NICHI VENDOLA E ABRAMO DELLA BIBBIA: A PROPOSITO DI UTERI IN AFFITTO. CONTRO NATURA: MA SONO FORSE NATURALI LE STESSE RELIGIONI?

Le polemiche sulla nascita di Tobia Antonio, il figlio surrogato e per interposto utero indonesian californiano forse preso in affitto da Niki Vendola e dal suo compagno italo canadese Eddy Testa, che a quanto pare fa il marito, sono comprensibili, vista la somma delle molte novità, ognuna delle quali è un boccone difficile da digerire perché è un forte scossone per le stesse fondamenta della vita cui siamo abituati da milioni di anni. Però, come vedremo, nella bibbia in fatto di maternità per interposta donna c’è di molto peggio, eppure da quel molto peggio – anzi, proprio dai primi due sfruttatori di uteri in afftto, Abramo e Sara – sono nati i tre monoteismi, dei quali oggi fanno parte oltre tre miliardi di persone. E, si badi bene, le religioni, TUTTE le religioni, NON sono affatto secondo natura. Qualcuno sa per caso indicare quali specie animali ne praticano una? Certo, il genere umano si definisce come diverso dagli altri mammiferi, ma se è diverso perché non può comportarsi diversamente dagli animali?

Confesso che la faccenda fa impressione anche a me, almeno stando a come la raccontano i giornali, ma non i protagonisti. Però sfrondando i fatti dalle chiacchiere e dalle interferenze indebite, riassunte entrambe bene dalla fatwa emessa da Mateo Salvini, da Beppe Grillo e dal giornale Avvenire (del vescovado italiano) contro il “disgustoso egosimo” e “mercato low cost” della coppia gay, il tutto si riduce a normale amministrazione: gli spermatozoi del signor Eddy Testa hanno fecondato un ovulo di donna e, sia pure senza copula o coito che dir si voglia tra lui italo canadese e lei indonesian californiana, ne è nato un bel maschietto.
Dov’è lo scandalo? E in ogni caso: è uno scandalo che nasca una nuova vita?

Forse lo scandalo è nel fatto che la signora che ha partorito il bimbo lascia che se lo portino via Niki ed Eddy, forse o molto probabilmente in cambio di danaro? Ma quante sono le madri al mondo che non hanno di che sfamare i figli, che spesso muoiono pertanto letteralmente di fame nel pieno menefreghismo dei vari Salvini&C? Muoiono di fame allo spaventoso ritmo di uno ogni 6 secondi ( http://www.sancara.org/2010/09/fao-un-bambino-muore-di-fame-ogni-6.html ), per essere precisi. E qualche anno fa era un ogni 8 secondi, quindi la fame uccide sempre di più, sempre nel pieno menefreghismo non solo dei vari Salvini&C. E se alla fame aggiungiamo la mancanza di soldi per curare le malattie, ecco che oggi nel mondo crepa un bambino ogni 5 secondi ( http://www.vita.it/it/article/2012/10/09/save-the-children-ogni-cinque-secondi-muore-un-bambino/121286/ ). Mentre tutti noi, Salvini compreso, mastichiamo e ci godiamo i nostri pranzi, le nostre cene, colazioni e spuntini vari, con annesso dolce, caffè, digestivo, ammazzacaffè e ruttino di buona digestione, diciamo per un totale di almeno 60 minuti al giorno, ecco che nel frattempo sono morti di fame e malattie 12 bambini. La domenica tutti noi, Salvini compreso, indugiamo di più con i piaceri della tavola, e così la strage aumenta.

Ma mettiamo da parte l’orrendo discorso dei milioni di piccini ammazzati dalla povertà mentre noi pranziamo e ceniamo e anche mentre digeriamo. Soldi o non soldi, qui si tratta di una donna che affida il proprio neonato a quello che ne è il padre. Solo biologico, urlano i benpensanti. Biologico, appunto, e quindi sicuramente il padre! Qualcuno può impedire a una donna di lasciare che il figlio vada a vivere con suo padre perché sia lui a crescerlo? Che poi il padre sia gay o si sposi con un’altra donna, non è forse cosa abbastanza normale? Quando si divorzia non c’è di solito l’affido a un coniuge, che forse si risposa, forse no, forse è o diventerà gay o forse no, insomma affari suoi? Stando a quanto dichiarato da Vendola, la famiglia delle donna che ha partorito Tobia Antonio fa parte da tempo della vita sua e di Eddy: motivo per cui, a meno dei soliti imprevisti della vita, nessuno mai impedirà a Tobia Antonio di vedere la madre, biologica o affittuaria che sia.
E comunque: forse le donne non hanno la possiblità legale di rifiutare il proprio neonato, che finisce così in un orfanatrofio, direttamente o tramite la apposita “ruota” dove può essere legittimanente abbandonato? Qualcuno vuole sostenere che la “ruota” e l’orfanatrofio sono meglio di Vendola e Testa? Suvvia…

Forse lo scandalo consiste nel fatto che procurarsi un figlio in questo modo se lo può permettere solo chi ha quattrini? Ma se lo scandalo è questo allora bisogna dire che almeno in Italia viviamo in un’epoca e in una società moooolto scandalosa: oggi infatti avere più figli è un lusso da gente incosciente o danarosa con quel che costa mantenerli: dalla nascita alla maggiore età, cioè fino a 18 anni, più o meno 171 mila euro ( http://www.huffingtonpost.it/2014/02/06/quanto-costa-un-figlio_n_4735402.html ). Due figli, 342 mila euro. Tre figli, 513 mila euro! Quattro figli, 684 mila euro!! Cifre che aumentano di molto perché i figli certo non basta mantenerli fino a 18 anni, bisogna mantenerli per almeno altri 5 anche se non vanno all’Università.

Forse lo scandalo consiste nel fatto che Vendola si dice madre o comunque un genitore di Tobia Antonio pur non c’entrandosi assolutamente nulla? Ma chi se ne frega di quello che dice Vendola? Il quale è libero anche di dire, se vuole, che gli asini volano o che lui è la nonna di Garibaldi. Lo scandalo è che Vendola crescerà il bambino assieme a EddY Testa? Ma chi può proibire a Eddy Testa di crescere il bambino con la persona con la quale ha deciso di dividere la vita una volta che la madre biologica e/o quella affittuaria ha lasciato che il figlio andasse vivere con lui, cioè col padre, biologico e quindi sicuramente il padre?

Eddy e Niki si sono portati via Tobia Antonio per crescerlo, educarlo, dargli un futuro. Gli Stati, le nazioni, le tribù e i clan quando fanno le guerre, sempre benedette anche dai rispettivi cleri, si portano via una infinità di Tobia Antonio…. E certo non per farli crescere bene e neppure perché facciano crescere bene gli “altri”, i nemici. La seconda guerra mondiale s’è portata via più o meno 40 milioni di vite, milioni di bambini compresi. E da allora ad oggi la moria di grandi e piccini uccisi dalle guerre locali continua. E nelle guerre è accertato che la gran parte delle vittime sono proprio i bambini, i Tobia Antonio di tutte le razze e nazionalità. Nelle due invasioni di Gaza gli israeliani hanno ucciso non meno di mille bambini, senza che la cosa suscitasse la riprovazione non solo di Salvini. E quando Salvini propone di respingere a cannonate i barconi dei migranti che fuggono da miserie, fame e guerre, si pone forse il problema dei Tobia Antonio a bordo di quei barconi o dei feti nell’utero di donne incinta in balia del mare e dei mercanti che speculano sulla disperazione dei dannati della Terra?

Infine: perché nessuno mai si è scandalizzato – anzi! – per il fatto che nella bibbia Sara a un certo punto, ormai in menopausa, ha chiesto a suo marito Abramo una maternità surrogata tramite l’utero – neppure in affitto! – della schiava Agar? Quell’utero non era neppure in affitto, ma proprietà dei coniugi Abramo e Sara come del resto l’intera schiava Agar. E dire che Sara il Tobia Antonio della situazione, noto al mondo da millenni come Ismaele, non solo NON lo allevò come intendono invece fare bene Niki ed Eddy, ma rosa dalla gelosia lo fece invece cacciare via con la madre “biologica”, fregandosene del rischio che crepassero entrambi di fame e sete nel deserto. Due figure davvero pessime Abramo e Sara, una peggio dell’altra, eppure….. I tre monoteismi, ebraico, cristiano e musulmano, nascono da loro!

Per non dire di come è stata assicurata la discendenza dopo Adamo ed Eva. Poiché ebbero solo due figli, Caino e Abele, e poiché Caino uccise Abele, è evidente che l’umanità di oggi deriva, sempre secondo la bibbia, da incesti prima tra Eva e suo figlio Caino e poi da incesti tra i loro incestuosi figli e figlie. Altro che uteri surrogati! E neppure low cost, visto quello che l’umanità ha pagato, page e pagherà per quella dannata mela….

Tutti si stracciano le vesti perché l’utero in affitto è contro natura. Ma perché, scusate, la guerra, le camere a gas, le bombe al fosforo bianco, le bombe atomiche, lo schiavismo, lo sfruttamento politico ed economico, ecc. di fatto molto della Storia del genere umano, è forse naturale?! Sono forse naturali i computer, le lampadine, le automobili, le penne a sfera, i vaccini, i medicinali di sintesi, le operazioni chirurgiche, gli occhiali, ecc.?  TUTTO il progresso scientifico, tecnologico e perfino quello sociale è contro natura.

SONO FORSE NATURALI LE RELIGIONI? Certo che no! Quali sono infatti le specie animali che ne praticano una? 

Si è gridato al “contro natura!” anche a proposito dell’omosessualità, quando invece in natura è praticata da qualche migliaio di specie.

Insomma, prima di stracciarci le vesti per il figlio di Vendola dovremmo occuparci di cose più serie. E ben più drammatiche. E magari chiederci che fine hanno fatto i padri nell’attuale società italiana.

Le banche minori e la crescita economica europea

Il ruolo delle banche minori nella crescita economica

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Da un po’ di tempo le banche regionali e quelli di credito cooperativo sono al centro della discussione. Di una particolare attenzione lo sono anche da parte della Banca centrale europea che le vorrebbe sottoposte alla sua supervisione e riformate secondo un’ottica di maggiore aggregazione. Non solo perché alcune di loro sono entrate in crisi. E non solo in Italia, ma in tutta l’Europa.

Tecnicamente le istituzioni bancarie di piccole e medie dimensioni sono chiamate ‘less significant institutions’. Entità ‘meno significative’ rispetto a quelle di ‘importanza sistemica’, che per questo sono spesso considerate too big to fail.

Nell’intera area euro vi sono circa 3300 gruppi bancari, di cui 129 di dimensioni notevoli e perciò supervisionate dalla Bce.

Le circa 3200 piccole e medie banche restanti rappresentano il 18% di tutte le attività del sistema bancario europeo. Sono quasi tutte concentrate in tre Paesi, la Germania, l’Italia e l’Austria. Le suddette piccole banche hanno però bilanci pari all’80% della somma del Pil della Germania e dell’Austria.

Esse rappresentano la più importante ‘catena di trasmissione’ del credito produttivo verso le imprese di piccola e media dimensione che, non solo secondo noi, sono la spina dorsale e l’interna ossatura dell’economia. In Germania, per esempio, le ‘meno significative’ finanziano il 70% dell’economia.

Il loro tasso di capitale, il cosiddetto Tier 1, è mediamente del 15,2%, straordinariamente superiore al minimo richiesto per le tutte le banche della zona euro che è del 6%. E’ una eccellente garanzia per poter far fronte a situazioni difficili. Secondo le stime, le ‘piccole’, soprattutto in Germania, sono piene di liquidità e in cerca di investimenti e di rendimenti più alti. Non manca loro il mercato. Manca, invece, la stabilità delle imprese e delle famiglie a causa della recessione economica.

Naturalmente esse soffrono moltissimo per la prolungata politica dei bassi tassi di interesse sui prestiti concessi. Di fatto l’interesse sui crediti è ‘il motore’ per generare i loro introiti. A loro non è permesso speculare né tanto meno operare con derivati o con altre operazioni finanziarie ad alto rischio.

Adesso la Bce e il Single Supervisory Mechanism per il controllo bancario hanno deciso di intervenire sulle banche ‘less significant’ con l’intenzione di sottoporle a una supervisione più stringente sia europea che nazionale, a una revisione del loro modello di business, di governance e delle loro strategie. Di fatto ciò potrebbe comportare un processo di fusione, di possibili cambiamenti del loro status giuridico e di conseguenza determinare la possibilità di essere partecipate o addirittura acquisite dalla banche di rilevanza sistemica.

In altre parole le istituzioni monetarie europee, comprese quelle italiane, intendono far fronte, a loro modo, a quella che esse definiscono “la sfida al tradizionale modello di business delle banche di piccola e media dimensioni”. Ciò nonostante esse riconoscano che le banche minori sono “solvibili, liquide, con un basso tasso di crediti inesigibili e con riserve considerevoli”. Oltre al fatto che le banche regionali hanno davvero il polso delle situazioni economiche e imprenditoriali locali e spesso una vera conoscenza diretta dei propri clienti e del loro profilo di rischio.

Lo stesso non si può dire delle grandi banche. Che, oltre ad essere principalmente coinvolte in operazioni di cosiddetta “alta finanza” , hanno spesso una scarsa conoscenza della propria clientela.

Si dovrebbe perciò chiedere perché le istituzioni europee privilegino le banche con grandi numeri e pochi legami con i settori portanti dell’economia reale. Non si comprende perché si voglia intervenire sulle reti di banche locali e regionali che notoriamente affiancano le imprese nelle produzioni, nelle modernizzazioni e nell’espansione verso nuovi mercati, anche i più lontani.

Se la priorità dei governi, compreso quello italiano, è – o dovrebbe essere – la ripresa economica e l’occupazione, perché non valorizzare ulteriormente il meccanismo virtuoso delle banche di credito locale? A loro si può chiedere più informazione, imporre più controlli, ma bisognerebbe anche offrire maggiori sostegni per continuare ad operare con un modello ben funzionante e collaudato di supporto delle imprese. Il falso argomento delle loro dimensioni contenute non è convincente. Non si tratta di esaltare il “piccolo è bello” ma di salvare e sostenere ciò che ha funzionato e continua ancora a funzionare.

In Italia il caso della Banca Etruria e delle poche altre banche locali è l’eccezione rispetto ad una rete che oggettivamente si deve ritenere efficace e positiva per l’economica locale e nazionale.

L’imperativo pertanto, almeno nel nostro Paese, dovrebbe essere quello di colpire severamente i responsabili della bancarotta delle poche banche disastrate da gestioni scellerate e sostenere invece quelle che meritoriamente sono gestite correttamente e danno il giusto sostegno allo sviluppo dei territori i cui operano, spesso quelli più svantaggiati.

*già sottosegretario all’Economia **economista

LA GUERRA DEGLI USA CON I SOLITI COMPARI SAUDITI CONTRO RUSSIA E ORA ANCHE IRAN CON L’ATOMICA DEL PETROLIO

PREZZO DEL PETROLIO E RISCHI GEOPOLITICI

Mario Lettieri* e Paolo Raimoindi**

Mario Draghi ha recentemente smosso le acque torbide della finanza affermando che «ci sono forze nell’economia globale di oggi che concorrono a mantenere bassa l’inflazione».

E’ la sua seconda dichiarazione di grande impatto politico ed economico. La prima fu nel luglio 2012 quando disse «faremo tutto quello che è necessario» per difendere l’euro dagli attacchi speculativi internazionali. In entrambi i casi è chiaro che non si riferisce a giochi interni all’Europa ma a forze politiche di oltreoceano.

Riteniamo che sulla questione del crollo dei prezzi delle commodity ed in particolare di quello del petrolio sia doveroso fare qualche approfondimento. Innanzitutto il prezzo del petrolio è stato più volte, per non dire sempre, oggetto sia di grandi operazioni speculative che di interventi e decisioni di interesse squisitamente geopolitico.

In quest’ottica va letto l’andamento del prezzo del petrolio. Si ricordi che fino alla metà del 2004 si aggirava intorno ai 40 dollari al barile. Nel 2006 salì a 70 dollari, a luglio del 2008 raggiunse i 145 dollari. A fine 2008 precipitò a 30 dollari, per poi risalire a 110 nel 2011. Dal 2014 il prezzo è sceso fino ai circa 30 dollari attuali.

In generale i prezzi riflettono una situazione di deflazione a seguito della globale recessione economica con la generale riduzione delle produzioni e dei commerci. Ma è altrettanto vero però che un tale ‘ottovolante’ non può rappresentare l’andamento reale della domanda e dell’offerta!

Dal 2014, oltre alla speculazione, si è attivata una vasta e pericolosa strategia geopolitica, guidata dell’Arabia Saudita ed avallata dagli Usa, tesa a far precipitare il prezzo del petrolio, aumentandone la produzione, per indebolire l’Iran e la Russia.

Le dinamiche dei prezzi del petrolio e delle altre materie prime sono anche collegate al ‘male profondo’ dell’economia mondiale che si chiama ‘bolla del debito’.

Il crollo dei prezzi si è accompagnato ad un alto indebitamento delle imprese leader nel settore delle commodity, del petrolio in particolare. Si considerino le imprese americane del settore dello ‘shale gas’ e le varie corporation petrolifere dei Paesi emergenti, che hanno largamente attinto risorse finanziarie sia dal settore bancario che sul mercato obbligazionario. I dati parlano chiaro.

Le imprese impegnate nei settori del petrolio e del gas che nel 2006 avevano sottoscritto prestiti bancari per 600 miliardi di dollari, nel 2014 ne contavano ben 1.600 miliardi. Un aumento del 13% annuo. Le stesse imprese, spesso attraverso l’utilizzo di filiali offshore, hanno fortemente aumentato anche le loro emissioni di obbligazioni, passando dai 455 miliardi nel 2006 ai 1.400 miliardi di bond nel 2014. Un aumento annuo del 15%.

L’emissione di obbligazioni nel periodo indicato è aumentata del 13% in Russia, del 25% in Brasile e del 31% in Cina. E’ appena il caso di ricordare che in questo lasso di tempo le imprese petrolifere dei Paesi emergenti hanno contribuito con grandi dividendi ai bilanci dei rispettivi governi. Perciò la drastica caduta dei prezzi sta mandando in crisi anche i budget pubblici di molti Paesi.

L’attuale basso prezzo del petrolio sta generando una serie di conseguenze. In primo luogo, essendo i titoli azionari e obbligazionari delle imprese petrolifere collegati al prezzo del petrolio, i loro valori di mercato ne stanno inevitabilmente risentendo. Inoltre con la diminuzione dei profitti è cresciuto il rischio dei dissesti e dei fallimenti oltre che il costo degli eventuali finanziamenti richiesti. Ad esempio, il tasso di interesse di un’obbligazione petrolifera che era di 330 punti nel giugno 2014 oggi è salita a 1.600 punti. Aumenti simili si sono registrati anche per i credit default swap, quei derivati sottoscritti per garantirsi contro le variazioni dei tassi di interesse.

Una seconda inevitabile conseguenza è la progressiva mancanza di liquidità per le imprese petrolifere coinvolte. Per farvi fronte inizialmente si aumenta la produzione con l’intento di mantenere un flusso di cassa attivo, ma spesso si è costretti a una riduzione degli investimenti o alla dismissione di parte del patrimonio dell’azienda.

Una terza conseguenza, la più rischiosa, si manifesta nella tendenza ad aumentare la vendita di ‘future’ petroliferi e di acquisti di derivati ‘put option’ come garanzie sull’andamento dei prezzi. Di fatto ogni aumento dei ‘future’ petroliferi tende a saturare ulteriormente il mercato contribuendo alla discesa del prezzo del petrolio. In una fase di caduta del prezzo, la speculazione gioca al ribasso: si vende, sulla carta, a 100 oggi per ricomprare domani a 90. Il contrario di quanto succedeva nei periodi di crescita del prezzo quando si comprava un derivato a 100 per venderlo a 110 alla scadenza, partecipando così all’esplosione dei prezzi.

E’ un meccanismo perverso della finanza, del debito e della speculazione. Non si possono immaginare soluzioni efficaci alle gravi distorsioni del sistema senza rivederne l’architettura.

Tale urgenza, secondo noi, non è più eludibile in quanto irresponsabilmente si ripropongono vecchie tesi di geopolitica che vedono solo nella guerra o in una grande e diffusa destabilizzazione ‘l’occasione’ per determinare l’aumento del prezzo del petrolio e delle altre commodity.

*già sottosegretario all’economia **economista

 

 

1) – Rischi finanziari peggiori del 2007? 2) – Politiche sbagliate della FED e delle banche centrali: dal 2005 ad oggi negli Usa sarebbero stati usati ben 4,21 trilioni di dollari in operazioni di riacquisto dei propri titoli.

Rischi finanziari peggiori del 2007?

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

«Il sistema finanziario globale è diventato pericolosamente instabile ed è di fronte ad una valanga di bancarotte che metterà alla prova la stabilità sociale e politica». Queste sono le autorevoli parole di William White che è presidente dell’Economic Development and Review Committe dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD). Già economista capo della Banca dei Regolamenti Internazionali, egli da tempo sottolinea le sue preoccupazioni in interviste e dichiarazioni pubbliche. Recentemente lo ha fatto in relazione al Forum Economico Mondiale di Davos.
White ha per decenni anche lavorato nelle banche centrali del Canada e della Gran Bretagna, a contatto quindi con i ‘decision maker’ finanziari della City. Prima del collasso della Lehman è stato uno dei pochi a denunciare l’inevitabile deriva del sistema. Aveva tra l’altro dimostrato come la liberalizzazione dei mercati finanziari, la cosiddetta deregulation, stesse provocando una crescita eccezionale dei prestiti e dei valori finanziari.
Il problema centrale è rappresentato, quindi, dall’aumento esponenziale del debito in ogni parte del mondo nei passati 7 anni, tanto che, per White, «la situazione di oggi è peggiore di quella del 2007».
Per quanto riguarda l’Europa, le banche europee hanno crediti in sofferenza (non-performing loans) per circa 1.000 miliardi di euro! Si tratta di prestiti, concessi sia nel mercato interno sia in quello delle economie emergenti, che finora sono stati tenuti nascosti nei bilanci delle banche come dei ‘cadaveri imbalsamati’.
In mancanza di un accordo globale e di una nuova architettura del sistema finanziario da rendere operativa in modo congiunto e celere, la questione di fondo è come gestire le cancellazioni del debito impagabile e il riordino del sistema senza creare sconquassi economici e tempeste politiche.
Si tratta di riprendere la discussione sul ‘curatore fallimentare’, purtroppo da tempo abbandonata. E’ una cosa che non si può lasciare in gestione a livello di singoli Paesi perché necessita di regole globali e condivise, che coniughino giustizia economica e ripresa con assoluta priorità rispetto agli egoismi locali e ai dettami dei più forti.
L’assenza di una chiara visione delle responsabilità e dei metodi di intervento del ‘curatore fallimentare’ è ben visibile anche nel caos creatosi intorno alla bancarotta delle quattro piccole banche regionali italiane in cui, oltre alla mancanza di trasparenza e di giustizia, hanno dominato l’improvvisazione, l’incompetenza e gli interessi particolari di amici e lobby locali.
Oggi il totale dei debito pubblico e privato è salito ai limiti massimi: è il 265% del Pil nel club dei Paesi della citata OECD e il 185% del Pil nei mercati emergenti. Entrambi registrano un aumento del 35% rispetto al 2007.
Secondo l’agenzia di stampa economica americana Bloomberg, il debito delle grandi corporation a livello mondiale sarebbe di 29 trilioni di dollari. La metà delle multinazionali comprese nel listino borsistico S&P di Wall Street non guadagnerebbe abbastanza per pagare il servizio del proprio debito.
I Quantitative easing hanno creato e mantengono l’effetto di poter continuare a spendere non in relazione alle reali possibilità dell’attuale situazione economica e di bilancio ma in deficit prendendo a prestito dal futuro. Ciò nel tempo diventa una “dipendenza tossica” facendo smarrire il senso e il rapporto con la realtà. Ad un certo punto però anche il futuro presenterà il conto. Non si può continuamente spendere oggi i soldi che saranno eventualmente guadagnati domani!
Si noti anche che gran parte della nuova liquidità è stata usata dalle grandi corporation e dalle banche per crescenti operazioni di riacquisto delle proprie azioni. Il Wall Street Journal stima che dal 2005 ad oggi negli Usa sarebbero stati usati ben 4,21 trilioni di dollari in operazioni di riacquisto dei propri titoli. Si tratta di circa un quinto dell’attuale valore totale dei titoli della borsa americana. Sono in gran parte operazioni cosmetiche che hanno dirottato importanti risorse a discapito degli investimenti, della modernizzazione tecnologica e dell’occupazione.
Il debito eccessivo è una trappola nella quale, secondo White, sarebbe caduta anche la Fed. La situazione è quindi talmente deteriorata che non si riesce a trovare la giusta soluzione: se si aumentano i tassi di interesse essa diventa ancora più difficile e pesante, se invece non si aumentano essa sicuramente peggiora.
Ancora una volta viene chiamato in causa il potere politico e la sua responsabilità nella definizione di nuove regole per il sistema finanziario. 

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Forti dubbi sulle politiche della Fed e delle banche centrali

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Emerge sempre più chiaramente che, per far fronte agli effetti della grande crisi finanziaria globale, il metodo e le politiche della Federal Reserve e delle altre banche centrali non funzionano. Adesso anche gli economisti della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, che coordina tutte le banche centrali, lo affermano.
La Fed e le altre , in primis la Bce, hanno affrontato il fenomeno delle tre B, la bassa crescita, la bassa inflazione ei bassi tassi di interesse, con una politica monetaria espansiva. Hanno enfatizzato gli aspetti ciclici della domanda ritenendo le prolungate politiche di Quantitative easing atte a far crescere la domanda e i consumi riattivando un certo dinamismo economico. In realtà tale approccio ci sembra semplicistico e di breve respiro.
Ciò, purtroppo, ha indotto anche a minimizzare l’importanza dei problemi di bilancio e della necessità di una corretta allocazione delle risorse. Questi sono i veri impedimenti alla crescita, i fattori che operano lentamente ma i cui effetti si accumulano nel tempo.
Infatti una “recessione patrimoniale” o dei saldi di bilancio (balance sheet recession) si verifica quando imprese altamente indebitate tagliano gli investimenti e le attività per abbattere i livelli del loro debito. Solitamente ciò coincide con la diminuzione permanente delle produzioni e con una ripresa molto debole. Simili processi, che si generano dopo lo scoppio della bolla finanziaria, nascondono anche il fatto che già prima della crisi la crescita economica non era di fatto sostenibile. La crisi del settore immobiliare, che ha vissuto una crescita spasmodica, ne è un esempio.
Inoltre nel periodo precedente lo scoppio della crisi si era avuto una grande espansione del credito e di altri strumenti finanziari che hanno indotto una erronea allocazione delle risorse a danno della crescita economica. Si consideri che, ad esempio, molta forza lavoro è stata assorbita dal settore delle costruzioni che ha una produttività più bassa della media.
Perciò in una “recessione patrimoniale” la domanda debole non è il solo problema e la cura monetaria non può essere l’unica risposta. La questione più importante era e rimane la necessità di risistemare i bilanci ed operare delle riforme strutturali per facilitare una migliore allocazione delle risorse e sostenere la ripresa degli investimenti reali.
Sul fronte dei bilanci, purtroppo, si è accentuato la crescita del debito. E non solo quello dei governi per sostenere le varie operazioni di salvataggio e i cosiddetti stimoli economici. Grazie anche ai bassi tassi di interesse la Fed ha permesso una crescita spettacolare dei crediti in dollari concessi negli Usa e nel resto del mondo, soprattutto nelle economie emergenti. Infatti i prestiti in dollari detenuti da imprese economiche non bancarie fuori degli Usa hanno raggiunto i 9,8 trilioni!
I bassi tassi di interesse sono diventati una droga di cui il sistema finanziario pensa di non poter fare a meno. Nel contempo però ciò ha abbassato largamente i margini di profitto delle stesse banche, incentivato la propensione a rischi più alti e inflazionato i prezzi di molti titoli, a cominciare da quelli trattati nelle borse. Tutto ciò ha creato pericolosi sbilanciamenti in particolare in quelle economie che subiscono gli effetti finali delle politiche della Fed.
Per quanto riguarda il settore bancario, tale politica, invece di operare con strumenti di lungo termine per sanare situazioni finanziarie gonfiate e risolvere certe insolvenze, ha spregiudicatamente continuato a effettuare operazioni ad alto rischio. Lo si vede in particolare nell’atteggiamento aggressivo delle “too big to fail” in Usa.
In Europa ciò appare nei comportamenti, mai veramente sanzionati, della Deutsche Bank, la banca N.1 dei derivati speculativi, coinvolta in innumerevoli indagini per frode e malversazioni a livello mondiale, e anche nell’incapacità di governare nel nostro Paese i 200 miliardi di sofferenze e le crisi delle piccole banche regionali.
La BRI mette sull’avviso che nei prossimi mesi l’economia globale, già calata, sarà influenzata negativamente anche da tre nuove evoluzioni: 1) la Cina che si muove verso un modello differente di crescita più orientata verso il mercato interno), 2) la prospettiva che i prezzi delle commodity rimangano a livelli più bassi e per un lungo periodo, 3) la crescente divergenza nella politica monetaria delle economie dominanti, dove la Fed aumenta i tassi di interesse mentre la Bce continua la sua politica accomodante con tassi addirittura decrescenti.
E’ per questo che gli economisti della BRI – e noi con loro – sono arrivati a denunciare come miope e irresponsabile chi pensa che “quello che succede fuori dai miei confini non mi interessa”.

+ Già sottosegretario all’Economia

**Economista

1) – La vera vergogna è che l’Europa tollera tutte le atrocità di Israele. E che gli Usa vi si inchinano. 2) – Il Family Day

Il rabbino capo Shmuel Eliyahu ha scritto su Facebook, martedì 19 gennaio, che i palestinesi dovrebbero essere giustiziati per garantire la sicurezza di Israele.

“L’esercito israeliano dovrebbe smettere di arrestare i palestinesi”, ha scritto sulla sua pagina Facebook, “ma dovrebbe giustiziarli e non lasciare alcun superstite”.
Secondo il PNN, Eliyahu è famoso per il suo atteggiamento razzista e per le sue affermazioni controverse sugli arabi e sui musulmani. E’ stato chiamato dal governo per condurre una campagna ufficiale e di rappresaglia contro gli arabi per, nelle sue parole, “restaurare la forza deterrente di Israele.”
Il rabbino della città di Safed, estrema destra, assetato di sangue, membro del principale concilio dei rabbini, ha anche dichiarato che i palestinesi sono il nemico dello Stato di Israele e che “devono essere distrutti e schiacciati per mettere fine alle violenze”.
Nel 2007, secondo il Jerusalem Post, Eliyah aveva affermato che “se non si fermano dopo che ne avremo uccisi 100, bene ne uccideremo 1000. E se non si fermano dopo questi 1000, ne dovremo uccidere 10.000. Se nemmeno allora si fermeranno, ne uccideremo 100.000, persino un milione”.
Nel 2012 Eliyahu era stato contestato per queste sue affermazioni razziste, tra le quali queste, riportate dai quotidiani nazionali israeliani: “La cultura araba è molto violenta” e “Gli arabi si comportano secondo vari codici e norme violente che sono poi sfociate in un’ ideologia”.
Il rabbino avrebbe dichiarato che esempi di questa nuova “ideologia” araba includono ora rubare attrezzature agricole agli ebrei e ricattare i contadini per la protezione contro i furti. Egli avrebbe apparentemente anche detto che “nel momento in cui si lascia spazio per gli arabi, tra gli ebrei, già cinque minuti prima questi incominciano a fare quello che vogliono”. Il ministero della Giustizia ha lasciato cadere le accuse perché “le affermazioni potrebbero essere state alterate dai giornalisti”.
Il Jerusalem Post lo ha citato nella sua affermazione: “Dovremmo farli vivere per poi lasciarli liberi e offrire così un altro gesto a favore un altro presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas? Il fatto che essi ancora bramino di commettere attacchi terroristici mostra che noi non stiamo agendo con abbastanza forza”.
Per rincarare la dose a proposito della sua fatwa Eliyahu ha scritto, sulla sua pagina Facebook, che “gli ufficiali di polizia israeliani che permettono ai palestinesi di rimanere in vita dovrebbero essere giudicati anche’essi”.
Ha proseguito dicendo: “Non possiamo permettere a un palestinese di sopravvivere dopo che è stato arrestato. Se lo si lascia vivo, rimane la possibilità che questo venga rilasciato e uccida altre persone. Dobbiamo estirpare questo male dall’interno della nostra società”.
Traduzione di Marta Bettenzoli

http://www.infopal.it/rabbino-israeliano-lancia-un-appello-per-giustiziare-i-palestinesi/

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Sì, Israele sta commettendo esecuzioni extragiudiziarie

Di Gideon Levy – Haaretz – 17 gennaio 2016
Potremmo dirlo così: Israele giustizia persone senza processo praticamente ogni giorno. Ogni altra definizione sarebbe una menzogna. Se una volta c’era qui una discussione sulla pena di morte per i terroristi, ora sono giustiziati anche senza processo (e senza che se ne discuta). Se una volta c’era un dibattito sulle regole d’ingaggio, oggi è chiaro: spariamo per uccidere ogni palestinese sospetto.
Il ministro della Sicurezza Pubblica, Gilad Erdan, ha illustrato chiaramente la situazione quando ha detto: “Ogni terrorista deve sapere che non sopravviverà all’attacco che sta per compiere,” e praticamente tutti i politici lo hanno seguito con nauseabonda unanimità, da Yair Lapid [fondatore del partito di centro “Yesh Atid” (C’è un futuro). Ndtr.] in su. Non erano mai stati rilasciati tante licenze di uccidere, né il dito era stato così nervoso sul grilletto.
Nel 2016, non c’è bisogno di essere Adolf Eichmann [criminale nazista rapito in Argentina, processato e giustiziato in Israele. Ndtr.] per essere giustiziati, basta essere un’adolescente palestinese con delle forbici. I plotoni d’esecuzione sono attivi ogni giorno. Soldati, poliziotti e civili sparano a quelli che hanno accoltellato israeliani, o hanno cercato di farlo o sono sospettati di averlo fatto, e anche a coloro che hanno investito israeliani con la loro auto o sembra che lo abbiano fatto.
In molti casi, non c’era bisogno di sparare, e sicuramente non di uccidere. Nella maggior parte dei casi la vita di chi ha sparato non era in pericolo. Sparano per uccidere persone che avevano un coltello o persino forbici, o gente che ha semplicemente messo le mani in tasca o ha perso il controllo della propria auto.
Li uccidono indiscriminatamente – donne, uomini, ragazzine, ragazzini. Gli sparano mentre stanno fermi, ed anche quando non sono più pericolosi. Sparano per uccidere, per punire, per sfogare la propria rabbia e per vendicarsi. Qui c’è un tale disprezzo che questi incidenti sono a malapena raccontati dai media.
Sabato scorso [16 gennaio 2016] al checkpoint di Beka’ot (chiamato Hamra dai palestinesi), nella valle del Giordano, alcuni soldati hanno ucciso l’uomo d’affari Said Abu al-Wafa , di 35 anni, padre di 4 figli, con 11 pallottole. Contemporaneamente, hanno ucciso anche Ali Abu Maryam, un bracciante agricolo e studente di 21 anni, con tre pallottole. L’esercito israeliano non ha spiegato le ragioni dell’uccisione dei due uomini, salvo sostenere che c’era il sospetto che qualcuno avesse sfoderato un coltello. Ci sono delle telecamere di sicurezza sul posto, ma l’esercito israeliano non ha mostrato il filmato dell’incidente.
Il mese scorso altri soldati dell’IDF hanno ucciso Nashat Asfur, padre di tre figli che lavorava in un mattatoio israeliano per polli. Gli hanno sparato nel suo villaggio, Sinjil, dalla distanza di 150 metri, mentre stava camminando verso casa per un matrimonio. All’inizio di questo mese, Mahdia Hammad, quarantenne madre di 4 figli, stava guidando verso casa attraverso il suo villaggio, Silwad. Ufficiali della polizia di frontiera hanno crivellato la sua macchina con dozzine di proiettili dopo aver sospettato che volesse investirli.
I soldati non hanno avuto sospetti di nessun genere sulla studentessa di cosmetologia Samah Abdallah, 18 anni. Hanno sparato all’auto di suo padre “per sbaglio”, uccidendola; hanno sospettato il pedone sedicenne Alaa al-Hashash di volerli accoltellare. Ovviamente hanno giustiziato anche lui.
Hanno ucciso anche Ashrakat Qattanani, 16 anni, che aveva un coltello e inseguiva una donna israeliana. Prima un colono l’ha investita con la sua macchina, e quando era a terra ferita, soldati e coloni le hanno sparato per almeno quattro volte. Un’esecuzione, cos’altro?
E quando i soldati hanno sparato alla schiena a Lafi Awad, 20 anni, mentre stava scappando dopo aver lanciato delle pietre, non si è trattato di un’esecuzione?
Sono solo alcuni dei casi che ho documentato nelle scorse settimane su Haaretz. Il sito web dell’associazione [israeliana] per i diritti umani B’tselem presenta un elenco di altri 12 casi di esecuzioni.
Margot Wallström, ministra degli Esteri svedese, una dei pochi ministri al mondo che hanno ancora una coscienza, ha chiesto che si indaghi su queste uccisioni. Non c’è una richiesta più morale di questa. Avrebbe dovuto essere fatta dal nostro stesso ministro della Giustizia.
Israele ha risposto con i suoi soliti ululati. Il primo ministro ha detto che ciò era “oltraggioso, immorale e ingiusto”. e Benjamin Netanyahu comprende bene questi termini: è esattamente il modo in cui descrivere la campagna di esecuzioni criminali da parte di Israele sotto la sua guida.
(traduzione di Amedeo Rossi)

Gideon Levy : Yes, Israel Is Executing Palestinians Without Trial

http://frammentivocalimo.blogspot.it/2016/01/gideon-levy-si-israele-sta-giustiziando.html

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http://frammentivocalimo.blogspot.it/2016/01/gideon-levy-loccupazione-israeliana.html

Sintesi personale

DUBLINO – La permanenza in America ha reso Michael Sfard ottimista : “Un giorno l’occupazione finirà” ha scritto in un toccante articolo

Ha descritto come l’occupazione crollerà in un brevissimo lasso di tempo, come Israele cambierà bruscamente, come improvvisamente tutti diranno che erano sempre stati contro l’occupazione. La sua descrizione accende l’immaginazione, infonde speranza, tonifica e ci stimola a continuare la lotta.

E ‘successo in Sud Africa, nell’ Unione Sovietica e a Berlino E ‘così piacevole da leggere Sfard da essere tentati di credergli e ,conseguentmente, è così difficile essere un guastafeste.

Eppure ci sono alcuni fattori che potrebbero determinare il prolungamento dell’ occupazione israeliana , forse non per sempre, ma sicuramente molto più a lungo di quanto Sfard speri . Osservi Michael ciò che sta accadendo qui : una ragazza di 13 anni con un coltello viene giustiziata tra le acclamazioni della folla o con silenzio passivo
Nessuno ha predetto la fine dell’apartheid in Sud Africa, ma l’ apartheid non ha mai avuto forti alleati e finanziatori generosi come l’apartheid israeliana nei territori ha. Non c’era un presidente americano che ha tenuto un discorso nell’ ambasciata israeliana a Washington, un atto imbarazzante di adulazione a uno Stato che non ha mai ascoltato il suo consiglio e a un ambasciatore che non ha fatto altro che minarne il prestigio .

Non c’è nessuno stato al mondo che oserebbe agire in quel modo verso un potere globale Eppure Barack Obama continua a piegarsi ad Israele. Questo non è certamente il modo per porre fine all’occupazione.

Quando in Francia passa una legge che vieta il boicottaggio di Israele, è assolutamente chiaro che l’occupazione è qui per rimanere . Israele non ha mai inteso terminarla . Il mondo continuerà a utilizzare misure come la marcatura dei prodotti provenienti dagli insediamenti, ma a fornire armi e a supportare l’occupazione . Con questo tipo di comportamento l’occupazione non finirà

A differenza di Israele il Sudafrica non aveva un prigioniero come l’ America, né il senso di colpa dell’ ‘Europa. Così è stato possibile organizzare una campagna di sanzioni in tutto il mondo che alla fine hanno portato al crollo del suo regime. Ci possono essere differenze di opinioni sul piano internazionale , ma i media e i politici hanno ancora molta paura d’Israele per motivi non chiari.

Contro l’abominio del Sud Africa vi sono state figure esemplari : Nelson Mandela, neri e bianchi, tra cui non pochi ebrei . Israele è troppo forte e i palestinesi sono troppo deboli e divisi. A volte, sembra che la loro leadership abbia già rinunciato . Questo non contribuirà alla fine della occupazione.

La società israeliana sta galoppando verso l’estremo opposto. Con il suo sciovinismo e razzismo radicato, la sua vita vissuta nella negazione , nelle bugie e nel lavaggio del cervello, come si può prevedere che Israele si risvegli dal suo sonno? Perché dovrebbe? Si può continuare con l’occupazione fino a quando ciò gli aggrada , quindi perché dovrebbe porre fine ad essa? Chi si preoccupa dei palestinesi? E a chi interessa ciò che il mondo antisemita e gli odiatori di Israele pensano. . Non ci sono segni di speranza, interni o esterni, caro Michele.

Scrivo queste righe nella mia camera d’albergo a Dublino, di fronte al General Post Office, dove è iniziata la lotta per l’indipendenza 100 anni fa. Ci sono voluti 750 anni per eliminare l’occupazione britannica, molto meno brutale e feroce di quella israeliana.

Gideon Levy : Don’t Celebrate the Israeli Occupation’s Impending Demise Just Yet

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UNA AGGIUNTA SUL FAMILY DAY

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UN ALTRO RELATORE DELL’ONU SULLA CONDIZIONE DEI PALESTINESI COSTRETTO A GETTARE LA SPUGNA PER L’OSTRUZIONISMO ISRAELIANO

Le dimissioni di Wibisono da Relatore Speciale dell’ONU sulla Palestina Occupata

di Richard Falk (ebreo inviato dell’Onu a suo tempo rifiutato da Israele perché aveva dichiarato che alcuni trattamenti di Israele contro i palestinesi sono di stampo nazista. Ne ho scritto qui: http://www.pinonicotri.it/2008/12/israele-caccia-un-ebreo-inviato-dellonu-la-colpa-avere-detto-chiaro-e-tondo-che-i-metodi-israeliani-contro-i-palestinesi-somigliano-a-queli-dei-nazisti-contro-gli-ebrei-non-e-un-caso-che-gli-obi/ )

 

Makarim Wibisono ha annunciato le sue dimissioni da Relatore Speciale dell’ONU sulla Palestina Occupata, dimissioni che avranno effetto dal 31 marzo 2016. Questo è l’incarico che io ho ricoperto per sei anni, terminando il mio secondo mandato nel giugno 2014.

L’illustre diplomatico indonesiano dice di non aver potuto svolgere le sue funzioni perché Israele è stata irremovibile nel negargli ogni contatto con il popolo palestinese che vive sotto la sua occupazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

“Purtroppo i miei sforzi per cercare di migliorare la vita dei Palestinesi vittime di violazioni sotto l’occupazione israeliana sono stati frustrati ad ogni passo”, ha spiegato Wibisono.

Le sue dimissioni mi ricordano curiosamente di quando Richard Goldstone ritrattò alcuni anni fa i risultati principali del Rapporto Goldstone, che era stato commissionato dall’ONU e da cui risultava che Israele aveva deliberatamente colpito dei civili nel corso dell’operazione Piombo Fuso, l’attacco massiccio contro Gaza della fine del 2008. In quell’occasione la mia risposta alle domande dei giornalisti fu che ero scandalizzato, ma non sorpreso. Scandalizzato perché le prove erano schiaccianti e gli altri tre autorevoli membri della Commissione d’Indagine dell’ONU avevano mantenuto la posizione originaria. Però non ero sorpreso, perché conoscevo Goldstone, un ex-giudice della corte costituzionale del Sud Africa, come un uomo di grande ambizione e debole carattere, una pessima miscela per un personaggio pubblico che si avventura in territori controversi.

Nel caso di Wibisono, sono sorpreso ma non scandalizzato. Sorpreso perché avrebbe dovuto sapere fin dall’inizio che doveva affrontare il dilemma se fare correttamente il suo mestiere nel denunciare i crimini e le violazioni dei diritti umani di Israele, oppure guadagnarsi la cooperazione di Israele per raccogliere le sue prove. Non sono scandalizzato, anzi gli sono grato, perché mette in evidenza le difficoltà che deve affrontare chiunque abbia il compito di riferire onestamente sulla tragedia dei Palestinesi sotto occupazione. Anzi, con le sue dimissioni per motivi di principio, non permette a Israele di farla franca con il suo tentativo di neutralizzare il ruolo del Relatore Speciale.

Val la pena ricordare che quando Wibisono fu scelto come mio successore, diversi candidati più qualificati furono eliminati. Sebbene le linee guida per la selezione pongano l’accento sulla conoscenza che il candidato deve avere sull’oggetto dell’incarico, Wibisono ebbe evidentemente la meglio, con l’approvazione di Israele e degli Stati Uniti, proprio perché non aveva nessuna competenza specifica.

Posso solo sperare che il Consiglio dell’ONU per i Diritti Umani (HRC) voglia ora rimediare al suo errore rivalutando le candidature della Prof. Christine Chinkin e di Phyllis Bennis, che possiedono entrambe le credenziali, le motivazioni e la forza di carattere per divenire validi Relatori Speciali.

Questo è il minimo che dobbiamo ai Palestinesi.

Quando incontrai Makarim Wibisono a Ginevra poco dopo l’annuncio della sua nomina a Relatore Speciale, mi disse pieno di fiducia che, se accettava l’incarico, gli era stato assicurato che il governo israeliano gli avrebbe permesso l’accesso, un’assicurazione che ha riferito anche nel suo annuncio di dimissioni. Da parte sua, si impegnava ad essere obiettivo ed equilibrato e a non aver idee preconcette.

Lo avvertii allora che anche uno che fosse stato politicamente vicino a Israele non avrebbe potuto evitare di arrivare alla conclusione che Israele era colpevole di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale e delle norme sui diritti umani, e questo tipo di franchezza avrebbe sicuramente fatto arrabbiare gli Israeliani.

Gli dissi anche che stava facendo un grande errore se credeva di poter accontentare tutte e due le parti, visto che i diritti fondamentali dei Palestinesi sono negati da molto tempo. A quel punto sorrise, confidando evidentemente che la sua abilità diplomatica gli avrebbe permesso di esser gradito agli Israeliani anche quando avesse stilato rapporti che illustravano i loro crimini. Mi disse che voleva fare quello che avevo fatto io, ma farlo più efficacemente assicurandosi la cooperazione di Israele e aggirando così le loro critiche. Allora fui io a sorridere.

È vero che il mandato è di per sé esposto a critiche perché non comprende una valutazione delle responsabilità delle autorità amministrative palestinesi riguardo a violazioni dei diritti umani, ma si rivolge solo alle violazioni israeliane. Ho cercato invano di convincere lo HRC ad ampliare il mandato sino a comprendere le violazioni dell’Autorità Palestinese e di Hamas. I motivi per non farlo erano che sarebbe stato difficile trovare un accordo per definire il mandato, e aprire l’argomento della sua sfera di azione era rischioso, mentre in fondo la prova schiacciante dell’oppressione esercitata sui Palestinesi dall’occupazione si poteva ricavare dalle stesse politiche e pratiche di Israele. Per cui varie delegazioni presso lo HRC sostennero che le violazioni palestinesi sarebbero state un diversivo e avrebbero dato a Israele un modo per sviare le critiche all’occupazione.

Una cosa che ho scoperto nei miei sei anni da Relatore Speciale è che la persona in carica può fare la differenza, ma solo se è disposta a prendersi tutte le critiche.

Può fare la differenza in vari modi. Innanzitutto fornendo ai ministri degli esteri del mondo la relazione più autorevole possibile sulla realtà quotidiana del popolo palestinese. È anche importante saper portare il discorso su argomenti più illuminanti della semplice discussione su “l’occupazione”, affrontare temi come l’annessione de facto, la pulizia etnica e l’apartheid, e dare anche qualche appoggio dall’interno dell’ONU a iniziative della società civile come il BDS e la Freedom Flotilla. Facendo questo c’è da aspettarsi aspre reazioni da parte delle organizzazioni ultra-sioniste e da quelle che gestiscono la “relazione speciale” tra USA e Israele, mettendo anche in conto l’avvio di una campagna continua di diffamazione che cerca di screditare in ogni modo la voce di chi tratta questi argomenti e il lancio di accuse infuocate di anti-semitismo e, nel mio caso, di essere “un Ebreo che odia se stesso.”

Quello che mi ha scandalizzato e sorpreso allo stesso tempo è stata la disponibilità sia del Segretario Generale dell’ONU che dei rappresentanti diplomatici americani (Susan Rice e Samantha Power) a piegarsi verso Israele e unirsi al coro che faceva queste irresponsabili accuse finalizzate a chiedere le mie dimissioni.

Anche se qualche volta ho avuto la tentazione di dimettermi, sono contento di non averlo fatto. Vista la parzialità in favore di Israele dei grandi mezzi di comunicazione in USA e in Europa, è particolarmente importante conservare, anche se sotto attacco, questa fonte di verità senza arrendersi alle pressioni scatenate da varie parti.

La mia speranza è che il Consiglio per i Diritti Umani impari dall’esperienza fatta con Wibisono e nomini qualcuno che possa sopportare le critiche e al tempo stesso riferire i fatti per quello che sono. Il rifiuto di Israele a cooperare con attività ufficiali dell’ONU è un ostacolo alle funzioni del Relatore Speciale e costituisce di per sé una violazione degli obblighi di Israele in quanto membro dell’ONU. Al tempo stesso, il comportamento di Israele che sfida la legge internazionale è così evidente ed è così facile procurarsi informazioni attendibili, che io ho avuto la possibilità di stilare rapporti che trattavano tutti i principali aspetti della tragedia palestinese. Naturalmente il contatto diretto con le persone che vivono sotto occupazione avrebbe aggiunto una dimensione di conferma e di testimonianza, oltre a fornire un’espressione concreta delle preoccupazioni dell’ONU per gli abusi commessi sotto un’occupazione insostenibilmente prolungata e senza una fine in vista.

Finché non arriva il giorno dell’autodeterminazione palestinese, il minimo che l’ONU può fare è mantenere aperta questa finestra di osservazione e di valutazione. Dopo tutto, è stato l’ONU a impegnarsi nel 1947 a trovare una soluzione alla controversia israelo-palestinese e a riconoscere gli uguali diritti dei due popoli. Anche se questo approccio era colonialista e interventista nel 1947, è diventato plausibile nel 2016 visti gli sviluppi degli ultimi anni. L’ONU può non avere colpa di quello è andato male, ma certamente ha mancato di assolvere i propri doveri riguardo ai diritti fondamentali dei Palestinesi. Fino a che questi diritti non saranno realizzati, l’ONU deve dare quanta più attenzione possibile a questo residuo dell’epoca coloniale.

https://richardfalk.wordpress.com/2016/01/06/wibisonos-resignation-as-un-special-rapporteur-on-occupied-palestine/

PERCHE’ LA BOMBA H DELLA COREA DEL NORD

Se è vero quanto affermano le autorità nordcoreane, l’esplosione di una bomba atomica all’idrogeno ha fatto eco nei giorni scorsi all’appello lanciato il 25 agosto di due anni fa da Papa Francesco dalla Corea del Sud, dove era appena arrivato in occasione dalla Giornata della gioventù dei popoli asiatici, celebrata a Daejon. – perché le due Coree, quella del Nord ancora a regime comunista, e quella del Sud, a economia capitalista e stretta alleata degli Usa, vivano finalmente in pace e perciò riunificate. E’ il caso di ricordare che le bombe H, all’idrogeno, sono enormemente più potenti e quindi devastanti di una semplice bomba A per il semplice motivo che usano una di queste come detonatore. L’esplosione della A permette infatti di raggiungere i milioni di gradi di temperatura necessari perché gli atomi di idrogeno fondano tra di loro perdendo così massa che si trasforma fulmineamente in energia.

Prima però di concludere che la Corea del Nord ha mire aggressive anziché esclusivamente difensive, vediamo di ripercorrere un po’ di Storia. Dal 668 d. C. la Corea è stata un Paese che ha unito il nord e il sud per oltre mille anni. Come mai allora le Coree oggi sono due e in quella del Sud ci sono ancora, fin dal 1945, poco meno di 40 mila soldati Usa anche se di militari coreani che occupano territori Usa non se ne sono mai visti? La divisione coreana è un avanzo della seconda guerra mondiale, un suo colpo di coda. Colpo sferrato dagli Usa l’8 settembre 1945, sei giorni dopo la resa del Giappone, con un’invasione che da lotta alle malefatte di Tokio in quella parte di mondo è stata trasformata nel giro di tre mesi in “guerra ai comunisti”, rivelando così il vero scopo degli Stati Uniti. Per “comunisti” però Washington intendeva tutti coloro che si erano battuti contro l’occupazione giapponese, iniziata nel 1910 per ridurre la Corea a colonia di Tokio. Gli Usa preferirono infatti mettere al governo del Sud gli stessi detestati collaborazionisti che per decenni avevano servito i giapponesi. A governare la Corea del Nord restava invece chi gli invasori giapponesi li aveva combattuti.

Nel marzo del ’46 la neonata Onu, fondata il 26 giugno del ’45, istituì una commissione per realizzare l’unità e l’indipendenza della Corea, ma l’iniziativa fece la fine della commissione che due anni dopo avrebbe dovuto far nascere in Palestina lo Stato palestinese. Di fatto per un bel pezzo la Corea è stata governata dal generale americano Mac Arthur, che, quando nel ’50 i cinesi reagirono alla massiccia presenza militare americana invadendo il territorio coreano occupato dagli Usa, voleva usare a tutti i costi le bombe atomiche contro di loro.E a proposito delle polemiche e accuse alla Corea del Nord per essersi dotata di ordigni nucleari, Mac Arthur è la dimostrazione di come i primi a minacciare di usare le atomiche sul suolo coreano siano stati gli Usa. Le cui minacce non erano da sottovalutare visto che di atomiche – pur di sperimentarle sugli esseri umani e spaventare così l’Urss alleata nella guerra contro i nazisti, ma scomoda perché sovietica – ne avevano già usate due contro i giapponesi.

Se non usarono le atomiche, in Corea gli Usa sperimentarono su larga scala le enormi bombe “Tarzon”, da 5 tonnellate di esplosivo, sganciate dai B-29 soprattutto su Kanggye, dove la Cia era convinta si nasconsessero i leader politici coreani compreso Kim Il Sung, leader della Reistenza ai giapponesi e padre dell’attuale capo di Stato. E a proposito di superbombe, durante la guerra con l’Iraq e in Afghanistan gli Usa hanno sperimentato “in corpore vili” le MOAB, o “Mother Off All Bombs”, da 8 tonnellate di TNT. Il settimanale Newsweek pubblicò in copertina una foto della mostruosa bomba sotto il titolo “Perché l’America spaventa il mondo”, che forse meglio sarebbe stato completare aggiungendo le parole “e perché non ne è molto amata in una sua larga parte”. Sottoposti per decenni alla minaccia di invasione americana, i nord coreani hanno reagito nell’unico modo possibile per rendere inefficace l’eventuale realizzazione della minaccia: hanno costruito una impressionante rete corazzata sotterranea di basi militari e di impianti di tutti i tipi – almeno 15 mila, cifra senza pari nell’intera storia militare del genere umano – e hanno fatto di tutto per dotarsi anche loro di atomiche, onde rendere una eventuale invasione americana troppo costosa in termini di vite umane.

Solo chi è in malafede può sostenere che la Corea del Nord vuole bombardare con armi nucleari la Corea del Sud, con il solo risultato di essere eliminata dalla faccia della terra tramite le atomiche americane di vario tipo: A, H ed N (bombe a neutroni, donde il nome). Tutto il resto, compresa la fame della popolazione ridotta allo stremo, è una conseguenza di tutto ciò. La faccenda della fame però mal si accorda con la estrema modernità della capitale della Corea e della sua stupefacente metropolitana. Può non piacerci, ma non è scritto da nessuna parte che Stati sovrani debbano essere felici di avere alle frontiere per decenni eserciti potentemente armati e sempre pronti all’invasione al minimo pretesto. Washington si è arrogata il diritto di reagire con l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq con la scusa – completamente sballata almeno nel caso dell’Iraq – dell’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre. E la Cina nel 1949 si è arrogata il diritto di “riprendersi” il Tibet, cioè di invaderlo. È ovvio che la Corea del Nord da tali pericoli ha – come chiunque – il diritto di potersi difendere, anche perché di morti non ne ha avuti 3-4 mila come gli Usa con le Twin Towers, ma qualche milione con la guerra iniziata nel ’50 e una marea di altri morti già prima, con la feroce invasione giapponese.

Bisogna inoltre avere l’onestà di dire come non sia affatto vero che il regime della Corea del Nord è insensibile ai problemi della propria popolazione e vuole a tutti i costi sviluppare missili e atomiche. Il mese prima delle elezioni Usa che hanno sciaguratamente portato alla Casa Bianca George W. Bush il generale Jo Myong Rok, cioè l’autorità più potente della Corea del Nord, l’uomo che presiedeva al complesso che produceva e vendeva missili agli altri Paesi, ha fatto visita a Bill Clinton alla Casa Bianca. Nell’occasione è stato scritto di comune accordo un impegno in base al quale “nessuno dei due governi vuole avere intenzioni ostili nei confronti dell’altro”. E per la fine di ottobre era stato fissato un viaggio impensabile, quello del segretario di Stato Madeleine Albright a Pyongyang per trattare direttamente con Kim Jong Il e fissare la data del summit nella stessa Pyongyang tra Clinton e Kim.

Nel corso del summit era previsto che sarebbe stato firmato un accordo per l’acquisto da parte degli Usa di tutti i missili a gittata intermedia e lunga esistenti in Corea del Nord. Se questo accordo fosse stato perfezionato i lanci sperimentali di missili a lunga gittata della Corea del Nord ,che tante proteste hanno provocato, semplicemente non sarebbero mai esistiti. Fermo restando il fatto che anche la Corea del Nord ha diritto a inviare in orbita satelliti per le telecomunicazioni e quant’altro di pacifico si può realizzare solo con il lancio di missili. Ma a bloccare tutto appena insediatosi è stato il funesto neopresidente Bush, che nel marzo del 2001 trattò a pedate anche il presidente della Corea del Sud, Kim Dae Jung, fresco Premio Nobel per la pace e desideroso di accordi e ricomposizione con il Nord. Bush zittì anche Colin Powell, reo di avere osato dire che la nuova amministrazione avrebbe continuato le trattative con la Corea del Nord là dove le aveva lasciate l’amministrazione Clinton.

Il problema, molto poco noto, è che la guerra di Corea del 1950 ha creato, con il documento NSC 68 firmato da Truman nell’aprile del ’50, le basi – teoriche e strategiche – per il continuo irrobustimento dell’apparato industriale militare americano. Vale a dire, dell’apparato che di fatto traina l’intero sistema produttivo Usa perché ne rappresenta con l’indotto e la ricerca non meno del 30% del totale. L’apparato che già Dwight Eisenhower e pochi anni fa Colin Powell hanno definito senza mezzi termini un pericolo per la pace e quindi per gli stessi Stati Uniti. Da notare, dato che ci siamo, che alla fine del dicembre del ’49 Truman aveva firmato anche il documento NSC 48, che per la prima volta approvava l’aiuto militare a favore dei francesi contro i vietnamiti arcistufi di essere una colonia di Parigi.

Con George W. Bush il budget per la Difesa è arrivato all’astronomica cifra di oltre 400 miliardi di dollari.
Nella Corea del Sud c’erano anche centinaia di bombe atomiche Usa, rimosse da George Bush padre, che però non se l’è riprese negli Stati Uniti. Ha infatti preferito limitarsi a trasferirle sulle navi e sui sottomarini che da sempre controllano da vicino la Corea del Nord. Il costo della presenza militare Usa nella Corea del Sud oscilla tra i 17 e i 42 miliardi di dollari l’anno, a seconda delle voci che si vogliono prendere in considerazione.

Un giro di boa epocale, dunque, la guerra di Corea. Le enormi spese “difensive” previste dall’NSC 68 furono giudicate dai suo ideatori una occasione per l’economia statunitense per “trarre consistenti benefici dal tipo di potenziamento che suggeriamo”, potenziamento militare ovviamente.

La guerra di Corea è stata quindi importante per la storia americana per due motivi: 1) ha rappresentato il fulcro attorno al quale far ruotare una spesa militare tanto massiccia quanto permanente; 2) ha rovesciato provocatoriamente la teoria del “contenimento” del “pericolo comunista” trasformandola nella teoria del “rollback”, cioè del “ripiegamento”. Ovvero, in termini più chiari, della “liberazione”. “liberazione” tentata poi con la fallita invasione di Cuba, messa in atto in Afghanistan e Iraq e foraggiata sotto banco in Siria e altrove. Mac Arthur e gli strateghi politici americani pianificavano di “liberare” l’intera Manciuria e le aree meridionali più importanti della Cina!

Come si vede, sia l’appello pacifista di Papa Francesco sia l’asserita esplosione dell’H nordcoreana hanno motivazioni e radici assai diverse da quanto si vuol far credere all’opinione pubblica occidentale.

ANNO NUOVO, RISCHI FINANZIARI NUOVI

2016: NUOVI RISCHI FINANZIARI GLOBALI

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

La Federal Reserve, come previsto, ha chiuso il 2015 con un aumento del tasso di interesse dello 0,25%. Evidentemente si intenderebbe dare il messaggio di fine della crisi negli Stati Uniti. C’è da augurarselo per la ripresa globale. Non vorremmo però che ci si debba ricredere.

La politica degli anni passati del Quantitative easing e del tasso di interesse zero non ha risolto i problemi . In questo periodo sono stati immessi 3,5 trilioni di dollari nel sistema bancario. Solo la borsa americana ne ha beneficiato. Rispetto al crollo del 2008 gli aumenti sono stati del 96% per l’indice Dow Jones, del 124% per quello S&P 500 e del 214% per il Nasdaq.

Nei sistemi finanziari e nelle economie di molti altri Paesi, invece, ha lasciato profonde ferite. Nei mercati emergenti molte imprese sono state invogliate ad accendere tanti e nuovi debiti in dollari, molto spesso per operazioni rischiose e poco produttive. Del resto i costi apparivano molto contenuti. Secondo i dati della Banca dei Regolamenti Internazionali il debito totale delle imprese private dei Paesi emergenti ha raggiunto i 3,4 trilioni di dollari, più del doppio rispetto al livello di prima della crisi.

Con la continua svalutazione delle proprie monete nazionali, le economie emergenti hanno sempre più difficoltà a pagare debito e interessi. Per coprire i buchi finanziari attingono al bilancio pubblico scatenando gravi tensioni sociali. Adesso ogni aumento del tasso di interesse americano suona come una minaccia alla propria stabilità nazionale ed economica. Inoltre, l’attuale discesa dei prezzi della materie prime, di cui sono largamente produttori , e l’atteso rallentamento delle economie emergenti nel loro insieme, non solo quello della Cina, rappresentano un ulteriore aggravamento. Se si tiene presente che esse rappresentano il 40% del Pil mondiale, la loro instabilità rischia di avere delle conseguenze negative globali.

Il tasso zero e la liquidità a “go-go” hanno generato una tendenza simile anche negli Usa. Invece di essere utilizzata per espandere il business, la liquidità è spesso servita per fusioni e acquisizioni. Quest’anno ben 327 miliardi di dollari sono finiti in tali operazioni. Inoltre tra il 2009 e il 2014 ben 1.200 miliardi di dollari sono stati riversati nei fondi che trattano obbligazioni corporate. Perciò anche l’Office of Financial Research del ministero del Tesoro americano nel suo recente rapporto annuale intravede dei “rischi elevati” per il rifinanziamento dei debiti obbligazionari del settore non finanziario.

Non è un caso quindi che nelle scorse settimane una serie di fondi di investimento che operavano con i cosiddetti “junk bond” , i titoli spazzatura ad alto rischio, siano andati in crisi. Il settore era cresciuto moltissimo negli anni passati, particolarmente nel campo energetico. Di fatto esso aveva rimpiazzato quello delle ipoteche sub prime dominante prima della crisi. Ciò ha generato delle ulteriori vendite sul vasto mercato dei junk bond con riverberi negativi sull’intero mercato delle obbligazioni. Si stima che vi siano circa 1,4 trilioni di junk bond che richiederanno un rifinanziamento a breve.

Una delle aspettative derivante dall’aumento del tasso di interesse sarebbe quella di ridurre la tendenza del sistema bancario e di quello corporate a ricorrere al prestito facile. Ma in realtà le banche americane hanno già delle gigantesche riserve in eccesso, pari a 2,42 trilioni di dollari, per cui il menzionato aumento difficilmente determinerà mutamenti nel loro comportamento.

Come sappiamo la Banca centrale europea, invece, intende perseguire una politica espansiva della liquidità. Occorrerà stare attenti che non si generi il cosiddetto “euro carry trade”, cioè la tendenza ad approfittare dell’euro a tasso zero per attingere a crediti che potrebbero andare in attività, anche speculative, fuori dall’Europa. Proprio come in passato è accaduto con lo yen e con lo stesso dollaro.

Considerati i rischi di nuove turbolenze, sarebbe il caso che in Europa e anche in Italia si affrontassero con chiarezza e decisione le crescenti difficoltà del sistema bancario. Servono più controlli stringenti sulle sue attività, divieto assoluto delle operazioni ad alto rischio sia in derivati che in junk bond, maggiore tutela dei risparmiatori e forti sanzioni penali nei confronti degli amministratori e dei manager bancari che non rispettano le norme.  

*già sottosegretario all’Economia

**economista

AUGURISSIMI!!!!! PER UN ANNO FELICE, DI GIUSTIZIA, PACE, AMORE, AFFETTI, AMICIZIE, RIAPPACIFICAZIONI, PROSPERITA’, VERITA’, LACRIME SOLO DI GIOIA, SALUTE, DIGNITA’, PROGRESSI.
VI ABBRACCIO TUTTI, VI VOGLIO BENE E VI RINGRAZIO.

LA MONETA CINESE FA IL SUO INGRESSO TRA LE MONETE DI RIFERIMENTO DEL FONDO MONETARIO INTERNAZIONALE

La moneta cinese entra nei diritti speciali di prelievo del Fmi

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il renminbi cinese (rmb) entra a far parte dei diritti speciali di prelievo (dsp), la moneta internazionale di riferimento del Fondo Monetario Internazionale composta da un paniere di valute. Sino ad oggi vi partecipano soltanto il dollaro, l’euro, lo yen giapponese e la sterlina britannica.

I dsp sono la moneta virtuale di riserva internazionale creata dal Fmi nel 1969, nel contesto del sistema di cambi fissi di Bretton Woods, per affiancare le riserve monetarie (allora solo dollaro e oro) e per supportare l’espansione del commercio mondiale e i relativi flussi finanziari.

Il Fmi li ha usati anche per prestiti di emergenza verso i Paesi membri. I dsp possono essere scambiati con le altre valute normalmente usate. A fine novembre di quest’anno erano in circolazione 204 miliardi di dsp, pari a circa 285 miliardi di dollari.

La ripartizione sarà così: il dollaro avrà il 41,73%, l’euro il 30,93%, il renminbi il 10,92%, lo yen l’8,33% e la sterlina l’8,09%. Questa nuova composizione entrerà in vigore il prossimo 1 ottobre 2016.

Interessante notare che la suddivisione delle quote del 2011 era: 41,9% per il dollaro, 37,4% per l’euro, 11,33% per la sterlina e 9,44% per lo yen. Balza evidente che, nonostante il ridimensionamento dell’economia americana, il dollaro mantiene la posizione dominante. Chi viene ridimensionato è in particolare l’euro.

Si noti che, quando il Fmi venne creato nel dopo guerra, il pil americano era equivalente al 50% di quello mondiale, oggi è il 22%. Venti anni fa il pil della Cina rappresentava soltanto il 2% del totale, oggi è il 12%. Si consideri che la Cina detiene circa 1,3 trilioni di dollari in buoni del Tesoro americano.

Nonostante queste enormi trasformazioni dell’economia mondiale la quota di partecipazione assegnata alla Cina nel Fmi è simile a quella del Belgio. Del resto non si può ignorare che il Congresso americano nel 2010 votò contro la revisione delle quote e che tale opposizione si è poi ripetuta ad ogni summit del G20.

In ogni caso la decisione sui dsp è un importante passo in avanti nella creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere di monete. La nuova composizione dei dsp dovrebbe perciò preparare una grande evoluzione verso un sistema multipolare nella sua dimensione politica, economica, commerciale e, quindi, anche monetaria.

La Cina e gli altri Paesi del BRICS sono stati i grandi fautori di una riforma globale in modo crescente a partire dalla crisi finanziaria del 2008. Già nel marzo del 2009 il governatore della Banca Centrale Zhou Xiao Chuan aveva sollecitato la creazione di una moneta di riserva internazionale non più sottomessa a una singola moneta nazionale, il dollaro. Oggi la Banca centrale cinese saluta la decisione come “un miglioramento dell’attuale sistema monetario internazionale e un risultato vincente sia per la Cina che per il resto del mondo”

Adesso la Cina sarà certamente sottoposta a crescenti pressioni e la sua economia e il suo sistema finanziario saranno analizzati e valutati con cura.

Si stima che inizialmente ciò dovrebbe determinare un modesto aumento nella domanda internazionale di valuta cinese, equivalente a circa 30 miliardi di dollari. Comunque chi commercia con la Cina sarà sollecitato a tenere quantità crescenti di rmb.

La riduzione delle allocazioni di portafoglio in dollari a seguito della decisione di riconoscere al rmb un ruolo di moneta di riserva potrebbe nel tempo essere maggiore di quanto si possa oggi pensare.

Il processo di internazionalizzazione di una moneta è lento, procede infatti per tre stadi: viene prima usata in operazioni commerciali, poi può diventare oggetto di investimenti da parte di privati e infine può essere accettata come riserva per il mercato regionale e globale.

Si ricordi che nel 2014 il rmb era incluso nelle riserve monetarie di 38 Paesi soltanto. E rappresentava circa 1,1% di tutte le riserve monetarie. L’euro contava per il 21%.

Negli anni recenti la Cina ha sottoscritto accordi di swap monetari con più di 40 banche centrali, in Asia, in Europa e in America Latina. Ciò ha facilitato l’uso dello rmb e ha favorito la concessione di quote di partecipazione nei programmi cinesi di investimenti esteri.

Si stima che nei prossimi 10 anni questa evoluzione potrebbe portare ad un flusso di circa 2-3 trilioni di dollari verso la Cina. Soprattutto le economie emergenti avranno un immediato interesse verso il rmb e il suo nuovo ruolo internazionale.

Ci si augura che l’Europa abbia piena consapevolezza delle oggettive implicazioni strategiche che il cambiamento in questione avrà. Non vorremmo che ancora una volta essa subisca certi processi rinunciando al protagonismo che la sua realtà economica e politica richiede.

*già sottosegretario all’Economia **economista

CHI FINANZIA l’ISIS?

Terrorismo e finanza: una storia nota

 di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Si torna a “ riscoprire” i pericolosi e profondi legami tra il terrorismo e la finanza. Al G20 di Antalya sull’argomento è stato presentato anche uno specifico rapporto sull’emergenza terroristica preparato dal Financial Action Task Force.

 Il FATF è il coordinamento giuridico intergovernativo, creato nel 1989, che coinvolge più di 180 Paesi, con il compito di indicare degli standard legali e operativi da far applicare nella lotta contro il riciclaggio di denaro, contro i finanziamenti del terrorismo e altre minacce all’integrità del sistema finanziario internazionale.

 All’ultimo summit esso ha di fatto presentato un sondaggio sui comportamenti dei governi relativi al rapporto tra finanza e terrorismo. Emerge una grave negligenza della maggioranza dei governi a prendere sul serio la lotta contro le commistioni tra certa finanza internazionale, alcune banche, alcuni mediatori finanziari e monetari, con le reti del terrore, da ultimo quelle di al Qaeda e dell’Isis.

 Il rapporto dice che la maggior parte delle giurisdizioni nazionali, circa i due terzi, non ha mai fatto uso pratico delle sanzioni finanziarie mirate contro il terrorismo, anche se sollecitate da risoluzioni ONU. Pochi Paesi hanno comminato condanne per finanziamento del terrorismo. Molte giurisdizioni, il 45% dei Paesi del FATF, non considerano un atto criminale finanziare dei terroristi per scopi non direttamente legati a degli attentanti. Soltanto 33 giurisdizioni, il 17% di tutti i membri, hanno realmente inflitto delle condanne per “finanziamento terroristico”.

 E’ non di meno sorprendente conoscere che sia proprio l’Arabia Saudita a detenere il primato delle azioni contro i reati di collegamento tra terrorismo e finanza. Dal 2010 ad oggi sono stati condannate 863 persone. Secondi arrivano gli USA, capofila della guerra al terrorismo, con circa 100 condanne. I sauditi sono anche i primi nei sequestri di beni e di conti legati a reti terroristiche per circa 31 milioni di euro.

 Si tratta quindi della stessa Arabia Saudita, che con il Qatar, è sempre più denunciata da esperti e anche dai media internazionali come la grande sostenitrice e finanziatrice dell’Isis.

Sembra che l’Arabia Saudita usi gli standard del FATF per difendersi in casa sua e però li violi totalmente nelle sue attività estere e internazionali.

 A questo punto è chiaro che gli interventi dell’aviazione russa contro le centrali terroristiche in Siria e le denunce di Putin per le troppe complicità internazionali dietro alle operazioni militari e finanziarie dell’Isis hanno scoperto un vaso di Pandora fatto di complicità e di calcolate impotenze. Naturalmente tali denunce hanno molto irritato certi giocatori d’azzardo della geopolitica.

 In verità Putin ha detto cose che già si sapevano da tantissimo tempo in Occidente e in particolare negli USA. Per esempio, la Commissione per i Servizi Finanziari del Congresso americano il 13 novembre 2014 aveva organizzato un’audizione dedicata proprio al “Terrorist Financing and the Islamic State” (vedi http://financialservices.house.gov/uploadedfiles/113-99.pdf ), dove David Cohen, sottosegretario al Tesoro per il terrorismo e per l’intelligence finanziario, e altri esperti sono stati tempestati di domande da numerosi parlamentari di maggioranza e di opposizione.

 Era emerso con chiarezza e ricchezza di dati che, mentre al Qaeda poteva contare dopo l’attentato dell’11 Settembre su circa mezzo milione di dollari di sostegni al giorno, l’Isis aveva introiti di 1-2 milioni di dollari al giorno attraverso la vendita di petrolio, i riscatti degli ostaggi e i sostegni da parte delle cosiddette “organizzazioni caritatevoli” soprattutto dei Paesi del Golfo, a cominciare dal Qatar e dall’Arabia Saudita. Si dice anche che si è “fatto uso del sistema finanziario globale per finanziare il terrorismo”. Nell’ audizione della succitata Commissione alcuni parlamentari hanno denunciato che le banche non fanno abbastanza contro simili operazioni finanziarie e il ministero di Giustizia americano e le agenzie preposte non sembrano troppo interessati a imporre dei controlli severi. Il deputato Brad Sherman della California ha sottolineato che il Qatar, anche a livello governativo, “è una delle maggiori fonti di finanziamento”.

 Per quanto riguarda il petrolio in mano all’Isis, la Commissione sapeva che 30.000 barili al giorno, trasportati da almeno 250 autobotti, transitavano attraverso “i confini porosi” della Turchia e del Nord Iraq per essere venduti a compiacenti acquirenti, consapevoli di sostenere le operazioni terroristiche.

 Perché non si è fatto come nella seconda guerra mondiale quando si bombardavano i bersagli strategici? Perché nei territori dell’Isis la rete elettrica era intatta e l’elettricità veniva fornita impunemente dall’Iraq? Perché la cosiddetta “Threat Finance Cell”, la rete di operatori e informatori dell’intelligence americano che aveva operato in Afghanistan ed in Iraq, era stata smantellata? Queste e molte altre simili domande sono state poste dai congressisti bipartisan.

 Il governo di Washington è stato anche accusato di sminuire la gravità dello scontro in quanto continuava a parlare di “degrade”, di indebolire, invece di “defeat”, di sconfiggere le operazioni finanziarie del terrorismo.

 Nell’audizione è stata anche analizzata in dettaglio la cosiddetta “hawala”, cioè la rete informale di operatori privati addetti al trasferimento di denaro, molto attiva nei Paesi islamici a cominciare da quelli del Golfo. Ne emerge che si sapeva molto del loro funzionamento ma non si è fatto niente per contrastarli.

 Perciò sorge doverosa la domanda: perché si è fatto troppo poco? Perché si è aspettato l’intervento russo per scuotere l’apatia occidentale?

 *già sottosegretario all’Economia

**economista

Disgregare la Siria e continuare a rimpicciolire la Russia.

ROMA – L’abbattimento dell’aereo russo per ordine del governo turco è un atto gravissimo che, nonostante il baccano contro la Russia sollevato anche da Obama e dall’intera Nato, non può nascondere alcune cose. Una più chiara dell’altra anche nelle conseguenze future. Che saranno nefaste.
Attacco pretestuoso. Intanto c’è da notare che la Russia se non è amica della Turchia non è comunque una sua nemica, e quindi la presenza di un suo singolo aereo con un equipaggio di appena due persone, aereo non del tipo addetto allo spionaggio e ormai privo di bombe per averle sganciate sui miliziani dell’Isis, NON poteva in ogni caso essere una minaccia. Di nessun tipo.
Ma la cosa più importante è che i filmati mostrano chiaramente come l’aereo colpito e ormai in fiamme sia precipitato in verticale per infine schiantarsi in territorio siriano. Il che DIMOSTRA in modo INCONFUTABILE che l’aereo russo o stava volando sul territorio della Siria, con tanto di autorizzazione del governo siriano, oppure anche se ha superato il confine turco non può averlo superato in profondità.

Poiché era inoltre chiarissimo che – come annunciato da giorni – quel velivolo militare si trovava nella porzione di cielo NON per attaccare la Turchia, cosa peraltro impossibile da fare da solo, ma perché aveva attaccato basi dell’Isis vicine al suo confine, la Turchia – e l’Europa intera – quell’aereo doveva semmai ringraziarlo e difenderlo dai tiri dei terroristi. Invece…. L’abbattimento è quindi un atto pretestuoso. Anzi, un vero e proprio atto di guerra contro la Russia, che certamente il presidente turco Erdogan non può avere deciso senza il permesso degli Usa.

Il “grande gioco” siriano. L’abbattimento DIMOSTRA inoltre che la Turchia, non ostacolata in questo dalla Nato della quale fa parte, da quattro anni preferisce avere ai suoi confini sul territorio turcomanno della Siria i terroristi dell’Isis, senza mai disturbarli in modo credibile, anziché una presenza militare che quei terroristi combatta seriamente. Perché li preferisce? Per il semplice ed evidente motivo che la Turchia, anche per rafforzarsi contro la minoranza curda, ha da tempo già messo gli occhi su una “sua” fetta di Siria quando ANCHE la Siria sarà smembrata come già fatto con l’Iraq, la Libia e – non dimentichiamolo – con la Russia tramite la secessione dell’Ucraina, anch’essa voluta, finanziata e armata da Usa ed Europa.

La partita Usa in Ucraina. L’uomo forte, a Kiev, è in realtà il premier Arsenij Yatsenyuk, ferreo filo Nato, al quale gli Usa hanno “consigliato” di nominare ministro dell’Economia Natalia Jaresko, cittadina Usa con bella carriera al Dipartimento di Stato e all’ambasciata Usa in Ucraina, omaggiata della sua cittadinanza concessale nel tempo record di appena due ore, e hanno “consigliato” come ministro della Sanità Aleksander Kvitashvili.

Si tratta di un georgiano che ha collaborato strettamente con Mikhail Saakashvili, il quale quando era presidente della Georgia la precipitò, con tanto di aiuto della Nato, nella disastrosa guerra del 2008 contro la solita Russia. Saakashvili, anche lui omaggiato dal fulmineo regalo della cittadinanza ucraina, ha avuto come premio di consolazione il governatorato di Odessa, che il caso vuole confini con la Crimea. Proprio quella Crimea che si vuole strappare da Mosca per privare l’immenso territorio russo dell’accesso delle sue navi al mare Mediterraneo partendo dal mare d’Azov.

A conti fatti, si può legittimamente sospettare che gli Usa dopo avere voluto e ottenuto lo smembramento dell’Unione Sovietica puntino ora allo smembramento della Russia, lo Stato più grande esistente al mondo. Stato che, non dimentichiamolo, è una federazione di ben 84 entità federali, cioè singoli Stati federati, 22 delle quali sono repubbliche autonome. La tentazione di privare la Russia di alcuni “pezzi” è quindi inevitabile. Ci hanno già tentato i francesi con Napoleone e i tedeschi con Hitler.
Il ruolo di Arabia Saudita e Israele. Sul crollo della Siria scommette anche l’Arabia Saudita, non a caso grande finanziatrice dell’Isis, ruolo che ormai nessuno più osa negare, così come in passato è stata la grande finanziatrice del suo cittadino Bin Laden e dei suoi talebani, usati militarmente dagli Stati Uniti in Afganistan, all’epoca occupato dai sovietici, per spingere al crollo dell’Unione Sovietica come in effetti poi avvenuto (penultimo strascico prima della stagione talebana del “Grande gioco”, formula divenuta famosa grazie a Rudyard Kipling all’epoca della seconda guerra anglo-afghana).

Sul crollo della Siria scommette anche Israele, che, oltre ad essersi di recente alleata con l’Arabia Saudita in funzione anti Iran, ha già fatto sapere ad Obama che vista la riduzione della Siria a potenza zoppa avviata alla paralisi intende annettersi appena possibile l’intero Golan. Il che ovviamente porterà alla riesplosione del Libano, del quale Israele già occupa una piccola porzione, con annesse mire non solo israeliane di frantumazione anche della già difficile unità statale libanese.

Uso strumentale della guerra all’Isis. La prontezza con la quale la Turchia ha invocato una apposita riunione della Nato e la ridicola affermazione di Obama che “la Turchia ha il diritto di difendersi” – contro un singolo aereo impegnato a bombardare l’Isis! – confermano che la Nato è lo strumento politico-militare degli Usa anche per il progetto di spartizione della Siria. Spartizione voluta da Usa, Turchia e Arabia Saudita.
Tutto ciò dimostra che contro l’Isis in realtà non c’è nessuna guerra da parte del tandem Usa-Arabia Saudita e annessi e connessi: come è stato a suo tempo per Bin Laden e i talebani, c’è invece un uso strumentale dell’Isis e delle altre milizie islamiste per ridisegnare parte del Medio Oriente e annettersene porzioni di territorio – come puntano a fare Turchia, Arabia Saudita e Israele – oppure metterle sotto la propria sfera d’influenza, come puntano a fare Usa, Francia e, obtorto collo, anche la Russia.

Il tutto distruggendo centinaia di migliaia di vite umane, provocando distruzioni immani e provocando milioni di feriti, mutilati, profughi e migranti. Insomma, una sorta di 13 novembre parigino moltiplicato però per almeno 3-4 mila volte. Il tutto non solo nella più completa indifferenza dell’opinione pubblica occidentale, ma anzi col plauso di non piccoli suoi settori.

POST SCRIPTUM

1) – Gli Usa, con l’appoggio dell’Europa, negli ultimi decenni sono sempre stati pronti a “esportare la democrazia” e a “combattere il terrorismo” con interventi militari e anche con vere e proprie invasioni come quella dell’Iraq. Ma di “esportare la democrazia” e di “combattere il terrorismo” invadendo o intervenendo comunque militarmente contro l’Arabia Saudita non se ne parla proprio.
Eppure l’Arabia Saudita è la madre di tutti i terrorismi islamisti, che alimenta – oltre che con armi e soldi – col suo credo wahabita, il più arretrato di tutto l’Islam. Inoltre l’Arabia Saudita ha un regime feudale nel quale le donne non hanno diritti, sono poco più di oggetti col buco, e i diritti umani sono calpestati allegramente (150 decapitazioni in piazza per i motivi più disparati e abietti solo nell’ultimo anno). Per il petrolio dell’Arabia Saudita gli Usa e l’Europa hanno venduto l’anima.

2) – A suo tempo, nel 1991, gli Usa vollero e guidarono una coalizione militare, comprendente anche l’Italia, che fece guerra all’Iraq per “liberare” il Kuwait – piccolo Stato con una monarchia di fatto assoluta e retriva, ma ricco di petrolio – invaso dall’Iraq, peraltro con l’esplicito con l’esplicito consenso dell’ambasciatrice Usa April Gaspie. Per convincere l’opinione pubblica occidentale ad accettare di buon grado quella guerra venne detto e ripetuto in tutte le salse che il Kuwait sarebbe diventato se non proprio democratico almeno una monarchia meno retriva.
L’emiro del Kuwait si è limitato a qualche riforma, ha varato una monarchia costituzionale e un governo parlamentare, concedendo però il voto alle donne solo nel 2005. Su 3.100.000 abitanti, solo 960.000 sono cittadini kuwaitiani. E se fino al 2005 avevano diritto al volto solo 139 mila maschi adulti, con il voto alle donne tale diritto resta appannaggio del solo 10% della popolazione, costituita in gran parte da immigrati e discendenti, per i quali la cittadinanza resta un miraggio.
Quella del Kuwait sarà forse una monarchia costituzionale con sistema democratico parlamentare, sta di fatto che, senza forse, è ormai appurato da tempo che dà un non trascurabile appoggio all’Isis. E che lo ha dato e lo dà ancora anche ad Al Qaeda, uno degli eredi del terrorismo di Bin Laden e del fanatismo guerriero dei talebani.