Parigi brucia? I tragici errori dell’interventismo Usa e della Francia

La notizia mi è arrivata tramite messaggio whatsapp di una mia amica mentre a Milano ascoltavo un concerto di musica sacra nella chiesa di S. Maria dei Miracoli presso S. Celso: “Parigi, spari ed esplosioni in vari punti della città, almeno 18 morti”. Ho pensato a uno scherzo di pessimo gusto, ma il messaggio conteneva anche un link di Repubblica che parlava di un bilancio tanto catastrofico da parermi impossibile, irreale.
Sono uscito di corsa dalla chiesa e mi sono attaccato al telefono per cercare notizie di miei amici e amiche care con casa a Parigi. Non ho trovato nessuno e ho lasciato messaggi, rimasti senza risposta fino al pomeriggio del giorno dopo. Ho rivissuto così, ma molto ampliata, l’ansia provata lo scorso 26 giugno quando al computer ho letto del massacro di Sousse, in Tunisia: 38 morti e 36 feriti a soli 350 metri da dove abitano miei amici di quando ero adolescente, che per fortuna mi hanno richiamato dopo qualche minuto per tranquillizzarmi sulla loro sorte, non si erano accorti di niente ( http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/terrorismo-italiani-di-tunisia-non-hanno-paura-sono-meglio-di-noi-tasse-solo-3-clima-per-pensionati-2221165/ ).

E m’è tornato il gelo alla schiena del 7 luglio 2005, quando mentre ero in auto per andare in vacanza mi ha raggiunto la telefonata di un mio amico medico che chiedeva con insistenza e voce preoccupata se un mio familiare era tornato in Italia o ancora a Londra. Seppi così dal mio amico che alle 8:50 di mattina c’era stata la strage alla metropolitana di Londra ( https://it.wikipedia.org/wiki/Attentati_del_7_luglio_2005_a_Londra ): tre bombe su altrettanti convogli che massacrarono 56 persone e ne ferirono ben 700. Un ordigno era esploso tra le stazioni di King’s Cross St. Pancras e Russell Square, e il mio familiare usava prendere il metrò a Russel Square. Seduto sui banchi di una scuola di lingua inglese, il mio familiare aveva il telefonino spento. Poté richiamarmi solo nel primo pomeriggio, quando ero ormai in paranoia. Seppi così che non gli era successo niente, ma l’aveva scampata per poco: aveva preso il metrò un quarto d’ora prima di quello fatale.

Tutto ciò premesso, veniamo al venerdì nero di Parigi, concluso con l’agghiacciante bilancio di 129 morti e 352 feriti. Oltre al dolore per la mattanza, c’è lo sbigottimento e l’incredulità per la strana e sensazionale inefficienza dei servizi di informazione e di sicurezza francesi e della Nato, tanto che credo proprio che il capo di Stato Hollande dovrebbe dimettersi e con lui qualche ministro e i vertici dei servizi. Come è possibile che dopo le stragi nella redazione del settimanale Charlie Hebdo a Parigi e nell’ipermercato kosher a Porte de Vincennes, fresche di sangue perché avvenute il 7 gennaio di quest’anno ( http://www.blitzquotidiano.it/cronaca-mondo/terrorismo-assalto-armato-a-parigi-charlie-hebdo-strage-10-morti-2066504/ ), nessuno degli addetti ai lavori abbia avuto notizia del nuovo pericolo? Come è possibile che nessuno si sia accorto di quanto stavano preparando non tre cani sciolti come quelli del 7 gennaio, ma un nutrito gruppo di persone? Persone che hanno potuto scegliere indisturbati i vari obiettivi dove seminare la morte. Come è possibile che la Francia, sapendo bene di essere molto implicata nel crollo del regime libico di Gheddafi, finito anche ammazzato come un cane, e quindi sapendo bene di essere sicuramente nel mirino di gruppi e bande assetate di vendetta, si sia fatta cogliere così impreparata?

I dubbi aumentano, legittimamente, visto che nessuno smentisce le notizie pubblicate dal giornale di Calais La Voix du Nord ( https://www.wsws.org/fr/articles/2015/oct2015/cach-o05.shtml ) riguardo il segreto di Stato opposto ai magistrati di Lille che volevano sapere come mai il terrorista Amedy Coulibaly, autore del massacro di cinque clienti dell’ipermercato, si trovasse in possesso di un mitra Skorpion, un fucile d’assalto vz 58 e due pistole Tokarev. Tutte armi da guerra prodotte in Cecoslovvachia. La Voix du Nord ha scritto che quelle armi, per comprare le quali Coulibaly ha dovuto chiedere un prestito di 6.000 euro ( http://www.lavoixdunord.fr/france-monde/amedy-coulibaly-avait-contracte-un-pret-de-6000-qui-ia0b0n2599793 ) arrivavano da “una rete costituita da forze dello Stato. Rete che le comprava dal mercato delle armi dismesse servendosi di intermediari malavitosi per farle avere in Siria ai ribelli jihadisti. Tradotto in italiano: la strage dell’ipermercato è stata perpetrata con armi procurate dallo Stato francese per supportare i terroristi impegnati in Siria contro Assad, terroristi dal cui bacino si sono materializzati sia i loro compari del 7 gennaio che quelli del 13 novembre.

E dire che Assad nella sua intervista del 5 dicembre 2014 a Paris Match ( http://www.statopotenza.eu/17130/assad-a-paris-match-mai-una-siria-giocattolo-delloccidente ) era stato chiaro:

“…Da 20 anni il terrorismo è stato esportato dalla nostra regione, in particolare dai paesi del Golfo come l’Arabia Saudita [ndr: Bin Laden era una creature dei sauditi, che finanziavano volentieri i suoi talebani] . Ora viene dall’Europa, specialmente dalla Francia. Il più grande contingente di terroristi occidentali in Siria è quello francese. Il terrorismo in Europa non sta dormendo, è sveglio….Siamo spiacenti di non vedere l’Occidente, che credevamo in grado di aiutare con l’apertura e lo sviluppo, prendere la direzione opposta. Peggio, i suoi alleati sono i paesi medievali del Golfo come l’Arabia Saudita…”.

E a proposito di Arabia Saudita, regno dal regime medioevale e con le donne prive del diritto perfino di poter guidare l’auto a piacimento, forse il nostro capo del governo poteva risparmiarsi la recente visita ( Renzi a Ryad: http://www.huffingtonpost.it/2015/11/07/matteo-renzi-viaggio-arabia-saudita_n_8499612.html ): certo, gli affari sono affari, ma in certi casi non è vero che i soldi non puzzano, e comunque per gli affari con i sauditi non c’è bisogno delle visite a Ryad di Renzi.

Riguardo gli errori commessi da Europa e Usa nel servirsi dei fanatici dell’Isis, così come a suo tempo gli Usa si servirono di Bin Laden e dei talebani, e riguardo le responsabilità, ormai ammesse dagli Usa e dall’Inghilterra, dell’avere fatto nascere e crescere l’Isis come a suo tempo Bin Laden e i talebani, e poi anche al Qaeda, per chi vuole approfondire l’argomento pripongo un’utile scelta di articoli e video:

http://www.corriere.it/esteri/15_luglio_26/curdi-pkk-amici-tempo-turchia-stati-uniti-iraq-iran-ambiguita-92115652-336c-11e5-b9cb-8f0de84308fe.shtml
http://www.piovegovernoladro.info/2015/08/16/quella-maledetta-profezia-di-gheddafi/
http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Tony-Blair-chiede-scusa-ea200e11-119a-470a-bb1a-c72ae1c52fa1.html
http://nypost.com/2015/05/27/rand-paul-says-gop-hawks-created-isis/
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/05/30/isis-chi-lo-finanzia-americani-e-alleati-naturalmente/1733028/
http://www.washingtontimes.com/news/2015/jun/9/bruce-fein-rand-paul-is-right-neocons-created-isis/?page=all
http://www.wallstreetitalia.com/john-mccain-un-uomo-pericoloso-il-suo-ruolo-nel-lancio-dell-isis/

http://www.thedailybeast.com/articles/2015/08/31/petraeus-use-al-qaeda-fighters-to-beat-isis.html

http://www.thedailybeast.com/articles/2015/08/31/petraeus-use-al-qaeda-fighters-to-beat-isis.html
http://theantimedia.org/john-mccain-admits-hes-intimate-with-isis/
http://www.pinonicotri.it/2015/01/larabia-saudita-finazia-il-terrorismo-compreso-l11-settembre-delle-twin-towers-di-new-york/

A conti fatti, non si può non essere d’accordo con quanto scritto da Famiglia Cristiana ( http://m.famigliacristiana.it/articolo/francia-almeno-smettiamola-con-le-chiacchiere.htm ):

“FRANCIA: ALMENO SMETTIAMOLA CON LE CHIACCHIERE
Da anni, ormai, si sa che cosa bisogna fare per fermare l’Isis e i suoi complici. Ma non abbiamo fatto nulla, e sono arrivate, oltre alle stragi in Siria e Iraq, anche quelle dell’aereo russo, del mercato di Beirut e di Parigi. La nostra specialità: pontificare sui giornali.
15/11/2015
di Fulvio Scaglione
E’ inevitabile, ma non per questo meno insopportabile, che dopo tragedie come quella di Parigi si sollevi una nuvola di facili sentenze destinate, in genere, a essere smentite dopo pochi giorni, se non ore, e utili soprattutto a confondere le idee ai lettori. E’ la nebbia di cui approfittano i politicanti da quattro soldi, i loro fiancheggiatori nei giornali, gli sciocchi che intasano i social network. Con i corpi dei morti ancora caldi, tutti sanno già tutto: anche se gli stessi inquirenti francesi ancora non si pronunciano, visto che l’ unico dei terroristi finora identificato, Omar Ismail Mostefai, 29 anni, francese, è stato “riconosciuto” dall’ impronta presa da un dito, l’ unica parte del corpo rimasta intatta dopo l’ esplosione della cintura da kamikaze che indossava.
Ancor meno sopportabile è il balbettamento ideologico sui colpevoli, i provvedimenti da prendere, il dovere di reagire. Non a caso risuscitano in queste ore le pagliacciate ideologiche della Fallaci, grande sostenitrice (come tutti quelli che ora la recuperano) delle guerre di George W. Bush, ormai riconosciute anche dagli americani per quello che in realtà furono: un cumulo di menzogne e di inefficienze che servì da innesco a molti degli attuali orrori del Medio Oriente.
Mentre gli intellettuali balbettano sui giornali e in Tv, la realtà fa il suo corso. Dell’ Isis e delle sue efferatezze sappiamo tutto da anni, non c’ è nulla da scoprire. E’ un movimento terroristico che ha sfruttato le repressioni del dittatore siriano Bashar al Assad per presentarsi sulla scena: armato, finanziato e organizzato dalle monarchie del Golfo (prima fra tutte l’ Arabia Saudita) con la compiacenza degli Stati Uniti e la colpevole indifferenza dell’ Europa.
Quando l’ Isis si è allargato troppo, i suoi mallevadori l’ hanno richiamato all’ ordine e hanno organizzato la coalizione americo-saudita che, con i bombardamenti, gli ha messo dei paletti: non più in là di tanto in Iraq, mano libera in Siria per far cadere Assad. Il tutto mentre da ogni parte, in Medio Oriente, si levava la richiesta di combatterlo seriamente, di eliminarlo, anche mandando truppe sul terreno. Innumerevoli in questo senso gli appelli dei vescovi e dei patriarchi cristiani, ormai chiamati a confrontarsi con la possibile estinzione delle loro comunità.
Abbiamo fatto qualcosa di tutto questo? No. La Nato, ovvero l’ alleanza militare che rappresenta l’ Occidente, si è mossa? Sì, ma al contrario. Ha assistito senza fiatare alle complicità con l’ Isis della Turchia di Erdogan, ma si è indignata quando la Russia è intervenuta a bombardare i ribelli islamisti di Al Nusra e delle altre formazioni.
Nel frattempo l’ Isis, grazie a Putin finalmente in difficoltà sul terreno, ha esportato il suo terrore. Ha abbattuto sul Sinai un aereo di turisti russi (224 morti, molti più di quelli di Parigi) ma a noi (che adesso diciamo che quelli di Parigi sono attacchi “conto l’ umanità”) è importato poco. Ha rivendicato una strage in un mercato di Beirut, in Libano, e ce n’ è importato ancor meno. E poi si è rivolto contro la Francia.
Abbiamo fatto qualcosa? No. Abbiamo provato a tagliare qualche canale tra l’ Isis e i suoi padrini? No. Abbiamo provato a svuotare il Medio Oriente di un po’ di armi? No, al contrario l’ abbiamo riempito, con l’ Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti ai primi posti nell’ importazione di armi, vendute (a loro e ad altri) dai cinque Paei che siedono nel Consiglio di Sicurezza (sicurezza?) dell’ Onu: Usa, Francia, Gran Bretagna, Cina e Russia.
Solo l’ altro giorno, il nostro premier Renzi (che come tutti ora parla di attacco all’ umanità) era in Arabia Saudita a celebrare gli appalti raccolti presso il regime islamico più integralista, più legato all’ Isis e più dedito al sostegno di tutte le forme di estremismo islamico del mondo. E nessuno, degli odierni balbettatori, ha speso una parola per ricordare (a Renzi come a tutti gli altri) che il denaro, a dispetto dei proverbi, qualche volta puzza.
Perché la verità è questa: se vogliamo eliminare l’ Isis, sappiamo benissimo quello che bisogna fare e a chi bisogna rivolgersi. Facciamoci piuttosto la domanda: vogliamo davvero eliminare l’ Isis? E’ la nostra priorità? Poi guardiamoci intorno e diamoci una risposta. Ma che sia sincera, per favore. Di chiacchiere e bugie non se ne può più”.

LE AUTORITA’ MONETARIE DEGLI USA E DELL’EUROPA CORRONO IN DIREZIONI OPPOSTE: SPERIAMO DI NON ROMPERCI LE OSSA…

Fed e Bce corrono in direzioni opposte

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Prepariamoci a salire ancora sull’ottovolante finanziario e speculativo! Non vogliamo essere troppo pessimisti ma pensiamo che ciò possa accadere. Infatti la Federal Reserve americana ha appena annunciato che considera la possibilità di aumentare il tasso di interesse a dicembre. La Bce di Mario Draghi ha invece rilanciato in grande la politica del Quantitative easing: ha ribadito che “ intende acquistare titoli pubblici e privati fino a settembre 2016 e oltre, se necessario”. In ogni caso fino a che il tasso di inflazione annuo non si assesti intorno al 2%.

Draghi ha aggiunto che, “alla luce dei nuovi rischi emersi in relazione ai recenti sviluppi nei mercati globali e in quelli finanziari e delle commodity”, si è pronti ad aggiustare la dimensione, la composizione e la durata del programma del Qe.

Altro che “coordinamento stellare” tra le due massime banche centrali del pianeta! Esse si stanno movendo in direzioni diametralmente opposte, con il rischio di scontrarsi quando il circuito inevitabilmente li metterà di fronte. Una vuole iniziare una politica monetaria restrittiva mentre l’altra vuole proseguire con l’espansione della liquidità.

Troppo spesso e troppo astrattamente si parla di globalizzazione finanziaria, ma quando la Fed decide le sue più importanti politiche monetarie lo fa nel suo interesse nazionale e del sistema del dollaro. La Bce ha imparato ad imitarla. Non si considera affatto se ciò possa avere un effetto destabilizzante nell’intero sistema economico-finanziario globale, in particolare nelle economie emergenti. Ciò è già accaduto. Prima o poi il conto si presenterà anche in casa americana ed europea.

Finora la grande disponibilità di liquidità in dollari a basso costo ha generato il cosiddetto “carry trade”, cioè il prendere a man bassa prestiti in dollari per poi usarli, anche per speculazioni, ovunque nel mondo.

Escludendo il settore bancario, a marzo 2015 il debito in dollari fuori dagli Stati Uniti, soprattutto quello delle imprese, ha raggiunto i 9,6 trilioni di dollari, di cui un terzo nei Paesi emergenti. Dal 2009 vi è stato un aumento del 50%.

Il debito delle economie emergenti in valuta estera è quindi aumentato di molto. Tanta liquidità globale ha generato la crescita dei bond e di altri titoli di debito tanto da creare instabilità.

Negli ultimi mesi, a seguito delle svalutazioni delle monete locali, molti Paesi hanno risposto attingendo alle proprie riserve e vendendo le obbligazioni di stato denominate in dollari. La Banca dei Regolamenti Internazionali stima che il loro ammontare potrebbe superare quello dei titoli acquistati dalla Bce. Ciò ovviamente può determinare una competizione sul mercato globale delle obbligazioni in dollari e in euro con effetti non secondari anche sui cambi, neutralizzando l’ipotizzato effetto positivo del Qe europeo.

Ciò dato non sorprende che anche l’Economist sottolinei che l’”offshore dollar system” si sia allargato senza freni. Esso ricorda che immediatamente dopo la crisi del 2008 la Fed intervenne con 1.000 miliardi di dollari a sostegno di banche private e di banche centrali estere. Oggi in caso di una nuova crisi finanziaria l’intervento richiesto alla Fed potrebbe essere di dimensioni molto maggiori rispetto al passato. Si calcola che entro il 2020 la quantità di dollari fuori dai confini degli Usa potrebbe superare tutti gli attivi dell’intero settore bancario americano.

Anche la rivista Forbes scrive che se una grossa banca, come la Goldman Sachs o la Morgan Stanley, dovesse affrontare una crisi simile a quella della Glencore, la multinazionale delle materie prime i cui titoli sono crollati dell’85% dal loro debutto in borsa del 2011, ci sarebbero sufficienti ragioni per temere una Lehman Brothers 2.0. Questo perché le “too big to fail” hanno operazioni in derivati otc che, come noto, variano tra i 600 e i 700 trilioni di dollari. Quello di Forbes non è un avviso velato in quanto le banche menzionate sono grandemente coinvolte nei derivati speculativi sulle commodity.

La mancanza di regole e la mancanza di un effettivo raccordo tra i maggiori attori internazionali dell’economia e della politica mantengono il mondo sotto la minaccia di nuove crisi e di nuove instabilità, non meno preoccupanti di quelle determinate dagli attuali conflitti regionali.

Di ciò purtroppo si parla poco ignorando che spesso alla radice delle varie tensioni territoriali e dei fenomeni migratori vi sono anche regioni economiche e culturali.

*già sottosegretario all’Economia ** economista

“In Israele il terrorismo ha vinto già 20 anni fa” (in realtà da 65)

L’israeliano Etgar Keret autore per il Corriere della Sera del seguente  articolo riconosce che con l’uccisione venti anni fa del primo ministro Yitzahk Rabin, colpevole agli occhi di settori del rabbinato, delle forze armate e dei servizi segreti di volere la pace con i palestinesi, in Israele ha vinto il terrorismo. Che infattti è riuscito a bloccare la via della pace facendo imboccare la Israele la via disastrosa e sanguinosa della guerra permanente e della dittatura militare sui territori palestinesi, che, non dimentichiamolo, sono governati dall’arbitrio di ufficili militari.

In realtà però in Israele il terrorismo ha vinto sin dalla sua nascita, anzi fin dalla sua gestazione. Nel ’48 infatti è proseguita la “pulizia etnica” iniziata già l’anno prima contro i palestinesi, cacciati in massa con le armi – almeno 700 mila esseri umani – dalle loro case e dalle loro terre (cosa di cui non si parla mai, sono stati derubati in massa anche dei loro risparmi depositati in banca e dei gioielli delle loro donne) perché colpevoli di trovarsi nella parte della Palestina assegnata dall’Onu in maggior parte alla minoranza ebraica. Tale violenta pulizia etnica è stata condotta con l’esecuzione dell’ormai famoso Piano D, studiato fin nei minimi particolari già da anni e tradotto in realtà da bande militari e paramilitari con la bandiera della stella di Davide.

L’esistenza del Piano D è stata rivelata decenni dopo dai “nuovi storici” israeliani come Ben Morris e Ilan Pappè, che servendosi degli stessi archivi militari finalmente resi almeno in parte accessibili hanno scoperto e reso pubblico che la nascita di Israele, alla pari di quella di molti Stati specie nelle Americhe, è stata realizzata “con la violenza, la menzogna e il sangue”. Ovviamente a spese dei più deboli.

E sempre nel ’48, per l’esattezza il 17 settembre, venne ucciso a Gerusalemme dai terroristi israeliani della banda Stern l’inviato dell’Onu conte Volke Bernadotte, colpevole di voler rendere operante la soluzione dell’Onu che prevedeva la nascita anche dello Stato palestinese. E non dimentichiamo che i successivi uomini di governo  israeliano provenivano, compreso lo stesso Rabin, dalle fila della banda Stern e delle altre organizzazioni che nel ’47 avevano cacciato brutalmente i palestinesi tramite l’esecuzione del Piano D.

Tutto ciò premesso, ecco l’articolo di Etgar Keret:

“Quella dell’assassinio di Rabin non è una storia nuova. È una storia che noi israeliani ci raccontiamo da venti anni. Alcuni dettagli sono scomparsi col passar del tempo ma il pathos si è intensificato e alla fine siamo rimasti con la seguente versione: vent’anni fa qui regnava un re coraggioso e benvoluto, pronto a fare qualsiasi cosa per il bene del suo popolo. Un giorno, dopo aver radunato il popolo nella piazza principale della città e aver cantato insieme un inno alla pace, l’amato sovrano fu assassinato da uno dei suoi sudditi che, con tre colpi di pistola, non solo uccise lui ma anche la speranza della pace. Al posto di quel monarca ne arrivò un altro, grande nemico del precedente, che sostituì la speranza con il sospetto e con una guerra senza fine.

Ogni anno raccontiamo a noi stessi questa storia triste e piena di autocommiserazione in cui c’è tutto ciò che serve: un eroe, un malvagio, un crimine imperdonabile e una brutta fine. Manca però una cosa, un personaggio chiave che è stato cancellato dalla trama senza che quasi ce ne accorgessimo: il popolo di Israele.
Infatti, per quanto sia triste ammetterlo, Benjamin Netanyahu non ha strappato la corona a Rabin dopo la sua morte autoproclamandosi re. Netanyahu è stato eletto dopo la morte di Rabin nel corso di elezioni democratiche. Lo stesso popolo che ha pianto la morte dell’amato sovrano ha scelto Netanyahu subito e senza esitazione, accantonando completamente l’idea della pace, rieleggendolo più volte e optando per la sua linea politica. Così, a distanza di tempo, l’assassinio di Yitzhak Rabin si è rivelato uno degli omicidi politici più riusciti dell’era moderna che deve il suo successo non solo alla mano ferma del killer ma anche al popolo di Israele, il quale ha aiutato l’assassino a promuovere la sua visione ideologica.

La storia è piena di assassinii politici che hanno ottenuto l’effetto opposto di quello auspicato dai loro esecutori. L’assassinio di Martin Luther King promosse il processo di uguaglianza dei neri e quello di Lincoln non ripristinò la schiavitù negli Usa. Quello di Rabin, invece, ha realizzato il progetto dell’assassino, Yigal Amir, e fermato il processo di pace. Ma Amir non sarebbe riuscito nella missione senza l’elezione di Netanyahu da parte di noi cittadini d’Israele. Quel Netanyahu che pochi mesi prima aveva incitato le piazze a opporsi a Rabin e al processo di pace. Così, nella vera storia, a differenza di quella che noi amiamo raccontarci, il popolo di Israele non è solo vittima ma anche partner del crimine. E in questa tragedia, come in ogni tragedia, il castigo non è tardato a venire.

Vent’anni dopo l’assassinio di Rabin siamo nel pieno di una nuova ondata di terrorismo. La prima Intifada, iniziata più di venti anni fa con lanci di sassi e accoltellamenti durante gli accordi di Oslo, si fece via via più ingegnosa. Terroristi suicidi cominciarono a farsi saltare in aria con cinture esplosive e infine si passò a una grandine di missili. Ora siamo al punto di partenza, ai brutali accoltellamenti e ai lanci di pietre. Sembra che più si vada avanti, più le cose rimangano le stesse. O forse, sarebbe giusto dire, «quasi le stesse». In questa seconda ondata di accoltellamenti, infatti, le atrocità sono le stesse ma qualcosa per noi, cittadini di Israele, è cambiato. E il cambiamento si è avvertito soprattutto in occasione del linciaggio di Haftom Zarhum, un rifugiato eritreo scambiato per un terrorista avvenuto a Be’er Sheva una settimana fa. Nonostante non avesse compiuto alcun gesto minaccioso né avesse armi da fuoco con sé, Zarhum è stato colpito con sei proiettili e quando già giaceva a terra sanguinante è stato picchiato da alcuni presenti, preso a calci e colpito in testa con una pesante panchina. Uno degli aggressori, arrestato dopo il fatto, ha detto: «Se fosse stato un terrorista tutti mi avrebbero ringraziato». Certo non sarebbe stato condannato dai ministri membri del governo che hanno chiesto di rendere più flessibili le norme che regolano l’uso delle armi da fuoco. E non sarebbe stato condannato nemmeno da uno dei leader dell’opposizione, Yair Lapid, secondo cui troppi terroristi palestinesi vengono catturati vivi. Il tono dominante nei corridoi della Knesset durante l’attuale ondata di terrore è chiaro: dimenticate le regole e il rispetto della legge, chiunque brandisce un coltello, merita la morte.

L’assassinio di Rabin, vent’anni fa, ha segnato un punto di svolta. Che, contrariamente a quanto la maggior parte di noi ama pensare, non è quello in cui abbiamo smesso di prendere l’iniziativa e siamo diventati vittime. Quel riuscito omicidio a sfondo ideologico non ha influito sul grado di controllo che abbiamo sulle nostre vite ma solo sul sistema di valori in base al quale alcuni di noi scelgono di agire. Di recente, a una figura di spicco dei coloni, Daniella Weiss, è stata fatta una domanda a proposito delle minacce di morte ricevute dal presidente di Israele Reuven Rivlin da parte di elementi dell’estrema destra. «Nessuno ucciderà Rivlin», ha risposto lei sprezzante, «non è abbastanza importante». E con questa affermazione ha rivelato una dolorosa verità: in Israele, dopo l’era Rabin, un omicidio politico viene visto non solo come un trauma nazionale ma anche come uno strumento pragmatico, efficace e sempre presente in sottofondo, capace di ribaltare la situazione.

E così, nel ventesimo anniversario dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin gli israeliani moderati continuano a sperare in due cose: in un nuovo e coraggioso leader che riesca a riempire il grande vuoto lasciato da Rabin e, nel caso si trovi un simile leader, che non venga ucciso pure lui”.

Le Borse sono ostaggio dei computer speculatori mentre la Cina impone nuove sfide all’Europa

LE BORSE OSTAGGIO DI COMPUTER-SPECULATORI

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Si stima che le operazioni “high frequency trading”, le transazioni ad alta frequenza, rappresentino il 70% di tutte le transazioni borsistiche negli Usa e circa il 40% di quelle effettuate in Europa. In Italia la Consob nel 2012 le quantificava intorno al 14% di tutte le contrattazioni. Tali operazioni avvengono tramite sofisticatissimi software ultra veloci, guidati da complicati algoritmi matematici, e con l’intento di lucrare su piccolissime variazioni di valore.

Gli speculatori operano sui mercati di azioni, obbligazioni, strumenti derivati e commodities generando enormi quantità di transazioni giornaliere e utilizzano la strategia HFT per trasformare anche margini minimi in forti guadagni.

Il metodo più frequente è quello di utilizzare supercomputer che operano in micro secondi piazzando i propri ordini in anticipo rispetto alle grosse transazioni con un evidente e notevole vantaggio sui grandi investitori istituzionali come i fondi comuni, i fondi pensione o le stesse banche. Ciò permette di conoscere e anticipare la direzione della domanda, dell’offerta e dei prezzi. Sarebbe una sorta di “insider trading automatico”, contrattazioni fatte sfruttando sistemi accessibili solo ad operatori privilegiati.

E’ ciò che accadeva lo scorso venerdì 2 ottobre. Alle 14.30 l’euro si cambiava a 1,115 verso il dollaro, mezz’ora dopo arrivava a 1,27. L’oro, da 1.109 dollari l’oncia, un’ora dopo saliva a 1.140. In meno di un’ora quindi i mercati erano stati colpiti da scosse improvvise e da modificazioni profonde.

Era successo che il governo americano aveva semplicemente dichiarato che l’aumento dell’occupazione nel mese di settembre era stato inferiore alle aspettative. Tale annuncio ha fatto temere che l’aumento del costo del denaro da parte della Fed, di cui si stava parlando, sarebbe potuto slittare. Teoricamente, quindi, il dollaro si sarebbe indebolito nei confronti dell’euro e la domanda di oro sarebbe cresciuta.

Qualche secondo prima dell’annuncio governativo relativo al dato occupazionale si erano messi in moto i grandi operatori finanziari, tra cui la Goldman Sachs e la Morgan Stanley, che intervengono sui mercati con le suddette operazioni HFT.

Operazioni HFT sono fatte ogni minuto, ma si mettono in azione in modo più sistematico e potenzialmente devastante ogni qualvolta si presenti una decisione o una valutazione con importanti conseguenze di politica economica.

Ci sono anche transazioni HFT molto complicate, spesso nemmeno controllate dagli stessi speculatori. Come avvenne il 6 maggio 2010 quando i programmi HFT impazzirono e i computer, in automatico, provocarono in pochi minuti il tracollo di 700 punti dell’indice Dow Jones.

Quel giorno il mondo venne a conoscenza che i mercati finanziari e monetari non erano più quelli delle contrattazioni “alle grida” visti centinaia di volte nei film di Hollywood ma erano passati sotto il controllo del “grande fratello” informatico, quello dei super computer programmati ad operare in automatico.

Ovviamente anche in questo campo mancano le regole, nonostante in molti Paesi vengano applicate sanzioni e multe e vengano fatte indagini per insider trading o per manipolazione dei prezzi.

Non mancano i fautori del nuovo corso. Essi sostengono che la stragrande maggioranza delle transazioni sono perfettamente legittime, difendono l’HFT come un fattore di efficienza dei mercati, che li rende più liquidi abbassando i costi del singolo investimento. Si afferma che gli operatori del mercato sono i primi interessati alla regolarità e all’autodisciplina. Anche Alan Greenspan, l’ex governatore della Fed, lo diceva a proposito dei banchieri fino al 2007.

Secondo noi non si possono lasciare i mercati finanziari ancora una volta in ostaggio di speculatori e di computer con il “pilota automatico”. E’ anche comprensibile che le economie sottoposte alla spada di Damocle di una finanza senza regole non garantiscono il futuro di sicurezza e di sviluppo cui legittimamente tutti aspiriamo.

LA CINA E LE NUOVE SFIDE ECONOMICHE ER L’EUROPA

L’11 dicembre 2016 tutti i Paesi membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) dovrebbero ufficialmente garantire alla Cina il cosiddetto “market economy status” (MES). Dovrebbero cioè riconoscerle di essere diventata a tutti gli effetti una economia di mercato. E’ la stessa “qualifica” che hanno gli Usa e i Paesi dell’Unione Europea. In verità dovrebbe essere un riconoscimento automatico per ogni Paese aderente all’OMC.

Fino a quella data la Cina è considerata una “non market economy” . Di conseguenza i Paesi importatori di semilavorati o di prodotti industriali cinesi possono imporre dei dazi e delle tariffe protettive contro eventuali azioni di dumping. Di fatto, per abbattere i prezzi di vendita e vincere la concorrenza, la Cina ha spesso sfruttato una serie di condizioni speciali, quali il basso costo del lavoro, la mancanza di controlli stringenti sulla qualità, varie forme di sussidi di stato e altre importanti agevolazioni statali. Ciò ha determinato la chiusura di numerose aziende europee, alcune anche italiane, in quanto non più in grado di competere con i prezzi “super cheap” della Cina.

Perciò attualmente in Europa è in corso un grande dibattito sulla convenienza del riconoscimento MES alla Cina. Al riguardo vi sono anche posizioni estreme. Però nel frattempo si susseguono ricerche e analisi per valutarne le conseguenze sull’occupazione e sull’industria europea.

In uno studio preparato dall’Economic Policy Institute di Washington si fanno delle proiezioni, in verità un po’ troppo semplici e lineari, basate sulla ipotesi di un aumento di importazioni europee dalla Cina del 25% e del 50%. Se tali percentuali astratte diventassero realtà, si stima che nel giro di 3-5 anni l’Unione europea potrebbe perdere tra 1,7 e 3,5 milioni di posti di lavoro e veder diminuire la sua produzione annuale tra 114 e 228 miliardi di euro, rispettivamente pari all’1 e al 2% del Pil dell’Ue. In ordine, i Paesi più colpiti sarebbero Germania, Italia, Gran Bretagna e Francia.

Come è noto, il commercio tra l’Unione Europea e la Cina è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi 15 anni. Le importazioni europee sono aumentate di 5 volte passando da 74,6 a 359,6 miliardi di euro. Anche le esportazioni verso la Cina sono cresciute ad un tasso molto significativo. Ciò nondimeno a fine 2015 il deficit commerciale europeo con la Cina dovrebbe essere di 182,8 miliardi di euro.

E’ interessante notare che la pressione più forte sull’Europa a non concedere il MES alla Cina venga dagli USA. Da chi, per anni, ha agevolato grandi importazioni e permesso stratosferici deficit commerciali in cambio di acquisti di grandi quote di debito pubblico americano da parte della Cina.

Il Wall Street Journal ammonisce l’Europa: rischiate di restare senza protezioni. Si rammenti che, quando si garantisce il MES ad una economia, le autorità anti dumping degli altri Paesi possono iniziare delle indagini soltanto partendo dal presupposto che i prezzi e i costi di quella economia sono determinati dal mercato e non in altro modo.

Noi crediamo che l’Europa possa e debba affrontare questa sfida senza doversi chiudere a riccio. Del resto rifiutare il MES alla Cina equivarrebbe a far ritornare indietro le lancette della storia. In verità è da tempo che occorre una grande riforma dell’OMC piuttosto che il suo blocco. Temiamo che, oltre alla guerra monetaria in corso, vi sia anche chi auspica una anacronistica guerra commerciale.

Né si può ignorare che la Cina sta entrando in una fase di grandi cambiamenti interni relativi al lavoro, ai diritti civili, alla qualità della vita, all’ambiente, al crescente ruolo del settore privato e alla trasformazione del ruolo dello Stato. Sono evoluzioni inevitabili che abbiamo vissuto anche noi in Europa nei decenni passati. Ovviamente tutto ciò porterà a dei profondi mutamenti, oltre che nella società, anche sui suoi costi economici e sugli standard produttivi.

L’Europa poi non è lasciata senza una rete di protezione. Diventare un Paese MES vuol dire anche sottoporsi progressivamente agli stessi parametri di garanzia e di sicurezza usati in Europa. Si rammenti che il mercato europeo è accessibile soltanto a chi risponde agli standard europei richiesti per legge. Standard che devono essere rispettati sia da produttori europei che da quelli stranieri.

In questa prospettiva l’Europa potrà meglio definire il proprio protagonismo nella realizzazione, insieme ai cinesi e non solo, delle grandi opere infrastrutturali nel continente euroasiatico, a partire dalla Nuova Via della Seta di cui si parla.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

Guerra all’Isis. La Russia fa sul serio

Guerra all’Isis. La Russia fa sul serio

di Davide Insaidi

Ufficialmente è un anno che gli USA sono in guerra contro l’Isis. Con risultati trascurabili, per non dire nulli.
Tra l’altro, un paese che è stato capace di scoprire l’acqua su Marte e che dispone di un controllo satellitare potentissimo e estremamente dettagliato, non è stato tuttavia in grado di accorgersi delle colonne di Toyota dei miliziani dell’Isis che avanzavano nel deserto (nel deserto!) verso Palmira o verso altri siti.
Ci doveva pensare la Russia.

Chiamata dal Presidente Assad (eletto dal suo popolo con l’88% dei voti), l’aviazione russa nel giro di tre settimane ha distrutto decine e decine di centrali operative, di campi di addestramento, di depositi di armi e munizioni e di roccaforti dello “Stato Islamico” e di Al Nusra (ossia Al Qaeda, gli stessi presunti attentatori delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, e che, non si sa bene per quale motivo, adesso gli USA li considerano l’opposizione “moderata” ad Assad e da sostenere).
L’esercito siriano, grazie a questi interventi, sta riprendendo a poco a poco il controllo di vaste aree nelle province di Hama, Latakia, Idlib, Homs, Aleppo e nella stessa Damasco.
I miliziani tagliagole dell’Isis sono in ritirata un po’ dappertutto nel territorio siriano. Numerosi di loro sono fuggiti soprattutto in Turchia (guarda caso…) e si moltiplicano i casi di diserzione.
Un simile successo in meno di un mese crea un fortissimo imbarazzo agli Stati Uniti e agli altri paesi occidentali, Francia in primis.
Anzi, più che imbarazzo: sta smascherando –di fatto- il doppio gioco di paesi, i quali da una parte si vantano tanto di combattere il terrorismo e dall’altra parte il minimo che si possa dire è che lo lasciano agire indisturbato.
L’obbiettivo dell’Occidente, infatti, è l’abbattimento del cosiddetto “regime di Assad”, colpevole di non piegarsi ai diktat degli USA.
Naturalmente la reazione dei paesi della NATO non s’è fatta attendere: a livello mass-mediatico all’inizio s’è subito detto –senza dimostrarlo- che i bombardamenti dei russi avrebbero colpito la popolazione civile, e in seguito è caduto il silenzio-stampa e della Siria e dell’Isis non se ne parla più.

Ma l’intervento di Putin ha una valenza che va ben al di là della Siria e della sconfitta dell’Isis (e di Al Nusra): diversi paesi del Medio Oriente –fra cui Iraq ed Egitto- ora incominciano a sentirsi più protetti da parte della Russia, a scapito degli americani, e stanno sempre più rafforzando i loro legami con Mosca.

In pratica, gli equilibri geo-politici nel Medio Oriente stanno mutando a favore della Russia e a sfavore degli Stati Uniti.
E’ definitivamente tramontato il periodo –seguito alla fine dell’Unione Sovietica- in cui gli USA erano rimasti l’unica superpotenza mondiale e potevano fare il bello ed il cattivo tempo un po’ ovunque.
Questo fatto, in sé, è positivo.

Il problema è che potrebbe portare anche a conseguenze tutt’altro che positive: Washington, infatti, non si lascerà soffiare via il suo primato politico-militare così facilmente e quindi corriamo il serio rischio che gli USA scatenino una guerra di portata e di intensità maggiore di quelle degli ultimi anni.
E l’Italia, che fa parte della NATO e che ha tuttora i suoi militari in Afghanistan, potrebbe benissimo esserne coinvolta. Anche perché tra l’altro nel nostro territorio esistono qualcosa come 90 ordigni nucleari USA.
Mai come ora ci sarebbe urgente bisogno di un forte movimento pacifista nel nostro paese, che porti in piazza milioni di persone.

Ma gli italiani sono troppo impegnati a controllare gli scontrini di Marino…

RAZZISMO E SUPREMATISMO DA INCUBO DI TROPPI ISRAELIANI

DOV WEISSGLASS, portavoce di Ariel Sharon, Ha’aretz, 6 ottobre 2004:
“Il significato del piano di disimpegno [da Gaza] consiste nel congelamento del piano di pace. E congelando tale processo si impedisce la formazione di uno Stato palestinese e si impedisce la discussione sui rifugiati, sulle frontiere e su Gerusalemme. Di fatto, l’intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutte le sue implicazioni, viene rimosso dall’agenda ufficiale a tempo indeterminato. Il tutto con la benedizione presidenziale (USA) e con la ratifica delle due Camere del Congresso”.
—————
Oltre che, bisogna aggiungere, con la benevola complicità della sempre più ipocrita e serva Europa, la famosa civilissima Europa “dalla civiltà superiore”
RUTH GABISON, professoressa all’Università Ebraica di Gerusalemme, ex dirigente dell’Associazione per i Diritti Civili e candidata alla Corte Suprema, ad Ha’aretz il 1°dicembre di non ricordo quale anno:
“Israele ha il diritto di controllare la crescita naturale [cioè demografica] dei palestinesi”.
Letteralmente: “Le-Israel yesh zkhut le-fakeah al ha-gidul ha-tivi shel ha-‘Aravim”
Se questo non è colonialismo, razzismo, suprematismo, fetore di nazismo….

E non vorrei ci si dimenticasse di ARNON SOFFER, professore all’Università di Haifa, al The Jerusalem Post del 10 maggio 2004:
“Perciò, se vogliamo restare vivi, dobbiamo uccidere, uccidere e uccidere. Tutto il giorno, ogni giorno [….]. Se non uccidiamo, cessiamo di esistere [….] La separazione unilaterale non garantisce la “pace”, garantisce uno stato sionista-ebraico con una schiacciante maggioranza di ebrei”.

“SÌ, È LA TERZA INTIFADA E VI SPIEGO”.

di Ramzy Baroud – 13 ottobre 2015

Quando fu pubblicato il mio libro “Searching Jenin” [In cerca di Jenin] dopo il massacro israeliano nel campo profughi di Jenin nel 2002 fui interrogato ripetutamente dai media e da molti lettori per aver usato il termine ‘massacro’ per quella che Israele presentava come una legittima battaglia contro ‘terroristi’ con base nel campo.

Le domande erano mirate a trasferire il racconto da una discussione riguardante possibili crimini di guerra a una disputa tecnica sull’applicazione del linguaggio. Per loro la prova delle violazioni israeliane dei diritti umani contava poco.

Questo genere di riduzionismo è spesso servito da preludio a qualsiasi discussione riguardante il cosiddetto conflitto arabo-israeliano: gli eventi sono presentati e definiti utilizzando terminologia polarizzante che presta scarsa attenzione a fatti e contesti e si concentra principalmente su percezioni e interpretazioni.

Dunque a queste stesse persone dovrebbe importare poco se o no giovani palestinesi come Isra’ Abed, 28 anni, abbattuto con numerosi colpi d’arma da fuoco il 9 ottobre ad Affula e Fadi Samir, 19 anni, ucciso dalla polizia israeliana qualche giorno prima erano, in realtà, palestinesi che brandivano coltelli in una condizione di autodifesa e sono stati abbattuti dalla polizia. Persino quando emergono prove video che contestano la versione ufficiale israeliana e rivelano, come nella maggior parte degli altri casi, che i giovani uccisi non rappresentavano alcuna minaccia, la versione israeliana sarà sempre accettata come un fatto da alcuni. Isra’, Fadi e tutti gli altri sono ‘terroristi’ che hanno messo a rischio la sicurezza di cittadini israeliani e, ahimè, in conseguenza hanno dovuto essere eliminati.

La stessa logica è stata usata per tutto lo scorso secolo, quando le attuali cosiddette Forze di Difesa Israeliane operavano ancora come milizie armate e bande organizzate in Palestina, prima che questa fosse ripulita etnicamente per diventare Israele. Da allora questa logica è stata applicata in ogni contesto possibile in cui Israele si è trovato, a quanto affermato, costretto a usare la forza contro ‘terroristi’, potenziali ‘terroristi’ palestinesi e arabi e la loro ‘infrastruttura terroristica’.

Non è affatto questione di che genere di armi i palestinesi usino, se mai le usano. La violenza di Israele riguarda la percezione israeliana della realtà cucita a propria misura: che Israele è un paese assediato la cui stessa esistenza è sotto costante minaccia da parte dei palestinesi, che essi resistano usando armi o siano bambini che giocano sulla spiaggia di Gaza. Non c’è mai stata una deviazione dalla norma nella storiografia del discorso ufficiale israeliano che spiega, giustifica o celebra la morte di decine di migliaia di palestinesi nel corso di anni: gli israeliani non hanno mai colpe e non è mai richiesto alcun contesto di ‘violenza’ palestinese.

Gran parte del dibattito attuale a proposito delle proteste a Gerusalemme, nella West Bank e di recente al confine di Gaza è centrata sulle priorità israeliane, non sui diritti dei palestinesi, che sono chiaramente pregiudicati. Una volta di più Israele parla di ‘disordini’ e di ‘attacchi’ partiti dai ‘territori’, come se la priorità sia garantire la sicurezza degli occupanti armati; che si tratti di soldati o di coloni estremisti.

Razionalmente ne segue che lo stato opposto ai ‘disordini’, quello della ‘pace’ e della ‘quiete’, si ha quando milioni di palestinesi accettano di essere sottomessi, umiliati, occupati, assediati e regolarmente uccisi, linciati da folle di ebrei israeliani o bruciati vivi, abbracciando il loro miserabile destino e tirando avanti come se nulla fosse.

È ottenuto così il ritorno alla ‘normalità’; ovviamente all’elevato prezzo di sangue e violenza, di cui Israele ha il monopolio, mentre le sue azioni sono raramente messe in discussione. I palestinesi possono allora assumere il ruolo di perpetua vittima e i loro padroni israeliani possono continuare a presidiare posti di controllo miliari, a rubare terreni e a costruire altri insediamenti illegali in violazione della legge internazionale.

La questione oggi non dovrebbe riguardare gli interrogativi fondamentali su se i palestinesi uccisi brandissero coltelli o no, o rappresentassero effettivamente una minaccia per la sicurezza dei soldati e di coloni armati. Dovrebbe piuttosto essere incentrata principalmente sullo stesso atto violento dell’occupazione militare e degli insediamenti illegali in terra palestinese, tanto per cominciare.

Da questa prospettiva, allora, brandire un coltello è, di fatto, un atto di autodifesa; discutere della sproporzione o meno della reazione israeliana alla ‘violenza’ palestinese è del tutto accademico.

Confinarsi a definizioni tecniche significa disumanizzare l’esperienza collettiva palestinese.

“Quanti palestinesi dovranno essere uccisi perché sia il caso di usare il termine ‘massacro’”? è stata la mia risposta a chi ha contestato il mio uso del termine. Analogamente, quando dovranno essere uccisi, quante proteste dovranno essere mobilitate e quanto ci vorrà prima che le attuali ‘agitazioni’, ‘rivolte’ o ‘scontri’ tra dimostranti palestinesi ed esercito israeliano diventino una ‘Intifada’?

E perché addirittura dovrebbe essere chiamata una ‘Terza Intifada’?

Mazin Qumsiyeh descrive ciò che sta accadendo in Palestina come la ‘Quattordicesima Intifada’. Dovrebbe saperlo, visto che è stato l’autore dell’eccezionale libro ‘Resistenza popolare in Palestina: una storia di speranza ed emancipazione’. Tuttavia io mi spingerei anche oltre e suggerirei che ci siano state molte più Intifade, se si usano definizioni che siano relative all’espressione popolare degli stessi palestinesi. Le Intifade – scuotersi di dosso – diventano tali quando comunità palestinesi si mobilitano in tutta la Palestina, unificandosi al di là di programmi settari o politici e attuano una sostenuta campagna di proteste, di disobbedienza civile e altre forme di resistenza dalla base.

Lo fanno quando hanno raggiunto un punto di rottura, il cui processo non è dichiarato mediante comunicati stampa o conferenze televisive, ma è tacito e tuttavia duraturo.

Alcuni, pur benintenzionati, sostengono che i palestinesi non sono ancora pronti per una terza Intifada, come se le rivolte palestinesi fossero un processo calcolato, messo in atto dopo molte deliberazioni e trattative strategiche. Nulla può essere più lontano dal vero.

Un esempio è l’Intifada del 1936 contro il colonialismo britannico e sionista in Palestina. Era stata inizialmente organizzata da partiti arabi palestinesi, che erano prevalentemente autorizzati dallo stesso governo del Mandato Britannico. Ma quando i fellahin, i contadini poveri e in gran parte non istruiti, cominciarono ad avvertire che la loro dirigenza era cooptata – come accade oggi – agirono fuori dai confini della politica, lanciando e sostenendo una ribellione che durò tre anni.

I fellahin allora, come è sempre stato, fecero le spese della violenza britannica e sionista, cadendo a frotte. Quelli abbastanza sfortunati da essere catturati furono torturati e giustiziati: Farhan al-Sadi, Izz al-Din al-Qassam, Mohammed Jamioom, Fuad Hijazi sono tra i molti leader di quella generazione.

Tali scenari si sono costantemente replicati da allora e con ciascuna Intifada il prezzo pagato in sangue pare aumentare regolarmente. Tuttavia altre Intifade sono inevitabili, che durino una settimana, tre o sette anni, poiché le ingiustizie collettive subite dai palestinesi restano il comun denominatore tra generazioni successive di fellahin e dei loro discendenti di profughi.

Quella che sta avvenendo oggi è un’Intifada, ma è superfluo attribuirle un numero, poiché la mobilitazione popolare non segue sempre la logica netta richiesta da alcuni di noi. La maggior parte di quelli che guidano l’attuale Intifada erano o bambini oppure non erano nemmeno nati quando l’Intifada al-Aqsa iniziò nel 2000; certamente non vivevano quando l’Intifada dei Sassi esplose nel 1987. In realtà molti potrebbero ignorare i dettagli dell’Intifada originale del 1936.

Questa generazione è cresciuta oppressa, confinata e soggiogata, in totale conflitto con il fuorviante lessico del “processo di pace” che ha prolungato uno strano paradosso tra fantasia e realtà. Manifestano perché vivono un’umiliazione quotidiana e devono sopportare l’incessante violenza dell’occupazione.

Inoltre avvertono una totale sensazione di tradimento da parte della loro dirigenza, che è corrotta e cooptata. Perciò si ribellano e tentano di mobilitare e sostenere la loro ribellione più a lungo che possono, perché non hanno altro orizzonte di speranza che la loro azione.

Non lasciamoci impantanare dai dettagli, da definizioni e cifre autoimposte. Questa è un’Intifada palestinese anche se finisce oggi. Ciò che davvero importa è come rispondiamo alle implorazioni di questa generazione oppressa; continueremo ad assegnare maggiore importanza alla sicurezza dell’occupante armato che non ai diritti di una nazione oppressa?

Ramzy Baroud è un giornalista internazionale indipendente, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo libro più recente è ‘My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story’[Mio padre era un combattente della libertà: la storia non narrata di Gaza].

Da Z Net Italy- Lo spirito della Resistenza e’ Vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/of-course-it-is-an-intifada-this-is-what-you-must-know/

Originale: Ma’an News Agency

Traduzione di Giuseppe Volpe

©2015 ZNet Italy- Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0

“DOBBIAMO UCCIDERE, UCCIDERE, UCCIDERE. TUTTO IL GIORNO, OGNI GIORNO!.

“Perciò, se vogliamo restare vivi, dobbiamo uccidere, uccidere e uccidere. Tutto il giorno, ogni giorno [….]. Se non uccidiamo, cessiamo di esistere [….] La separazione unilaterale non garantisce la “pace”, garantisce uno stato sionista-ebraico con una schiacciante maggioranza di ebrei”.
Arnon Soffer, professore all’Università di Haifa. The Jerusalem Post del 10 maggio 2004

ORMAI SIAMO AL SIONISMO COLONIALE, SEMPRE PIU’ COLONIALE E SOLO COLONIALE

QUESTO ARTICOLO TRATTO DAL BLOG DELL’ISRAELIANO ZEEV STERHELL SI INTITOLA “SIONISMO COLONIALE” ED E’ DEL 2008. IN QUESTI SETTE ANNI LA SITUAZIONE E’ DIVENTATA SEMPRE PIU’ VERGOGNOSA, SEGNANDO UN ALTRO TRACOLLO DELLA CREDIBILITA’ DELL’EUROPA E DEGLI USA. ORMAI IL SIONISMO NON E’ ALTRO IN REALTA’ CHE L’ULTIMA VERSIONE DEL COLONIALISMO EUROPEO E DELL’IMPERIALISMO USA. 

Sintesi personale

Hebron è una vergogna nazionale, un vero e proprio peccato criminale: l’ apartheid, come Boaz Okun ha scritto nel settimanale Yedioth Ahronoth la scorsa settimana, è già qui. Ma non solo a Hebron: la situazione nei territori, in generale insieme con il furto di terre private, sono la testimonianza del fallimento dello stato di fronte all’arroganza del colono e alla sua determinazione a non sottostare a vincoli etici e giuridici, favorendo il consolidarsi di una quotidiana cultura della violenza.

Secondo il rapporto di Peace Now gli insediamenti occupano oltre il 90% di terre private palestinesi. Vorrei precisare che in tre articoli scritti nei mesi di maggio e giugno del 2001 ho spiegato la mia posizione per quanto riguarda i coloni: la vita degli ebrei che vivono su entrambi i lati della Linea Verde è “ugualmente preziosa. La limitazione della libertà di circolazione è un disastro storico, ma per ora ci sono persone che vi abitano la cui vita deve essere tutelata”. In realtà, la distinzione tra le persone che dobbiamo proteggere e la dimensione temporale del fenomeno è essenziale. Ho già scritto in passato e lo ripeto oggi: Se la società israeliana non avrà il coraggio necessario per porre fine agli insediamenti, gli insediamenti porranno fine allo stato degli ebrei dando vita ad uno stato binazionale.

I  leader dimostrano disprezzo per i principi di base della democrazia stessa. Essi sanno come sfruttare le istituzioni democratiche, ma ignorano i diritti umani e riconoscono solo i diritti degli ebrei. Il non rispettare la sentenza dell’ ‘Alta Corte di giustizia che nel 1979, stabilì che era illegale appropriarsi dei terreni privati , erode il fondamento della democrazia e i diritti dei singoli. Nonostante il potere che ha acquisito grazie alla codardia del governo, il colono ideologico sempre indossa il mantello di un martire, perseguitato dalla sinistra e dai mezzi di comunicazione . Sebbene egli controlla il territorio, gli piace essere raffigurato come una vittima di cospirazioni. Sebbene per quasi quattro decenni ha creato una realtà sulla quale gli elettori israeliani non sono mai stati chiamati a decidere trasformando l’occupazione militare in una forma di controllo civile che contraddice ogni norma internazionalmente accettabile, egli si dichiara derubato.

I loro leader dimostrano disprezzo per i principi di base della democrazia stessa. Essi sanno come sfruttare le istituzioni democratiche, ma ignorano i diritti umani e riconoscono solo i diritti degli ebrei. Nonostante il potere che ha acquisito grazie alla codardia del governo, il colono ideologico sempre indossa il mantello di un martire, perseguitato dalla sinistra e dai mezzi di comunicazione. Sebbene egli controlla il territorio, gli piace essere raffigurato come una vittima di cospirazioni. Sebbene per quasi quattro decenni, ha creato una realtà sulla quale gli elettori israeliani non sono mai stati chiamati a decidere trasformando l’occupazione militare in una forma di controllo civile che contraddice ogni norma internazionalmente accettabile, egli si dichiara derubato

Papa a Cuba: «Non si abusa dei propri cittadini!». Peccato non lo abbia però mai detto nella sua cara Argentina degli oltre 20 mila desaparecidos

Papa a Cuba, messa a Holguin:
«Non si abusa dei propri cittadini!»

Giustissimo! Ma perché non lo ha detto nella sua Argentina quando i governi militari abusavano dei propri cittadini rapendoli, torturandoli, ammazzandone oltre 20 mila e facendone infine sparire i cadaveri gettati in mare da un aereo? Eppure le madri de Plaza de Mayo continuavano a ricordare ogni giovedì pomeriggio quegli orribili abusi manifestando nella Buenos Aires il cui vescovo era proprio l’attuale papa.

A chiacchiere stiamo tutti bene, ma se si vuole esere credibili….

Mah!

Il G 20 ha diviso il mondo in modo sbagliato e pericoloso

Il G20 e il rischio degli squilibri finanziari

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Le analisi e le proposte che hanno caratterizzato tutti i summit del G20, fino all’ultimo incontro di Istanbul dei ministri delle Finanze e dei presidenti delle Banche Centrali, sono sempre stati falsati dalla presunta centralità dei cosiddetti “conti delle partite correnti”. In sintesi il mondo viene suddiviso in Paesi con un surplus commerciale e in Paesi con un deficit commerciale. I primi automaticamente diventerebbero creditori nei confronti dei secondi.

Il G20 considera ciò “squilibri globali” che sarebbero alla radice delle grandi crisi passate e recenti. Nei comunicati finali spesso si è arrivati addirittura a considerare gli squilibri nelle partite correnti come sinonimi di squilibri globali.

Naturalmente non si tratta di una mera questione terminologica, ma di effettive politiche economiche e monetarie. Così facendo infatti si cerca anzitutto di sottostimare gli “squilibri finanziari”, che invece sono molto più pericolosi e distruttivi.

Di conseguenza il rimedio ed il ritorno ad uno stato di equilibrio li si otterrebbe semplicemente pressando i Paesi in surplus a rivalutare le loro monete e ad aumentare i loro consumi interni, mettendo in moto politiche che mirano a “mantenere competitive” alcune monete, anzitutto il dollaro.

La valutazione delle partite correnti è un approccio che si basa su confronti nazionali bilaterali, sottacendo il fatto rilevante del dominio attuale di un sistema finanziario globalizzato ma indipendente e indocile quanto sfuggente ad ogni controllo statuale.

Non si considera il ruolo che un dato Paese svolge sui mercati internazionali dei prestiti, del commercio e dell’intermediazione finanziaria. In pratica si mira così a giustificare le conseguenti politiche monetarie accomodanti della Federal Reserve e i suoi effetti destabilizzanti per le monete e le economie dei Paesi del resto del mondo.

L’errata centralità delle partite correnti è il risultato di una distorta idea di risparmio e di finanziamento. Il risparmio è una risorsa prodotta e non consumata e dovrebbe essere logicamente finalizzato agli investimenti produttivi di un dato Paese. Il finanziamento invece si riferisce ai flussi di cassa e alla capacità di accedere alla liquidità, anche attraverso i prestiti, e purtroppo è spesso orientato alle attività speculative.

In quest’ottica le banche creano ed emettono titoli indipendentemente dalla quantità delle risorse depositate presso di loro.

Non è una distinzione di poco conto, se si considera che le grandi banche e gli altri istituti finanziari sono capaci di creare liquidità e crediti in quantità e in qualità pressoché illimitata. La dimostrazione più evidente è la continua creazione di derivati finanziari che, nella versione degli over the counter (otc), sono addirittura tenuti fuori bilancio. Anche se poi alcuni di essi, con il dovuto bollino della tripla A fornita dalle solite agenzie di rating, sono stranamente portati dalle grandi banche finanche in garanzia per ottenere crediti dalla Fed o dalla Bce.

Perciò i debiti di un Paese non sono sostenuti dal risparmio di un altro ma in gran parte dalle decisioni di portafoglio dei grandi operatori finanziari internazionali. E qui entra in gioco anche il rischio di credito come questione non collegata necessariamente alla situazione delle partite correnti.

Non è facile, ma comprendere ciò comporta di conseguenza lavorare per un accordo all’interno del G20 per introdurre regole chiare e stringenti per le grandi banche too big to fail, per il loro sistema bancario ombra e per tutta quella finanza che inonda il sistema di prodotti finanziari di qualità più che dubbia.

Se non si pone maggiore attenzione agli squilibri finanziari, in certi Paesi si può generare un “eccesso di elasticità finanziaria”. Il che è un modo elegante per descrivere la creazione di liquidità e la concessione di crediti in settori a rischio. Così accadde negli Usa nel settore immobiliare dei mutui e delle ipoteche sub prime prima della grande crisi del 2007-8. Purtroppo sembra che ciò sia continuato anche dopo, attraverso i nuovi dollari del QE, anche fuori dai confini americani. Negli ultimi anni infatti i crediti in dollari ai non residenti negli Usa sono cresciuti ad un tasso maggiore dei crediti domestici.

A chi, come noi, spesso in solitudine ha sempre evidenziato il pericolo delle bolle finanziarie e di una finanza senza controlli è di sicuro conforto il fatto che recentemente anche la Banca dei Regolamenti Internazionali, attraverso il suo direttore del dipartimento economico e monetario, Claudio Borio, sia giunta alle stesse conclusioni.

Anche la Bri chiede autorevolmente che il G20 affronti il rischio sistemico rappresentato dagli squilibri finanziari e dall’eccessiva “liquidità globale”.

*già sottosegretario alle Finanza

**economista

Ė in arrivo un’altra grande crisi? Provocata dai troppi soldi pubblici dati in pasto alle grandi banche

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

La vertiginosa altalena sulle borse internazionali sta mettendo di nuovo in discussione la tenuta del sistema finanziario globale.

Non è l’effetto a catena del raffreddamento dell’economia cinese e la conseguente caduta dei listini di Shanghai, come molti, con una certa dose di opportunismo, vorrebbero spiegare. Si comincia invece a raccogliere i “frutti velenosi” seminati dai “quantitative easing” della Federal Reserve, della Bce e di altre banche centrali. Sta accadendo ciò che paventammo tempo fa su questo giornale.

Le eccezionali immissioni di nuova liquidità da parte delle banche centrali, per parecchie migliaia di miliardi di dollari, sono andate a gonfiare a dismisura i propri bilanci, a salvare le banche too big to fail in crisi e a rischio bancarotta, a comprare nuovi titoli di Paesi con crescenti debiti pubblici e a gonfiare i listini delle varie borse.

Tanta nuova liquidità aveva fatto temere una immediata esplosione inflazionistica. I grandi “gestori della crisi” sono invece stati capaci di “pilotarla” verso le borse che hanno immediatamente portato le loro quotazioni agli stessi livelli stratosferici di prima del 2007. Senza legame alcuno con l’economia sottostante in recessione.

L’inflazione in verità c’è stata, non sui prezzi ma sui valori borsistici!

Lo sottolinea anche la Banca dei Regolamenti Internazionali quando dice che “ Nonostante tutti gli sforzi per uscire dal cono d’ombra della crisi finanziaria, le condizioni dell’economia mondiale sono ancora lontane dalla normalità. L’accumulo di indebitamento e rischi finanziari, la dipendenza dei mercati finanziari dalle banche centrali e il persistere di tassi di interesse bassi: tutto questo sembra diventato ordinario. Ma solo perché qualcosa è ordinario non significa che sia normale.”

Se una malattia diventa ordinaria, cronica, non significa guarigione ne un miglioramento dello stato di salute.

I tassi di interesse negativi praticati dalle banche centrali stanno causando nuovi seri rischi finanziari. Nei primi 5 mesi dell’anno titoli di debito sovrano per oltre 2.000 miliardi di dollari sono stati scambiati a tassi negativi. Ciò ha indotto banche e grandi operatori finanziari a ricercare “l’azzardo morale” del rischio.

Per mantenere i loro impegni, a livello internazionale le assicurazioni sono in cerca di rendimenti alti anche se più rischiosi. La quota di titoli in loro possesso con rating inferiore alla A dal 2007 al 2013 è passata dal 20 al 30% del totale. Anche i fondi di investimento giocano un ruolo più aggressivo sui mercati. Già nel 2013 i mercati dei capitali e i fondi di gestione sono raddoppiati nel giro di 10 anni e manovrano 75.000 miliardi di dollari, accentuando una notevole concentrazione tanto che oggi 20 fondi controllano il 40% del mercato.

La dipendenza dei mercati finanziari dalle banche centrali e dalle loro decisioni è cresciuta pericolosamente. Esse detengono il 40% di tutti i titoli pubblici denominati nelle valute principali. Come dimostrano gli ultimi avvenimenti borsistici esse sono diventate i principali attori del mercato, non solo attraverso la fornitura di liquidità ma anche attraverso gli acquisti diretti di titoli e azioni. E’ una distorsione che rivela la irrilevanza delle politiche dei vari governi rispetto alle autorità monetarie.

Si consideri che la semplice possibilità di un aumento del tasso di interesse da parte della Fed, come accade in questi gironi, manda in fibrillazione tutti i mercati. Molti Paesi emergenti, già pesantemente minati da svalutazioni valutarie, temono una fuga di capitali verso il mercato del dollaro.

Non è un caso che nella seconda metà del 2014 il dollaro si sia rivalutato del 20% e il prezzo del petrolio sia sceso del 50%. Ci sembra che si tenti di far passare come normali i grandi rapidi cambiamenti che incidono profondamente nei rapporti economici internazionali. Nel frattempo gli investimenti delle imprese sono rimasti deboli, nonostante l’esplosione di fusioni e acquisizioni e i riacquisti di azioni proprie finanziati con emissioni obbligazionarie.

Secondo la Bri i boom finanziari e le cosiddette politiche monetarie accomodanti hanno determinato a livello globale anche la riduzione del tasso di crescita della produttività. Si calcola che la perdita della crescita di produttività media annua sia stata dello 0,4% nel periodo 2004-7 e dello 0,6% nel periodo 2007-13. Ciò sarebbe dovuto alla distorsione nel mercato del lavoro, dove la perdita di posti qualificati sarebbe parzialmente rimpiazzata da altri meno qualificati e di settori diversi. Il lavoro perso nei settori industriali sarebbe quindi in parte rimpiazzato dal terziario.

Quando la Fed iniziò il QE molti governi, come quello brasiliano e indiano, denunciarono l’inizio di una “guerra monetaria”. I nuovi capitali speculativi entrarono nei Paesi emergenti creando bolle non solo immobiliari, destabilizzando le economie locali. Allora Washington disse chiaramente che si trattava di una misura, presa nel proprio interesse nazionale, “alla quale bisognava adeguarsi”. Poi la successiva decisione della Fed di sospendere il QE provocò un’ulteriore fuga di capitali e la svalutazione delle monete dei suddetti Paesi.

Non c’è quindi da stupirsi se la Cina non vuole accettare il gioco e decide di svalutare in modo competitivo la propria moneta. Sei volte in un breve lasso di tempo!

Si rischia di nuovo una crisi sistemica, aggravata da interessi e conflitti nazionali che sembrano sempre più insanabili. Ciò accade perché, anziché decidere unitariamente in sede di G20, si continua a ritenere di poter agire da soli mentre i problemi hanno invece una oggettiva valenza e portata mondiale.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

ATTENTI ALLA SPECULAZIONE FINANZIARIA CONTRO LA CINA!

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

*già sottosegretario all’Economia; **economista

In Cina il fuoco che si nasconde sotto la cenere è molto più pericoloso della fiammata che si è vista di recente nella borsa di Shanghai. I media hanno riportato il fatto eclatante del crollo delle quotazioni e dei titoli sospesi senza cercare di rispondere alle inevitabili domande: Qual è la causa? Chi lo ha provocato? E perché?

Certamente è stato un evento potenzialmente sconvolgente. Dal 12 giugno al 9 luglio il mercato azionario cinese ha perso il 30% cancellando circa 3 trilioni di dollari di capitale. E’ da evidenziare che dopo l’intervento delle autorità monetarie con l’immissione di nuova liquidità per circa 200 miliardi di dollari, la borsa è risalita del 17%. Sono anche in corso indagini per “scovare” gli speculatori che hanno giocato a breve sulla caduta della borsa.

Ovviamente il fuoco non è stato estinto in modo sicuro e definitivo. Le varie bolle finanziarie dei settori privati dell’economia sono il problema numero uno della Cina. Essa ha un debito pubblico – il 43% del Pil – contenuto se paragonato a quello dei Paesi occidentali. Ma il debito delle imprese private (corporate) è pari al 160% del Pil nazionale, che è di circa 11 trilioni di dollari.

Si stima che nei prossimi 4 anni la Cina potrebbe avere bisogno di piazzare titoli di debito, tra nuovi e vecchi da rinnovare, per oltre 20 trilioni di dollari. Anche la bolla immobiliare, come rivelano le tante città fantasma costruite e non abitate, potrebbe diventare una bomba ad orologeria.

Sono situazioni di indubbia pericolosità ma minore rispetto a quella americana.

Infatti il livello totale del debito cinese, pubblico e privato, è inferiore a quello statunitense, a quello giapponese e a quello di tante altre economie europee. Vi è una differenza sostanziale nell’andamento dell’economia real che in Cina, nonostante una riduzione rispetto ai livelli altissimi degli anni passati, fa ancora registrare una crescita intorno al 7% del Pil.

I dati del commercio estero cinese sono straordinariamente positivi. Solo nei primi sei mesi di quest’anno il surplus commerciale nel settore della produzione di beni è stato pari a 260 miliardi di dollari, un vero boom se lo si raffronta con i 100 miliardi dello stesso periodo del 2014. Mentre gli Usa, nella prima metà del 2015, registrano un deficit nella bilancia commerciale (beni e servizi) di circa 250 miliardi.

E’ sul fronte geoeconomico e geopolitico che la Cina sta operando profondissimi cambiamenti e innovazioni, soprattutto nel contesto dell’alleanza dei BRICS. Forse non è un caso che il crollo della borsa di Shanghai sia avvenuto mentre la nuova Asian Infrastructure Investment Bank apriva ufficialmente i suoi uffici e le sue attività a Pechino. Si ricordi che l’AIIB, con un capitale iniziale di 100 miliardi di dollari, diventa il principale istituto di credito per promuovere la modernizzazione e la infrastrutturazione dell’intero continente asiatico, cominciando con la realizzazione del progetto della Nuova Via della Seta.

Nel frattempo, mentre gli Usa, con una troppo accondiscendente Unione europea, conducono una destabilizzante campagna di sanzioni economiche contro la Russia, la Cina mantiene un atteggiamento indipendente e completamente differente. La prova più eclatante è l’accordo trentennale di acquisto di gas russo per una valore di 400 miliardi di dollari, da “regolarsi” non più in valuta americana ma nelle loro monete nazionali.

Secondo noi il cambiamento più profondo è la decisione cinese, silenziosa e non discussa dai grandi media, di rivedere progressivamente la composizione delle sue riserve monetarie e di ridurre l’ammontare dei titoli americani in suo possesso. Nel mese di giugno ha acquistato 600 tonnellate di oro mentre si stima che nel secondo trimestre 2015 le sue riserve in valuta estera siano scese di 140-160 miliardi di dollari, come dimostra il freno agli acquisti cinesi di nuovi Treasury bond USA.

Tutto ciò spiegherebbe l’intento di qualcuno di frenare il nuovo corso della Cina con un avviso a non uscire dai vecchi binari e dai vecchi accordi.

Perciò occorre capire meglio chi ha promosso e cavalcato l’onda della succitata speculazione. La Jp Morgan City e la Goldman Sachs hanno riconosciuto pubblicamente che la Cina da un po’ di tempo ha abbandonato la consueta regola di acquistare con il suo surplus commerciale i titoli di stato americano.

Le agenzie di rating, a cominciare con la Standard & Poor’s, parlano di “rapida crescita del debito, opacità del rischio, alta percentuale tra debito e Pil, azzardo morale” in Cina. Sono le classiche “parole in codice” usate anche altrove, sempre poco prima di una attacco speculativo. La Banca Mondiale ha parlato del mercato cinese come “squilibrato, represso, costoso da mantenere e potenzialmente instabile”. Un giudizio poco dopo ritirato, asserendo che la sua pubblicazione era il frutto di un errore.

Una cosa è certa: giocare allo scontro o solo alla speculazione contro la Cina potrebbe avere degli effetti devastanti sull’intero sistema finanziario mondiale, potenzialmente maggiori della crisi del 2007-8. Una ragione di più per definire in sede internazionale accordi stringenti per regolamentare il sistema finanziario, almeno i suoi aspetti deteriori, quelli fortemente speculativi che incidono non solo sulla stabilità sociale ed economica di interi Paesi ma anche sugli assetti geopolitici mondiali.

L’articolo di un giornalista israeliano fatto sparire dal web

di Zvi Schuldiner

Cosa rispon­de­reb­bero il coro nazio­nale e gli imbe­cilli che dichia­rano ami­ci­zia a Israele in Europa se faces­simo una domanda molto sem­plice: di che colore era il san­gue dei circa cin­que­cento bam­bini che le forze israe­liane hanno ucciso l’anno scorso, nell’ultima guerra di Gaza? Sì, guerra.
Certo si parla di difesa…hanno ucciso set­tanta sol­dati israe­liani e sei o sette civili, fra i quali un bel­lis­simo bam­bino. Ma l’esercito più morale del mondo ha ammaz­zato oltre due­mila pale­sti­nesi e rico­no­sce che parte dei morti non erano ter­ro­ri­sti ma effetti col­la­te­rali della logica della guerra.
Non mi emo­ziono gran­ché ascol­tando tutti gli ipo­criti che giorno dopo giorno creano il ter­reno fer­tile nel quale ven­gono semi­nati cri­mini come l’attacco con­tro la sfi­lata dell’amore omo­ses­suale, gio­vedì, o il rogo e l’assassinio in una casa pale­sti­nese, adesso. Israele è in preda a un cre­scente raz­zi­smo, fomen­tato e appro­vato dai cori­fei del fon­da­men­ta­li­smo reli­gioso nella sua ver­sione nazio­na­li­sta, insieme agli ultra­na­zio­na­li­sti di destra. La loro reto­rica è la base che induce le bande di attacco a met­tere in pra­tica i mes­saggi dei ver­tici, sem­pre avvolti nella dema­go­gia nazio­na­li­sta stile «siamo l’unica demo­cra­zia e lot­tiamo per la sopravvivenza».
Respi­riamo, man­giamo, viviamo in un momento tra­gico per la società israe­liana, una società i cui lea­der evo­cano strom­baz­zando ogni giorno peri­coli esterni, men­tre get­tano le basi del raz­zi­smo colo­nia­li­sta che è la base del nostro domi­nio nei ter­ri­tori occu­pati. Quat­tro milioni di pale­sti­nesi chiusi nell’enorme car­cere gestito dalla «unica demo­cra­zia del Medio Oriente».
Quando i poli­tici locali par­lano e star­naz­zano, quando i poli­tici occi­den­tali mani­fe­stano loro sim­pa­tia, biso­gne­rebbe chie­dere a tutti chi ali­menta le fiamme di un raz­zi­smo nazio­na­li­sta che ha ucciso a Gaza cen­ti­naia di bam­bini — per mano dell’esercito rego­lare — e che ieri ne ha bru­ciato vivo un altro, per mano di qual­che ter­ro­ri­sta creato dalla sacra unione fondamentalista-nazionalista.

Il colpevole e suicida silenzio su cosa fanno i Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica)

UFA: I BRICS SI ISTITUZIONALIZZANO

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**  

L’Europa, concentrata sui propri problemi e sul suo difficile quanto insostituibile processo di unificazione, purtroppo sta sottovalutando le recenti importanti decisioni assunte dai paesi BRICS, acronimo composto dalle iniziali dei cinque Stati che ne fanno parte: BrasileRussiaIndia,  CinaSudafrica

  Eppure esse sono destinate ad incidere profondamente sugli assetti mondiali.

Dall’8 al 10 luglio si è svolta a Ufa, in Russia, la settima conferenza dei BRICS. Nella stessa sede si sono tenute anche la riunione dell’Unione Economica Euroasiatica e quella della Shanghai Cooperation Organization, che coinvolge tutti i Paesi dell’Asia. I tre incontri hanno oggettivamente assunto una valenza politica di grande rilevanza perché, oltre agli aspetti economici, sono stati trattati anche quelli relativi alla sicurezza.

Oggi il peso geo-economico dell’alleanza tra Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa è accresciuto. Insieme occupano il 30% della terra, hanno il 43% della popolazione mondiale e il 21% del Pil del pianeta. La loro produzione agricola è il 45% del totale, mentre la produzione delle merci e dei servizi rappresenta rispettivamente il 17,3% e il 12,7% del totale.

Il loro Pil aggregato supera i 32 trilioni di dollari e fa registrare un aumento del 60% rispetto al momento della loro costituzione 6 anni fa. Sono dati in continua crescita, nonostante gli inevitabili riverberi della crisi occidentale, delle bolle speculative e delle “politiche monetarie non convenzionali” delle banche centrali.

Nella dichiarazione finale si sottolinea che il summit di Ufa segna l’entrata in vigore della Nuova Banca di Sviluppo dei BRICS (con 100 miliardi di capitale) e del Contingent Reserve Arrangement (Cra), che è un fondo di riserva di 100 miliardi di dollari contro eventuali destabilizzazioni monetarie e delle bilance dei pagamenti negli stati membri.

E’ significativo il fatto che la suddetta Nuova Banca di Sviluppo si impegni a collaborare con le altre istituzioni finanziarie aventi la stessa mission, in particolare con l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB) recentemente promossa dalla Cina, che registra una grande positiva partecipazione anche europea.

”The strategy for BRICS economic partnership” di Ufa prevede l’avanzamento nella cooperazione in tutti i settori fondamentali dell’economia e della società, soprattutto nelle relazioni sud-sud. Comunque la suddetta Banca si impegnerà nella promozione di grandi progetti infrastrutturali e di sviluppo sostenibile anche in altri Paesi emergenti e in via di sviluppo, di cui una cinquantina già avviati.

Sul fronte monetario e finanziario le banche di sviluppo dei singoli Paesi del BRICS daranno luogo ad un “Financial Forum”, per definire nuovi accordi relativi al sistema dei pagamenti, e ad un “meccanismo di cooperazione interbancaria” che preveda tra l’altro l’utilizzo di linee swaps, cioè trasferimenti di liquidità per far fronte anche “all’impatto negativo di politiche monetarie realizzate da Paesi che emettono monete detenute anche nelle riserve”: Cioè gli Usa e l’Ue, quindi il dollaro e l’euro. L’intento è l’utilizzo delle monete nazionali nelle transazioni commerciali, fino al 50% del totale. Evidentemente tale svolta vuole essere una spinta per la costruzione di un paniere di monete rispetto all’attuale dominio del dollaro.

Al centro della crescente cooperazione vi sono non solo i tradizionali settori portanti dell’economia ma anche quelli relativi alla scienza, alla tecnologia e all’innovazione nei campi delle nanotecnologie, della biomedicina e della ricerca spaziale. Da ciò si evince l’errore che spesso nei cosiddetti Paesi avanzati si commette banalizzando i Paesi BRICS e ignorando quanto di nuovo in essi si muove.

E’ indubbio che l’”istituzionalizzazione dei BRICS”, così come è emersa a Ufa, rappresenta una notevole pressione verso le grandi istituzione politiche ed economiche internazionali.

Anzitutto l’ONU che, a settant’anni dalla sua creazione, è chiamato ad assolvere un ruolo decisivo nelle sfide globali garantendo un ordine internazionale più giusto.

Perciò i BRICS sostengono con forza l’iniziativa dell’ONU in merito alla ristrutturazione del debito pubblico dei Paesi più poveri e più esposti, non solo della Grecia, e complessivamente di quello mondiale.

In quest’ottica i BRICS intendono rilanciare il ruolo del G20 come “primo forum internazionale di cooperazione finanziaria ed economica”, soprattutto nella definizione di una nuova architettura finanziaria internazionale che tenga conto dell’economia reale. La presidenza della Cina del G20 l’anno prossimo dovrebbe essere il primo banco di prova. La prima vera occasione per vincere le resistenze, soprattutto americane, verso la riforma della governance del Fondo Monetario Internazionale

Riteniamo che anche per l’Unione europea, anche se fragile e divisa, non sia più tollerabile sottovalutare quanto si muove in quella parte del mondo.

*già sottosegretario all’Economia

**economista