Gli USA, in buona parte parassiti del mondo

 

Gli Usa vivono in gran parte sulle spalle del resto del mondo

Mario Lettieri * e Paolo Raimondi**

Anche negli Usa non è tutto oro quello che luccica. Nel mondo non è adeguata l’attenzione all’andamento del debito degli Stati Uniti. La realtà è che esso, insieme ad altri indicatori economici, segna rosso costante.

E’ come per le automobili, quando il cruscotto segnala un problema, anche se la macchina ancora cammina non è consigliabile continuare a guidare come se nulla fosse.

E’ un dato inoppugnabile che ciò che avviene negli Usa non riguarda solo gli americani perché esso riverbera i suoi effetti nel resto del mondo.

All’inizio del 2016 il debito pubblico federale americano ha raggiunto i 19.200 miliardi di dollari, pari a circa il 105% del Pil. Alla fine del 2007 era di 9.200 miliardi pari al 65% del Prodotto interno lordo. Nel 2000 era di 5.600 miliardi. In pratica si è più che triplicato. Perciò per il sistema americano è il suo tasso di crescita, o meglio, di accelerazione della sua crescita esponenziale che deve preoccupare maggiormente.

Lo stesso andamento si è avuto per il debito delle corporation private non finanziarie che oggi è pari a 6.600 miliardi di dollari. Era di 3.300 miliardi nel 2007ed è raddoppiato.

Di conseguenza non ci si deve stupire dell’attuale stratosferica cifra di quasi 64.000 miliardi di debito totale (governo federale, singoli stati, enti locali, business, famiglie e ipoteche). Era di 28.600 miliardi nel 2000. Si sottolinea che oggi è evidente che è più che raddoppiato.

In pratica si tratta in gran parte di “debito sporco”. Fatto per tappare i buchi di bilancio, per evitare i fallimenti di banche e corporation e non per sostenere investimenti e sviluppo. La spia rivelatrice è il perenne deficit di bilancio degli Usa. Nel 2009 esso aveva raggiunto l’incredibile vetta di 1.413 miliardi di dollari portando gli Usa fino alla soglia della bancarotta. Anche il 2015 si è chiuso con un deficit di 438 miliardi.

Significativo quanto preoccupante è il crollo della bilancia commerciale. Dal 2000 ad oggi gli Usa hanno accumulato un deficit commerciale di oltre 8.630 miliardi di dollari. Dallo scoppio della crisi ad oggi è aumentato di ben 3.500 miliardi. Sarebbe ancora peggiore se si considerasse soltanto la bilancia commerciare di beni reali che dal 2000 è in negativo per oltre 10.500 miliardi. Quasi 4.700 miliardi a partire dal 2009.

E’ evidente che l’avanzo commerciale nel settore dei servizi ne attenua la portata. Anche se nei servizi convivono quelli dell’ingegneristica e quelli finanziari, dove la componente speculativa è notevole.

E’ quindi naturale chiedersi come facciano gli Usa a continuare a stampare e a spendere dollari quando l’economia sottostante,come visto, non è tanto solida.

Il tutto sembra molto simile al gioco delle tre carte.

La prima è sicuramente il Quantitative easing, cioè la decisione a suo tempo adottata dalla Federal Reserve di immettere nuova liquidità nel sistema.

L’effetto è ben visibile nella crescita straordinaria del bilancio della Fed che è passato da 860 miliardi di dollari del 2007 ai circa 4.500 miliardi di oggi. La decisione della Fed e del governo di Washington anche se ha una valenza monetaria è soprattutto politica. Secondo noi la situazione non può durare all’infinito. I nodi prima o poi verranno al pettine.

La seconda carta è il debito pubblico americano, finora largamente scaricato sulle ‘spalle’ del resto del mondo che, in verità, per varie ragioni ha assecondato tale tendenza.

Infatti circa 6.000 miliardi di dollari di obbligazione del Tesoro Usa sono in mani straniere. La Cina da sola ne ha 1250 miliardi ed il Giappone ne possiede ben 1.133 miliardi. La Fed ha in bilancio T-bond fino a 2.500 miliardi.

La terza carta si chiama derivati otc (over the counter), cioè quelli trattati al di fuori dei mercati regolamentati e tenuti fuori dai bilanci. Si sottolinea che, a seguito del tasso di interesse zero, il’ammontare complessivo di tali derivati a livello mondiale è sceso a 500.00 miliardi di dollari. Però di questi ben 180 mila sono nella banche americane. Come è noto, i derivati sono un mezzo per generare nuova liquidità quando se ne ha bisogno. Sono titoli creati attraverso una forte leva finanziaria e con alti rischi. Possono anche essere messi in garanzia per ottenere dei prestiti veri dalla Fed o dalla Bce.

Fin tanto che gli Usa riescono a scaricare il proprio debito sul resto del mondo e sui propri cittadini avranno mano libera per creare la liquidità necessaria per continuare a comprare a debito e finanziare spese di ogni tipo prescindendo, purtroppo, dalla loro effettiva capacità economica e finanziaria.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Cassius Clay Mohamed Alì ci ha lasciato: è stato un grande campione anche dei diritti civili e del rifiuto della guerra

http://www.repubblica.it/sport/vari/2016/06/04/news/morto_muhammad_ali_la_leggenda_del_pugilato-141246310/ http://video.repubblica.it/dossier/addio-a-muhammad-ali/muhammad-ali-il-rifiuto-alla-guerra-in-vietnam-loro-non-mi-hanno-chiamato-negro/241933/241933?ref=tbl http://video.repubblica.it/dossier/addio-a-muhammad-ali/muhammad-ali-audisio–senza-di-lui-non-ci-sarebbe-stato-obama-alla-casa-bianca/241931/241931 http://video.repubblica.it/dossier/addio-a-muhammad-ali/muhammad-ali-ad-atlanta-1996-emoziono-il-mondo-fu-l-ultimo-tedoforo/241928/241928 http://video.repubblica.it/dossier/addio-a-muhammad-ali/ali-vs-foreman-il-celebre-combattimento-del-1974/241927/241943 http://video.repubblica.it/dossier/addio-a-muhammad-ali/muhammad-ali-vs-stallone-la-gag-alla-cerimonia-degli-oscar/241941 http://video.repubblica.it/dossier/addio-a-muhammad-ali/addio-a-muhammad-ali-benvenuti-quando-era-cassius-clay/241927/241941

Il miserabile veleno schizzato (anche) contro di me dai filoisraeliani di “Informazione Corretta”.

Il lato comico di questa nuova demenza contro di me è che nel mio articolo, il cui link trovate qui in basso e che i fanatici di Informazione Corretta attaccano furiosamente, ho citato solo dichiarazioni pubbliche di ufficiali militari di alto livello, politici ed ex ministri TUTTI israeliani. E tutti sicuramente non S.H.I.T. , acronimo di goliardica idiozia – come dire in italiano a M.E.R.D.A. – inventato dai figuri di masada2000.org per definire gli ebrei  Self Hating or Israel Treathening, cioè gli ebrei che “odiano se stessi o minacciano Israele”. Questa infatti è la definizione che gli oltrranzisti di masada2000.org danno di tutti gli ebrei pacifisti o critici della politica istareliana, da Noam Chomsky a Moni Ovadia, da Woody Allen a Gideon Levy e Amira Hass, dei quali ne hanno scrupolosamente schedati oltre 7.000. Per ognuno è indicato anche il luogo di lavoro e i posti che usa frequentare, in modo da esporlo al rischio di aggressioni. Una vera e propria lista di proscrizione.
Questa è la copertina della S.H.I.T List, cioè della lista dei oltre 7.000 minacciati e da minacciare:

SHITList 

È la seconda fatwa degli informatori “corretti” (grappa) per miei articoli. Un onore! Così come è un onore – per me, ma un disonore per loro – anche la fatwa che il direttore de Il Messaggero di Allah lanciò contro di me per un mio articolo su L’Espresso con il quale denunciavo – primo giornalista a farlo in Italia e forse in Europa – la predicazione scritta in italiano dell’obbligo per tutti gli immigrati musulmani di lottare per l’adozione della sharia in Italia e nell’intera Europa. Tutto ciò DIMOSTRA che Informazione Corretta e Il Messaggero di Allah sono le due facce della stessa me(r)daglia.

Come già quando lavoravo a L’Espresso e molti di voi sanno e ricordano bene, il fine di questa bella gente di “informatori corretti” è di far licenziare il giornalista che critica la politica di Israele o comunque troncargli la carriera e farlo mettere in castigo, cioè farlo finire mobbizzato.

Leggete e divertitevi:

Informazione Corretta

STRAGE DELLE TWIN TOWER A NEW YORK: UN ALTRO DOCUMENTO CHIAMA IN CAUSA L’ARABIA SAUDITA!

11 settembre: un altro documento chiama in causa l’Arabia Saudita

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La campagna elettorale negli Stati Uniti è entrata nella fase calda. E’ quindi inevitabile che le questioni politiche irrisolte e più esplosive tornino a riconquistare l’attenzione dell’opinione pubblica. La più importante riguarda la verità su l’11 settembre, sui suoi responsabili e finanziatori.

Non si può dimenticare che 2977 innocenti persero la vita negli attentati contro le Torri Gemelle e che le loro famiglie, e non solo loro, non sono per niente soddisfatte delle spiegazioni ufficiali.

Come è noto, quell’attentato cambiò radicalmente anche la politica internazionale.

Le famose “28 pages”, che rivelerebbero un importante e determinante coinvolgimento di personaggi e di strutture dell’Arabia Saudita, sono ancora segretate. Esse sono parte del rapporto della Commissione di indagine del Congresso americano su l’11 settembre.

Nel frattempo però è apparso un altro dossier, il “document 17” di 47 pagine che punterebbe il dito sui legami di ben 21 persone, operanti per conto di istituzioni saudite, e i dirottatori. Interessante è la lettura del testo: http://www.archives.gov/declassification/iscap/pdf/2012-048-doc17.pdf

Il documento è stato declassificato nel luglio 2015 dalla Interagency Security Clearence Appeals Panel (ISCAP). E’ una parte degli elaborati della “9/11 Commission”, la seconda indagine indipendente del 2003 sul più grande atto terroristico della storia. Il testo è stato scritto da due tra i più importanti inquirenti del governo federale americano, Dana Lesermann e Michael Jaconson. Gli stessi che per conto della Commissione di indagine del Congresso hanno partecipato alla stesura delle succitate “28 pages”.

Il “document 17” tra i tanti interrogativi chiede di conoscere chi abbia aiutato due dei dirottatori, che in precedenza avevano soggiornato a lungo in California. Essi avrebbero goduto di appoggi logistici e sostegni finanziari di cittadini sauditi operanti sul territorio americano, dei quali uno sarebbe stato addirittura un informatore della FBI.

Nella lunga serie di domande alla FBI si cerca di comprendere se sia stato fatto tutto il necessario per fermare i terroristi e scoprire le eventuali responsabilità e complicità dei 21 cittadini sauditi. Esso rivela anche vari collegamenti internazionali con personaggi operanti in altri Paesi tra cui la Germania e la Norvegia.

In merito si spera che le nostre autorità abbiano controllato l’eventualità che i 21 personaggi menzionati abbiano avuto contatti anche nel nostro Paese.

Negli Usa su tali questioni il dibattito è diventato più acceso e più diffuso.

L’ex senatore Bob Graham, già copresidente della Commissione d’indagine del Congresso su l’11 settembre, continua con insistenza a chiedere la desecretazione delle 28 pagine. Anche recentemente in diverse interviste ha ribadito che ”è necessaria la riapertura di un’indagine generale su l’11 settembre perché entrambe le Commissioni di indagine hanno dovuto operare entro un limite temporale che non ha permesso un’indagine esaustiva”.

Ha aggiunto: ”Le 28 pagine sono importanti in quanto indicano come il complotto venne finanziato e, anche se non sono autorizzato a discuterne, i dettagli comunque puntano il dito in maniera forte contro l’Arabia Saudita.. . E’ notorio che agenti del governo saudita hanno aiutato almeno due dirottatori che vivano a San Diego, con sostegni finanziari e garantendo loro l’anonimità”.

La denuncia è forte tanto che definisce il lavoro della FBI una “aggressive deception”, un inganno aggressivo.

Riteniamo che i fatti in questione siano troppo importanti per la stabilità e per la lotta contro il terrorismo internazionale e che la piena verità possa essere il primo passo per affrontare in modo giusto e pacifico le sfide globali.

*già sottosegretario all’economia **economista

L’Italia è pronta per un Ministero per le Politiche Future?

L’Italia è pronta per un Ministero per le Politiche Future?

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’Istituto di Studi Politici Economici e Sociali Eurispes ha recentemente lanciato la proposta di creare in Italia un Ministero per il Futuro. In una lettera indirizzata al Presidente del Consiglio Renzi ha fatto propria l’iniziativa del governo svedese che l’anno sorso ha costituito un Ministero per lo Sviluppo Strategico.

E’ un’idea interessante e forte che sollecita una visione organica dei problemi e dello sviluppo.

In Svezia opera un vero e proprio Consiglio dei Ministri, composto dal primo ministro e dai ministri per le infrastrutture, lo sviluppo economico e l’innovazione, le finanze, la pubblica amministrazione e l’ambiente, che si riunisce periodicamente per definire le scelte strategiche ed elaborare idee di sviluppo a lungo termine.

Non necessariamente diventa indispensabile fare lunghe ricerche accademiche sugli scenari futuri, ma diventa stringente la valutazione di ciò che già si sa, si conosce o si intuisce per cercare le soluzioni idonee. Ad esempio sappiamo che la tecnologia cambia le condizioni del lavoro e che la democrazia rischia meno se si coltiva una cultura civica condivisa. Di conseguenza i provvedimenti puntuali da adottare in merito possono ridurre le tensioni quotidiane, attenuando anche la polemica mediatica del momento e favorendo quindi una maggiore libertà ed efficacia dell’azione politica dei governanti.

A livello internazionale, europeo e nazionale, la politica è di fronte a scelte di grande rilievo e anche a grandi opportunità. Si deve muovere su un terreno di gioco inedito e più complesso che pone domande nuove e richiede soluzioni nuove oltre che un impegno comune. Si consideri, per esempio, la grande finanza, le migrazioni, l’ambiente, l’esplorazione dello spazio, la ricerca, anche quella sanitaria e farmaceutica per debellare i grandi mali del secolo. Si consideri inoltre gli apporti che necessariamente dovranno venire non solo dall’Unione Europea ma anche dai BRICS.

L’inevitabile passaggio dal morente mondo unipolare a quello multipolare e la creazione di una nuova architettura economica, finanziaria, monetaria e commerciale internazionale possono essere realizzati soltanto se i governi saranno in grado di progettare insieme il loro futuro.

In alcune istituzioni internazionali, per fortuna, la cultura e la pratica degli scenari sono già avviate. Le stesse Nazioni Unite hanno approvato l’Agenda per lo sviluppo sostenibile al 2030. L’OECD fornisce orientamenti su economia e lavoro proiettati al 2030-2050 che sono alla base delle scelte del G20.

La Cina, è noto da tempo, opera su una prospettiva di lungo periodo in base alla visione di una nuova riorganizzazione territoriale di tutta l’area euroasiatica. La Nuova Via della Seta e l’Asian Infrastructure Investment Bank sono i pilastri portanti di questa strategia.

Anche la Russia ha recentemente creato un’apposita Agenzia per le Iniziative Strategiche. Si pensi al grande Progetto Razvitie, il corridoio di sviluppo infrastrutturale eurasiatico che dovrebbe collegare il Pacifico a Mosca e poi fino all’Atlantico attraversando l’Europa.

Nel campo militare e della geopolitica sono gli Stati Uniti che da sempre operano con scenari di lungo periodo.

Oggi in Italia, invece, siamo, purtroppo, condizionati dalle continue emergenze e da scelte politiche di breve respiro. Invece i cambiamenti paradigmatici nel campo politico, economico, sociale e culturale e le grandi sfide epocali operano sul lungo periodo. L’improvvisazione, anche se farcita dalla tanto osannata creatività nostrana, non basta.

Ne può bastare la delega a qualche università, a qualche benemerito istituto privato, del compito di fare delle ricerche sul “futuribile”. Definire le strategie è compito dello Stato e del Governo.

Nel nostro Paese c’è un grande bisogno di recuperare una cultura degli scenari, una visione che aiuti ed orienti gli operatori, pubblici e privati, ad affrontare meglio la complessità del mondo contemporaneo e le sue sfide globali. Perciò ci sembra condivisibile l’idea avanzata dall’Eurispes.

*già sottosegretario all’Economia **economista

OBAMA IN GERMANIA HA PARLATO DI TUTTO, MA NON DEI RISCHI SISTEMICI E DEI GUAI GIUDIZIARI DELLA DEUTSCHE BANK.

Deutsche Bank: banca a rischio sistema

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Negli incontri del presidente Obama con la cancelleria Merkel e con gli altri capi di governo europei i temi in discussione sono stati indubbiamente diversi, come il terrorismo, le sanzioni contro la Russia ed il futuro dell’Unione europea. Forse del più preoccupante, almeno nel breve periodo, pare che non si sia parlato: la crisi finanziaria e il ruolo della Deutsche Bank, il marchio tedesco che dovrebbe essere sinonimo di affidabilità.

La banca, infatti, sarebbe coinvolta in circa 6000 casi legali, tra i quali alcuni davvero dirompenti.

Sembra che, nelle stesse ore in cui Obama elogiava la Merkel, si sia scatenato un duro scontro all’interno della DB su che dire alle agenzie internazionali di controllo relativamente alle sue responsabilità nella manipolazione del tasso Libor (London Interbank Offered Rate) e dei prezzi dei metalli preziosi. Si ricordi che il Libor è il tasso di riferimento per centinaia di trilioni di transazioni finanziarie a livello mondiale, dai derivati alle più semplici operazioni bancarie.

In passato la banca è stata al centro di grandi scandali e anche ora si vorrebbe chiudere questi casi pagando semplicemente una multa in cambio del blocco delle indagini.

Il Serious Fraud Office (SFO) di Londra ha recentemente emesso mandati di cattura nei confronti di 5 cittadini europei, di cui ben 4 della DB, accusati di cospirazione e frode nella manipolazione dell’Euribor (la versione dell’euro interbank offered rate). Anche la Corte Suprema inglese ha preso posizione contro la DB e altre banche europee per aver cercato di evadere il pagamento delle tasse sui bonus erogati agli alti manager sottoforma di azioni di imprese offshore create ad hoc.

 

L’anno scorso la maggiore banca tedesca ha pagato ben 2,5 miliardi di dollari di multa per chiudere il caso dei tassi manipolati. Ha inoltre versato 258 milioni di multa alle autorità americane per aver violato le sanzioni Usa nei confronti di Paesi come la Siria e l’Iran.

E’ da notare che dall’inizio dell’anno a oggi le azioni DB hanno perso il 25%, toccando ribassi anche del 40%. Per dimostrare solidità, la banca, nel mezzo della tormenta di qualche settimana fa, annunciò l’intenzione di comprare circa 5 miliardi di euro delle sue stesse obbligazioni.

Ma il problema più esplosivo per la DB in quanto banca sistemica e quindi pericolosa per l’intera finanza globale è ancora una volta la dimensione della sua bolla di derivati finanziari otc che, in valore cosiddetto nozionale, è pari a circa 55 trilioni di euro. Si tratta di circa 20 volte il pil tedesco e di quasi 6 volte quello dell’intera eurozona. In questo settore è di fatto la banca più esposta al mondo.

I timori di potenziali perdite fanno tremare i polsi a tutti, al management, agli investitori, ai clienti e finanche ai governi e alle banche centrali. Tanto che qualcuno incomincia a paragonare la DB alla Lehman Brothers, il cui collasso nel 2008 diede il via alla più devastante crisi finanziaria globale tuttora irrisolta.

Indubbiamente la DB ha criticità molto importanti. Il suo debito in circolazione si avvicinerebbe ormai ai 150 miliardi. Si parla di almeno 32 miliardi di euro in titoli altamente tossici e ad altissima leva finanziaria. Sarebbero titoli difficilmente solvibili. Avrebbe una montagna di obbligazioni convertibili largamente già svalutate, quelle che in caso di crisi potrebbero essere trasformate in azioni e utilizzate per i necessari pagamenti richiesti dal nuovo sistema del bail-in.

Infatti il problema della leva finanziaria, come per altre banche too big to fail, per la DB è molto rilevante. Esso indica quanto capitale ha la banca per ogni euro di asset posseduto. Oggi per un euro di capitale ha circa 20 euro di asset, cioè titoli di vario tipo, escludendo di derivati otc tenuti fuori bilancio. Come è noto, maggiore è la leva e maggiore è il rischio in caso di riduzione del valore degli asset e di conseguenza il rischio di perdita del valore della banca stessa.

Se si considera la gravità della situazione della BD è davvero strano che Berlino possa continuare ad ergersi come unico garante della stabilità europea e della giustezza delle sue politiche economiche.

L’Unione europea e l’Italia, se davvero hanno a cuore il loro futuro e la crescita, non possono continuare ad ignorare una situazione così grave che potrebbe riverberare effetti devastanti sull’economia europea e sul sistema bancario e finanziario.

*già sottosegretario all’Economia **economista
 

 

 

Continua l’indecente silenzio sul contributo dei partigiani rom e sinti alla nostra Resistenza

Pubblico volentieri questa poesia scritta dal mio amico rom italiano Santino Spinelli, musicista, musicologo e direttore d’orchestra. Come ho detto più volte, il contributo degli “zingari” alla nostra guerra di liberazione dal fascismo è sempre completamente ignorato perfino in occasione del 25 aprile, cioè dellaricorrenza della Liberazione dell’Italia dal fascismo. come del resto è ignorato il genocidio che hanno subìto anche loro per mano dei nazisti. Non ne parla neppure la Giornata della Memoria, che è quindi piuttosto smemorata. Si parla sempre e solo della Shoà e da qualche anno il 25 aprile si parla anche della Brigata Ebraica, chiaramente per sostenere la politica israeliana sempre più insostenibile. Si continua però a tacere stranamante il contributo dato alla nostra Liberazione da marocchini, nepalesi e altre truppe che oggi diremmo extracomunitarie, ma che all’epoca erano coloniali. Anzi, semmai dei marocchini si cita solo ed esclusivamente qualche atto infame come lo stupro narrato nel film La ciociara.
Insomma, il razzismo, l’opportunismo e il servilismo verso i potenti, oggi rappresentati da Israele, sono sempre vivi, anche se hanno cambiato un po’ faccia dandosi un pesante trucco. 13100762_10209399800261523_8994537004301363583_n

C’era una volta il giornalismo. E c’era Milano.

http://www.linkiesta.it/it/article/2015/07/01/il-problema-del-giornalismo-e-che-non-si-occupa-piu-della-realta/26520/

Gianni Mura vive di giornalismo da quando non aveva ancora vent’anni e, uscito dalle aule del liceo classico, entrò nella redazione della Gazzetta dello Sport come praticante. Era la metà degli anni Sessanta. Milano era un’altra città, come l’Italia era un’altra Italia e il giornalismo un altro mestiere. Da professionista della parola e del racconto, di un modo di stare al mondo, di fare giornalismo, nonché dell’arte di condividere un tavolo mangiando e bevendo — come dimostra, da ultimo, il suo Non c’è gusto, pubblicato da Minimum Fax — Gianni Mura sa bene quanto sia importante, nelle chiacchiere, non fare troppi giri di parole: «Quando mi chiedi “Cosa ci siamo persi” intendi dire cosa vi siete persi, voi che avete trent’anni, vero?», chiede sorridendo appena prima di iniziare, senza lasciare il tempo alla domanda retorica di agire.

«Vi siete persi l’umanità di una città che era considerata la più umana del Nord, se non d’Italia»
«Vi siete persi l’umanità di una città che era considerata la più umana del Nord, se non d’Italia. Vi siete persi le osterie, i bar e tutti i posti dove, da studente, andavi e parlavi con chi trovavi e, se ci arrivavi la sera tardi, avevi a che fare con una clientela borderline, soprattutto nella zona della vecchia Gazzetta, in via Galilei. Ci trovavi anche delle vecchie battone, cordialissime e, almeno per un po’, rilassate, perché erano lì a mangiare con i loro protettori. Mi ricordo che una volta una mi disse che facevamo lo stesso mestiere (ride) e in fondo non è del tutto sbagliato».

Cosa c’era a quei tempi che ora è sparito?

C’era un clima di non forzata mescolanza sociale, anzi, direi spontanea, anche se era una Milano in cui le differenze tra ricchi e poveri esistevano eccome. Ma c’erano posti come le piole notturne, osterie come il Moncucco, il Meazza, la Magolfa, che a una cert’ora si riempivano di una clientela variegata e interclasse. Alcuni erano anche dichiarati ladri e malfattori, ma tra quella clientela variegata c’era anche la cosiddetta “borghesia illuminata” che frequentava quei posti per sentire le canzonacce. Mi chiedi cosa è sparito, ti rispondo non solo che sono spariti quei posti, ma che, ben più grave, è sparita quella borghesia illuminata.

«Negli anni 60 si avvertiva l’importanza di questa classe di operai, gente che si era fatta un culo pazzesco, ma che però ci teneva a far studiare i figli»
Milano era una città operaia a quei tempi, in che cosa si vede che quel mondo è scomparso?
Se si parla di quello che si è perso seriamente qui a Milano, non si può non dire che si è persa quella civiltà incredibile che era la cultura operaia. Come dice il proverbio Chi ghe volta il cul a Milan ghe volta il cul al pann, e infatti Milano, da qualunque parte si arrivasse, era fasciata da grandi fabbriche. E non era soltanto una questione di posti di lavoro, che all’epoca si trovavano con facilità, anche dalla mattina alla sera, ma era anche altro. Intorno ai primi anni Sessanta, quando io scoprivo la città venendoci al ginnasio, si avvertiva l’importanza di questa classe di operai, gente che si era fatta un culo pazzesco, ma che però ci teneva a far studiare i figli. Pensa a quel verso di Contessa “anche l’operaio vuole il figlio dottore”: all’epoca era vero, era possibile che l’operaio si comprasse una casetta perché gli stipendi erano buoni e il lavoro era sicuro.

Era una città più ricca anche a livello culturale?
Quando parlo di cultura non intendo dire soltanto che c’erano molte più librerie, cinema, teatri, recite, concerti, cabaret, fino ai canti andini, ma che c’era anche un’abitudine che oggi si è persa: dire ai giovani che bisognava studiare e avere molto rispetto sia per il lavoro che per gli altri. Questa era la Milano operaia, ma, prima ancora, era la Milano delle case di ringhiera, che c’erano in Ticinese come a Lambrate prima che arrivassero i loft. Abitazioni molto lontane da quelle dei quartieri residenziali e anonimi di oggi, veri e propri luoghi di convivenza e di solidarietà umana, in cui era normalissimo che se una famiglia finiva la legna il 20 del mese quelli del piano gliela davano, che tanto poi ci si metteva a posto.

«Quello che rovina la gente a Milano oggi è un senso di profonda solitudine»
Che cosa è rimasto di quel tessuto sociale?

Quasi nulla. Quello che rovina la gente a Milano oggi è un senso di profonda solitudine. Una volta era una città diversa che, seppur si poteva odiare per il clima terribile e grigio, le si doveva riconoscere che quel senso di solitudine non te lo faceva provare mai. Ci si sentiva in compagnia e non ci voleva molto a trovarla. Questo spirito è sparito insieme ad altre cose che sono scomparse anche nel resto d’Italia, e che fondamentalmente sono due: la prima è il tempo libero, che praticamente non esiste più, la seconda è un’abitudine ai rapporti umani, che oggi sono devastati, confinati ai margini della vita dall’invasione degli smartphone e di tutte le altre trappole tecnologiche che ti danno l’illusione di essere connesso con il mondo, di avere 1753 amici, ma che in verità ti nascondo la verità: che non hai un cazzo. Se provi a chiedere 50 euro in prestito a uno di questi 1753 amici non credo che li avresti.

«Quello che vedo io a Milano è una sorta di fretta incazzata, che non è neanche una fretta consapevole, è una fretta senza senso»
E questa evoluzione, o involuzione, a che cosa ha portato?

Ha portato a un girare frenetico di criceti sulla ruota, quello che vedo io a Milano è una sorta di fretta incazzata, che non è neanche una fretta consapevole, è una fretta senza senso, da quando ci si sveglia e si cerca di saltare la fila per il caffè a quando si litiga per il parcheggio. Tutto questo una volta non c’era o, se c’era, c’era molto di meno, perché era attutito dalla presenza di un forte tessuto sociale e da una radicata educazione all’altro da sé. E non sto parlando di galateo, ma di un’educazione e un rispetto verso gli altri che ormai si è perso. Molto più delle trattorie fuori porta, anche perché qualche trattoria a Milano la puoi ancora trovare.

«Questa vita di relazione di strada o di quartiere si è persa nel mare immenso degli ipermercati. Non c’è più ed è difficilmente ricreabile»
Su cosa si basava quel tessuto sociale?

Era sia quello delle grandi fabbriche, sia quello dei piccoli artigiani. Era formato da tutto ciò che nei quartieri definiva degli stati di relazione: una rete di ruoli che ognuno aveva all’interno della strada o del quartiere, dal fruttivendolo al macellaio, fino al panettiere, negozi che formavano un tessuto commerciale, ma anche sociale. Quando mi sono sposato avevo sei salumieri e due fruttivendoli nel raggio di 150 metri. Non ce n’è più uno. Ha resistito solo un panettiere. Questa vita di relazione di strada o di quartiere si è persa nel mare immenso degli ipermercati. Non c’è più ed è difficilmente ricreabile.

Quando sparisce l’umanità di un tessuto sociale così forte, che cosa resta?
Subentra qualcosa di molto vicino al nulla, subentrano dei locali d’acchiappo che si assomigliano tutti uno con l’altro, dietro a cui ci sarà uno studio di mercato: si rivolgono tutti più o meno alla stessa fascia di pubblico ed è tutto appiattito, anche in una zona che era uno dei luoghi alti della letteratura milanese come i Navigli. Perfino Simenon, che era preoccupato solo di scopare, aveva chiesto che gli affittassero un appartamento sopra il vicolo dei lavandai. Anche Vittorini abitava là vicino. Insomma, si è perso moltissimo, e dubito che si sia guadagnato qualcosa. Ormai alla mia età c’è una certa tendenza al reducismo, ma a me non viene voglia molto di uscire la sera in questa città, che è comunque popolata da una fauna in larga parte poco nota e che sinceramente non so se ho voglia di conoscere.

«Era una Milano così, ma talmente naturale che qualcuno è riuscito anche a scriverla, raccontarla nell’immediato, come Beppe Viola, mentre qualcuno l’ha cantata, come Jannacci»

Che gente si incontrava a quei tempi?
C’erano attori, come la Melato, che era spesso al Jamaica. C’erano intellettuali come Bianciardi, Viola, cantautori come Jannacci, e poi pittori, fotografi, artisti. Si conoscevano tutti. Beppe Viola aspettava Trintignant che usciva dal set e che, se non andava a giocare ai cavalli, gli portava un paio di bottiglie di Borgogna. Era una Milano così, ma talmente naturale che qualcuno è riuscito anche a scriverla, raccontarla nell’immediato, come Beppe Viola, mentre qualcuno l’ha cantata, come Jannacci.

E Bianciardi?

Bianciardi anche, però lui più che un amore verso questa città provava un rancore profondo e quindi la viveva da esule, da incazzato e si ancorava ad alcune amicizie, ma il suo non era il modo migliore di vivere Milano, per quanto gli abbia ispirato un grandissimo libro come La vita agra, in cui però il lottare non esce particolarmente bene.

Perché la cultura oggi sembra non avere più questa attrattiva?

Forse all’epoca si parlava meno di cultura, eppure le si riconosceva un valore molto più importante, un valore che non le si riconosce più. La cultura era importante per quelli che facevano politica, per quelli che scrivevano sui giornali — perché all’epoca bisognava essere soprattutto bravi a scrivere — era importante per chi faceva spettacolo, sia teatro che cabaret. C’era una vita culturale vivacissima a Milano che secondo me è quasi completamente sparita, così come hanno chiuso tanti teatri, tanti cinema, tante librerie. Ma non solo, Milano era anche una città di musicisti, pensa che arrivavano i più grandi dall’America a cercare Sellani o Cerri, facevano jam session, cantava Billie Holiday al Puccini, o anche i Beatles al Vigorelli, era esattamente 50 anni fa.

Quando ha iniziato a cambiare?

Questa non è mia, ma di Giacomo di Aldo, Giovanni e Giacomo, che diceva: «ho cominciato a spaventarmi quando a Milano chiudevano le librerie e aprivano solo centri d’abbronzatura». È qualcosa di più di una battuta, perché è vero che hanno aperto un sacco di centri d’abbronzatura e che oltre alle librerie stanno chiudendo anche molte edicole.

Però stanno rinascendo un po’ di questi posti, in particolare librerie, ma anche panetterie e altre attività legate all’artigianato. E proprio a partire dalla mia generazione, quella che ora ha trent’anni e che ci sta provando…
Sì, ma con che soldi li aprono questi posti? Io non ho le idee chiarissime, e poi non considero i giovani una categoria immutabile, ma per aprire una libreria servono dei soldi alle spalle…

«Questa è una delle grandi problemi sociali di oggi: la dipendenza, spesso forzata, dei figli dai genitori.»
Spesso sono soldi dei genitori immagino…

Immagino anch’io, e devo dire che certamente preferisco che aprano una libreria piuttosto che un centro per le unghie. Però mi fa pensare a una cosa: al fatto che il conflitto sociale non sia più percepito come interclasse ma che venga dipinto sempre di più come conflitto intergenerazionale. Ma far credere ai più giovani che basta far fuori i più vecchi per subentrare loro nelle stesse posizioni è una presa per il culo. Purtroppo di questi tempi molti giovani hanno bisogno dei più vecchi, se no come si comprerebbero il telefonino, dove dormirebbero, cosa mangerebbero? Ecco questo è una delle grandi problemi sociali di oggi: la dipendenza, spesso forzata, dei figli dai genitori.

«Era possibile conquistarsi la vita, come si diceva allora, oggi invece è molto più difficile»
Negli anni Sessanta come funzionava?

Negli anni del famoso ’68, che io ho fatto poco perché già stavo lavorando alla Gazzetta, la tendenza era uscire di casa il prima possibile, oggi invece è quasi restarci il più a lungo possibile, con tutti i casini che ne possono derivare. Allora si poteva fare, anche perché era possibile affittare un appartamento grande a prezzi onesti e andarci a vivere insieme ad amici, a far la famosa “comune”. Io avevo amici che andavano a scaricare le casse al mercato per poter affrancarsi dai propri genitori. Era possibile conquistarsi la vita, come si diceva allora, oggi invece è molto più difficile. Se io penso a cos’era il mondo a quei tempi devo dire che sono stato molto fortunato, sono stato fortunato per Milano, ma anche per il mio mestiere.

Finisce la frase, guarda il pacchetto di sigarette appoggiato tra la montagna di carte, poi fa: «quando vuoi ce ne fumiamo un’altra eh?» E così, fermata la registrazione, continuiamo a parlare su un terrazzino del secondo piano di quel cubo di vetro. Il posacenere pieno e la posizione tattica di una sedia ne fanno il luogo ideale del lavoratore tabagista. Sembra un dettaglio superfluo, ma non lo è. Cambiare per un attimo luogo e condividere un gesto — cose che nelle interviste succedono di rado — fa muovere l’intervista oltre il recinto delle domande previste. Cinque minuti, il tempo di una sigaretta, ma sono sufficienti per continuare a parlare di Milano, di Lambrate, in verità, — «quei viali mi ricordano Parigi ogni tanto» dice Mura — e arrivare al nostro lavoro, al giornalismo, al senso che ancora hanno, o non hanno, le scuole, fino a che approdiamo al tu — «facciamo lo stesso lavoro, dai, non darmi del lei».

Le chiacchiere sul terrazzino continuano nel corridoio e arrivano fino alla scrivania disordinata, sulla quale ritorna anche il pacchetto di MS Light: «La fatica oggi è valutare le notizie», continua Mura, «perché ora sono dovunque e in un numero incommensurabile rispetto a prima».

Prima com’era?

Una volta per i giornali c’era solo l’ANSA, France Press e la Reuters che ti arrivavano in redazione. Ora arriva di tutto, e non solo, perché in questo momento le notizie privilegiate sembrano spesso essere le peggiori. Non so, c’è un assessore da qualche parte in provincia che scrive un commento razzista contro la Kyenge e va in prima pagina.

«La cosa grave è che questa apertura al pettegolezzo è generalizzata, come se ogni giornale dovesse averla per forza»
Sì, ma quello è gossip…

Eh sì, è gossip, che da quando non si chiama più pettegolezzo è stato sdoganato completamente. Tanto è vero che, quella che una volta chiamavi roba da Oggi o da Gente o, peggio, Novella2000, Eva Express eccetera, adesso le trovi regolarmente su Repubblica o sul Corriere, magari scritte in un modo leggermente più sfuggente, ma resta sempre un “chi scopa con chi”, o un “come finisce l’Isola dei famosi”. La cosa grave è che questa apertura al pettegolezzo è generalizzata, come se ogni giornale dovesse averla per forza.

Perché?

Trent’anni fa non se lo ponevano il problema. Pensa che Repubblica per anni è andata avanti senza una pagina sportiva. A un certo punto però tutti i giornali sono diventati come la vetrina della Standa, cioè più roba hai dentro e più gente attiri. Una vetrina…

Alla prova dei fatti però non sembra vero. Tutti i giornali perdono lettori…

Eh sì, e questo dovrebbe fare riflettere i direttori dei quotidiani, perché, se tutti perdono, qualcosa che non va c’è, e anche molto grosso.

Che futuro hanno, o meglio quanto futuro hanno

Leggevo che per gli americani il termine di estinzione dei quotidiani è tra il 2025 e il 2028. Vuol dire avere avanti una decina d’anni. Io sentimentalmente sono dalla parte della carta, è evidente. Non posso essere dall’altra per motivi anche solo di frequentazione e di conoscenza. Però mi rendo conto che la carta crea sempre più problemi, soprattutto per quel che dicevamo prima sulla mancanza di tempo libero, e che c’è sempre meno gente che ha voglia di leggere un giornale stampato.

«Quasi tutti i cambiamenti grafici o restyling si risolvono in una diminuzione dei testi e un ampliamento dei titoli e delle foto. È sempre più difficile capire che c’è anche qualcosa da leggere»
Anche perché ogni tanto sembra che ci sia sempre meno da leggere…

Sì, esatto, quasi tutti i cambiamenti grafici o restyling si risolvono in una diminuzione dei testi e un ampliamento dei titoli e delle foto. È sempre più difficile capire che c’è anche qualcosa da leggere, anche perché se quel qualcosa — che sia la bomba atomica o uno stupro in metropolitana — è sotterrato da un titolo alto così o da una foto gigante e da leggere ci sono solo cinquanta righe. È poco. Per dire che ho ragione, almeno su questo, basta che andare in emeroteca e guardare le prime pagine dei maggiori quotidiani di vent’anni fa — Repubblica, Corriere, La Stampa, Il Giornale, quelli che c’erano insomma — e confrontarli con quelli di adesso. Lo si capisce al volo: il testo, che dovrebbe essere la parte più importante in un giornale scritto, è quasi sempre sacrificato. A meno che non ci sia il pezzo della grande firma di turno, o la grande inchiesta. Ma altrimenti, su cose per cui prima ci facevi un taglio basso, ora ci fai una pagina.
Perché tendiamo a vedere carta e digitale come due nemici e non cerchiamo di vederne una possibile alleanza?

Non è detto, certo. Ma la tendenza è questa. Tu sei pratico di scoiattoli? Immagino di no. Ma avrai visto che da quando sono stati importati gli scoiattoli americani — quelli grigi — i nostri scoiattoli europei, quelli rossi, sono stati sterminati. Perché hanno delle abitudini e anche una grandezza differente rispetto a quelli americani, che sono molto più aggressivi. Grossolanamente secondo me gli scoiattoli americani nel mondo dell’informazione di oggi sono il web, mentre quelli rossi siamo noi, la carta stampata. Ripeto, non è detto che ci estinguiamo entro i dieci anni di cui sopra, ma certamente è vero che da un po’ di anni abbiamo una vita sempre più difficile.

Però in natura esiste anche il meticciato…

Sì, ma in questo caso mi riesce difficile immaginare una qualsiasi intesa, per non dire un flirt o un matrimonio. Individuare una strada comune tra quello che è il mondo dell’informazione web e quello della carta è complesso anche da immaginare. Sono molto diversi i concetti fondanti, concetti che in parte la carta ha smarrito. Ma sta di fatto che il web sta vincendo, sta conquistando sempre più pubblico. E non è, credo, una questione di novità, ma piuttosto di velocità con cui tutto ti arriva davanti. Dei due quello che resta indietro è certamente la carta.

«Se dirigessi un giornale, non farei una pagina sui pomodori nell’agro campano, ne farei dieci. Manderei qualcuno per tre settimane, gli darei molte più pagine, ci manderei quattro giornalisti e un fotografo»
In molti pensano però che la carta non sia morta. Come potrebbe riprendere terreno?

La carta potrebbe riguadagnare un po’ del terreno che ha perso se i giornali fossero fatti diversamente. Ma invece non lo sono. Vedo che si continua a fare una pagina di intervista a questo o quel politico del tutto ininfluente, semplicemente per riempire una pagina e tenersi buono il politico, che tra l’altro, il più delle volte, non ha un cazzo da dire. Mentre credo che oggi, soprattutto in una situazione di crisi, al lettore medio, alla gente, interessi molto di più quello che succede intorno a lui. Non dico di fare il giornale di quartiere, dico però di occuparsi molto più di vite vere andando in giro e raccontandole. O facendo delle inchieste molto serie che non durino un giorno. Perché l’autorevolezza di un giornale la misuri dalla sua capacità di impegnarsi nel tempo, ed è così che fidelizzi i lettori. E gli esempi possono essere mille. Se io dirigessi un giornale, non farei una pagina sulla raccolta dei pomodori nell’agro campano, ne farei dieci. Manderei qualcuno per tre settimane di seguito, gli darei molte più pagine, ci manderei quattro giornalisti e almeno un fotografo, magari da difendere come si fa in Iraq con una pattuglia davanti e una dietro, visto che lì non amano molto chi ficca il naso nei loro affari. Però lì c’è la notizia: è il capire come è possibile che in Italia succeda che il 64 per cento di tutti quelli che lavorano in quelle situazioni non hanno accesso all’acqua, non possono lavarsi, non hanno un bagno, e hanno una paga da fame.

«È questo che mi stupisce, che i grandi della terra, in un periodo in cui le comunicazioni sono diventate facilissime e potrebbero parlarsi con Skype quando vogliono, si debbano ritrovare fisicamente in un posto»
Perché i giornali non ne parlano abbastanza?

Immagino che sia perché non sono convinti sia interessante, ma anche perché sono sempre più prevedibili, inseguono i riti. Io ho una ribellione per tutto ciò che ormai è diventato un rito. Mi danno fastidio. La cosa che mi dà più fastidio è il G8. Io non ho capito, da cittadino, perché debba riunirsi ogni 15 giorni, per fare le foto di rito, farsi riprendere mentre si stringono le mani — Renzi possibilmente senza giacca — e non concludono un cazzo. E si rivedono da lì a quindici giorni. Che la Grecia sia sull’orlo del fallimento è mesi che lo sappiamo. Ora è un po’ più in qua, ora un po’ più in là, ma non è una cosa seria. Ed è questo che mi stupisce, che i grandi della terra, in un periodo in cui le comunicazioni sono diventate facilissime e potrebbero parlarsi con Skype quando vogliono, si debbano ritrovare fisicamente in un posto, mettere su il teatrino dove poi si radunano di fronte tutti i black bloc a far casino — un altro rito — e non ne esce mai niente. Il problema dei migranti, per esempio, sono anni che se ne parla e si dicono sempre le stesse cose. Ma soprattutto non cambia nulla, non succede niente. È c’è una opinione pubblica che viene costantemente manovrata.

Da questo punto di vista quanto conta la presenza costante dei politici in televisione?

Mi son sempre chiesto perché Salvini deve essere sempre in televisione quando il fenomeno Lega nasce con Bossi, che non aveva toni troppo diversi da Salvini, ma che aveva più voti. E in televisione non ci andava mai. Che ci sia così tanto Salvini in televisione a me francamente preoccupa, anche se ormai mi sembra appurato che la politica non la facciano tanto i politici quanto la grande finanza mondiale. È come se qualcuno avesse deciso che l’Europa deve andare verso gli Orban, verso le Le Pen, verso i Salvini, perché questo rappresenterà non so cosa, la purezza o la salvezza dell’Europa, o meno rotture di coglioni. Però l’impressione è che questi siano politici letteralmente imposti dalla televisione.

«Cosa decidono tutti questi grandi statisti? Il nulla. Sono il nulla. Ma il nulla che i giornali, con la loro enfasi, dipingono come il tutto. Ma non sono niente»
Il ruolo del giornalismo sarebbe quello di mettere in discussione il potere e smascherare le manipolazioni, perché lo fa sempre di meno?

Si, in effetti il giornalismo, almeno quello dei grandi giornali e delle televisioni, si sta limitando a dare la vetrina a questi incontri — le classiche foto da terza media — ma da questi incontri cosa viene fuori? Cosa decidono tutti questi grandi statisti? Il nulla. Sono il nulla. Ma il nulla che i giornali, con la loro enfasi, dipingono come il tutto. Ma non sono niente.

Perché non si oppongono?

Forse perché sono pigri, o forse semplicemente perché sono vecchi, mentre forse occorrerebbe un giornale nuovo, o quantomeno con un po’ di fantasia. Quando Zavattini, che è stato un grandissimo, dirigeva mi pare Confidenze, in piazza Carlo Erba, il giorno delle nozze reali di Elisabetta uscì con una prima pagina con titolo Le nozze di Elisabetta. Solo che quella Elisabetta era una Elisabetta Rossi di Crema. Cioè, era andato al matrimonio di una che si chiamava Elisabetta e lo aveva trattato come se fosse il royal wedding. Una cosa geniale. Cazzo, queste cose le faceva cinquantanni fa.

«Il mio ideale è un giornale che racconti storie vere, in prima persona, che faccia delle inchieste che non abbia paura di scrivere pezzi da 10-12 pagine. Il problema è che se vengono a mancare i fondi questa cosa non la fai»
Questa verve si è persa?

Queste idee ci possono ancora essere, il problema sono i fondi. Io ti parlo ancora sanguinando dalla ferita di E, il mensile di Emergency. Quello credevo che fosse il giornale che somigliava di più al mio ideale di informazione: un giornale che racconti molte storie vere, in prima persona, che faccia delle inchieste che non abbia paura di scrivere pezzi da 10-12 pagine. Il problema è che se vengono a mancare i fondi questa cosa non la fai.

E il finanziamento dal basso, il crowdfunding?

Io non credo molto nella raccolta dei fondi dal basso. Il problema è che non esiste più una borghesia illuminata, perché probabilmente una Giulia Maria Crespi trent’anni fa un giornale o un mensile che puntava in alto ma partendo dal basso, lo avrebbe finanziato. Ma questi di oggi assolutamente no…

Cosa è successo alla borghesia “illuminata”?

Semplicemente credo che i figli siano diversi dai genitori e che abbiano — intendiamoci, con tutti i diritti — interessi diversi dal giornalismo. Non è detto che uno debba essere un coglione, basta anche che sia convinto che investire sulla carta stampata sia buttare i soldi e che decida così di investire su altro. Tu che vai in bici lo puoi capire: quello che sta attraversando il giornalismo oggi sembrano gli ultimi venti chilometri di una tappa di montagna. Non vedi quella freschezza necessaria per fare uno scatto, ma nemmeno per copiare quelle vecchie idee alla Zavattini, anzi direi che l’immaginazione, che una volta si sperava andasse al potere, non sia mai stata nemmeno vicina ad andare al potere nel mondo del giornalismo.

E chi è andato al potere, e chi è al potere oggi è tutto fuorché immaginativo, anche in Italia…
Esatto…

«Ce ne fumiamo un’altra?», fa, e si alza, proseguendo il discorso, che scivola verso altri argomenti: il suo rapporto con Gino Veronelli e con gli anarchici — «io mi mi definirei un anarchico pigro», dice a un certo punto — e poi di nuovo Lambrate. Si parla di cibo, poi a un certo punto di certe birre che da quelle parti si chiamano in dialetto — Ghisa, Ligera, Magutt, Ortiga — ma soprattutto della fantastica varietà umana che si raduna intorno a quelle birre, una fauna che forse somiglia a quella di cui si parlava prima — «io come sai preferisco il vino, la birra la bevo solo in Belgio, ora ci vado a seguire il Tour, però una volta ci organizziamo e me ne fai assaggiare una di quelle birre».

Poi si continua, spenta la prima MS Light, Mura ne accende un’altra. Parliamo di internet, di smartphone, di social network, di confronti generazionali — «quando mi arrivò lo stipendio per la prima volta lo passai a mio padre, che quella sera si alzò dal tavolo senza mangiare. Guadagnavo più di lui, che aveva combattuto, aveva fatto la resistenza, era un maresciallo dei Carabinieri». Poi spegne la sigaretta e si torna al registratore, al giornalismo, alla stanza e alla scrivania disordinata.

«Sono cambiate tante cose nei giornali», riattacca appena riparte la registrazione. «Parliamo dell’uso degli intellettuali, visto che in qualche modo siamo partiti da lì, da Bianciardi, da Viola e gli altri. Io credo che sia molto interessante questo discorso, anche per capire cosa sia successo nei giornali. Prendi Bianciardi, che se è vero che scriveva soprattutto di calcio, scriveva anche di spettacolo, società, televisione. O Pasolini, uno che scriveva di politica, di costume, di società».

«Una volta gli scrittori scrivevano sui giornali in quanto scrittori, ora lo fanno in quanto tifosi, il che equivale a chiedere a chiunque, basta entrare in un bar, perché i tifosi sono tutti uguali in fondo»
Ora invece

Ora se cerchi un pezzo di un intellettuale su un giornale trovi ben poco. Ogni tanto Veronesi scrive sulla Gazzetta, ma scrive della Juve in quanto juventino, non perché ha delle cose da dire sul calcio, solo perché è un tifoso. Questo è un salto in basso, esattamente come Gramellini, che le cose peggiori le scrive quando scrive del Toro. Moravia faceva il diario d’Africa sul Corriere perché si chiamava Moravia, esattamente come a fare la Russia ci andava Biagi. Una volta gli scrittori scrivevano sui giornali in quanto scrittori, ora lo fanno in quanto tifosi, il che equivale a chiedere a chiunque, basta entrare in un bar, perché i tifosi sono tutti uguali in fondo. Soprattutto nello sport c’è stato un afflusso di penne buone, perché servivano, perché all’epoca popolare non era abbinato a nazionalpopolare. Il popolare non era ancora una cosa da guardare come si guarda una medusa morta, per me non lo è nemmeno adesso. Però una volta Buzzati andava al giro d’Italia, o pensa ad Alfonso Gatto, Pratolini, Anna Maria Ortese, Mosca, Montanelli, ci andavano quelli bravi. Esattamente come ai mondiali dell’82, che non sono cent’anni fa, la prima firma di Repubblica era Gianni Brera, la prima firma del Corriere era Mario Soldati, la prima del Giornale era Arpino e la prima de La Stampa era ODB, al secolo Oreste Del Buono. Capisci che siamo un po’ lontani. E il problema è che questi non sono stati sostituiti da persone all’altezza. Avere un racconto di gente come Soldati e Brera non è la stessa cosa di avere gente come Cazzullo o Riotta, con tutto il rispetto per Cazzullo e Riotta. E poi il problema non sono gli scrittori sono i giornalisti

Campana a morto per l’arrivo in veste di ambasciatore di Israele della pensionata ed ex parlamentare italiana Fiamma Nirenstein?

Dopo mesi di critiche da più parti, il nostro primo ministro Matteo Renzi ha chiesto al capo del governo israeliano, Benjamin Netanyahu, di ritirare la nomina, decisa lo scorso agosto, ad ambasciatore di Israele in Italia della giornalista, pensionata ed ex parlamentare italiana Fiamma Nirenstein. Cittadina anche israeliana da appena tre anni, Nirenstein quando è in Israele continua a risiedere nella colonia di Gilo, tra Gerusalemme e Betlemme, considerata illegale dall’Onu al pari di tutte le colonie costruite ormai un po’ ovunque a macchia di leopardo nei Territori Occupati su terreni espropriati ai palestinesi dalle autorità militari israeliane. E non ha certo giovato la decisione, presa pochi mesi fa, di costruire altre 900 abitazioni proprio nella colonia di Gilo con l’obiettivo, esplicitamente dichiarato da Netanyahu, di “bloccare la continuità’ territoriale tra Gerusalemme e Betlemme di un eventuale Stato palestinese”. A rivelare il gran rifiuto è il quotidiano israeliano Haaretz, secondo il quale “Si tratta di una nomina inopportuna e conflittuale, dato che la signora ha rappresentato in parlamento i votanti italiani e metterebbe con la sua candidatura in evidenza quali siano stati i suoi veri interessi”. Parole scritte da Haaretz, ma che riassumono quanto fatto sapere da Renzi a Netanyahu, rimasto deluso perché poco tempo fa aveva invece ottenuto l’aiuto di Renzi per far smussare gli spigoli di una presa di posizione del presidente Usa Obama decisamente critica verso la politica israeliana. Per parte sua comunque Palazzo Chigi smentisce di avere chiesto alcunché a Netanyahu, ma del resto non potrebbe certo ammetterlo pubblicamente.

La nomina della Nirenstein non era piaciuta neppure a Ruth Dureghello, presidente degli ebrei romani, e a Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, che sempre secondo il giornale Haaretz avrebbero espresso la propria contrarietà al presidente della repubblica israeliana, Reuven Rivlin. “Dureghello e Di Segni”, ha scritto Haaretz, “hanno appunto espresso forte preoccupazione per le possibili ripercussioni negative di quella nomina sia per la comunità ebraica italiana sia per le relazioni fra Italia ed Israele”. Secondo Haaretz, i due contrari hanno fatto presente a Rivlin che fino a non molto tempo fa la Nirenstein era stata membro del parlamento italiano per il partito Forza Italia, donde il timore che la nomina della ex parlamentare potesse risollevare la questione di una asserita “doppia lealtà” degli ebrei italiani, e che essendo Nirenstein politicamente di destra la sua nomina potrebbe rappresentare un problema per l’attuale governo italiano. Rivlin avrebbe però fatto notare che le loro lagnanze avrebbero dovuto esprimerle non a lui, ma allo stesso Netanyahu in quanto unico titolare del potere di nomina degli ambasciatori. 

Lo smacco Nirenstein si aggiunge a quello ricevuto a dicembre con la decisione del governo brasiliano di non accettare come nuovo ambasciatore di Tel Aviv il leader dei coloni israeliani Dani Dayan.

USA: vera ripresa economica o altre bolle?

Usa: vera ripresa o nuove bolle finanziarie?
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Negli Usa ritorna la paura di nuove bolle simili a quella legata ai mutui subprime che nel 2008 fu la causa principale dello scatenamento della crisi finanziaria globale. Molti mutui furono concessi senza tenere in considerazione la reale capacità di pagamento di molti sottoscrittori. In seguito i titoli suddetti furono utilizzati come base per altre operazioni ad alto rischio, i derivati finanziari. La montagna di titoli virtuali, così creata, crollò su se stessa quando la percentuale dei mancati pagamenti e dei fallimenti individuali divenne insostenibile. Ormai è storia nota.

Situazioni simili però si stanno ricreando anche oggi in vari settori economici, tra cui quello delle vendite di automobili e quello delle carte di credito. Anche in questo caso gli Usa precedono, indicano la strada che, anche se pericolosa, l’Europa non esita a percorrere.
Negli anni passati chi ha acquistato un’auto lo ha fatto a debito. Così negli Usa gli acquirenti sono diventati ‘parte’della tanto sbandierata ripresa economica americana. La domanda, si è detto, è ripartita: il cavallo è tornato a bere. Il totale dei prestiti per l’acquisto di automobili ha raggiunto il trilione (mille miliardi) di dollari.

Le banche e altri mediatori finanziari anche in questo caso hanno ‘impachettato’ tali debiti in apposite obbligazioni che sono state vendute sul mercato. Sulle stesse si sono moltiplicati i vari strumenti finanziari anche per darne copertura assicurativa.
Intanto i media statunitensi hanno cominciato ad evidenziare che un numero crescente di acquirenti non è in grado di pagare le rate. Alcuni istituti finanziari hanno registrato un ritardo di pagamento di oltre 30 giorni per almeno il 12% dei prestiti da loro concessi. Anzi, per il 2,6% degli stessi è già stata attivata la procedura di fallimento e di sequestro del veicolo.

Ancora una volta sono le agenzie di rating a valutare la sostenibilità delle obbligazioni e degli asset-backed security (derivati) emessi dalle banche sulla base dei mutui accesi per l’acquisto di auto. Fitch Ratings riporta che i titoli ‘impacchettati’ nei passati 5 anni con un ritardo di pagamento di 60 giorni hanno raggiunto complessivamente il livello del 5,16%. Il più alto degli ultimi 20 anni.
Alla luce dei dati succitati si può dire che le vendite record di auto non riflettono il vero andamento dell’economia americana. Tutto al più rappresentano il più facile accesso al credito per l’acquisto di automobili.

Altro settore delicato ci sembra quello delle carte di credito, il cui debito negli Usa sta raggiungendo il livello di 1 trilione di dollari. Nell’ultimo trimestre del 2015 vi è stata un’impennata che ha superato la crescita totale avvenuta nel triennio 2009-11. E’ il caso di sottolineare che nel solo ultimo trimestre dell’anno scorso l’incremento è stato di ben 52 miliardi.
Purtroppo il rischio di una bolla si profila anche per i crediti concessi agli studenti. Sono prestiti garantiti dallo Stato che devono essere ripagati durante la futura vita lavorativa da chi ne ha usufruito nel periodo universitario. Si stima che l’ammontare complessivo sia oggi ben oltre 1 trilione di dollari e che possa raggiungere i 3,3 trilioni entro il 2024.

Naturalmente il timore è dovuto al fatto che anche su questi prestiti le banche hanno emesso una serie di titoli abs il cui valore è strettamente legato al flusso di cassa dei rimborsi continui. Questa situazione si sta aggravando tanto che il tema è diventato oggetto della campagna presidenziale in corso. In verità la lista potrebbe essere più lunga perché vi sono tante altre ‘piccole’ bolle. Trattasi comunque di trilioni anche se non di centinaia di trilioni come per i derivati otc.

Sono dati che cominciano ad essere oggetto di valutazione e di discussione da parte degli addetti. Considerati i riverberi che oggettivamente la finanza globalizzata può determinare nei singoli Paesi, sarebbe opportuno che le autorità di governo e di vigilanza nazionali ed internazionali vi prestassero adeguata attenzione. A partire dal nostro Paese, dove, come è noto, il problema dei crediti deteriorati e delle sofferenze per 200 miliardi di euro è di prima grandezza.
*già sottosegretario all’Economia

**economista

Dove ci porta il liberismo economico, l’ultima ideologia ottocentesca rimasta in vita e purtroppo tuttora egemone

Stato e mercato: una contrapposizione non obbligata

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La Banca Centrale Europea ha deciso di rilanciare alla grande il suo Quantitative easing nella speranza di far crescere l’inflazione al 2% e di far aumentare investimenti e crescita. Ha portato i tassi di interessi a meno 0,4% per i depositi effettuati dalle banche presso la Bce. L’intento è quello di dissuaderle dal ‘parcheggiare i soldi’ nei forzieri di Francoforte invece di indirizzarli verso l’economia reale.

Draghi ha annunciato anche nuovi crediti alle banche al tasso di meno 0,4%. per la durata di 4 anni In altre parole esse restituiranno meno di quanto hanno ottenuto. Si vuole portare inoltre da 60 a 80 miliardi di euro al mese l’ammontare per acquisti di obbligazioni pubbliche e private, suscitando in verità critiche per l’estensione ai bond societari.

Di fatto si intende continuare con la politica fallimentare finora attuata. Se ne aumenta le dimensioni e si continua a considerare il sistema bancario l’unico referente, ignorando che esso è più interessato a coprire i propri buchi di bilancio che a sostenere investimenti e imprese. I dati e i fatti degli anni passati sono rivelatori e inconfutabili. Non si tratta di un’opposizione preconcetta. Di ideologico c’è invece la fede cieca negli automatismi monetari e finanziari. Si sostiene che i tassi di interesse bassi e una liquidità crescente andrebbero automaticamente a finanziare gli investimenti.

E’ lo stesso atteggiamento ideologico imposto dalle economie dominanti del G20, quella americana, quella europea e quella giapponese. A Shanghai è stata presa la decisione di fare crescere gli interventi nelle infrastrutture sia in termini quantitativi che qualitativi. Le Banche di Sviluppo regionali sono state perciò invitate a preparare progetti ambiziosi e di alta qualità anche per attrarre settori della finanza privata verso la concessione di prestiti di lungo termine. Al prossimo summit del G20 allo scopo dovrebbe essere creata una ‘alleanza globale di collegamento infrastrutturale’.

Gli intenti ci sembrano positivi anche se preoccupa la mancanza di attori capaci di realizzarli. Le banche centrali creano liquidità e si aspettano che “il mercato” la porti verso gli investimenti. Il G20 propone lo sviluppo infrastrutturale ma si aspetta che sia sempre “il mercato” a finanziarlo. Cosa succede se il ‘dio mercato’ non funziona secondo le aspettative, come è successo negli anni passati?

Il liberismo economico, l’ultima ideologia ottocentesca rimasta in vita e purtroppo tuttora egemone, invita a non intervenire, a lasciare che sia solo il mercato con le sue leggi a rilanciare la ripresa e a ristabilire un equilibrio virtuoso. Noi riteniamo che questa non sia la strada obbligata. Occorre un ‘different thinking’.

Gli esempi storici più vicini e simili a quelli dell’attuale crisi globale ci indicano strade e prospettive differenti e alternative.

Si pensi al ‘New Deal’ del presidente americano F. D. Roosevelt quando, per uscire dalla Grande Depressione del 1929-33, egli lanciò il vasto programma di investimenti infrastrutturali e di modernizzazione tecnologica. Dopo avere messo sotto controllo e neutralizzato la finanza speculativa, egli favorì la creazione di nuove linee di credito e nuovi bond del Tesoro per finanziare importanti progetti, utilizzando anche il veicolo delle istituzioni bancarie statali . Di fatto si trattava di uno dei primi esperimenti riusciti di Partenariato Pubblico Privato. Lo Stato era la guida, il finanziatore e la garanzia della continuità e della riuscita dei progetti mentre le imprese private, non solo quelle statali, erano impegnate nella loro realizzazione.

Oggi invece, nonostante quasi 8 anni di vani tentativi per portare l’economia e la finanza globale fuori dalle sabbie mobili della recessione, la parola Stato resta uno dei grandi tabù. Non si tratta di proporre un ritorno allo statalismo pervasivo ma di trovare soluzioni razionali. Se il mercato da solo non basta occorre che la politica di sviluppo e di crescita sia guidata dagli Stati. Del resto la programmazione economica e la pianificazione territoriale spettano allo Stato.

Nel mondo non c’è stato soltanto la pianificazione quinquennale dei Paesi socialisti, ma anche la ‘planification indicative’ di Charles De Gaulle e in Italia l’esperimento positivo dell’IRI nella ricostruzione del dopoguerra. In Francia l’economia dirigista, il piano di orientamento in lotta contro le inevitabili tendenze alla burocratizzazione, cercava di mettere insieme le varie componenti sociali ed economiche del Paese evitando che esse si neutralizzassero tra loro. Il ‘Commissariat au Plan’ doveva definire le priorità nazionali e, attraverso i momenti della concertazione, della decisione e della realizzazione, lavorare per creare un’armonia di interessi superando certe derive corporative.

Si pensi che negli stessi Stati Uniti, patria del liberismo economico imperante, certi settori delicati, come quello militare, sono ancora guidati dallo Stato ma con il contributo essenziale delle imprese private ad alta tecnologia.

In una economia sociale di mercato la collaborazione pubblico-privato dovrebbe essere una costante, un impegno per i governi e per gli stessi operatori privati.

*già sottosegretario all’Economia **economista

A SHANGHAI HANNO SUONATO L’ALLARME FINANZIARIO GLOBALE

Shanghai G20: allarme crisi sistemica

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il summit dei ministri delle finanze e dei banchieri centrali del G20, recentemente tenuto a Shanghai, ha dato un messaggio preoccupante sul futuro dell’economia e della finanza globale. Ha riconosciuto apertamente che le politiche ‘lanciate’ dopo la grande crisi non stanno producendo i risultati positivi desiderati. “La politica monetaria da sola non riesce a promuovere una crescita bilanciata”, è scritto nella dichiarazione finale, per cui il G20 dovrebbe promuovere un programma coordinato di stimoli attraverso “l’uso flessibile della politica fiscale per rafforzare la crescita, l’occupazione e la fiducia”.

Sono solo enunciazioni di buona volontà. Mancano azioni concordate e progetti reali di rilancio dell’economia. Nel contempo vi è una lunga lista di preoccupate dichiarazioni come “eccesso di volatilità, movimenti disordinati sui mercati dei cambi, pesante caduta nei prezzi delle commodity, accresciute tensioni geopolitiche, rischi di revisione al ribasso delle aspettative economiche globali”.

Il dato è che l’altalena dei mercati, purtroppo, continua mentre i governi e le economie procedono in ordine sparso, ognuno per proprio conto e anche in aperta competizione sia sul fronte monetario che finanziario.

Perciò è assai interessante il fatto che negli ultimi giorni alcuni dei maggiori attori economici, attivi durante la crisi del 2007-8, abbiano espresso pubblicamente i loro dubbi sulle attuali strategie economiche e finanziarie.

Mervyn King, governatore della Bank of England nel periodo 2003-2013, ha recentemente affermato che “le maggiori banche dei più grandi centri finanziari del mondo avanzato hanno fallito, provocando un crollo generalizzato della fiducia e la più grave recessione dopo quella degli anni trenta. Come è successo? E’ stato il fallimento degli uomini, delle istituzioni o delle idee? Se non si comprendono le cause sottostanti alla crisi non capiremo mai quello che è successo e saremo incapaci di prevenire una sua ripetizione e di sostenere una vera ripresa delle nostre economie”.

Persino Alan Greenspan, che per vent’anni ha governato la Federal Reserve fino alla vigilia della crisi, ha ammesso che la riforma finanziaria americana, conosciuta come la legge Dodd-Frank, ha fallito. “Avrebbe dovuto affrontare i problemi che avevano portato alla crisi del 2008, ma non lo sta facendo. Le banche ‘too big to fail’ erano la questione cruciale allora e lo sono anche adesso. Gli investimenti nei settori reali sono molto al di sotto della media perché l’incertezza sul futuro continua a dominare.” Purtroppo è così.

Infatti molti indicatori dimostrano che la finanza sta pericolosamente operando con il vecchio schema del ‘business as usual’. Ad esempio, un recente studio del Credit Suisse prova che il mercato globale del ‘leveraged finance’, dopo la contrazione registratasi a seguito della crisi, è ritornato ai suoi massimi livelli. Il ‘leveraged finance’ comporta l’accensione di prestiti sulla base di un capitale minimo dato in garanzia (la famosa leva del debito) per acquistare titoli, soprattutto prodotti finanziari ad alto rischio come i derivati. In pratica si scommette prevedendo un guadagno superiore ai costi del capitale preso a prestito. Sono tutte operazioni fatte dalle grandi banche!

Nel periodo 2011-14 questo mercato a livello mondiale è cresciuto del 42%. L’esposizione delle banche europee è anch’essa aumentata, anche se in dimensioni minori, del 16%. Nel 2014 le banche europee hanno incassato ben 5 miliardi di dollari con tali operazioni speculative.

E’ riconosciuto da tutti, a cominciare dalle banche centrali e dalle altre agenzie di controllo, che, nonostante siano consapevoli dell’enorme rischiosità dei citati giochi finanziari, continuano ad astenersi dall’intervenire. Sono anche il frutto amaro della politica del tasso di interesse zero che oggettivamente spinge sui facili sentieri della speculazione.

Ancora una volta quindi il G20 ha concluso i propri lavori predicando rigore ma con un negativo e clamoroso nulla di fatto che consente il solito ‘laissez-faire’.

*già sottosegretario all’Economia ** economista