Israele caccia un ebreo, inviato dell’Onu. La colpa? Avere detto chiaro e tondo che i metodi israeliani contro i palestinesi somigliano a queli dei nazisti contro gli ebrei. Non è un caso che gli obiettori di coscienza si organizzino

Ecco una storia di ordinaria ferocia, che bene spiega una serie di cose. Compresa la nostra ipocrisia e il nostro voler guardare da un’altra parte quando i soprusi sono ai danni dei palestinesi per mano degli israeliani. Si suona la grancassa ingigantendo gli attriti tra l’Iran e gli Usa fino a inventare espulsioni o blocchi ordinati da Teheran contro gli ispettori dell’Onu, secondo un copione già in scena contro l’Iraq, con le note conseguenze. Ma se si tratta di Israele, la musica cambia. Anzi, cala il silenzio. Questa volta i  cialtroni che al grido di “è un antisemita!” lapidano chiunque osi criticare le nequizie israeliane si trovano in difficoltà: la vittima della prepotenza israeliana infatti è un ebreo. Per giunta americano…. Nonché inviato dall’Onu, organismo di cui lo Stato di Israele continua a far parte pur disprezzandolo da molto tempo, da quando cioè a preso a cestinare una dopo l’altra l’ottantina di risoluzioni del Palazzo di Vetro che lo riguardano. Tanto in difficoltà che,  soprattutto la stampa italiana – caratterizzata da un servilismo verso Israele molto simile a quello verso il Vaticano – ha fatto finta di niente, ha preferito tacere. Continua a leggere

Io lo ricordo così

Come tutti sapete già, è morto Carlo Caracciolo, nume tutelare del settimanale L’Espresso e padre fondatore assieme a Eugenio Scalfari del quotidiano la Repubblica. Nonché, di conseguenza, del piccolo impero editoriale di carta stampata della annessa catena di quotidiani. NON desidero unirmi al coro delle prefiche, dei beneficiati, degli adottivi, degli adottati e dei becchini che pare siano in procinto di bastonarsi a sangue per spartirsi le spoglie, ricche non solo del 10% di azioni del gruppo editoriale. Di fatto, e certo molto ma molto meno che per altri, Caracciolo è stato parte della mia vita professionale. Perciò, nel mio piccolo, anche della mia vita tout court. Cosa di cui gli sono e sempre gli sarò grato.
Non ricordo esattamente quando l’ho conosciuto. Ricordo bene che all’inizio del 1979, quando ero già collaboratore fisso de L’Espresso e corrispondente di Repubblica, dopo avere contribuito a far nascere il quotidiano Il Mattino di Padova per conto di Giorgio Mondadori gli telefonai per dirgli che ero stato contattato da Rino Serri, dirigente del Partito comunista veneziano, che con un gruppetto di suoi concitadini influenti voleva anche per  Venezia un quotidiano concorrente del Gazzettino. Volevano però lo facesse lui, Caracciolo, e non Mondadori. Continua a leggere

LIBERTA’ E SOLIDARIETA’ PER MUNTAZER AL-ZAIDI

LIBERTA’ E SOLIDARIETA’ PER MUNTAZER AL-ZAIDI
Noi giornalisti italiani
Chiediamo
la LIBERTA’ SUBITO per il giornalista iracheno Muntazer al-Zaidi, imprigionato per aver lanciato le sue scarpe contro il presidente americano uscente George W. Bush durante una conferenza stampa a Bagdad il 15 dicembre scorso nella quale annunciava che ”la guerra in Iraq non è finita”.
Normalmente non lanciamo scarpe durante le conferenza stampa, ma pensiamo che chi da cinque anni e mezzo è sotto le bombe ha forse qualche ragione per reagire in quel modo.
Condanniamo
le percosse subite in cella dal collega Muntazer Al-Zaidi denunciate dal fratello Dargham che ha riferito alla Bbc che il giornalista è stato malmenato dalla polizia irachena e americana, riportando la frattura di alcune costole e di una mano.
Che il collega sia sciita o sunnita appare solo una pessima scusa per far accreditare la linea (specie in Italia) che Muntazer Al-Zaidi non sia un giornalista obiettivo.  L’episodio e la carcerazione raccontano le tensioni, i ricatti, i pericoli vissuti tutti i giorni dagli iracheni e dai giornalisti di quel paese.
NEL RIBADIRE LA NOSTRA PIU’ FERMA CONDANNA OFFRIAMO LA NOSTRA SOLIDARIETA’ CHIEDENDO

LIBERTA’ SUBITO PER MUNTAZER AL-ZAIDI
Alessandra Fava
Davide Giannetti
Fabio Gibellino
Mario Molinari
Pino Nicotri

http://salsa.democracyinaction.org/o/424/signUp.jsp?key=3909

L’egoismo della Chiesa aggrava l’anomalia e la crisi dell’Italia. L’incredibile protesta contro la proposta di non lasciar più condannare – spesso alla galera e anche a morte – gli omosessuali nel mondo intero

Pur nella quasi omogeneità della disastrosa crisi finanziaria dell’intero mondo industrializzato, e dell’Occidente in particolare, la cronaca degli avvenimenti ci mostra l’anomalia del caso Italia in molti campi.
La Grecia ha reagito all’uccisione di un dimostrante per mano della polizia in modi purtroppo per noi incredibili. Non solo il poliziotto colpevole è stato arrestato anziché difeso con le solite litanie di rito e contro accuse che da noi si sprecano, ma le proteste sono dilagate fino alla dichiarazione dello sciopero generale. Nel Paese dei guelfi e ghibellini queste sono invece occasioni di eterno rimpallo e di spirale di accuse e capziosità reciproche, spaccare il capello in quattro per dilaniarsi come opinione pubblica è uno dei nostri mali. Continua a leggere

Lo strano e pericoloso ping pong tra il papa e il rabbinato sulla beatificazione di Pio XII. Intanto negli Usa la magistratura autorizzaper la prima volta che si processi direttamente il Vaticano per i reati di pedofilia del suo clero: nasce così il rischio che lo si possa chiamare in causa anche per la sua parte di responsabilità per i campi di sterminio

A meno di sempre possibili colpi di scena, il papa tedesco a suo tempo volontario nella Gioventù Hitleriana andrà quindi in visita in  Israele. La motivazione ufficiale dice che è impensabile che un pontefice come Ratzinger, autore di un libro su Gesù in due volumi (il secondo non è stato ancora pubblicato), non vada a “vedere la Terra Santa dove Cristo è vissuto”. Credere che gli altri pontefici non ci siano andati solo perché non scrivevano libri sulla vita di Gesù Cristo è francamente impensabile, troppo riduttivo. E’ più credibile che il viaggio di Ratzinger sia un pegno da pagare per avere il via libera dal rabbinato israelita per la beatificazione di Pio XII dopo le recenti polemiche sullo spinoso argomento. E rischia di essere anche un altro passettino verso lo “scontro di civiltà”, inteso come scontro tra “civiltà” legata alla bibbia, donde derivano sia l’ebraismo che il cristianesimo, e “civiltà” legata al corano, vale a dire l’islam. Come al solito, in queste faccende la religione non c’entra assolutamente niente, si tratta “solo” di diplomazia, politica e conservazione del potere esistente. Continua a leggere

Grande spazio per le cazzate e grande silenzio sulla sofferenza dei palestinesi. Grande ignoranza del Vaticano su cosa sia secondo o contro natura, mentre prendiamo il posto della Spagna come sagrestia d’Europa

Sui giornali si trovano molti articoli con tanto di foto che denunciano come “a Venezia il ponte disegnato da Santiago Calatrava è stato deturpato dai writers”, anche se la scritta tracciata con le solite bombolette spray è minuscola e non si capisce dove sia la notizia. Sui giornali trovate articoli sulla “Scritta intimidatoria di Forza Nuova contro Conchita De Gregori, direttore de L’Unità”, anche se non si capisce dove sia la notizia visto che la scritta si limita a dire “Basta odio e falsità”, quindi, anche se è firmata dai fascisti di Forza Nuova, non mi pare sia una intimidazione o una minaccia. Però in compenso è difficile che troverete scritto qualcosa sulle preoccupazioni, le proteste e le denunce dell’UNRWA contro il rischio che l’assedio israeliano alla Striscia di Gaza annienti l’intera popolazione della Striscia di Gaza, vale a dire un milione e mezzo di persone.

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800 vocaboli e affissi di origine indiana, 70 di origine persiana, 40 di origine armena e circa 200 termini tratti dal greco…..

La lingua romaní detta anche romaní chib o romanès o romanó (quest’ultimo termine è usato in Spagna e viene detto anche calo) non ha nulla a che vedere con la lingua rumena, né con le lingue romanze, né tanto meno con il romanesco della città di Roma, ma è una lingua strettamente imparentata con le lingue neo-indiane come l’hindi, il punjabi, il kasmiri e il rajastani e deriva dal sànscrito. La romaní chib non è altro che il risultato dell’evoluzione, al pari delle lingue citate, di forme popolari e mai scritte di idiomi indiani, mentre il sànscrito è il risultato di una lingua scritta da eruditi in forma colta e artificiale. Il romanès non è un dialetto delle lingue neo-indiane menzionate, ma una lingua a sé stante viva e vitale e come tutte le lingue ha tante varianti dialettali. Essendo tramandata oralmente per oltre dieci secoli, si è arricchita degli imprestiti dei popoli con cui è venuta in contatto. Dei tratti indiani la lingua romaní conserva soprattutto:
-la similitudine del sistema fonologico sia sul piano della struttura che su quello della frequenza dei fonemi;
-circa 800 vocaboli e affissi;
-la quasi identità morfologica del gruppo nominale romaní con quello delle lingue neo-indiane, con una declinazione di due casi (diretto e obliquo) e di un sistema di posposizioni; a questo si aggiunge l’accordo per genere, per numero e per casi della posposizione possessiva;
-delle similitudini fra le morfologie verbali romanès e le lingue neo-indiane.
Oggi i romanologi sono concordi nel sostenere che in tutti i dialetti della lingua romaní c’è una base di parole comuni: circa 800 vocaboli e affissi di origine indiana, 70 di origine persiana, 40 di origine armena e circa 200 termini tratti dal greco, non mancano termini rari come quello buruÒaski (lingua isolata dell’Himalaya) vun‡ile che significa “debiti” e la parola georgiana camcàle che significa “ciglia” (Marcel Courthiade). Ciò sottolinea come fino all’Impero Bizantino la popolazione romaní sia rimasta sostanzialmente unita (a parte le comunità che disseminava lungo il suo percosso verso Occidente). In Europa la lingua romaní si è arricchita dei vocaboli delle lingue e dei dialetti delle popolazioni ospitanti, a seconda dell’itinerario seguito. Oggi, è anche una lingua scritta grazie ad una fiorente letteratura (poesie, romanzi, opere teatrali, racconti, saggi, articoli giornalistici, ecc.) che si è sviluppata soprattutto nella seconda metà del Novecento.
A causa delle persecuzioni sistematiche in molte regioni e in molti Stati la lingua romaní si è fortemente indebolita, tanto che oggi vengono adottate le grammatiche dei Paesi ospitanti arricchite con il lessico romanò. I linguisti chiamano questo innesto di romanès nelle grammatiche delle lingue locali para-romaní o in Inghilterra, pogadi jib ( < romanès pakerdì chib che significa letteralmente “lingua rotta”). Sono le comunità romanès della Gran Bretagna, della Norvegia, della Svezia, della Spagna e del Portogallo che, oggi, parlano il para-romaní (in Gran Bretagna è detta anche anglo-romanès e nella penisola iberica calo).
Esistono due lingue vicine al romanès che si sono separate da esso fra l’epoca della partenza dall’India e quello dell’arrivo in Europa: il domani o nawar (Siria, Libano, qualche gruppo in Egitto) e il lomani o bo∂a (Armenia, oggi probabilmente estinti).
Romaní (in inglese si trova scritto anche romany) non è altro che la forma aggettivale del sostantivo Rom, da cui deriva anche la forma avverbiale romanès. È importante sottolineare che, nonostante gli etnonimi diversi, tutti i gruppi di Rom (Roma), Sinti, Manouches, Kale (Cale) e Romanichals definiscono la loro lingua come romaní (romany) o romanès o romanó ed è parlata in tutti gli Stati europei, nelle Americhe, in Australia, in Nord Africa (Egitto, Algeria) e in Medio Oriente.
La lingua romaní è lo specchio fedele della storia e della cultura delle comunità romanès. E proprio grazie allo studio della loro lingua che si è potuto svelare una parte del mistero delle origini dei Rom, Sinti, Kale, Manouches e Romanichals che da più di tre secoli girovagavano continuamente in Europa, soprattutto a causa delle politiche persecutorie. La scoperta avvenne nel 1760 grazie al sacerdote ungherese Istvàn Vályi, attraverso il confronto fra il vocabolario della lingua Malabar di studenti indiani suoi colleghi a Leide e quella dei Rom Ungheresi. La sua in realtà fu solo un’intuizione geniale. Anche l’inglese Jacob Bryan nel 1776 sostenne l’origine indiana della popolazione romaní così come un altro inglese Williams Marsden. La conferma scientifica arrivò nel 1782 quando venne pubblicato a Leipzig il risultato degli studi effettuati nel 1777 Von der Sprache und Herkunft der Zigeuner aus Indien (della lingua e dell’origine degli zingari dall’India), in cui l’autore, il tedesco Johann Carl Christoph Rüdiger dimostra attraverso il metodo comparativo, che alcune frasi in lingua romaní sono collegate con alcuni dialetti dell’India Settentrionale. Questa “scoperta” viene consolidata e arricchita dal tedesco Heinrich Moritz Gottlieb Grellmann che con il suo libro De Zigeuner. Ein Historischer Versuch über die Lebensart und Verfassung, Sitten und Schicksale dieses Volkes in Europa, nebst ihrem Ursprunge (Gli zingari. Un tentativo storico sul modo e concezione di vita, costumi e sorte di questo popolo in Europa, come pure sulle sue origin), pubblicato a Lipsia nel 1783, cancellava molti dei dubbi sulle origini della popolazione romaní, unendo alle analisi linguistiche anche l’indagine storica e la descrizione dei costumi.
È un fatto ormai ben noto che la lingua romaní si divide in un gran numero di dialetti. Se si escludono le parlate definite para-romaní o pogadi jib (anglo-romaní, calo o ibero-romaní, bo∂a o lomani armeno, domani o nawar siriano, libanese ed egiziano) gli altri dialetti sono sufficientemente vicini per essere considerati come forme di una sola e medesima lingua.

Emanuela Orlandi

Il libro si può acquistare cliccando su questo link della casa editrice

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A un quarto di secolo di distanza, il mistero della scomparsa della bella ragazzina di quasi 16 anni Emanuela Orlandi continua a registrare periodiche riesplosioni a base di “rivelazioni”, “certezze” e “supertestimoni” che rivelano immancabilmente il loro vero volto: depistaggi, falsi scoop e false speranze. Nel suo nuovo libro Pino Nicotri ha condotto in modo serrato e implacabile l’analisi non più rinviabile dei fatti, passando al setaccio tutti gli elementi della vicenda e il torbido contesto in cui si è svolta, comprese le clamorose bugie del Vaticano, la compiacenza di inquirenti, il pressapochismo dei mass-media e le mene dei servizi segreti della Germania comunista. Il vuoto assoluto di verità nel gioco di specchi tra Vaticano e “rapitori” lascia spazio alle messinscene più varie, fino alle frottole e imprecisioni veicolate dai vari “Telefono Giallo”, “Novecento” di Pippo Baudo, “Chi l’ha visto?”, ecc.

Con buona pace dei fatti certi e documentati, oltre che del tanto conclamato desiderio di verità, sul caso Orlandi domina sempre di più la dura legge della caccia all’audience: The show must go on! Tant’è che con tecniche da lancio pubblicitario di un prodotto da vendere, il 22 giugno 2008 – in occasione del 25esimo anniversario della scomparsa – sono dilagati contemporaneamente gli ormai famosi manifesti recanti il volto sorridente di Emanuela e il battage sulle “rivelazioni” dell’ultima “supertestimone” in ordine di tempo. Vale a dire, di quella Sabrina Minardi che essendo stata a suo tempo l’amante di Enrico “Renatino” De Pedis, un boss della famosa banda della Magliana, si presta molto bene a un rilancio ancora più intrigante e denso di “misteri”, cioè a un altro “Romanzo criminale” arricchito da una tomba da principe della Chiesa per un principe del crimine. De Pedis dorme infatti il suo sonno eterno in una cripta della basilica romana contigua alla scuola di musica frequentata da Emanuela, dalla quale è stata vista uscire pochi minuti prima di sparire per sempre.

I risultati concreti di questo periodico riaccendere le luci della ribalta sono ben diversi dalle speranze di verità ufficialmente sbandierate. Il primo infatti è un incremento delle vendite dei giornali e dell’audience televisiva. Il secondo è continuare a poter parlare di rapimento, ieri per uno scambio con il “lupo grigio” Alì Agca, l’attentatore alla vita di papa Wojtyla, oggi per conto del cardinale “banchiere di Dio” Paul Marcinkus, all’epoca anche responsabile della sicurezza personale di Wojtyla. Il terzo è continuare a ignorare sistematicamente le conclusioni della magistratura italiana, che di fatto ha escluso la tesi del rapimento e che la vicenda Orlandi abbia qualcosa a che vedere con l’altra scomparsa cui sempre viene affiancata, quella cioè della coetanea Mirella Gregori. Il quarto è rinviare sine die una analisi razionale e spassionata dei fatti, onde scongiurare le inevitabili conclusioni: appare infatti chiaro che il vertice del Vaticano, compreso molto probabilmente Wojtyla, sapeva bene che non di rapimento si trattava, bensì di morte, avvenuta per motivi a tutt’oggi ufficialmente ignoti.

La verità è che se fino a mezzogiorno di domenica 3 luglio, vale a dire 11 giorni dopo la scomparsa, si poteva sperare che Emanuela Orlandi – se davvero rapita – venisse lasciata libera di tornare a casa, dopo il pubblico appello di Wojtyla ovviamente non lo si poteva sperare più. Le parole pronunciate dal papa quel giorno equivalevano di fatto a una condanna a morte, per giunta reiterata per ben altre sette volte con altrettanti appelli pubblici nelle settimane successive. E’ impossibile credere che nessuno in Vaticano, neppure il pontefice e la Segreteria di Stato, si rendesse conto delle conseguenze di quelle sortite, che costituiscono un caso unico, assolutamente eccezionale, nell’intera storia della Chiesa. Concludere che Wojtyla e/o la Segreteria di Stato sapessero come in realtà stavano le cose è sconcertante, ma si tratta di una conclusione supportata in particolare, tra molti altri, da tre elementi, tutti documentati e interni al Vaticano. Il primo è la assoluta mancanza di iniziative per aprire reali canali di comunicazione con i “sequestratori”. Il secondo è la scelta di “lasciare le cose come stanno”. Il terzo è il muro di bugie e omertà nei confronti della magistratura italiana. Un atteggiamento speculare a quello dei “rapitori”: il Vaticano tace e mente, i “rapitori” non forniranno mai la benché minima prova di avere l’ostaggio.

Il pubblico e reiterato outing di Wojtyla convinse infine i servizi segreti dell’Europa comunista a scendere in campo con manovre di vario tipo. Berlino Est puntava a prendere due piccioni con una fava. Il primo era l’Operation Papst, Operazione Papa, commissionata da Mosca per creare diversivi utili ad aiutare i “fratelli” bulgari, che la non disinteressata pubblicistica non solo italiana presentava con insistenza come mandanti dell’attentato al papa per conto del Kgb, i servizi segreti sovietici dell’epoca. Il secondo consisteva nel mettere il più possibile in imbarazzo Wojtyla per indurlo a frenare la sua azione ostinata e decisa, condotta su molti fronti, a favore dei movimenti che in Polonia puntavano a staccare il Paese dall’Unione sovietica e a liberarlo anche dal comunismo. Insomma, una vera e propria battaglia della guerra fredda, esplosa nell’estate più calda della storia italiana.

Ignorando volutamente anche le conclusioni della magistratura, oggi il caso viene rilanciato alla grande, con la banda della Magliana alla quale viene fatto prendere disinvoltamente e cinicamente il posto dei Lupi grigi. E domani, chissà, si tireranno in ballo i cinesi o gli iraniani. In attesa magari dei marziani…

Giuseppe “Pino” Nicotri è stato per 35 anni giornalista del settimanale L’Espresso. Autore finora di undici libri inchiesta e un romanzo, è titolare del sito www.pinonicotri.it .

Il Golgota senza fine del Cristo in croce da 16 anni Eluana Englaro

E dunque su Eluana Englaro lo Stato estero chiamato Vaticano e la sua Chiesa si scatenano di nuovo sia contro lo Stato italiano sia contro un suo cittadino, Beppino Englaro, il papà della disgraziata Eluana. L’invereconda accusa lanciata dal partito papalino è la solita, omicidio, di cui sarebbero ora colpevoli anche i magistrati della Cassazione, rei di avere finalmente dipanato la matassa dei veti incrociati e permesso di mettere la parola fine al calvario di Eluana, questa Cristo di sesso femminile costretta ormai da un numero impressionante di anni a portare la sua croce in una infinita salita al Golgota. Continua a leggere

Obama indica o scruta il futuro? In ogni caso, queste elezioni hanno portato varie novità epocali. Mentre in Italia invece…

Della campagna elettorale di Obama mi ha colpito questa foto: http://www.repubblica.it/2006/05/gallerie/esteri/comizio-obama/16.html Posa abbastanza inusuale di un braccio destro di leader teso a indicare con il dito indice un futuro ignoto, mi ha colpito perché manca di retorica, e per questo lo trovata disarmante. In via dei Fori imperiali a Roma c’è una statua in bronzo dell’imperatore Galla che si sporge stranamente in avanti, pare quasi stia per compiere un passo,  per tendere anche lui il braccio e puntare il dito verso il futuro, chiaramente per indicare ai romani la gloria.

Ma la foto del braccio proteso di Obama mi ha invece ricordato il dipinto del Caravaggio nella chiesa romana di S. Luigi dei Francesi noto come “La vocazione di Matteo” e che potete vedere qui: http://digilander.libero.it/maestridellapittura/Caravaggio03.htm

e qui: http://www.artinvest2000.com/caravaggio_vocazione-san_matteo.html

Ho voluto riportare due foto dello stesso quadro perché hanno illuminazioni differenti, che meglio permettono di farsene un’idea. Continua a leggere

Una cultura davvero transazionale e multiforme, totalmente priva delle miserie e dei fanatismi “patriottici”

La cultura romaní, intesa in senso antropologico, è costituita da un insieme complesso che include la conoscenza, la credenza, l’arte, la morale, le leggi, i racconti, le fiabe, i proverbi, i detti, i motti di spirito e ogni altra capacità e abitudine acquisita dall’individuo come membro della comunità.
L’uomo apprende e accetta la propria cultura, come apprende e accetta la propria lingua materna. Egli impara la lingua materna e si esprime con essa, così come vive e si esprime secondo i dettami della propria cultura. Chiaramente la cultura ha la sua origine storica, le sue regole e la sua struttura direttamente collegate con la vita del gruppo etnico che con essa di esprime. La cultura romaní è transnazionale, multiforme e paradigmatica con infinite sfaccettature e sfumature essendo distribuita in ogni continente e in tantissimi Paesi. Continua a leggere

Ma Barack, bello, sincero e democratico, avrà il coraggio di Nixon, bruttino, repubblicano, ariano e bugiardo? E in Italia davvero è in arrivo un “nuovo ’68” o è un sogno della sinistra dei “barackati”?

Obama for president! Lo gridano anche i nostri della sinistra, gli stessi che – a scoppio ovviamente ritardato – sono riusciti a dirsi “filo americani da sempre e mai stati comunisti”. Vale a dire, gli stessi che erano e sono filo Kennedyani, erano e sono tuttora amanti del suo mito della Nuova Frontiera (dozzine di popoli “indiani spazzati via per farla, ma tralasciamo: “semo de sinistra” “se po’ fà”…), “ma anche” (=leit motiv di Uòlter) erano contro la guerra del Vietnam sorvolando che l’aveva voluta alla grande proprio Kennedy! Filocubani, castristi, chevariani, ma facendo finta di non sapere che a tentare di ri-colonizzare Cuba, invadendola armi alla mano, fu proprio la buonanima di Kennedy. Eh, quando si tratta di memoria… facciamo tutti cilecca e ci ammantiamo con l’ipocrisia della Memoria. Continua a leggere

La struttura sociale dei Romanès

Il sistema sociale e vissuto nelle profonde componenti umane, basato essenzialmente sul severo rispetto delle norme etico-morali che regolano e disciplinano la comunità romanès per garantire ai singoli individui la piena integrazione. Essi tutelano la dignità e l’onore del Rom.
Il cardine della struttura sociale dei Rom è la famiglia patriarcale, dove il vecchio, considerato saggio, ne è rappresentante riconosciuto. La famiglia patriarcale o famìljë, che non si esaurisce nel semplice nucleo coniugale, si estende a tutti i consanguinei discendenti da un antenato comune. Appartenere ad una famìljë significa riconoscersi in un complesso di valori etici vincolanti e vivere la propria esistenza nel rispetto di essi. L’appartenenza è profondamente sentita e questo determina la volontaria esclusione da altre famìljë e da altre comunità che sono regolate da norme morali diverse. Continua a leggere

Pansa, Napolitano, Berlusconi: e vai con le parole in libertà…. Ma chi rappresenta politicamente l’Italia della manifestazione di sabato 25 ottobre?

Al festival del cinema di Roma Giampaolo Pansa dopo la proiezione del film “Il sangue dei vinti”, tratto dal suo omonimo romanzo centrato sui crimini dei partigiani a fine guerra mondiale e subito dopo, pontifica da par suo: “L’Italia non è ancora un Paese pacificato perché chi allora vinse non ha raccontato fino in fondo cosa accadde durante e dopo la guerra civile. Il muro d’omertà dei vincitori non è stato mai rotto. E dunque la guerra civile, nel dolore delle famiglie, non è mai finita”. Che l’Italia non sia pacificata è vero, ma è vero da vari secoli e i partigiani “non ci azzeccano”, e se ci azzeccano è solo come ultimi della serie dei responsabili. Sarebbe come prendersela con Pansa per il degrado del giornalismo italiano, del quale lui semmai è una delle ultime concause, ma certo non la prima né la principale. In ogni caso è da ipocriti l’insistere di Pansa a dire “i vincitori” riferendosi di fatto sempre e solo ai partigiani e ai comunisti, perché a vincere sono stati soprattutto i filoamericani, i padroni, gli stessi che avevano foraggiato il fascismo, dalla Fiat di Agnelli fino alla Confindustria e ai padroni anche del Corriere della Sera. A vincere è stata anche la Democrazia Cristiana, i liberali, i repubblicani, i monarchici, i banchieri, per non dire della Chiesa che ha evitato di pagare lo scotto per le sue malefatte, dal benedire l’invasione coloniale dell’Africa fino a benedire Mussolini, dal togliere di mezzo gli ostacoli come don Sturzo sulla strada dei fascisti in cambio dei Patti Lateranensi fino all’equivalente in Germania in cambio di un altro grasso piatto di lenticchie da parte di Hitler. Persino un cattolico convinto come Cossiga ha riconosciuto tempo fa che senza il disco verde della Chiesa il fascismo in Italia non avrebbe preso il potere. E non sono pochi quelli che dicono la stessa cosa riguardo la presa del potere dei nazisti in Germania, facilitata dalla decisione del Vaticano di togliere di mezzo i don Sturzo tedeschi. Continua a leggere

Il giudice del Nebraska ha respinto la denuncia contro Dio presentata da un senatore, ma l’ha respinta con motivazioni che non reggono

Sembra quasi una barzelletta, ma non lo è. Come ha già fatto notare qualche lettore, negli Usa il senatore del Nebraska Ernie Chambers, in carica da 38 anni, ha tentato di citare in tribunale addirittura il cosiddetto buon Dio accusandolo di “aver diffuso paura e terrore e di permettere catastrofi e sciagure”. Nella denuncia depositata in tribunale il 14 settembre dell’anno scorso il senatore accusa, giustamente, Dio e i suoi seguaci “delle continue minacce terroristiche, con conseguenti danni per milioni e milioni di persone in tutto il mondo”. Secondo Chambers, si tratta di minacce da non sottovalutare, perché ad avallarle è la stessa “storia personale di Dio”, che ha la pesante responsabilità di “terremoti, uragani, guerre e nascite di bimbi con malformazioni”. Chambers accusa inoltre Dio di aver “distribuito, in forma scritta, documenti che servono a trasmettere paura, ansia, terrore e incertezza, al fine di ottenere obbedienza” da parte degli uomini. Si riferisce cioè alla famosa bibbia, che da Spinoza in poi ha iniziato a essere sempre più smascherata e sempre più presa per quel che è: un “Mein Kampf” scritto prima in ebraico antico e poi tradotto in quasi tutte le lingue del mondo, e per fortuna che c’è quel “quasi”. Continua a leggere