Usa: riflessioni pacate sull’economia globale

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Recentemente il governo di Washington ha manifestato pubblicamente alcune valutazioni economiche strategiche con toni più realistici rispetto al passato. Per il momento potrebbero essere solo enunciazioni, ma sono importanti dato il momento di grande stress geopolitico. Lo ha fatto il segretario del Tesoro, Janet Yellen, già presidente della Federal Reserve..

Pur non modificando minimamente la strategia di politica estera, in un’intervista alla CNN Yellen ha ammesso che “l’uso di sanzioni finanziarie legate al ruolo del dollaro comporta il rischio che, nel tempo, possa minare l’egemonia del dollaro”. Ciò “crea un desiderio da parte della Cina, della Russia, dell’Iran di trovare un’alternativa”. Anche se, aggiunge, il dollaro è sempre utilizzato come “valuta globale” e “non abbiamo visto nessun altro Paese che abbia l’infrastruttura istituzionale che consentirebbe alla sua valuta di operare nello stesso modo”.
D’altra parte è un dato di fatto che, fuori da quello che consideriamo Occidente, le sanzioni, i commerci e le monete, a cominciare dal dollaro, sono visti e giudicati in modi differenti.
L’amministrazione Biden non può ignorare quanto sta succedendo nel mondo delle valute. Anche se non se ne parla o si tende a minimizzarlo, l’impatto della crescente collaborazione tra i Paesi del Brics, estesa a molte altre economie emergenti, è un processo continuo.

L’ultimo sviluppo è stato la nomina dell’ex presidente brasiliana, Dilma Rousseff, a capo della Nuova Banca di Sviluppo del Brics. Al suo insediamento a Shanghai, Dilma ha affermato: “Abbiamo bisogno di un meccanismo anticiclico che sostenga la stabilizzazione. E’necessario trovare modi per evitare il rischio di cambio e la dipendenza da una moneta unica come il dollaro Usa. La buona notizia è che molti Paesi scelgono di fare trading utilizzando le proprie valute. La strategia della Banca per il periodo 2022-2026 è di fare il 30% dei prestiti in valute locali.“.

Poi, in un discorso alla John Hopkins School of Advanced International Studies di Washington, Yellen ha parlato in modo pratico dei rapporti tra Usa e Cina. “Gli Stati Uniti si faranno valere quando sono in gioco i propri interessi vitali, ha affermato, ma non cerchiamo di separare (decoupling) la nostra economia da quella cinese. Una completa separazione delle nostre economie sarebbe disastrosa per entrambi i Paesi e sarebbe destabilizzante per il resto del mondo.”. Ha aggiunto che “la salute delle economie cinese e statunitense è strettamente collegata. Una Cina in crescita e che rispetta le regole può essere vantaggiosa per gli Stati Uniti.”.

Si ricordi che il commercio degli Usa con la Cina ha superato i 700 miliardi di dollari nel 2021, terzo rispetto a quello con il Canada e il Messico.

Naturalmente Yellen ha ripetuto che “un rapporto economico costruttivo ed equo con la Cina” si colloca nella volontà americana di “difendere i valori e la sicurezza nazionale”. La Cina è invitata a mantenere una concorrenza economica leale. Interessante notare che nel suo discorso, volutamente e opportunamente, non ha mai menzionato Taiwan.

La stessa ha anche ricordato che, nell’incontro dello scorso anno tra i presidenti Biden e Xi, si era concordato di migliorare le comunicazioni sulla macroeconomia e la cooperazione su grandi questioni come il clima e il debito. “Affrontare insieme questi problemi promuoverebbe gli interessi nazionali di entrambi i nostri Paesi”, ha detto. La Cina è il creditore bilaterale più grande a livello mondiale e detiene la metà dei crediti concessi da tutti i governi ai Paesi in via di sviluppo.

Possiamo dire che la preoccupazione sul debito non riguarda soltanto quello dei Paesi poveri e in via di sviluppo, ma anche quello americano. All’inizio del 2021 la Cina, infatti, deteneva Treasury Bond per 1.095 miliardi di dollari, pari a circa il 4% del debito nazionale americano. Oggi ne detiene per un valore di 850 miliardi. Anche se la diminuzione è dovuta in parte al deprezzamento dei titoli, potrebbe segnare una più marcata tendenza futura.

Molti politici e analisti si riferiscono ai rapporti di forza nel mondo solo rispetto alla politica, alla forza militare, al commercio o al pil. Non si comprende, e di conseguenza non si evidenzia, i due aspetti fondamentali degli assetti di potere: la moneta e la finanza. Si rischia, quindi, di sottovalutare situazioni e andamenti che accrescono i rischi di conflitto e persino di guerra. Allo stesso tempo si tende a ignorare anche possibili iniziative positive, proprio nel campo monetario e finanziario internazionale e multipolare. La collaborazione, potrebbe, invece, aiutare a promuovere azioni e soluzioni di sviluppo congiunto e pacifico, come la creazione di un paniere di monete e nuove regole per i mercati finanziari.

*già sottosegretario all’Economia **economista

India: è in arrivo la petro rupia?

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’India sta preparando la sua moneta, la rupia, a giocare un ruolo sui mercati internazionali simile a quello dello yuan. Pur essendo parte importante nel gruppo dei Paesi Brics, l’India non vede di buon occhio l’espansione cinese in Asia e non intende essere trainata dall’attivismo di Pechino. Pensare, però, di giocare l’India contro la Cina, a nostro avviso, sarebbe la solita politica miope e perdente.

La riflessione indiana parte dall’energia, come riportato anche da un documento dell’Istituto Gateway House, un centro studi di Mumbai. Si afferma che negli ultimi due decenni lo scenario energetico globale è cambiato: domanda, offerta e prodotti energetici. L’unica costante è stata il dollaro Usa come valuta usata nel commercio di energia. Ultimamente lo yuan cinese è emerso per sfidare il dollaro. Nuova Delhi adesso si chiede se la rupia indiana possa essere un terzo giocatore. Una petro rupia?

Com’è noto, l’India è il terzo consumatore mondiale e il secondo importatore di energia. Gli indiani lamentano che il commercio mondiale di petrolio e di gas si svolga quasi interamente in dollari sulle borse occidentali e con prezzi che non rappresentano la domanda reale.

Una serie di fattori politici, economici e finanziari, stanno creando un nuovo equilibrio nell’ordine e nella finanza globali. Uno di questi è il cambiamento nella bilancia del commercio energetico. Mentre negli Usa, in Europa e in Giappone il consumo di petrolio sta diminuendo o si sta stabilizzando, in India, con la sua economia in crescita, il consumo energetico aumenta. Si prevede, infatti, che il fabbisogno passerà dagli attuali 4 milioni di barili al giorno ai 10 milioni entro il 2040.

Viene anche fatto notare che i due benchmark petroliferi globali, il WTI e il Brent, sono datati e che spesso sono anche manipolati. Oggi i due maggiori importatori, Cina e India, fanno riferimento a produttori e mercati totalmente diversi. E’ implicito che il nuovo orientamento vada a intaccare antiche posizioni di privilegio occidentale o, meglio, del vecchio colonialismo.

L’India sostiene che la crisi finanziaria del 2008 ha messo in discussione il ruolo del dollaro come moneta unica globale e che la sua instabilità avrebbe fatto raddoppiare il debito degli Usa, inducendo Washington a una ritirata dai processi di globalizzazione. Si rileva che le sanzioni unilaterali e motivate geopoliticamente avrebbero suscitato forti risentimenti nei confronti del potere americano.

Secondo lo studio succitato, il processo dell’Unione europea e dell’euro, che si sarebbe accontentato di controllare il 20% degli scambi monetari e commerciali e delle riserve mondiali, si è fermato.

Di conseguenza, l’India, come la Cina prima, vede l’opportunità per più di una valuta di svolgere un ruolo internazionale importante.

New Delhi è consapevole che sui due mercati principali, quello di New York e quello di Londra, la stragrande maggioranza delle operazioni finanziarie, future e altri derivati riguardanti l’energia, è di carattere puramente speculativo. I contratti future sono almeno 10 volte il volume del petrolio realmente trattato. Secondo gli esperti indiani anche sul mercato di Shanghai, creato nel 2018, dominerebbe incontrastata la speculazione finanziaria.

Inoltre, Nuova Delhi vede che la Cina, attraverso l’Asian infrastructure development bank e la Belt and road iniziative, la nuova Via della seta, starebbe penetrando in molti Paesi dell’Asia, nell’Oceano Indiano e in altri continenti. Con lo yuan vorrebbe anche influenzare l’architettura finanziaria globale. Un processo che pone dei problemi ma anche delle nuove opportunità per l’India.

Da qui nasce l’azione per l’internazionalizzazione della rupia attraverso la creazione di un hub per un nuovo mercato internazionale del petrolio e del gas, eventualmente collegato alle borse di Mumbai. Così il governo indiano potrebbe far sentire il suo peso sulla formazione dei prezzi dell’energia.

E’ un processo in grande movimento. Recentemente, la Reserve Bank of India ha autorizzato alcune banche indiane a operare in rupie in 60 contratti commerciali che coinvolgono 18 Stati, tra cui la Gran Bretagna e la Germania. Con la Malesia detto meccanismo è già a uno stadio più avanzato. Al prossimo summit del G20 di Nuova Delhi, sotto la presidenza indiana, saranno annunciati nuovi passi verso l’internazionalizzazione della rupia.

L’Europa non può essere indifferente ai mutamenti nello scenario globale e dovrebbe relazionarsi meglio anche con la nuova emergente superpotenza economica e politica indiana.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Cresce l’alternativa al dollaro


di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Il fronte economico e monetario internazionale è molto più attivo di quanto si pensi o si ammetta. Poca attenzione è stata data alla dichiarazione di Vladimir Putin quando, durante i colloqui di Mosca con il presidente cinese Xi Jinping, ha affermato che “la Russia è favorevole all’uso dello yuan negli accordi con i Paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina”. Putin ha fatto notare che due terzi delle transazioni tra Russia e Cina sono già regolati in rubli e yuan. Adesso Mosca si impegna ad impiegare la moneta cinese anche nei pagamenti con altre nazioni. Chiaramente è uno stimolo verso molti altri Paesi a sostituire il dollaro nelle loro transazioni e nei loro commerci.

L’effetto internazionale di tali scelte monetarie non può essere sottovalutato anche perché i timori suscitati dalle recenti turbolenze bancarie negli Usa stanno rendendo meno attraenti gli asset basati sul dollaro. Certo esso continua a mantenere la sua centralità rispetto alle valute dei Paesi cosiddetti avanzati e a quelle dei mercati emergenti. E’ ancora utilizzato per il 41% nel commercio globale. Il mondo, però, percepisce che è in corso un cambiamento tettonico.
Persino Jim O’Neill, l’ex economista di Goldman Sachs, sostiene che “il dollaro gioca un ruolo troppo dominante nella finanza globale” e invita i mercati emergenti a ridurre i propri rischi al riguardo.

Come già riportato, notevole disagio aveva creato la propensione dell’Arabia Saudita all’utilizzo della moneta cinese nei pagamenti delle sue esportazioni di petrolio verso la Cina. Vi sono anche nuovi accordi tra la Cina e il Brasile per commercializzare in yuan e in real soprattutto nel campo minerario e in quello alimentare e delle tecnologie. Durante un recente seminario organizzato dall’Agenzia brasiliana per la promozione del commercio e degli investimenti, ApexBrasil, si è concordato che il Banco BOCOM BBM, nato dall’incontro di una banca brasiliana con una cinese, aderisca al Cips (China Interbank Payment System), l’alternativa cinese allo Swift, che è il sistema internazionale più usato per trasferire denaro. Inoltre, la filiale brasiliana della Banca industriale e commerciale della Cina diventerebbe l‘hub di compensazione in yuan. Si noti che il commercio tra i due Paesi ha già superato i 170 miliardi di dollari.

I ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali dell’Asean, l’associazione che coinvolge dieci nazioni del sud-est asiatico, riuniti a Bali, in Indonesia, hanno proposto l’utilizzo delle monete locali nei loro commerci e di ridurre la dipendenza dalle principali valute. Il presidente dell’Indonesia, Joko Widodo, ha sostenuto la necessità di proteggersi da “possibili ripercussioni geopolitiche”. Da ultimo, il primo ministro della Malesia, Anwar Ibrahim, dopo la sua recente visita in Cina, porta avanti la creazione di un Fondo monetario asiatico per ridurre la dipendenza dal dollaro e per aumentare l’uso delle monete nazionali nel commercio.

L’India è un caso a parte. Essa si reputa troppo grande per accodarsi alle iniziative di altri, in particolare della Cina. Nella dirigenza indiana è in corso da parecchio tempo una discussione su come trasformare la rupia in una moneta internazionale per i suoi commerci e per quelli di altri Paesi interessati.
Più sorprendente è l’accordo in yuan tra l’impresa petrolifera cinese, la China National Offshore Oil Company, con la francese TotalEnergies su 65.000 tonnellate di gas naturale liquefatto importato dagli Emirati Arabi. L’operazione è gestita attraverso la Shanghai Petroleum and Natural Gas Exchange, la borsa creata anche per favorire i pagamenti in yuan. Sarà interessante conoscere gli accordi economici stipulati dal presidente francese Macron durante la sua recente visita in Cina.

Si ricordi anche che, nonostante l’opposizione americana, il cancelliere tedesco Scholz pochi mesi fa ha guidato una folta delegazione di industriali a Pechino. Degli incontri e degli accordi si conosce veramente poco. Chissà come saranno saldate le fatture commerciali: in euro, in yuan, in dollari o un mix? La Germania è il primo partner commerciale europeo con la Cina, con un volume di scambi bilaterali pari a circa 300 miliardi di euro.

Sono iniziative prettamente nazionali ma interessanti. Quale sia l’atteggiamento dell’Unione europea, non è chiaro. D’altra parte l’Ue non ha una sua precisa politica d’interesse europeo su molte, troppe, questioni strategiche importanti.
*già sottosegretario all’Economia **economista

La Russia e l’Africa intensificano i rapporti

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Si intensificano le relazioni della Russia con l’Africa, perciò riteniamo che nei rapporti con i Paesi africani l’Italia e l’Unione europea dovrebbero mantenere un approccio sobrio e realistico, senza cedere alla tentazione di credere troppo alle narrazioni dell’Occidente sugli andamenti geopolitici planetari. Prima di tutto occorre comprendere le loro priorità che sono l’anticolonialismo, l’indipendenza e lo sviluppo del continente in un mondo multipolare.

Basti riflettere sui risultati del meeting “Russia Africa Parliamentary Conference” sul tema di un mondo multipolare, tenutosi a Mosca il 19-20 marzo, cui hanno partecipato parlamentari di 40 Stati africani. Si tratta di uno degli incontri preparatori per il secondo “Summit Russia-Africa” dei capi di Stato e di governo già fissato il 28-29 giugno a San Pietroburgo. Si noti che le delegazioni africane presenti a Mosca erano più numerose delle 36 che nel 2019 avevano partecipato al primo Summit di Sochi, tenutosi molto prima della guerra in Ucraina.

Prevedibile l’affondo politico fatto dal presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, che ha denunciato “Washington e Bruxelles di voler controllare, a loro beneficio, le risorse naturali della Russia e dell’Africa, con tutti gli strumenti possibili, anche con la forza.”.
Sebbene in quei giorni fosse impegnato negli incontri con il presidente cinese Xi Jinping in vista a Mosca, Vladimir Putin ha voluto parlare alla conferenza.

Il presidente russo ha affermato che i rapporti con i Paesi africani sono una priorità della politica estera di Mosca. Ha ricordato l’appoggio dell’Unione Sovietica nella lotta per l’indipendenza contro il colonialismo e per la cooperazione economica nel continente. Sebbene oggi i Paesi africani rappresentino soltanto il 3% del pil mondiale, Putin ha detto che, con un miliardo e mezzo di abitanti e un terzo di tutte le riserve minerarie del globo, essi naturalmente saranno leader del nuovo ordine multipolare globale.
Ha evidenziato che lo scorso anno il commercio è cresciuto fino a 18 miliardi di dollari e che Mosca ha cancellato vecchi debiti dei Paesi africani per oltre 20 miliardi. Ha anche offerto la possibilità di una collaborazione tra l’Unione economica eurasiatica e l’Area continentale africana di libero scambio creata nel 2021.

Il presidente russo si è impegnato a mantenere le forniture di cibo, di fertilizzanti e di energia verso l’Africa e a prolungare di 60 giorni l’”accordo sul grano” fatto a Istanbul per far transitare i prodotti agricoli ucraini attraverso il Mar Nero. Dopo tale periodo la Russia sarebbe pronta a mandare, a titolo gratuito, la stessa quantità di grano inviato in Africa nei mesi passati. Ha poi lanciato una provocazione: ”Del volume totale di grano esportato dall’Ucraina, circa il 45% è andato ai Paesi europei ben nutriti e solo il 3% all’Africa.”.

Propaganda russa? Speriamo si possa dimostrare, poiché le reazioni, le convinzioni e le realtà africane non sono quelle dell’Occidente.
Dopo aver detto che oggi circa 27.000 studenti africani frequentano le università russe, ha aggiunto che il personale militare di oltre 20 Paesi africani si perfeziona nelle università del ministero della Difesa russo

I rapporti si sono fatti molto intensi, un po’ in tutti i campi, anche in quello delle nuove tecnologie. Infatti, il 13-14 aprile prossimo si terrà a Mosca il forum Russia – Africa sulle tecnologie digitali in cui i rappresentanti dei governi e delle imprese private discuteranno su come realizzare la digitalizzazione nei settori della pubblica amministrazione, dell’economia, dell’educazione e della sanità.

Naturalmente un ruolo importante, di battistrada della cooperazione continentale africana, lo svolge il Sudafrica, come membro del gruppo BRICS. In un recente incontro tra rappresentati governativi russi e sudafricani si è convenuto di promuovere la creazione di una “BRICS geological platform”. Poiché questi Paesi hanno le più grandi riserve minerarie del mondo, il progetto intende mappare i territori per individuare, valutare ed esplorare nuovi depositi di minerali, in particolare delle cosiddette “terre rare”, al fine di promuovere una più stretta cooperazione tecnologica per il loro sfruttamento.

Trattasi di passi significativi nei rapporti con l’Africa che, per onestà bisogna riconoscere, la Russia ha iniziato decenni fa, anche a seguito delle errate politiche neocoloniali dell’Occidente
*già sottosegretario all’Economia **economista

Deutsche Bank e derivati: una vecchia storia

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Essendo la Deutsche Bank (DB) la maggiore banca tedesca, capire il perché dei suoi recenti, gravi, problemi è anche nel nostro interesse.
Il suo bilancio del 2022 era entusiasta: un utile di 5,6 miliardi di euro, il miglior risultato in 15 anni. L’utile record era stato nel 2007 di 8,7 miliardi. Ma la crisi globale del 2008 aveva lasciato profonde ferite da risanare e perdite per cinque anni consecutivi fino al 2019.
Dal 2019 il management asseriva di aver cercato di portare avanti un profondo rinnovamento del gruppo, riducendo le attività del suo investment banking, cioè il settore che cerca alti profitti con le speculazioni più rischiose. Quindi, meno business “esotici” e meno clienti hedge fund. L’idea, almeno sulla carta, era di tornare a essere una banca più europea e “per gli imprenditori”. La DB ha anche portato avanti l’integrazione della Postbank, che come il nostro BancoPosta, ha un numero altissimo di clienti, famiglie e imprese di piccole-medie dimensioni.
L’inversione sui tassi d’interesse ha fatto crescere gli attivi della banca fino a 27,2 miliardi di euro, con un aumento di oltre il 7% rispetto al 2021. Nonostante l’inflazione e i rallentamenti dell’economia, non si temevano insolvenze sui prestiti concessi. Nel 2022, contro tale rischio, la banca aveva accantonato ben 1,2 miliardi, più del doppio rispetto al 2021.

Tutto roseo il 2022 e lo sarebbe dovuto essere ancora di più il 2023. Al successo avevano contribuito anche i voti migliori delle agenzie di rating dopo i loro downgrade degli anni precedenti.

Non tutte le voci, però, erano così concordi. Il consiglio di sorveglianza interno alla banca lamentava che i miglioramenti programmati e gli obiettivi di sostenibilità non erano stati pienamente raggiunti, per cui decideva la riduzione del 5% dei bonus milionari per i dirigenti. In particolare a febbraio aveva sollevato forti preoccupazioni sulla gestione dei derivati.

La storia della banca conta e non si deve mai dimenticare. Lo scorso aprile la polizia tedesca aveva visitato il suo quartier generale di Francoforte nel corso di un’indagine sul riciclaggio di denaro. Negli anni passati il suo nome era apparso in quasi tutte le indagini su varie truffe e malversazioni finanziarie internazionali. Nel 2016, si ricordi, aveva pagato una multa di 7,2 miliardi di dollari per operazioni truffaldine con derivati legati alle ipoteche, in cambio della chiusura delle indagini.

Qualcosa non andava in DB se il costo dei suoi credit default swap, i titoli derivati che coprono il rischio di fallimento, è aumentato in modo rilevante. Dall’inizio dell’anno le sue azioni hanno perso circa un quarto del valore.

E’ vero che tutto il sistema bancario europeo e internazionale è sotto pressione ma Deutsche Bank sembra essere colpita più delle altre banche. Non si può paragonare al Credit Suisse, salvato dalla bancarotta, se non per il fatto che sono due tra le più grandi banche europee ritenute sistemiche.

La presidente della Bce Christine Lagarde e tutti i governi europei fanno a gara nell’affermare la solidità del sistema bancario europeo, “aiutato dalle riforme della regolamentazione bancaria avviate sulla scia della crisi finanziaria globale.” Forse dette riforme sono carenti.

Una di queste gravi mancanze ce la rivela proprio il bilancio di DB del 2022: il valore nozionale totale dei derivati finanziari è di 42.500 miliardi di euro, quasi tutti del tipo molto rischioso, gli over the counter (otc). Un aumento del 6% in un anno. Sono un po’ di meno rispetto al picco di 48.000 miliardi del 2018, ma la situazione non è veramente cambiata. Per quasi l’80% sono derivati stipulati sull’andamento dei tassi d’interesse.

Non solo la DB ma tutte le banche too big to fail sono coinvolte in queste operazioni speculative sui tassi d’interesse. E’ proprio il comportamento volatile delle banche centrali che li rende altamente “infiammabili”.

Anche se si ammettesse che la DB abbia provato a ridurre la sua esposizione nei derivati otc più rischiosi, occorre riconoscere che è un processo difficile in solitaria. Così come lo è per un drogato che vorrebbe liberarsi dalla dipendenza, ma continua a frequentare gli ambienti dello spaccio.

Il problema della speculazione finanziaria è globale ma, se non si affronta a livello internazionale una vera riforma, le crisi bancarie si faranno più frequenti e intense. Ci aspettiamo che le autorità e i governi europei facciano la prima mossa: eliminare la speculazione per difendere gli interessi reali dei cittadini, a cominciare dalla stabilità economica e dal benessere sociale.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Delitto di via Poma, sparito dal progetto di commissione parlamentare

Delitto di via Poma, sparito dal progetto di commissione parlamentare sui gialli insoluti, il mistero della morte di Simonetta Cesaroni era in elenco accanto alla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Ora non c’è più. Ne parlo col criminologo Carmelo Lavorino.
https://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/delitto-di-via-poma-simonetta-cesaroni-sparita-dalla-commissione-3531162/

Crisi bancarie Usa: le responsabilità dei controllori

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Serve chiarezza. Dietro le recenti bancarotte negli Usa ci sono altri motivi di preoccupazione. In primo luogo il fallimento delle autorità di sorveglianza, a cominciare dalla Federal Reserve.

Il loro mancato intervento, a nostro avviso, è dovuto al fatto che esse erano pienamente consapevoli che le loro politiche monetarie altalenanti, interessi zero prima e aumento dei tassi poi, avrebbero messo sottosopra il sistema bancario. Hanno ritenuto, erroneamente, che astenersi fosse la seconda tra le peggiori possibilità. La prima sarebbe stata continuare con le politiche di poderose iniezioni di liquidità fino a far esplodere la bolla.

Il governo e le autorità bancarie, quindi, non sono stati colti di sorpresa. Erano pronti a nuovi interventi di salvataggio dell’intero sistema. Meglio intervenire dopo il fallimento di una banca regionale che di una too big to fail. C’è stato, infatti, un barrage di interventi. Si è creata una Bank Bailout Facility attraverso la quale il governo concede dei prestiti alle banche. La Fed ha annunciato un “discount window”, uno sportello, dove attingere a prestiti di emergenza a basso costo. Sotto la guida della Fed e del Tesoro, sei grandi banche, JP Morgan, Wells, Citi, Bank of America, Goldman Sachs e Morgan Stanley, si sono accordate per mettere a disposizione 30 miliardi di dollari per la First Republic Bank. Non sono bastati, però, a fermare il crollo. Anche la Federal Deposit Insurance Corporation, l’agenzia di protezione finanziaria, è entrata in campo per garantire i depositi fino a 250.000 dollari. Si tenga presente, però, che il suo fondo coprirebbe soltanto il 2% dei 9.600 miliardi di dollari di depositi assicurati.

E’in atto anche una narrazione che cerca di distogliere l’attenzione dalle banche too big. Si parla insistentemente dei rischi di insolvenza delle banche regionali e delle cosiddette saving and loans banks, quelle che raccolgono i risparmi e poi concedono prestiti alle imprese locali e alle famiglie. Indubbiamente non si possono negare le loro difficoltà attuali, create proprio dagli andamenti dei tassi d’interesse. Si ricorderà che una crisi simile, ma in una situazione di differente gravità sistemica, era avvenuta già negli anni ottanta, sempre per effetto della crescita vertiginosa dei tassi d’interesse da parte della Fed.

E’ comunque da ingenui ritenere che le banche regionali siano delle entità totalmente indipendenti rispetto alle 20 maggiori banche Usa, cosiddette, sistemiche. Secondo JP Morgan nell’ultimo anno le banche più piccole avrebbero perso 1.100 miliardi di dollari in depositi che sono stati trasferiti in quelle più grandi.

C’è anche un’altra narrazione che vorrebbe le banche europee, e non quelle americane, essere nell’occhio del ciclone. Certamente, dopo la crisi del Credit Suisse e le gravi fibrillazioni della Deutsche Bank (DB), non si può negare che il sistema bancario europeo sia in crescente difficoltà.

Noi non ci siamo mai stancati di denunciare i comportamenti rischiosi di DB, superstar dei derivati otc. Ma non si può nemmeno dimenticare che il sistema bancario europeo sia entrato in acque agitate proprio per aver copiato i metodi speculativi di quello americano e della City inglese.

E’ doveroso anche notare il macroscopico errore delle agenzie di rating, le note imprese americane private. Fino al giorno prima del fallimento della Silicon Valley Bank, Moody’s le garantiva il voto di A3 e Standard & Poor’s (S&P) le dava un rating un po’ inferiore di Bbb. Certamente erano lontani dalle triple A elargite a piene mani prima della bancarotta della Lehman Brothers. I titoli della Svb, però, erano considerati “investment grade”, cioè degni di investimento e perciò non speculativi.

Si noti che, anche rispetto al fallimento della First Republic Bank, le agenzie di rating S&P e Fitch hanno inserito la banca tra le imprese “junk”, spazzatura, solo dopo gli interventi di salvataggio.

Nelle prospettive bancarie globali per il 2023, la S&P afferma che il settore bancario statunitense è in buona salute e che il rischio è in calo. Per la Moody’s le prospettive sarebbero stabili, sebbene avvertisse venti contrari in un’economia in rallentamento.

Si tratta di gravi sottovalutazioni, a discapito dei risparmiatori e degli onesti investitori. Si persegue un comportamento, a dir poco incompetente e inadeguato, già emerso prepotentemente nel 2001 alla vigilia del fallimento della Enron, il gigante americano dell’energia, e poi nella Grande Crisi del 2008.

Dal 2001 il Congresso americano ha portato avanti varie iniziative di riforma che, però, non hanno indotto le agenzie di rating a un comportamento più corretto.

Si dovrebbe tenerlo presente quando esse pontificheranno sulla situazione economica e finanziaria dell’Italia. In passato, purtroppo, si è sempre tenuto un atteggiamento troppo supino.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Credit Suisse e la bolla globale dei derivati

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il credito di salvataggio di ben 54 miliardi di dollari da parte della Banca centrale svizzera non è bastato a stabilizzare il Credit Suisse. Anche la fusione con la più grande banca elvetica, l’Ubs, non sembra calmare le acque turbolente dei mercati finanziari internazionali. La ragione, di cui si tende a non parlare, è una e semplice: l’esposizione in derivati finanziari speculativi otc, quelli non regolamentati e tenuti fuori bilancio, del Credit Suisse e delle banche too big to fail. In particolare quelle americane.

L’ultimo rapporto sui derivati dell’Office of the Comptroller of the Currency, l’agenzia Usa di controllo bancario, ha rilevato che, al 30 settembre 2022, quattro banche statunitensi detenevano ben 195.000 miliardi di dollari di derivati finanziari, pari all’88,6% del valore nozionale di quelli presenti nel sistema bancario nazionale. JPMorgan Chase ne deteneva 54.300 miliardi di dollari, Goldman Sachs 50.970, Citibank 46.000 e Bank of America 21.600. Sebbene la legislazione Dodd-Frank, promulgata dopo la grande crisi del 2008, richiedesse che i derivati passassero attraverso la compensazione centrale, il 58,3% di essi non lo fa, rimanendo nella totale opacità.
Anche un recente studio della Banca dei regolamenti internazionali analizza le gravi complicazioni nella gestione dei derivati ed evidenzia che “le banche estere con sede al di fuori degli Stati Uniti hanno un debito in derivati otc di 39.000 miliardi. Più del doppio del loro debito registrato in bilancio e più di 10 volte il loro capitale”. Un’esposizione ritenuta “sbalorditiva” e foriera di nuovi sconvolgimenti.

Il Tesoro Usa sta esaminando l’esposizione delle banche statunitensi verso il Credit Suisse. Non si scopre adesso che il sistema bancario internazionale è strettamente interconnesso e che la crisi di un componente importante può diventare sistemica. Perciò, non regge la giustificazione secondo cui il problema sarebbe di origine estera, come le autorità americane hanno più volte sostenuto.
Negli Usa il quadro normativo distingue le banche con sede sul territorio nazionale da quelle con sedi estere. Queste ultime non sono sottoposte agli stessi standard, come i requisiti patrimoniali e una liquidità più stringente. Conoscendo bene i rischi, l’hanno fatto per attirare negli Usa capitali, anche speculativi, per restare, a tutti i costi, il mercato dominante.
La storia delle crisi del Credit Suisse è stata bellamente ignorata per anni e consapevolmente sottovalutata. D’altra parte, rivelava la malattia dell’interno sistema che non s’intendeva affrontare drasticamente e curare.

Nel 2021 la banca aveva perso 5,5 miliardi di dollari a seguito di derivati pericolosi con l’hedge fund speculativo americano Archegos Capital Management, poi fallito. I segnali di allarme furono ignorati da tutti, non solo dal Credit Suisse. Quest’ultimo era già stato coinvolto, con forti perdite, anche nello scandalo e nel fallimento di Greensill Capital, la società di servizi finanziari britannica, che aveva lasciato un buco di 10 miliardi. In precedenza aveva pagato una multa di 5,3 miliardi di dollari alle autorità americane per aver ingannato gli investitori sul rischio dei titoli subprime legati alle ipoteche immobiliari.
Credit Suisse, quindi, ha sempre operato sul mercato Usa. Da anni controlla la First Boston. Tra i suoi azionisti vi sono gli arabi, Arabia Saudita e Qatar, con il 20% e, poi, come sempre c’è l’onnipresente fondo americano BlackRock con circa il 5% delle azioni.
Ben sapendo che si mettono in difficoltà le banche che hanno ingenti investimenti in titoli di Stato a lunga scadenza e a basso rendimento, l’aumento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali sembra essere una scelta obbligata. Nelle loro intenzioni mettere un freno all’inflazione resta la priorità, per evitare sconquassi economici e sociali. Per gli istituti finanziari in crisi metteranno a disposizione decine, centinaia di miliardi.
E’ chiaro, però, che simili salvataggi pubblici non sono la soluzione. A ogni crisi il problema si ripresenta in dimensioni maggiori e peggiori.
Perciò non ci si dovrebbe mai stancare di ripetere che una riforma globale della finanza è necessaria e ineludibile. Per riportare un po’ di sanità nel sistema finanziario, sarebbe opportuno ritornare alla separazione bancaria, alla legge Glass Steagall Act del presidente FD Roosevelt, e battere la speculazione attraverso l’accantonamento dei derivati otc e il divieto della cosiddetta leva finanziaria.
*già sottosegretario all’Economia **economista

Fallimento della Silicon Valley Bank: rischio contagio

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Quando il sistema finanziario è schiacciato dalle bolle causate dai debiti, è da irresponsabili portare le banche sulle montagne russe. Ciò che ha fatto la Federal Reserve ieri e sta facendo oggi. Il risultato più evidente è il fallimento della Silicon Valley Bank (Svb) di Santa Clara in California. Tutti ci auguriamo che non diventi l’inizio di un nuovo collasso finanziario globale come nel 2008.

Durante il periodo del tasso d’interesse zero e dei quantitative easing molte imprese, anche quelle zombie, come la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea definisce quelle in condizione quasi fallimentari, hanno ottenuto notevoli volumi di nuovi crediti dalle banche, anche di medie dimensioni. Adesso hanno grandi difficoltà nel pagamento del servizio sul debito.

A loro volta, le banche hanno convenientemente acquistato grandi quantità di titoli di Stato, in particolare Treasury bond della durata di 10 anni, che pur con un rendimento modesto, rappresentavano una garanzia di stabilità, senza rischi e un interessante profitto rispetto allo zero assoluto.

Il repentino e continuo aumento dei tassi d’interesse da parte della Fed, combinato con gli annunci di nuovi rialzi dei tassi per lunghi periodi futuri, sta stravolgendo i meccanismi finanziari. Per esempio, le obbligazioni del Tesoro a scadenza 1 e 2 anni offrono adesso interessi maggiori di quelle della durata di 10 anni emesse in passato. Una cosa irragionevole e destabilizzante. Il problema è sistemico, poiché il settore bancario ha in pancia una montagna di asset a basso rendimento, e sta peggiorando con l’aumento del tasso d’interesse della Fed.

La Svb è la banca in cui la maggior parte dei clienti sono società tecnologiche start up che depositano i prestiti ottenuti dal cosiddetto venture capital, cioè quei gruppi che finanziano i loro lavori in cambio di un ritorno futuro, quando i risultati e le nuove tecnologie saranno realizzati. I loro investimenti sono delle scommesse. L’aumento dei tassi d’interesse ha, tra l’altro, ridotto i flussi finanziari da parte del venture capital. Di conseguenza le start up hanno usato sempre più i loro depositi presso la Svb. Quest’ultima, già sotto pressione, ha aumentato notevolmente la vendita dei titoli in perdita. Caso emblematico è quello delle obbligazioni decennali che rendono meno di quelle annuali.

Quando la Svb ha annunciato l’intenzione di mettere sul mercato 2,25 miliardi di dollari in nuove azioni per sostenere il proprio bilancio, la “bomba” è esplosa, provocando una corsa agli sportelli, sia in forma telematica sia fisica. Per evitare il panico, la Federal Deposit Insurance Corporation (/Fdic), l’agenzia governativa indipendente che assicura i depositi bancari e sovrintende alle istituzioni finanziarie, è subito intervenuta garantendo i depositi fino a 250.000 dollari e altre misure di sostegno per le parti non assicurate.

La Svb non è una too big to fail ma nemmeno una “banchetta”. E’ la 16sima del sistema bancario americano. Ha un patrimonio pari a 212 miliardi di dollari. Si tratta del secondo più grande fallimento bancario nella storia degli Usa, dopo la bancarotta della Washington Mutual, con asset pari a 318 miliardi, avvenuto nel settembre 2008, all’inizio della grande crisi finanziaria.

E’ da tener presente che questo default non avviene in un mare calmo ma nelle tempeste provocate anche dal collasso del mercato delle cripto valute. Infatti, un’altra banca, la Signature Bank di New York, che conta molti depositi in cripto valute, e un patrimonio di 110 miliardi di dollari, è fallita dopo aver subito un crollo nel valore delle sue azioni e delle sue obbligazioni. Si tratta della terza bancarotta bancaria più grande nella storia americana. All’inizio di marzo anche la Silvergate Capital Corp., una piccola banca di San Diego legatissima alle cripto valute e con un patrimonio di 14 miliardi di dollari, è fallita.

Le decisioni della Fed stanno spingendo i mercati a muoversi nel breve e nel brevissimo periodo. Ciò rende il sistema instabile, imprevedibile e ad alto rischio. Le parole che circolano con timore sono “rischio di contagio” e “effetto domino”. Infatti, la fibrillazione provocata dalle azioni Svb in caduta libera, è stata grande, tanto che altri titoli bancari sono stati sospesi per evitare una slavina.

L’andamento dei tassi d’interesse sarà la spada di Damocle sui mercati e sul sistema finanziario e bancario internazionale. D’altra parte, non è un caso che i derivati finanziari over the counter siano concentrati per l’80% del loro valore nozionale totale (630 000 miliardi di dollari) sui tassi d’interesse.

Per fortuna c’è Janet Yellen, segretario al Tesoro Usa, che ha espresso fiducia nella resilienza del settore bancario americano. La cosa, però, rassicura solo chi ci vuole credere. Nel frattempo la Fed ha iniziato un programma di crediti di emergenza alle banche in difficoltà, come la First Republic Bank, per evitare che vendano i Treasury bond in loro possesso e che abbiano dei fondi extra per far fronte a eventuali ritiri dei depositi da parte dei clienti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

“Non ci hanno visto arrivare”. Ma anche “Non hanno voluto vederci arrivare”.

Ci ubriachiamo di slogan, beandoci della loro bella e confortante estetica e spesso confondendoli con la realtà. E anche in fatto di slogan usiamo due pesi e due misure.
Sulla scia del fortunato slogan “Non ci hanno visto arrivare” coniato da Elly Schlein per indicare che il mondo maschile sottovaluta e a volte ignora quello femminile, molti specie l’8 marzo Giornata Internazionale della Donna lo hanno rilanciato e fatto proprio. Direi però che per evitare il solito orrendo doppiopesismo sarebbe il caso di renderci conto che troppo spesso i migranti che affogano in mare davanti alle nostre coste e belle spiagge possono dire anche loro, e a maggior motivo, “Non ci hanno visto arrivare”.
Forse però la formulazione più completa e adatta alla realtà e comunque sicuramente affiancabile all’altra è “Non hanno voluto vederci arrivare”.

L’oro e la nuova moneta internazionale

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

I media occidentali sono talmente impegnati ad analizzare gli andamenti dello scontro militare in Ucraina da sottovalutare quanto sta avvenendo in altri settori strategici, ad esempio quello monetario.

Qualche settimana fa si era evidenziato come, in alternativa al dollaro, la Russia, la Cina e altri Paesi stessero discutendo di una nuova moneta internazionale per regolare i propri scambi commerciali e altre operazioni finanziarie. In particolare, si segnalava la proposta del noto economista russo Sergey Glazyev che prefigurerebbe una moneta basata su un paniere di valute, tra cui il rublo e lo yuan, ancorata al valore di alcune materie prime strategiche, incluso l’oro.

Durante il 2022, l’inasprimento delle sanzioni occidentali nei confronti della Russia ha indotto Mosca a preferire altri partner economici come la Cina, l’India, l’Iran, la Turchia, l’Egitto, gli Emirati arabi uniti, ecc. Con ciascuno di loro, la Federazione russa ha un surplus commerciale. Secondo le stime della Banca centrale russa, nel periodo gennaio-settembre 2022 esso sarebbe di 198,4 miliardi di dollari, cioè 123,1 miliardi in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

L’ammontare indubbiamente non compensa quanto si è perso nei commerci con l’Europa e con l’intero Occidente, ma rappresenta uno sviluppo alternativo. Detto ciò il cambiamento ha spinto molti economisti russi e dei Paesi non ostili alla Russia a promuovere delle nuove proposte in materia monetaria.

Lo rivela un recente articolo pubblicato sulla rivista russa Vedomosti da Sergey Glazyev, insieme a Dmitri Mityaev, segretario esecutivo del Consiglio scientifico e tecnico della Commissione economica eurasiatica. Vi si afferma che a settembre la Russia è diventata il terzo Paese al mondo nell’utilizzo dello yuan per i pagamenti internazionali. Lo yuan oggi rappresenta il 26% delle transazioni in valuta estera della Federazione Russa. Glazyev afferma che con tutti i partner commerciali c’è stato un grande utilizzo delle monete locali e, a seguito dei surplus, Mosca ha accumulato grandi quantità di tali monete nelle banche dei partner.

Poiché si stima che l’accumulo di fondi in queste valute aumenterà in futuro e che esse potrebbero essere soggette a rischi di cambio e di possibili sanzioni, gli economisti russi propongono di cambiare questa massa di monete locali in oro. In parte sarebbe tenuto nelle riserve dei Paesi coinvolti e utilizzato per regolamenti transnazionali, scambi di valute e operazioni di compensazione, e in parte rimpatriato in Russia.

L‘analisi afferma, inoltre, che anche in Occidente si pensa che, a causa dei rischi finanziari, nel 2023 l’oro potrebbe diventare un importante strumento d’investimento, accrescendone il suo valore. Il che andrebbe a beneficio dei Paesi detentori del metallo prezioso. Le grandi riserve auree consentirebbero loro di perseguire una politica finanziaria sovrana e di ridurre la dipendenza dai creditori esterni.

Glazyev afferma che la Russia ha già grandi riserve auree e valutarie. E’ la quinta al mondo, dopo Cina, Giappone, Svizzera e India, e davanti agli Stati Uniti. A livello mondiale il volume dell’oro accumulato sarebbe pari a 7.000 miliardi di dollari, di cui le banche centrali non avrebbero più di un quinto. Sarebbe in atto, secondo gli economisti russi, una vera e proprio corsa all’oro, tanto che nel terzo trimestre del 2022 le banche centrali avrebbero acquistato una quantità record di 400 tonnellate d’oro.

La People’s Bank of China ha annunciato per la prima volta in molti anni che sta aumentando le sue riserve auree. La Cina è al primo posto nella produzione di oro e ne vieta l’esportazione. L’India è considerata il campione mondiale nell’accumulo di oro: più di 50.000 tonnellate in gran parte in mani private e molto meno nella Reserve Bank of India. Negli ultimi 20 anni, il volume dell’estrazione dell’oro in Russia è raddoppiato, mentre negli Stati Uniti si è quasi dimezzato.

A Mosca, però, tale politica non avrebbe un completo sostegno, tanto che Glazyev attacca la Banca centrale perché per essa l’acquisto di oro provocherebbe un’eccessiva monetizzazione dell’economia.

Si potrebbe, quindi, dire che non è tutto oro ciò che luccica, ma sarebbe miope non analizzare quanto scritto in Vedomosti e quanto accade in molti Paesi. Nel mondo delle monete, il ruolo dell’oro sta ritornando al centro delle discussioni. E’ un fatto!

*già sottosegretario all’Economia **economista

2023: domina il rischio del debito

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’aumento dei tassi d’interesse e la stagflazione, cioè la situazione che si crea quando la stagnazione economica si combina con l’aumento dell’inflazione, stanno mettendo inevitabilmente la struttura del debito sotto pressione.

A giugno si calcolava che il debito globale, pubblico e privato, fosse pari a 300.000 miliardi di dollari, cioè il 350% del pil mondiale. Nel 1999 era di 200.000 miliardi.  Negli Usa il rapporto è del 420%, più alto di quello della Grande Depressione degli anni trenta e dell’immediato dopoguerra. Tale percentuale riguarda tutte le economie avanzate. In Cina è del 330%.

I debiti in sé non sono un problema se servono a sostenere gli investimenti per lo sviluppo industriale e tecnologico. Il rischio si manifesta quando crescono in maniera sproporzionata e sono prevalentemente speculativi e sganciati dall’economia reale.     

La crescita del debito ha colpito numerosi settori, come le famiglie, le imprese, le banche, soprattutto quelle cosiddette “ombra”, i governi e persino interi Paesi. In particolare i debitori chiamati “zombie”, gli insolventi, che sono stati mantenuti a galla dalla prolungata politica del tasso di interesse zero.

Da quando la Fed e le altre banche centrali hanno iniziato ad alzare i tassi d’interesse nel tentativo di stabilizzare i prezzi, gli “zombie” vedono il costo del loro debito crescere costantemente. A ciò bisogna aggiungere l’erosione dei redditi, dei risparmi e della ricchezza, immobiliare e mobiliare, liquefatta dall’inflazione.

L’ultima volta che l’economia mondiale ha sperimentato la stagflazione è stato negli anni settanta. Allora, però, i tassi debitori erano più bassi. Oggi, invece, si potrebbe parlare del rischio di “choc da stagflazione”. Anche perché non si pensa di ridurre i tassi d’interesse per alimentare la domanda, le produzioni e i consumi.  

Vi sono poi degli eventi geopolitici che hanno avuto e continuano a creare choc negativi nell’offerta: la pandemia, la guerra in Ucraina, certe problematiche interne cinesi, ecc. Rispetto alla grande crisi finanziaria del 2008 e del periodo iniziale del Covid, questa volta non si potrà intervenire con salvataggi pubblici ai settori in difficoltà.

Il rischio è generalizzato. Alcuni economisti americani, come il professore di Harvard, Kenneth Rogoff, già capo economista del Fmi, vorrebbero distogliere l’attenzione dalle aree di crisi degli Usa, dove, per esempio, il debito delle grandi imprese è diventato un enorme cancro e dirigerla altrove. In particolare Rogoff ha scelto il Giappone e l’Italia come focolai di crisi, perché, a suo dire, l’aumento dei tassi d’interesse renderebbe per loro sempre più difficile garantire il servizio sul debito pubblico. 

Anche i Paesi emergenti sono sotto pressione. Essi sono direttamente influenzati dalle politiche monetarie della Federal Reserve. Alti tassi d’interesse, un dollaro forte, la fuga di capitali, la svalutazione delle monete locali e l’inflazione stanno rendendo molto difficile la gestione del loro debito. The Economist ha identificato ben 53 Paesi vulnerabili che sono crollati sotto il peso del debito o sono a rischio di farlo. Non è un caso che la Banca Mondiale sostiene che il 60% dei Paesi emergenti o poveri è diventato debitore ad alto rischio.

Poiché i governi non sono intenzionati a tagliare i bilanci o ad aumentare le tasse per ovvi motivi sociali e politici, ancora una volta la patata bollente passa nelle mani delle autorità monetarie. Cresce perciò la richiesta che le banche centrali tornino a monetizzare i deficit. In altre parole, un altro periodo di quantitative easing!  

Altri, invece, vorrebbero globalizzare gli allargamenti monetari e finanziari facendo giocare un ruolo centrale al Fondo monetario internazionale. Pochi mesi fa il Fmi aveva emesso una montagna di Diritti Speciali di Prelievo, la sua moneta, equivalenti a 650 miliardi di dollari. L’intervento era stato abilmente presentato come necessario al sostegno dei Paesi più poveri. In realtà, all’Africa sub sahariana sono andati soltanto 32 miliardi! Infatti, la distribuzione è stata fatta in rapporto al pil dei Paesi. Non è difficile indovinare chi ne ha beneficiato!  

Le politiche attuali potrebbero, forse, posporre le crisi ma non evitarle. Troppa “immondizia” è stata nascosta a lungo sotto il tappeto. Non c’è la bacchetta magica per farla sparire. Ciò che, però, si potrebbe fare per avere una più adeguata gestione del debito è almeno l’introduzione di strumenti atti a contenere e a eliminare le varie forme di speculazione e di “leverage”, di leva finanziaria, che imperversano liberamente sui mercati. 

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

A rischio il mercato dei cambi valutari

A rischio il mercato dei cambi valutari

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il mercato dei cambi valutari, il cosiddetto foreign exchange FX, una parte importante della bolla finanziaria e dei derivati, vive una crescente fibrillazione. Il rischio di una grave crisi è grande. A dirlo è la Banca dei Regolamenti Internazionale di Basilea nel suo recente “Triennual Survey”. Il succitato mercato è caratterizzato da un’eccezionale volatilità, dovuta all’andamento dei tassi d’interesse, all’aumento dei prezzi delle materie prime, all’inflazione e alle tensioni geopolitiche.

Il turnover nei mercati FX è, infatti, in forte rialzo a livello globale. Nell’aprile 2022 il fatturato è stato, in media, pari a 7.500 miliardi di dollari al giorno, un volume 30 volte superiore al pil globale giornaliero. Il 14% in più rispetto al 2019.  Circa il 90% delle operazioni sono fatte con la valuta americana. L’euro – la seconda valuta più scambiata, anche in dollari – ha una quota del 31%, in forte calo rispetto al 39% del 2010.La valuta cinese è passata da meno dell’1% di venti anni fa a oltre il 7% di oggi.

Si osservi che il predominio del dollaro nei mercati valutari globali è dovuto al fatto che solitamente due valute diverse non sono scambiate direttamente ma tramite il dollaro.

Secondo la Bri, a rendere più difficile la gestione è la maggiore frammentazione del trading sui cambi perché si è passati a forme bilaterali di negoziazione elettronica. La Bri parla di uno spostamento da forme “visibili” ad altre più opache. E’ la stessa differenza tra i derivati finanziari gestiti su piattaforme riconosciute e gli otc, over the counter, anch’essi contratti bilaterali e tenuti fuori bilancio.

Una delle principali fonti di vulnerabilità è l’indebitamento in dollari insito nei mercati valutari. A differenza della maggior parte dei derivati, quelli sulle valute comportano lo scambio di capitale e quindi danno luogo a obblighi di pagamento (debiti) pari all’intero importo del contratto.

A metà del 2022 questo indebitamento in dollari ammontava globalmente a 85.000 miliardi. Essendo tenuto fuori bilancio, esso è perciò “mancante” nella contabilità dei bilanci. Se si aggiungono tutte le monete, i debiti arrivano a 97.000 miliardi di dollari, cioè pari al pil globale del 2021 e tre volte il commercio mondiale. Cifre enormi e preoccupanti.

Per i soggetti non bancari fuori degli Usa, per esempio i fondi d’investimento, si stimano 26.000 miliardi di obblighi di pagamento tenuti fuori bilancio, il doppio del loro debito in dollari registrato in bilancio. Nel 2016 erano 17.000 miliardi. Le banche non statunitensi, quindi con un accesso limitato al credito della Federal Reserve, hanno circa 39.000 miliardi di tali obblighi fuori bilancio, rispetto a quelli registrati nei bilanci pari a 15.000.Sono più di 10 volte il loro capitale.

Le operazioni sulle valute, quindi, creano obblighi di pagamento (debiti) in dollari a termine che non compaiono nei bilanci e mancano nelle statistiche sul debito. Gran parte di questo debito è a brevissimo termine. Di conseguenza le esigenze di rollover, cioèil processo di mantenere una posizione aperta oltre la sua scadenza,comportano una grande tensione rispetto alla reale disponibilità di finanziamenti in dollari.

Lontano dagli occhi, afferma la Bri, non dovrebbe tuttavia significare lontano dalla mente. Il fatto che non si vedano non vuol dire che non esistano e che non possano provocare degli sconquassi. Durante la Grande Crisi Finanziaria del 2008 e durante le turbolenze del mercato di marzo 2020, sono stati necessari interventi straordinari della Fed per evitare il peggio. In tempi di crisi, le politiche volte a ripristinare il regolare flusso di dollari a breve termine nel sistema finanziario sono incerte, avvolte nella nebbia.

La Bri afferma che ogni giorno dello scorso aprile, un terzo del fatturato FX, circa 2.200 miliardi di dollari, era a rischio. Un aumento del 16% in tre anni.

Perciò, il rischio che una delle parti coinvolte in una negoziazione di valute non riesca a consegnare la valuta dovuta, può comportare perdite rilevanti per i partecipanti al mercato, a volte con conseguenze sistemiche.

In passato ci sono stati persino casi di fallimento di alcuni attori coinvolti. In definitiva la Bri invita le banche centrali e i governi ad approntare con urgenza regole stringenti. Evidentemente ritiene che le parole e le danze degli sciamani della finanza non bastino.  Ci sembra di stare seduti su un vulcano pronto a esplodere! 

*già sottosegretario all’Economia **economista