della Nato hanno boicottato la Risoluzione che, pur senza nominarla, chiama in causa anzitutto l’Ucraina, i cui movimenti neonazisti sono stati e sono usati dalla Nato a fini strategici. Vi sono ampie prove che squadre neonaziste sono state addestrate e impiegate, sotto regia Usa/Nato, nel putsch di piazza Maidan nel 2014 e nell’attacco ai russi di Ucraina per provocare, con il distacco della Crimea e il suo ritorno alla Russia, un nuovo confronto in Europa analogo a quello della guerra fredda. Emblematico il ruolo del battaglione Azov, fondato nel 2014 da Andriy Biletsky, il «Führer bianco» sostenitore della «purezza razziale della nazione ucraina, che non deve mischiarsi a razze inferiori».
Dopo essersi distinto per la sua ferocia, l’Azov è stato trasformato in reggimento della Guardia nazionale ucraina, dotato di carri rmati e artiglieria. Ciò che ha conservato è l’emblema, ricalcato da quello delle SS Das Reich, e la formazione ideologica delle reclute modellata su quella nazista. Il reggimento Azov è addestrato da istruttori Usa, trasferiti da Vicenza in Ucraina, affiancati da altri della Nato.. L’Azov è non solo una unità militare, ma un movimento ideologico e politico. Biletsky resta il capo carismatico in particolare per l’organizzazione giovanile, educata all’odio contro i russi e addestrata militarmente. Contemporaneamente, vengono reclutati a Kiev neonazisti da tutta Europa, Italia compresa. L’Ucraina è così divenuta il «vivaio» del rinascente nazismo nel cuore dell’Europa. In tale quadro si inserisce l’astensione dell’Italia, anche nella votazione della Risoluzione all’Assemblea Generale.
Il Parlamento acconsente, come quando nel 2017 ha firmato un memorandum d’intesa col presidente del parlamento ucraino Andriy Parubiy, fondatore del Partito nazionalsociale ucraino, sul modello nazionalsocialista hitleriano, capo delle squadre neonaziste responsabili di assassini e feroci pestaggi di oppositori politici. Sarà lui a complimentarsi col governo italiano sul non-voto della Risoluzione Onu sul nazismo, in linea con quanto ha dichiarato in televisione: «Il più grande uomo che ha praticato la democrazia diretta è stato Adolf Hitler».

Tema: chi è l’aggressore e chi l’aggredito? Svolgimento: l’aggredita è la Russia, l’aggressore gli USA.

L’HO RIPRESO DA FACEBOOK

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Maurizio Ulisse Murelli

Tema: chi è l’aggressore e chi l’aggredito?
Svolgimento: L’aggredita è la Russia, l’aggressore gli USA.
Fine svolgimento tema.
Gli ottusi possono continuare con la filastrocca a premessa di ogni loro dire su quanto accade in Ucraina. La potremmo dunque chiudere qui che tanto l’esposizione di fatti oggettivi non fa mutare di posizione a nessuno. Per gli ottusi infatti tutto parte il 24 febbraio di quest’anno. Per i moderati tutto parte con il golpe atlantista di Maidan nel 2014. Per quelli come me tutto parte nel 1823 con la “dottrina Monroe” in seguito riveduta, corretta e ampliata. Se agli inizi il succo era che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato che una nazione europea colonizzasse una nazione indipendente nel Nord o nel Sud America considerando un eventuale intervento in tal senso nell’emisfero occidentale un atto ostile, in seguito, a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, è diventato atto ostile l’ostacolare il loro espansionismo imperialista in ogni luogo del pianeta dove loro ritengano avere un qualsiasi interesse.
Sì la prendo alla lunga e alla larga, mettendo sul piatto quel che i vermilingui dell’informazione e gli zerbini degli USA, in pratica tutti gli ascari dell’ambaradan politico-economico-finanziari occidentale non vogliono sia messo sul piatto. Per costoro un dittatore russo il 24 febbraio si è svegliato con la luna storta e, messo piede giù dal letto, ha dato ordine di invadere la pacifica e democratica Ucraina. Così non è, non lo è oggettivamente che gli ottusi lo vogliano capire oppure no. Non capendolo e facendo finta di non capirlo stanno suicidando l’embrione europeo che sopravvive nonostante la UE e i mezzadri del potere USA che albergano nei palazzi di Bruxelles.
La “dottrina Monroe” riveduta e corretta riceve altro imput all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e compie un ulteriore passo avanti a partire dal 1990.
Implosa l’URSS si ritrova con le mani libere. Da una parte, non rispettando i patti, attraverso la Legione Straniera altrimenti chiamata NATO, gli USA inglobano gli ex Stati che facevano parte del Patto di Varsavia, dall’altra attaccano con le più inverosimili e ridicole giustificazioni gli Stati che erano sotto l’ombrello protettivo Russo: in Europa la Serbia, in Medio Oriente l’Iraq per poi destabilizzare con le “rivoluzioni colorate” vari paesi africani e medio-orientali, a cominciare dalla Siria (dove per inciso la Russia ha l’unica base navale fuori dal suo territorio a fronte del centinaio statunitensi sparse nel globo terraqueo) provandoci in Georgia e Biellorussia per finire con l’Ucraina. La quale Ucraina viene fatta grazia di un golpe atlantista, salvata dalla bancarotta con l’immissione di miliardi di dollari ottenendo in cambio di trasformarla in un “hub militare” per il traffico illegale (stante le disposizioni ONU) di armi verso l’Africa e non solo. Inciucciano con gli “oligarchi” (vedi il figlio di Biden) per i traffici più indicibili e fomentano/sostengono la deriva russofobica. Russofobia che i Russi interpretano come nazificazione richiamandosi all’idelogia razzista anti-slava presente nel complesso ideologico Nazionalsocialista e della quale tengono conto al pari delle altre ragioni, da quella geopolitica/espansionistica, economica etc.
A partire dal 2014 in Ucraina prende il via la guerra civile che non si svolge solo in Donbass. In tutto il paese i russofoni e russofili sono perseguitati e, mentre gli occidentali frignano sulla supposta persecuzione dei giornalisti anti-putiniani, in Ucraina ne fanno secchi un’ottantina. Propibiscono l’uso della lingua russa, mettono fuori legge i partiti filorussi e per sovra mercato anche quelli che semplicemente sono anti zeleskyani. Per otto anni i Russi tentano di ridurre a più miti consigli il regime ucraino, richiamando gli occidentali agli accordi di Minsk e quant’altro. Ma più i russi richiamano gli ucraini e gli occidentali, più gli americani con gli ascari inglesi imbottiscono di armi l’Ucraina e la spingono all’intrassigenza verso la Russia.
L’obiettivo degli USA è liquidare la Russia, isolare la Cina, domare India e Pakistan. Riaffermare l’Ordine Mondiale Unipolare che il blocco orientale sta mettendo a repentaglio. Per liquidare la Russia vale la dottrina di Brzezinski che come è notorio sostiene proprio che l’Ucraina non solo non deve far parte della Federazione russa, ma deve essere sottratta dalla sua influenza. Gli USA di Biden vanno oltre: la trasformano in una “bomba sporca” contro la Russia. Alla Russia altro non è rimasto che difendersi da questa articolata aggressione.
Che si doveva arrivare a questo gli analisti occidentali ne erano ben consapevoli. Vale, a titolo di esempio, questo articolo di Lucio Caracciolo pubblicato su un giornale ticinese il 12 aprile 2021.
Non voglio fare un post troppo lungo. Per ora mi fermo qui. Ma poi “rinciccio” il tema con altri post per uno svolgimento che le carognette atlantiste non vorrebbero fosse fatto, a cominciare da certa camerateria e certa compagneria. Per loro conto di riservare il meglio…

Guerra in Ucraina e (altra) fame in Africa

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

I venti di guerra stanno mettendo a dura prova l’economia mondiale con effetti negativi, soprattutto sul continente africano. Secondo l’economista del South African Institute of International Affairs (SAIIA), Steven Gruzd, “l’insicurezza alimentare avrà conseguenze molto gravi a causa del conflitto in corso, considerato che la Russia è il maggiore esportatore di grano in Africa e l’Ucraina è al quinto posto”. A loro si deve quasi un terzo delle esportazioni di grano, orzo e semi di girasole.

La produzione e l’export di questi beni sono in drammatica crisi non solo a causa dei danni diretti della guerra, dell’interruzione delle vie di comunicazione e dei porti, ma anche perché un’elevata quota delle terre ucraine potrebbe perdere la stagione delle semine. Molti campi sono stati abbandonati e non stanno arrivando dalla Russia i fertilizzanti necessari per la normale produzione.

La Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite (Fao) giustamente lancia allarmi sulla sicurezza alimentare. Alla 32.ma Sessione della Conferenza Regionale per l’Africa, tenutasi a metà aprile a Malabo, capitale della Guinea Equatoriale, ha affermato che “il numero di persone che soffrono la fame nell’Africa sub sahariana è, dopo anni di declino, di nuovo in aumento. Secondo gli ultimi dati, 282 milioni di persone nel continente, in altre parole oltre un quinto della popolazione, non hanno cibo a sufficienza, con un aumento di 46 milioni rispetto al 2019”.

L’Indice Fao dei prezzi alimentari ha raggiunto una media di 159,3 punti a marzo 2022, in aumento del 12,6% rispetto a febbraio, il livello massimo dal suo inizio nel 1990. Nello specifico, in un mese l’indice per i cereali è cresciuto del 17,1% e quello dell’olio vegetale del 23,2,%.

A dire il vero, i prezzi delle materie prime agricole avevano preso a correre già prima della guerra in Ucraina. La “manina” della sempre presente e attiva speculazione finanziaria era ben visibile.

David Beasley, direttore del World Food Programme ha avvisato che il conflitto può provocare “una catastrofe alimentare di portata globale, la peggiore crisi alimentare dalla seconda guerra mondiale”.  Prima del 24 febbraio l’agenzia Onu nutriva 125 milioni di persone. Il 50% del grano acquistato dal Wfp era ucraino. Adesso deve tagliare le razioni a causa dell’aumento dei prezzi del cibo e del carburante.

Infatti, come sostiene anche l’Ocse, la Russia fornisce circa il 19% del gas naturale mondiale e l’11% del petrolio. I prezzi dell’energia sono aumentati in modo preoccupante. Ad esempio, i prezzi spot del gas in Europa sono di 10 volte superiori rispetto a un anno fa, mentre il costo del petrolio è quasi raddoppiato nello stesso periodo.

Beasley ha affermato che l’Ucraina è passata dall’essere “il granaio del mondo” ad avere essa stessa bisogno di pane. Lo stop dell’export di grano dall’Ucraina andrà a gravare soprattutto su quei Paesi dove è già diffusa la povertà. Per esempio, il Libano importa dall’Ucraina il 74% di grano per la propria sussistenza, l’Egitto il 30%, la Tunisia il 47,7%, la Libia il 43% e lo Yemen il 22%. Eritrea e Somalia dipendono interamente dalle importazioni di grano da Russia e Ucraina.

Il dramma delle popolazioni dipendenti dall’import alimentare è stato evidenziato anche dal vice direttore della Fao, l’italiano Maurizio Martina, ricordando che 26 Paesi a basso livello di reddito, molti dei quali africani ma anche dell’Asia meridionale, dipendono da Russia e Ucraina per oltre la metà della loro importazione di cereali.

Non si può, quindi, non condividere le raccomandazioni della Fao di tenere aperti i mercati dei beni alimentari e dei fertilizzanti e di rivedere le restrizioni al loro export, considerando le conseguenze delle sanzioni sulla vita di centinaia di milioni di persone.

Si stima che quest’anno arriveranno nei Paesi più bisognosi 35 milioni di tonnellate di cereali in meno rispetto a quelli dello scorso anno. Sono già cominciate le file per il pane a Tunisi; l’Egitto ha riserve di grano per qualche mese e altri Paesi africani vedono lo spettro di inevitabili crisi alimentari.

E’ opportuno ricordare che questi grandi importatori di grano in passato sono stati spesso teatro di rivolte popolari causate proprio dall’aumento dei prezzi del pane.

Il problema, quindi, non è solo dei Paesi in guerra ma anche di tutti i Paesi occidentali che hanno dettato sanzioni senza valutarne appieno gli effetti negativi nelle altre parti del mondo.

*già sottosegretario all’Economia  **economista