Scarsa chiarezza e arretramenti al G20 di Amburgo

Pericolosi passi indietro al G20 di Amburgo
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**Scarsa 
L’ultimo summit del G20 di Amburgo segna, purtroppo, un grande e pericoloso arretramento sul fronte delle riforme dell’economia e della finanza.
Si ha l’impressione che sia stato definito un “commercio internazionale à la carte”. Infatti, nonostante i media abbiano evidenziato il compromesso raggiunto sul commercio estero, secondo noi, non vi è affatto chiarezza. Nel documento si afferma che “continueremo a combattere il protezionismo e tutte le pratiche commerciali scorrette e riconosciamo allo stesso tempo il ruolo degli strumenti di difesa commerciale legittima”, ma sembra proprio che ogni Paese sia legittimato a fare ciò che vuole. Protezionismo no, ma anche sì. Potrebbe aversi una ripresa delle guerre commerciali.

L’altro fronte, tanto sbandierato, è quello del clima. Gli Usa hanno bloccato il loro contributo finanziario per la realizzazione del trattato di Parigi, mantenendo un vago impegno ad abbassare le emissioni di co2 nel quadro del sostegno alla propria crescita economica e del miglioramento della propria sicurezza energetica. Ad alcuni può suonare accettabile, ma si tratta di un drastico ritorno alla politica dell’unilateralismo americano.
I passi indietro sono ancora più evidenti se si confronta il comunicato di Amburgo con le linee guida e le proposte formulate qualche mese prima a Baden Baden nel summit dei ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali del G20.

Sono del tutto scomparsi alcuni passaggi rilevanti relativi alla politica monetaria. Per non mettere in discussione eventuali prolungamenti del Quantitative easing , non si fa più riferimento al fatto che “la politica monetaria da sola non può portare ad una crescita bilanciata”.
Coerentemente con la nuova politica commerciale con meno regole, la dichiarazione finale non menziona più che ”l’eccesso di volatilità e i movimenti disordinati sui tassi di cambio possono avere delle implicazioni negative per la stabilità economica e finanziaria”. Scompare anche la volontà di “trattenersi da svalutazioni competitive e dall’uso dei tassi di cambio per scopi competitivi”.

Scompare il precedente impegno a “ridurre gli eccessivi squilibri economici”. Prima si voleva mitigare i grandi surplus commerciali di alcuni Paesi per non danneggiare gli altri e per evitare eventuali crisi sistemiche.

Nel documento finale non si menziona più “il rafforzamento dei controlli sui flussi di capitale e della gestione dei rischi risultanti da un’eccessiva volatilità del flusso di capitali”. Meno male che si riafferma la necessità di mantenere i controlli su possibili rischi sistemici e sulle vulnerabilità associate al cosiddetto “sistema bancario-ombra”.

Particolarmente grave è l’assenza di ogni riferimento al pericolo rappresentato dai derivati over the counter, notoriamente i più speculativi e destabilizzanti. Mentre a Baden Baden si affermava l’importanza del lavoro del Financial Stability Board nel definire le riforme dei mercati dei derivati otc e si invitava i membri del G20 a completare tempestivamente e a rendere operative in tempi brevi le riforme relative agli otc.

Inoltre il G20 ha quasi del tutto ignorato le analisi e le raccomandazioni del Fondo Monetario Internazionale che, poco tempo prima, aveva evidenziato l’importanza della progressiva multipolarità negli affari economici, monetari e commerciali internazionali. Si ricordi che, tra l’altro, il Fondo aveva anche sollevato la questione destabilizzante, divenuta periodica, della volatilità nei flussi di capitali e degli alti debiti pubblici di molti Paesi. Di conseguenza, il Fondo aveva proposto il rafforzamento di una Global Financial Safety Net, che è un insieme di misure per evitare eventuali destabilizzazioni finanziarie. A tal fine poneva l’accento sul ruolo positivamente crescente dei Diritti speciali di prelievo che, com’è noto, sono la moneta internazionale basata su un paniere di valute importanti.

Il summit ha anche ignorato le raccomandazioni della Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea che ha evidenziato il rischio rappresentato dal debito globale dei paesi del G20. Si ricordi che, senza contare il settore finanziario, esso è pari a 220% del loro Pil, con un aumento del 40% rispetto al 2007.

Nel documento di Amburgo, purtroppo, non si tiene conto del monito della BRI circa l’aumento del protezionismo: escludendo i dazi, dal 2010 le misure concernenti i regolamenti protettivi e i sussidi, sono quadruplicate. Mentre in dieci anni il commercio internazionale è rimasto fermo al 60% del Pil mondiale.

Si ha l’impressione che il meeting di Amburgo sia stato negativo nei risultati. Tutt’al più è stato uno scenario amplificato per l’ingresso di due nuovi protagonisti, Trump e Macron.
*già sottosegretario all’Economia **economista

IL VATICANO SUONA L’ALLARME SUGLI USA E TRUMP: FONDAMENTALISMO EVANGELICALE E INTEGRALISMO CATTOLICO

FONDAMENTALISMO EVANGELICALE E INTEGRALISMO CATTOLICO
 (Nota per il Lettore. Questo saggio uscito su La Civilta’ Cattolica e’ di estrema importanza perche’ fa il punto sul fondamentalismo cattolico alimentato dagli estremisti della destra di Trump capitanata da Steve Bannon, il super consigliere del Presidente. Si tenga conto che questo articolo e’ stato esaminato e aprovato dalle piu’ alte gerarchie del Vaticano. Si tratta di un testo che interessa credenti e non credenti perche’ ha un alto valore ‘politico’ oltre che religioso).

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FONDAMENTALISMO EVANGELICALE E INTEGRALISMO CATTOLICO

Un sorprendente ecumenismo

Antonio Spadaro – Marcelo Figueroa*

In God We Trust: questa è la frase impressa sulle banconote degli Stati Uniti d’America, che è anche l’attuale motto nazionale. Esso apparve per la prima volta su una moneta nel 1864, ma non divenne ufficiale fino al passaggio di una risoluzione congiunta del Congresso nel 1956. Significa: «In Dio noi confidiamo». Ed è un motto importante per una nazione che alla radice della sua fondazione ha pure motivazioni di carattere religioso. Per molti si tratta di una semplice dichiarazione di fede, per altri è la sintesi di una problematica fusione tra religione e Stato, tra fede e politica, tra valori religiosi ed economia.
Religione, manicheismo politico e culto dell’apocalisse
Specialmente in alcuni governi degli Stati Uniti degli ultimi decenni, si è notato il ruolo sempre più incisivo della religione nei processi elettorali e nelle decisioni di governo: un ruolo anche di ordine morale nell’individuazione di ciò che è bene e ciò che è male.
A tratti questa compenetrazione tra politica, morale e religione ha assunto un linguaggio manicheo che suddivide la realtà tra il Bene assoluto e il Male assoluto. Infatti, dopo che Bush a suo tempo ha parlato di un «asse del male» da affrontare e ha fatto richiamo alla responsabilità di «liberare il mondo dal male» in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, oggi il presidente Trump indirizza la sua lotta contro un’entità collettiva genericamente ampia, quella dei «cattivi» (bad) o anche «molto cattivi» (very bad). A volte i toni usati in alcune campagne dai suoi sostenitori assumono connotazioni che potremmo definire «epiche».
Questi atteggiamenti si basano sui princìpi fondamentalisti cristiano-evangelici dell’inizio del secolo scorso, che si sono man mano radicalizzati. Infatti si è passati da un rifiuto di tutto ciò che è «mondano», com’era considerata la politica, al perseguimento di un’influenza forte e determinata di quella morale religiosa sui processi democratici e sui loro risultati.
Il termine «fondamentalismo evangelico», che oggi si può assimilare a «destra evangelicale» o «teoconservatorismo», ha le sue origini negli anni 1910-15. A quell’epoca un milionario del Sud della California, Lyman Stewart, pubblicò 12 volumi intitolati I fondamentali (Fundamentals). L’autore cercava di rispondere alla «minaccia» delle idee moderniste dell’epoca, riassumendo il pensiero degli autori di cui apprezzava l’appoggio dottrinale. In tal modo esemplificava la fede evangelicale quanto agli aspetti morali, sociali, collettivi e individuali. Furono suoi estimatori vari esponenti politici e anche due presidenti recenti come Ronald Reagan e George W. Bush.
Il pensiero delle collettività sociali religiose ispirate da autori come Stewart considera gli Stati Uniti una nazione benedetta da Dio, e non esita a basare la crescita economica del Paese sull’adesione letterale alla Bibbia. Nel corso degli anni più recenti esso si è inoltre alimentato con la stigmatizzazione di nemici che vengono per così dire «demonizzati».
Nell’universo che minaccia il loro modo di intendere l’ American way of life si sono avvicendati nel tempo gli spiriti modernisti, i diritti degli schiavi neri, i movimenti hippy, il comunismo, i movimenti femministi e via dicendo, fino a giungere, oggi, ai migranti e ai musulmani. Per sostenere il livello del conflitto, le loro esegesi bibliche si sono sempre più spinte verso letture decontestualizzate dei testi veterotestamentari sulla conquista e sulla difesa della «terra promessa», piuttosto che essere guidate dallo sguardo incisivo e pieno di amore del Gesù dei Vangeli.
Dentro questa narrativa, ciò che spinge al conflitto non è bandito. Non si considera il legame esistente tra capitale e profitti e la vendita di armi. Al contrario: spesso la guerra stessa è assimilata alle eroiche imprese di conquista del «Dio degli eserciti» di Gedeone e di Davide. In questa visione manichea, le armi possono dunque assumere una giustificazione di carattere teologico, e non mancano anche oggi pastori che cercano per questo un fondamento biblico, usando brani della Sacra Scrittura come pretesti fuori contesto.
Un altro aspetto interessante è la relazione che questa collettività religiosa, composta principalmente da bianchi di estrazione popolare del profondo Sud americano, ha con il «creato». Vi è come una sorta di «anestesia» nei confronti dei disastri ecologici e dei problemi generati dai cambiamenti climatici. Il «dominionismo» che professano – che considera gli ecologisti persone contrarie alla fede cristiana – affonda le proprie radici in una comprensione letteralistica dei racconti della creazione del libro della Genesi, che colloca l’uomo in una situazione di «dominio» sul creato, mentre quest’ultimo resta sottoposto al suo arbitrio in biblica «soggezione».
In questa visione teologica, i disastri naturali, i drammatici cambiamenti climatici e la crisi ecologica globale non soltanto non vengono percepiti come un allarme che dovrebbe indurli a rivedere i loro dogmi ma, al contrario, sono segni che confermano la loro concezione non allegorica delle figure finali del libro dell’Apocalisse e la loro speranza in «cieli nuovi e terra nuova».
Si tratta di una formula profetica: combattere le minacce ai valori cristiani americani e attendere l’imminente giustizia di un Armageddon, una resa dei conti finale tra il Bene e il Male, tra Dio e Satana. In questo senso ogni «processo» (di pace, di dialogo ecc.) frana davanti all’impellenza della fine, della battaglia finale contro il nemico. E la comunità dei credenti, della fede (faith), diventa la comunità dei combattenti, della battaglia (fight). Una simile lettura unidirezionale dei testi biblici può indurre ad anestetizzare le coscienze o a sostenere attivamente le situazioni più atroci e drammatiche che il mondo vive fuori dalle frontiere della propria «terra promessa».
Il pastore Rousas John Rushdoony (1916-2001) è il padre del cosiddetto «ricostruzionismo cristiano» (o «teologia dominionista»), che grande impatto ha avuto nella visione teopolitica del fondamentalismo cristiano. Essa è la dottrina che alimenta organizzazioni e networks politici come il Council for National Policy e il pensiero dei loro esponenti quali Steve Bannon, attuale chief strategist della Casa Bianca e sostenitore di una geopolitica apocalittica[1].
«La prima cosa che dobbiamo fare è dare voce alle nostre Chiese», dicono alcuni. Il reale significato di questo genere di espressioni è che ci si attende la possibilità di influire nella sfera politica, parlamentare, giuridica ed educativa, per sottoporre le norme pubbliche alla morale religiosa.
La dottrina di Rushdoony, infatti, sostiene la necessità teocratica di sottomettere lo Stato alla Bibbia, con una logica non diversa da quella che ispira il fondamentalismo islamico. In fondo, la narrativa del terrore che alimenta l’immaginario degli jihadisti e dei neo-crociati si abbevera a fonti non troppo distanti tra loro. Non si deve dimenticare che la teopolitica propagandata dall’Isis si fonda sul medesimo culto di un’apocalisse da affrettare quanto prima possibile. E dunque non è un caso che George W. Bush sia stato riconosciuto come un «grande crociato» proprio da Osama bin Laden.
Teologia della prosperità e retorica della libertà religiosa
Un altro fenomeno rilevante, accanto al manicheismo politico, è il passaggio dall’originale pietismo puritano, basato su L’ etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, alla «teologia della prosperità», propugnata principalmente da pastori milionari e mediatici e da organizzazioni missionarie con un forte influsso religioso, sociale e politico. Essi annunciano un «vangelo della prosperità», per cui Dio desidera che i credenti siano fisicamente in salute, materialmente ricchi e personalmente felici.
È facile notare come alcuni messaggi delle campagne elettorali e le loro semiotiche abbondino di riferimenti al fondamentalismo evangelicale. Accade per esempio di vedere immagini in cui leader politici appaiono trionfanti con una Bibbia in mano.
Una figura rilevante, che ha ispirato presidenti come Richard Nixon, Ronald Reagan e Donald Trump, è il pastore Norman Vincent Peale (1898-1993), il quale ha officiato il primo matrimonio dell’attuale Presidente. Egli è stato un predicatore di successo: ha venduto milioni di copie del suo libro Il potere del pensiero positivo (1952), pieno di frasi quali: «Se credi in qualcosa, la otterrai», «Se ripeti “Dio è con me, chi è contro di me?”, nulla ti fermerà», «Imprimi nella tua mente la tua immagine di successo, e il successo arriverà», e così via. Molti telepredicatori della prosperità mescolano marketing, direzione strategica e predicazione, concentrandosi più sul successo personale che sulla salvezza o sulla vita eterna.
Un terzo elemento, accanto al manicheismo e al vangelo della prosperità, è una particolare forma di proclamazione della difesa della «libertà religiosa». L’erosione della libertà religiosa è chiaramente una grave minaccia all’interno di un dilagante secolarismo. Occorre però evitare che la sua difesa avvenga al ritmo dei fondamentalisti della «religione in libertà», percepita come una diretta sfida virtuale alla laicità dello Stato.
L’ecumenismo fondamentalista
Facendo leva sui valori del fondamentalismo, si sta sviluppando una strana forma di sorprendente ecumenismo tra fondamentalisti evangelicali e cattolici integralisti, accomunati dalla medesima volontà di un’influenza religiosa diretta sulla dimensione politica.
Alcuni che si professano cattolici si esprimono talvolta in forme fino a poco tempo fa sconosciute alla loro tradizione e molto più vicine ai toni evangelicali. In termini di attrazione di massa elettorale, questi elettori vengono definiti value voters. L’universo di convergenza ecumenica, tra settori che paradossalmente sono concorrenti in termini di appartenenza confessionale, è ben definito. Quest’incontro per obiettivi comuni avviene sul terreno di temi come l’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’educazione religiosa nelle scuole e altre questioni considerate genericamente morali o legate ai valori. Sia gli evangelicali sia i cattolici integralisti condannano l’ecumenismo tradizionale, e tuttavia promuovono un ecumenismo del conflitto che li unisce nel sogno nostalgico di uno Stato dai tratti teocratici.
La prospettiva più pericolosa di questo strano ecumenismo è ascrivibile alla sua visione xenofoba e islamofoba, che invoca muri e deportazioni purificatrici. La parola «ecumenismo» si traduce così in un paradosso, in un «ecumenismo dell’odio». L’intolleranza è marchio celestiale di purismo, il riduzionismo è metodologia esegetica, e l’ultra-letteralismo ne è la chiave ermeneutica.
È chiara l’enorme differenza che c’è tra questi concetti e l’ecumenismo incoraggiato da papa Francesco con diversi referenti cristiani e di altre confessioni religiose, che si muove nella linea dell’inclusione, della pace, dell’incontro e dei ponti. Questo fenomeno di ecumenismi opposti, con percezioni contrapposte della fede e visioni del mondo in cui le religioni svolgono ruoli inconciliabili, è forse l’aspetto più sconosciuto e al tempo stesso più drammatico della diffusione del fondamentalismo integralista. È a questo livello che si comprende il significato storico dell’impegno del Pontefice contro i «muri» e contro ogni forma di «guerra di religione».
La tentazione della «guerra spirituale»
L’elemento religioso invece non va mai confuso con quello politico. Confondere potere spirituale e potere temporale significa asservire l’uno all’altro. Un tratto netto della geopolitica di papa Francesco consiste nel non dare sponde teologiche al potere per imporsi o per trovare un nemico interno o esterno da combattere. Occorre fuggire la tentazione trasversale ed «ecumenica» di proiet­tare la divinità sul potere politico che se ne riveste per i propri fini. Francesco svuota dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari e del «dominionismo», che prepara all’apocalisse e allo «scontro finale»[2]. La sottolineatura della misericordia come attributo fondamentale di Dio esprime questa esigenza radicalmente cristiana.
Francesco intende spezzare il legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa. La spiritualità non può legarsi a governi o patti militari, perché essa è a servizio di tutti gli uomini. Le religioni non possono considerare alcuni come nemici giurati né altri come amici eterni. La religione non deve diventare la garanzia dei ceti dominanti. Eppure è proprio questa dinamica dallo spurio sapore teologico che tenta di imporre la propria legge e la propria logica in campo politico.
Colpisce una certa retorica usata per esempio dagli opinionisti di Church Militant, una piattaforma digitale statunitense di successo, apertamente schierata a favore di un ultraconservatorismo politico, che usa i simboli cristiani per imporsi. Questa strumentalizzazione è definita «autentico cristianesimo». Essa, per esprimere le proprie preferenze, ha creato una precisa analogia tra Donald Trump e Costantino, da una parte, e tra Hillary Clinton e Diocleziano, dall’altra. Le elezioni americane, in quest’ottica, sono state intese come una «guerra spirituale»[3].
Questo approccio bellico e «militante» appare decisamente affascinante ed evocativo per un certo pubblico, soprattutto per il fatto che la vittoria di Costantino – data per impossibile contro Massenzio, che aveva alle sue spalle tutto l’establishment romano – era da attribuirsi a un intervento divino: in hoc signo vinces.
Church Militant si chiede dunque se la vittoria di Trump si possa attribuire alla preghiera degli americani. La risposta suggerita è positiva. La consegna indiretta per il presidente Trump, nuovo Costantino, è chiara: deve agire di conseguenza. Un messaggio molto diretto, quindi, che vuole condizionare la presidenza, connotandola dei tratti di una elezione «divina». In hoc signo vinces, appunto.
Oggi più che mai è necessario spogliare il potere dei suoi panni confessionali paludati, delle sue corazze, delle sue armature arrugginite. Lo schema teopolitico fondamentalista vuole instaurare il regno di una divinità qui e ora. E la divinità ovviamente è la proiezione ideale del potere costituito. Questa visione genera l’ideologia di conquista.
Lo schema teopolitico davvero cristiano è invece escatologico, cioè guarda al futuro e intende orientare la storia presente verso il Regno di Dio, regno di giustizia e di pace. Questa visione genera il processo di integrazione che si dispiega con una diplomazia che non incorona nessuno come «uomo della Provvidenza».
Ed è anche per questo che la diplomazia della Santa Sede vuole stabilire rapporti diretti, fluidi con le superpotenze, senza però entrare dentro reti di alleanze e di influenze precostituite. In questo quadro, il Papa non vuole dare né torti né ragioni, perché sa che alla radice dei conflitti c’è sempre una lotta di potere. Quindi non c’è da immaginare uno «schieramento» per ragioni morali o, peggio ancora, spirituali.
Francesco rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del Regno di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del «partito». Se fosse così inteso, infatti, il «popolo eletto» entrerebbe in un complicato intreccio di dimensioni religiose e politiche che gli farebbe perdere la consapevolezza del suo essere a servizio del mondo e lo contrapporrebbe a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè al «nemico».
Ecco allora che le radici cristiane dei popoli non sono mai da intendere in maniera etnicista. Le nozioni di «radici» e di «identità» non hanno il medesimo contenuto per il cattolico e per l’identitario neo-pagano. L’etnicismo trionfalista, arrogante e vendicativo è, anzi, il contrario del cristianesimo. Il Papa, il 9 maggio, in un’intervista al quotidiano francese La Croix, ha detto: «L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio». E ancora: «L’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista».
Contro la paura
Su quale sentimento fa leva la tentazione suadente di un’allean­za spuria tra politica e fondamentalismo religioso? Sulla paura della frattura dell’ordine costituito e sul timore del caos. Anzi, essa funziona proprio grazie al caos percepito. La strategia politica per il successo diventa quella di innalzare i toni della conflittualità, esagerare il disordine, agitare gli animi del popolo con la proiezione di scenari inquietanti al di là di ogni realismo.
La religione a questo punto diventerebbe garante dell’ordine, e una parte politica ne incarnerebbe le esigenze. L’appello all’apocalisse giustifica il potere voluto da un dio o colluso con un dio. E il fondamentalismo si rivela così non il prodotto dell’esperienza religiosa, ma una concezione povera e strumentale di essa.
Per questo Francesco sta svolgendo una sistematica contro-narrazione rispetto alla narrativa della paura. Occorre, dunque, combattere contro la manipolazione di questa stagione dell’ansia e dell’insicurezza. E pure per questo, coraggiosamente, Francesco non dà alcuna legittimazione teologico-politica ai terroristi, evitando ogni riduzione dell’islam al terrorismo islamista. E non la dà neanche a coloro che postulano e che vogliono una «guerra santa» o che costruiscono barriere di filo spinato. L’unico filo spinato per il cristiano, infatti, è quello della corona di spine che Cristo ha in capo[4].

 
*Marcelo Figueroa è pastore presbiteriano
e direttore dell’edizione argentina de
L’Osservatore Romano.

L’AMARA LEZIONE DEL DEBITO PUBBLICO DELLA GRECIA, AGGRAVATO DALLE CURE EUROPEE

L’amara lezione del debito pubblico della Grecia
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Sette anni dopo l’inizio dei salvataggi finanziari, la Grecia sembra messa peggio di prima.
Nel 2000 il mercato aveva smesso di finanziare il debito pubblico greco. Allora i Paesi della zona euro, con vari accordi bilaterali, concessero crediti per 52,9 miliardi.

Nel 2012 si comprese che non era sufficiente. L’European Financial Stability Facility (EFSF), la struttura europea per l’aiuto finanziario ai Paesi europei in difficoltà, appena creata, varò perciò un secondo programma di aiuti finanziari pari a 141,8 miliardi di euro.
Neanche questo bastò. Nel 2015 l’European Stability Mechanism, il Meccanismo europeo di stabilità che è succeduto all’EFSF, ha varato un nuovo, il terzo, programma di salvataggio di 86 miliardi di euro in cambio di riforme strutturali, intese come politiche di massiccia austerità.

Ogni mese, dopo avere controllato se i tagli al bilancio sono stati fatti e dopo che il governo greco dichiara la sua intenzione di continuare con simili politiche, si negozia con Atene il versamento di una parte del sostegno finanziario. Il prossimo luglio, per esempio, serviranno 7,3 miliardi per coprire i debiti e gli interessi in scadenza e per evitare il default dello Stato.
Di conseguenza, dei 340 miliardi di euro di debito pubblico greco, la metà è nelle mani dell’EFSF e dell’ESM.
La colpa è soltanto di Atene? Sono state tutte valide le politiche di aiuto e di austerità imposte? Oppure il cosiddetto Meccanismo europeo di stabilità è stato la ricetta sbagliata?

Si ricordi che alla fine del 2010 il debito pubblico greco era pari al 148% del Pil che era di circa 220 miliardi di euro. La disoccupazione era del 12,5% e il 27,6% dei greci viveva sotto la soglia di povertà. Gli ultimi dati dicono che il debito pubblico è salito al 183% del Pil, che nel frattempo si è ridotto a 186,5 miliardi di euro. La disoccupazione sarebbe intorno al 26% e la percentuale di poveri avrebbe raggiunto il 34,6% dell’intera popolazione.

Dalla recessione iniziale, aggravata dal consolidamento fiscale e dalle politiche di austerità, si è arrivati alla depressione economica. Nel frattempo i contributi dell’Unione europea sono serviti soprattutto per pagare gli interessi sul debito dovuti alle banche e, in parte, a garantire il traballante sostegno sociale.
Che cosa deve ancora succedere perché Bruxelles, Berlino e anche Atene capiscano che una tale politica fallimentare non può continuare?
Da parte sua, il Fmi non dà risposte concrete, ma si limita soltanto a stimare che entro il 2060 il debito pubblico della Grecia potrebbe essere pari al 260% del Pil.

L’assurdo, però, sta nel fatto che, nonostante il bilancio statale rimpicciolisca, l’austerità ha determinato un avanzo primario di circa 3,5 miliardi di euro! Se non si conta il pagamento del servizio sul debito, Atene avrebbe più entrate che uscite!
In questo modo, secondo noi, la Grecia non può uscire dalla crisi, anzi, si sta scavando una fossa più profonda. Per finanziare il suo debito pubblico è costretta a pagare il 6% d’interesse, pari a circa 18 miliardi di euro l’anno. Ciò nonostante che il tasso d’interesse della Bce sia vicino a zero! E’ una vera e propria beffa.

Si rammenti inoltre che nel frattempo la Bce è intervenuta a sostegno delle banche europee, in primis di quelle tedesche e francesi, acquistando le obbligazioni del governo greco in loro possesso.
Secondo il Financial Times, Francoforte avrebbe speso 40 miliardi di euro per comprare dalle banche titoli greci con un valore facciale di 55. Ha fatto un favore alle banche poiché sul mercato il prezzo di tali obbligazioni sarebbe stato molto inferiore.
E’ una spirale senza fondo, ma non infinita nel tempo. Potrebbe essere “fermata” dall’eventuale default sovrano della Grecia, con inevitabili contagi sistemici per il resto dell’Europa, o, come auspicabile, dalla decisione europea di affrontare l’emergenza del debito e il rilancio dell’economia, ma senza imporre il fardello dell’austerità.

Ci sembra inevitabile la cancellazione e/o il congelamento di parte del debito. Il resto dovrebbe essere ripagato attraverso l’aumento delle risorse derivanti dalle nuove politiche di sviluppo e non con gli avanzi primari di bilancio, come purtroppo accade oggi.
La Grecia, come l’Italia, ha risorse importanti, a partire dal turismo e dalla cultura Necessita però, di sviluppare anche le sue manifatture, le nuove tecnologie, la ricerca. Al riguardo riteniamo molto importante per la Grecia, ma anche per l’Europa intera, la partecipazione fattiva alla realizzazione dei progetti e delle infrastrutture legate alla Nuova Via della Seta. Il porto del Pireo è stato già venduto a investitori cinesi che, sembra, vogliano trasformarlo in un importante hub.

Se, però, il Pireo fosse soltanto un porto di transito, sarebbe una svendita degli interessi greci e di quelli europei. Se diventasse, invece, la leva di uno sviluppo tecnologico e industriale allora potrebbe essere il volano di un’effettiva crescita dell’economia greca.
L’Italia non può essere indifferente, deve attivarsi perché il nodo Grecia sia sciolto positivamente. E’ nell’interesse del nostro Paese, che è il fulcro naturale di tutte le politiche economiche e di sviluppo del Mediterraneo e anche dell’Africa.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Il Vaticano è l’unico Stato che chiede una pronuncia ufficiale dell’ONU per verificare se le gestione del debito internazionale viola i diritti umani e quelli dei popoli e se limita la sovranità e l’indipendenza degli Stati indebitati

Iniziativa internazionale sul debito pubblico

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Dal 2007 a oggi il debito pubblico mondiale è più che raddoppiato, passando da 28,7 a oltre 61 trilioni di dollari. Nello stesso periodo quello americano è triplicato, attualmente è circa un terzo del totale. Ogni cittadino americano ha più di 60.000 dollari di debito pubblico federale sulle sue spalle. Il record mondiale. Si ricordi che in Italia esso è di circa 38.000 euro pro capite.

Il crescente debito globale è una delle più pericolose minacce di crisi sistemiche.

Per il momento, però, sono i Paesi più poveri, e quelli impoveriti o a rischio default, ad esserne schiacciati. Finora i potenti della Terra, anche se di fatto sono i più indebitati, hanno avuto la spregiudicatezza e gli strumenti per far pagare il conto agli altri.

E’ perciò significativo che sia la Santa Sede, e non i governi, a portare all’esame delle Nazioni Unite il tema della legittimità del debito pubblico. Certamente si intravede la mano di papa Francesco.

L’obiettivo, come ci ricorda il professor Raffaele Coppola, direttore del Centro di Ricerca ”Renato Beccari” dell’Università di Bari e tra i principali coordinatori dell’iniziativa, è far pronunciare l’Assemblea Generale dell’Onu al fine di legittimare la richiesta di parere alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja sulla gestione del debito internazionale per verificarne le eventuali violazioni dei diritti umani e dei popoli.

Si pone, quindi, l’esigenza di un’analisi approfondita dei fondamenti sia giuridici che etici della questione del debito. Non può diventare un macigno insostenibile per le popolazioni, né frenare lo sviluppo e limitare l’indipendenza e la sovranità di uno Stato.

Molti giuristi di varie ispirazioni stanno riflettendo sul problema del pagamento del debito da parte dei Paesi poveri e sullo stato di forza maggiore e di necessità a cui vengono sottoposti. Per lo stato di forza maggiore il non pagamento dipende da un evento incontrollabile da parte dello Stato. Lo stato di necessità, invece, giustificherebbe l’inadempienza quando il pagamento sarebbe troppo gravoso per i cittadini. Chi può pensare di affamare il popolo per pagare a tutti i costi gli interessi sul debito?

L’iniziativa presso l’Onu costituirebbe un precedente giuridico su una materia nevralgica per lo sviluppo della globalizzazione e in particolare per il rapporto fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Di conseguenza non potranno essere ignorati gli effetti deleteri della finanziarizzazione e della deregulation dell’economia.

La proposta della Santa Sede non è campata in aria ma poggia anche su un precedente importante: la risoluzione 69/319 dell’Onu del 2015 relativa ai cosiddetti “fondi avvoltoio”,  cioè quei fondi speculativi che operano in modo aggressivo sul debito dei Paesi in crisi. E’ appena il caso di ricordare che essa fu approvata nonostante il parere contrario degli Stati Uniti.

I valori esplicitati nella proposta si ispirano alla Carta di Sant’Agata de’ Goti del 1997 nella quale giuristi, uomini di Chiesa, intellettuali e laici misero a punto una serie di principi giuridici per regolare secondo giustizia la questione del debito. In particolare «il divieto di accordi usurari», il rispetto «dell’autodeterminazione dei popoli» e il divieto di «una eccessiva onerosità del debito».

Intorno all’iniziativa vaticana si sta tessendo un’ampia rete di alleanze. E’ importante in quanto  la Santa Sede ha lo status di osservatore alle Nazioni Unite e c’è bisogno che uno Stato presenti, in sua vece, la richiesta di discussione all’Assemblea Generale. E’ un ruolo che l’Italia naturalmente potrebbe e dovrebbe assumere. Sull’argomento pare esista già un’intesa di massima con il governo italiano.

Ricordiamo che l’Italia ha già avuto un ruolo meritorio nel 2000 quando il Parlamento approvò la legge 209 relativa alle «Misure per la riduzione del debito estero dei Paesi a più basso reddito e maggiormente indebitati». Il significativo provvedimento nacque sull’onda del Giubileo promosso da Giovanni Paolo II durante il quale fu lanciata la campagna per l’abbattimento del debito dei Paesi poveri. 

Al riguardo si ricordi l’articolo 7 della citata legge che recita: «Il Governo, nell’ambito delle istituzioni internazionali, competenti, propone l’avvio delle procedure necessarie per la richiesta di parere alla Corte internazionale di giustizia sulla coerenza tra le regole internazionali che disciplinano il debito estero dei Paesi in via di sviluppo e il quadro dei principi generali del diritto e dei diritti dell’uomo e dei popoli». E’ esattamente l’obiettivo della Santa Sede. 

In merito l’Italia, non solo per il rispetto della sua legge ma anche per la sua indiscussa sensibilità per le problematiche dei Paesi in via di sviluppo, può davvero svolgere un ruolo incisivo a partire dal prossimo G7 di Taormina.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Con Trump non solo rischi di guerre militari, ma anche di guerre commerciali: a danno soprattutto dell’Europa, Italia compresa

Ritorna lo spettro del protezionismo e della guerra commerciale?

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Mentre si aspetta ancora di conoscere come intende realizzare il suo annunciato piano di investimenti di mille miliardi di dollari per le infrastrutture, Trump ha dato inizio alla sua politica protezionista dell’ “America First “che rischia di sconvolgere l’intero sistema commerciale mondiale.

Ha già firmato due decreti esecutivi per rivedere la politica commerciale finora attuata e osteggiare i partner responsabili degli enormi deficit. Come è noto, nel 2016 il deficit è stato di 500 miliardi di dollari.

Preoccupante, in verità, è la parte relativa ai settori manifatturieri che ammonta a oltre 750 miliardi, di cui 347 nei confronti della Cina! E’ stato un trend decennale. Ovviamente ciò ha inciso non poco sui livelli occupazionali. Secondo l’Ufficio di statistica dal 2001 si sarebbero persi ben sei milioni di posti di lavoro nelle sole attività manifatturiere. 

 Secondo Trump il deficit con Cina, Giappone, Messico ed Europa  è provocato dal fatto che questi Paesi hanno approfittato della disponibilità  degli Stati Uniti. Perciò propone nuovi dazi e tariffe.

Le misure protezionistiche, combinate con la promozione delle produzioni nazionali e del consumo del “made in Usa”, sono una questione estremamente complessa. Una cosa è operare attraverso il  sostegno agli investimenti, un’altra è l’imposizione di dazi verso il resto del mondo.

Probabilmente una certa forma di protezionismo potrebbe temporaneamente essere accettabile per l’economia di un Paese in via di sviluppo. Ma gli Stati Uniti d’America e il dollaro, invece, a livello mondiale rappresentano l’economia e la moneta dominanti in grado di determinare ogni rapporto commerciale e monetario. Perciò i dazi potrebbero scatenare una guerra commerciale.

Secondo Wilbur Ross, il nuovo segretario per il Commercio, saremmo “già in una guerra commerciale” e con un’immagine militaristica ha aggiunto: “Lo siamo stati per decenni. La sola differenza è che i nostri soldati stanno finalmente arrivando al bastione. Non abbiamo un deficit commerciale per caso”.

Intanto Trump ha stracciato i due trattati commerciali, quello con il Pacifico e quello con l’Unione europea, anziché cercare un condiviso modus operandi.

E’ il caso di ricordare che il deficit commerciale americano ha origini lontane. Comincia nel 1975, quando la Cina era ancora un Paese agricolo del terzo mondo, con poche manifatture e senza export. Negli Usa allora c’era la spinta verso la progressiva finanziarizzazione dell’economia nel contesto del processo di globalizzazione. Invece di sviluppare le attività manifatturiere e le nuove tecnologie, nei settori dell’energia, ad esempio, si preferì importare petrolio dai grandi produttori, quali l’Arabia Saudita. 

L’accordo di libero scambio del Nafta con il Messico e il Canada del 1994 fu promosso dalle grandi industrie e dalle banche americane che preferivano de localizzare le loro produzioni industriali nelle terribili maquilladoras messicane, città di confine dove si produceva a prezzi stracciati, sfruttando al massimo il lavoro quasi schiavistico e per niente sindacalizzato. Successivamente un processo simile è stato avviato anche con la Cina, che si è assunta l’impegno di acquistare i titoli di stato americani emessi per sostenere i deficit commerciali di Washington. Ancora oggi Pechino detiene oltre mille miliardi di dollari di Treasury bond.

La storia insegna che, in un mondo globalizzato, la politica protezionistica provoca effetti negativi anche per il Paese che la inizia.

Così avvenne dopo il crac borsistico del’29, quando gli Usa approvarono la legge Smoot-Hawley Tariff  che impose misure e dazi protezionistici alle importazioni di prodotti esteri, accelerando la Grande Depressione.

Di conseguenza dal 1929 al 1933 il commercio mondiale si ridusse di due terzi, da 5,3 a 1,8 miliardi di dollari.

Le prospettive, quindi, sono piuttosto preoccupanti, per l’Europa e per l’Italia. L’Amministrazione di Washington sembra voglia già imporre dazi su alcuni prodotti europei, dagli scooter Vespa all’acqua minerale San Pellegrino e Perrier, fino ai formaggi più noti, ecc. 

La Cina, essendo un colosso economico e politico, è in grado di trovare i necessari accomodamenti commerciali con gli Usa. Ma l’Europa, divisa e senza una vera politica economica unitaria, è purtroppo assai debole rispetto alle scelte e alle imposizioni americane. E rischia di pagare il conto più salato.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

La Brigata Ebraica e la rottamazione del 25 Aprile. Ovvero, dove anche secondo Moni Ovadia mira il vertice integralista della comunità ebraica romana e di quella milanese

E’ un fatto che in occasione del 25 aprile della brigata ebraica non si è mai parlato per decenni, anche perché il suo ruolo nella lotta al nazifascismo in Italia è stato minimo se non trascurabile. E’ certo giusto e comprensibile che gli ebrei – e magari non solo loro – vogliano onorare il ricordo della brigata. Anche se l’averla ignorata per decenni perfino loro pone degli interrogativi – per chi è intellettualmente onesto e non prevenuto pro o contro qualcuno o qualcosa – di non poco conto sulla genuinità e sulle motivazioni del clamore che da qualche anno si è iniziato a fare quasi che sia stata quella brigata ad arrivare sia a Berlino che a Parigi e a Roma anziché rispettivamente le armate sovietiche e americane. Se è giusto e comprensibile che gli ebrei – e magari non solo loro –  vogliano ricordare e onorare la brigata è invece sicuramente non giusto e non comprensibile (se non pensando andreottianamente male…) che si voglia imporre a tutti i costi tale celebrazione e ricordo anche agli altri, vale a dire a chi ha sempre ricordato il 25 aprile quando di quella brigata nessuno sapeva nulla e pertanto non figurava nelle manifestazioni di piazza.

Il ruolo di quella brigata è stato sicuramente inferiore, molto inferiore, a quello di altri reparti composti da uomini di altre religioni, etnie e nazionalità. L’uso dei due pesi e due misure è evidente e addirittura lampante e smaccato se si tiene presente che anche i rom e i sinti, quelli che con spregio tutti chiamano “zingari”, hanno avuto un ruolo, sia pur piccolo anche il loro, nella Liberazione pur senza essere inquadrati in specifici reparti di rom e sinti. Eppure dei rom e sinti ce ne freghiamo allegramente, ignoriamo cinicamente e grossolanamente che hanno subìto anche loro il genocidio per mano nazista. Genocidio che vede tra i 400 e gli 800 mila esseri umani rom e sinti uccisi nei campi nazisti, ma Moni Ovadia ritiene che le vittime possano essere state forse addirittura due milioni: come si vede, un genocidio percentualmente non inferiore per gravità e numero di vittime a quello degli ebrei, ma del quale, a differenza di quest’ultimo, ignoriamo tutto, a cominciare dal nome: Porrajmos e Samudaripen. Non solo: immaginiamo cosa succederebbe se alle celebrazioni del 25 aprile si presentassero, del tutto legittimamente, degli “zingari” con il loro striscione…

Se poi si presentassero anche gruppi di musulmani e africani a rivendicare con tanto di striscione il loro ruolo nella Liberazione dell’Europa, dal momento che erano regolarmente arruolati nelle truppe alleate, succederebbe un pandemonio! Preferiamo restare fermi al film La ciociara. E all’equazione imbecille islamici eguale terroristi, versione postmoderna e attuale, oltre che a lungo futura, dell’antisemitismo che ci si porta nelle viscere e che nel Ventennio diventò legge.
Ho sempre partecipato alle manifestazioni di piazza per il 25 aprile e quando, qui a Milano, si è presentata la novità della presenza dello striscione della brigata ebraica ho anche sfilato chiacchierando con alcuni miei amici ebrei dietro quello striscione. Non c’è voluto molto negli anni successivi per sospettare (dico sospettare, ma quegli stessi miei amici ebrei tifosi di quello striscione mi hanno spiegato e quindi dato la certezza del perché di quella novità, ma tralasciamo), che si trattava solo di strumentalizzare (anche) quella brigata, e i suoi caduti, in funzione filo israeliana. Funzione che ormai è diventata la vera e propria ossessione di molti, specie di quelli che nulla sanno del Samudaripen detto anche Porrajmos e che più si affannano per cancellare il ricordo delle decine di milioni di morti sovietici, compresi i militari prigionieri uccisi in massa nei campi di concentramento nazisti assieme a ebrei e rom. La Storia viene cancellata e riscritta come Storiella e a volte come carta igienicaa uso e consumo delle smaccate propagande di parte.

I filo palestinesi hanno avuto reazioni idiote, sono cascati in pieno nella trappola protestando contro la presenza dello striscione della brigata ebraica alle manifestazioni del 25 aprile, aumentandone così a dismisura la risonanza con la polemiche, piuttosto misere, che ne sono nate e che da allora avvelenano il 25 aprile (con tutte le conseguenze, delle quali oggi non ci rendiamo ancora conto). Non so se sia vero quello che ho letto suoi giornali, e cioè che l’Associazione Nazionale dei Partigiani Italiani (ANPI) ha commesso l’incredibile sbaglio di invitare alla manifestazione la comunità ebraica romana “in rappresentanza di uno Stato estero”, cioè di Israele. Ma francamente è ridicola e grottesca l’affermazione di esponenti di tale comunità secondo i quali, stando a quanto ho letto sui giornali, “l’ANPI non rappresenta i veri partigiani italiani”. Polemiche e accuse men che misere: ma che servono solo a delegittimare chi non canta nel coro e a rottamare quel che resta del 25 aprile e della Liberazione. Rottamazione funzionale alla nuova grande guerra che ci vogliono assolutamente servire in tavola.

Capisco che dire certe cose oggi comporta lapidazioni e condanne, oltre che danni alla carriera e al lavoro come quelli già procuratimi una decina di anni fa da alcuni ipersionisti romani. Ma ciò non basta neppure oggi a tapparmi la bocca e ad evitare che dica e scriva ciò che è giusto, onesto e quindi doveroso dire e scrivere.

POST SCRIPTUM – Il ricordo della brigata ebraica, verso la quale sdebitarsi per i servigi resi nell’esercito inglese, è servito all’Inghilterra per la sua malvagia politica dei due pesi e due misure in Palestina quando ne aveva il mandato: favorire il più possibile i sionisti, evitando di disarmare anche loro, e sfavorire il più possibile i palestinesi, disarmandoli e chiudendo più di un occhio di fronte ai soprusi, stragi e saccheggi compresi, che continuavano a subire per mano del terrorismo sionista. Argomenti sui quali negli anni recenti ha scritto più di uno storico ebreo e israeliano. In particolare ne ha scritto Ilan Pappe, che ha dovuto abbandonare Israele e l’insegnamento universitario in Israele per avere avuto il coraggio di scrivere la verità nell’importante e molto scomodo libro La pulizia etnica della Palestina ( https://fazieditore.it/…/la-pulizia-etnica-della…/ ).

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La perversione del senso del 25 aprile

di Moni Ovadia

Nel corso della mia vita e da che ho l’età della ragione, ho cercato di partecipare, anno dopo anno a ogni manifestazione del 25 aprile. Un paio di anni fa, percorrendo il corteo alla ricerca della mia collocazione sotto le bandiere dell’Anpi, mi imbattei nel gruppo che rappresentava i combattenti della “brigata ebraica”, aggregata nel corso della seconda guerra mondiale alle truppe alleate del generale Alexander e impegnata nel conflitto contro le forze nazifasciste. Qualcuno dei componenti di quel drappello mi riconobbe e mi salutò cordialmente, ma uno di loro mi rivolse un invito sgradevole, mi disse: «Vieni qui con la tua gente».
Io con un gesto gli feci capire che andavo più avanti a cercare le bandiere dell’Anpi che il 25 aprile è «la mia gente» perché io sono iscritto all’Anpi con il titolo di antifascista. Lui per tutta risposta mi apostrofò con queste parole: «Sì, sì, vai con i tuoi amici palestinesi».
Il tono sprezzante con cui pronunciò la parola palestinesi sottintendeva chiaramente «con i nemici del tuo popolo». Io gli risposi dandogli istintivamente del coglione e affrettai il passo lasciando che la sua risposta, sicuramente becera si disperdesse nell’allegro vociare dei manifestanti.
Questo episodio, apparentemente innocuo, mi fece scontrare con una realtà assai triste che si è insediata nelle comunità ebraiche.
I grandi valori universali dell’ebraismo sono stati progressivamente accantonati a favore di un nazionalismo israeliano acritico ed estremo. Un nazionalismo che identifica stato con governo.

Naturalmente non tutti gli ebrei delle comunità hanno imboccato questa deriva sciovinista, ma la parte maggioritaria, quella che alle elezioni conquista sempre il “governo” comunitario, fa dell’identificazione di ebrei e Israele il punto più qualificante del proprio programma al quale dedica la prevalenza delle sue energie.
Io ritengo inaccettabile questa ideologia nazionalista, in primis come essere umano perché il nazionalismo devasta il valore integro e universale della persona, poi come ebreo, perché nessun altro flagello ha provocato tanti lutti agli ebrei e alle minoranze in generale e da ultimo perché, come insegna il lascito morale di Vittorio Arrigoni, io non riconosco altra patria che non sia quella dei diseredati e dei giusti di tutta la terra.
L’ideologia nazionalista israeliana negli ultimi giorni ha fatto maturare uno dei suoi frutti tossici: la decisione presa dalla comunità ebraica di Roma, per il tramite del suo presidente Riccardo Pacifici, di non partecipare al corteo e alla manifestazione del prossimo 25 aprile. La ragione ufficiale è che nel corteo sfileranno bandiere palestinesi, vulnus inaccettabile per il presidente Pacifici, in quanto nel tempo della seconda guerra mondiale, il gran muftì di Gerusalemme Amin al Husseini, massima autorità religiosa sunnita in terra di Palestina fu alleato di Hitler, favorì la formazione di corpi paramilitari musulmani a fianco della Germania nazista e fu fiero oppositore dell’instaurazione di uno stato Ebraico nel territorio del mandato britannico. Mentre la brigata ebraica combatteva con gli alleati contro i nazifascisti. Tutto vero, ma il muftì nel 1948 venne destituito e arrestato: oggi vedendo una bandiera palestinese a chi viene in mente il gran muftì di allora? Praticamente a nessuno, se si eccettua qualche ultrà del sionismo più isterico o qualche fanatico modello Isis.

Oggi la bandiera palestinese parla a tutti i democratici di un popolo colonizzato, occupato, che subisce continue e incessanti vessazioni, che chiede di essere riconosciuto nella sua identità nazionale, che si batte per esistere contro la politica repressiva del governo di uno stato armato fino ai denti che lo opprime e gli nega i diritti più elementari ed essenziali. Un governo che lo umilia escogitando uno stillicidio di violenze psicologiche e fisiche e pseudo legali per rendere esausta e irrilevante la sua stessa esistenza.
Quella bandiera ha pieno diritto di sfilare il 25 aprile – com’è accaduto per decenni e senza polemica alcuna – e glielo garantisce il fatto di essere la bandiera di un popolo che chiede di essere riconosciuto, un popolo che lotta contro l’apartheid, contro l’oppressione, per liberarsi da un occupante, da una colonizzazione delle proprie legittime terre, legittime secondo la legalità internazionale, un popolo che vuole uscire di prigione o da una gabbia per garantire futuro ai propri figli e dignità alle proprie donne e ai propri vecchi, un popolo la cui gente muore combattendo armi alla mano contro i fanatici del sedicente Califfato islamico nel campo profughi di Yarmouk, nella martoriata Damasco.

E degli ebrei che si vogliono rappresentanti di quella brigata ebraica che combatté contro la barbarie nazifascista hanno problemi ad essere un corteo con quella bandiera? Allora siamo alla perversione del senso ultimo della Resistenza.
La verità è che quella del gran muftì di allora è solo un pretesto capzioso e strumentale. Il vero scopo del presidente Pacifici e di coloro che lo seguono – e addolora sapere che l’Aned condivide questa scelta -, è quello di servire pedissequamente la politica di Netanyahu, che consiste nello screditare chiunque sostenga le sacrosante rivendicazioni del popolo palestinese.

Per dare forza a questa propaganda è dunque necessario staccare la memoria della persecuzione antisemita dalle altre persecuzioni del nazifascismo e soprattutto dalla Resistenza espressa dalle forze della sinistra. È necessario discriminare fra vittima e vittima israelianizzando la Shoah e cortocircuitando la differenza fra ebreo d’Israele ed ebreo della Diaspora per proporre l’idea di un solo popolo non più tale per il suo legame libero e dialettico con la Torah, il Talmud e il pensiero ebraico, bensì un popolo tribalmente legato da una terra, da un governo e dalla forza militare.
Se come temo, questo è lo scopo ultimo dell’abbandono del fronte antifascista con il pretesto che accoglie la bandiera palestinese, la scelta non potrà che portare lacerazioni e sciagure, come è vocazione di ogni nazionalismo che non riconosce più il valore dell’altro, del tu, dello straniero come figura costitutiva dell’etica monoteista ma vede solo nemici da sottomettere con la forza.

Fonte: Il manifesto
Originale: https://ilmanifesto.it/la-perversione-del-senso-ultimo-del-25-aprile/

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Egregio signor Sindaco,
le scrivo a seguito della notizia circolata nella rete, che un’associazione di ebrei legata alla Comunità Ebraica milanese, attraverso il suo sito /www/.linformale.eu/, le ha chiesto, non si capisce a quale titolo, di adoperarsi per impedire la partecipazione alla prossima manifestazione del 25 Aprile, festa della Liberazione, al movimento BDS /(Boicotta Disinvesti Sanziona)/, calunniandolo con accuse false e infamanti. Il 25 Aprile ricorda e celebra si la memoria della lotta contro la barbarie nazifascista, ma irradia anche un insegnamento e un monito che cammina di generazione in generazione: il dovere di opporsi ad ogni oppressione per liberare ogni popolo oppresso da chiunque ne sia l’oppressore.

Per questa ragione, lo slogan più ripetuto nella manifestazione dell’antifascismo è “/Ora e sempre //Resistenza!/”, pertanto chiunque inalberi simboli che richiamano alla libertà e all’indipendenza dei popoli, è legittimo erede dei partigiani.

Signor Sindaco, io non mi permetto di chiederle di prendere posizione sul BDS,voglio solo sot toporle un’accorata sollecitazione a non prestarsi a legittimare un uso scellerato e strumentale dall’accusa di antisemitismo o di terrorismo contro BDS. L’unico scopo di tali falsità e quello di tappare la bocca, imbavagliare il pensiero e criminalizzare una militanza sacrosanta che si batte per i diritti di un popolo oppresso, i cui territori sono occupati, colonizzati da cinquantanni, le cui topografie esistenziali sono devastate, ai cui figli è negato il presente e il futuro, la cui gente è sottoposta a punizioni collettive e ad un autentico apartheid a causa del quale, i palestinesi subiscono un diuturno ed incessante stillicidio di vessazioni e patiscono la negazione sistematica della dignità sociale e personale.

Signor Sindaco, questa situazione tragica, violenta ed ingiusta, e denunciata con forza anche dalle voci più coraggiose della stampa e della società israeliana. A titolo di esempio riporto qui alcuni brani del discorso pronunciato davanti all’assemblea delle Nazioni Unite il 16 ottobre 2016 da Hagai El-Ad, direttore esecutivo del gruppo israeliano per i diritti umani /Bet’Tselem: “Ho parlato alle Nazioni Unite contro l’occupozione perché sono israeliano. Non ho un altro Paese. Non ho un’altra cittadinanza né un altro futuro. Sono nato e cresciuto qui e qui sarò sepolto: mi sta a cuore il destino di questo luogo, il destino del suo popolo e il suo destino politico, che è anche il mio. E alla luce di tutti questi legami, l’occupazione è un disastro.

[…] Ho parlato alle Nazioni Unite contro l’occupazione perché i miei colleghi di B’Tselem ed io, dopo così tanti anni di lavoro, siamo arrivati ad una serie di conclusioni. Eccone una: la situazione non cambierà se il mondo non interviene. Sospetto che anche il nostro arrogante governo lo sappia, per cui è impegnato a seminare la paura contro un simile intervento.
[…] Non ci sono possibilità che la società israeliana, di sua spontanea volontà e senza alcun aiuto, metta fine all’incubo. Troppi meccanismi nascondono la violenza che mettiamo in atto per controllare i palestinesi.
[…] Non capisco cosa il governo voglia che facciano i palestinesi. Abbiamo dominato la loro vita per circa 50 anni, abbiamo fatto a pezzi la loro terra. Noi esercitiamo il potere militare e burocratico con grande successo e stiamo bene con noi stessi e con il mondo.
Cosa dovrebbero fare i palestinesi? Se osano fare anifestazioni, è terrorismo di massa. Se chiedono sanzioni, è terrorismo economico. Se usano mezzi legali, è terrorismo giudiziario. Se si rivolgono alle Nazioni Unite, è terrorismo diplomatico.
Risulta che qualunque cosa faccia un palestinese, a parte alzarsi la mattina e dire “Grazie, Raiss” – “Grazie, padrone” – è terrorismo. Cosa vuole il governo, una lettera di resa o che i palestinesi spariscano? Non possono sparire.”.

L’antisemitismo, signor Sindaco, è stato ed è uno dei crimini più odiosi, farne uso di vergognosa propaganda al fine di legittimare politiche di oppressione contrarie ad ogni principio del diritto internazionale è infame. Proprio in occasione delle recenti polemiche, la comunità ebraica romana in una sua nota, ne ha rispolverato a pappagallo una versione inventata dal talento di Bibi Netanyahu: “L’Anpi sceglie di cancellare la Storia e far sfilare gli eredi del Gran Muftì di Gerusalemme che si alleò con Hitler con le proprie bandiere…” (la Repubblica 20/04/2016). Ovvero, chi inalbera la bandiera palestinese, simbolo dell’identità e della dignità di un popolo oppresso, sarebbe erede del Gran Mufti di Gerusalemme del tempo della Seconda Guerra Mondiale, noto per le sue simpatie filonaziste. Questo argomento se non fosse una vigliaccata sarebbe ridicolo e patetico, tanto più se serve come scusa alle istituzioni della Comunità Ebraica romana per non partecipare alla manifestazione a cui ha pieno titolo ad esserci ma non contro l’aspirazione alla libertà e all’indipendenza del popolo palestinese.
Da ultimo, signor Sindaco, mi permetto di rivolgermi a lei a titolo personale.
Se lei desse legittimità a chi vuole criminalizzare /BDS/, metterebbe anche su di me che ne sostengo il diritto, la libertà e la piena legittimità, lo stigma del terrorista antisemita. Mi permetto orgogliosamente di ricordarle,che sono ebreo per nascita, cittadino milanese da 68 anni, militante antifascista dall’età della ragione e che ho dedicato oltre quarant’anni a far conoscere e a celebrare i valori specifici e universali della cultura ebraica rappresentandoli in teatro, scrivendone e parlandone.

In questi ultimi anni per avere sostenuto i diritti del popolo palestinese, ho ricevuto ogni sorta di spietati insulti e maledizioni, ci ho un po’ fatto il callo, ma se, ancorché indirettamente, l’istituzione della mia città si unisse al coro, il vulnus colpirebbe non me ma i valori della tradizione antifascista e democratica della nostra Milano.

La ringrazio anticipatamente per l’attenzione che vorrà rivolgermi

Moni Ovadia

Finalmente in Parlamento il conflitto di interessi, sulla pelle dei risparmiatori, tra banche d’affari e banche ordinarie

La separazione bancaria approda alla Camera

 

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

 

La Commissione Finanze della Camera ha iniziato la discussione sulle proposte di legge relative alla separazione tra banche ordinarie e banche d’affari. Le varie proposte sono accomunate dalla medesima finalità fondamentale, la salvaguardia e la tutela del risparmio dei cittadini.   

In generale le banche che svolgono attività di “commercio in proprio” di strumenti finanziari non dovrebbero svolgere anche le attività di raccolta del risparmio tra il pubblico né effettuare l’esercizio del credito.

In alcune proposte opportunamente si fa riferimento alla legge Glass-Steagall che venne introdotta negli Usa dal presidente Roosevelt nel 1933 per combattere la speculazione e impedire l’utilizzo del risparmio delle famiglie in operazioni ad alto rischio da parte delle banche.

Il tema della separazione è diventato da tempo oggetto di discussione a livello mondiale, ma in Italia si è imposto soprattutto dopo il gennaio 2016 quando i governi europei, anche il nostro, hanno sottoscritto l’obbligo di applicare il “bail in” in caso di dissesti bancari. Per coprire i buchi  dei fallimenti bancari la nuova norma impone di rivalersi sugli azionisti, sugli obbligazionisti e sui depositi oltre i 100.000 euro .

E’ il passo obbligato dopo l’approvazione del decreto legge relativo alle “Disposizioni urgenti per la tutela del risparmio nel settore creditizio”. C’è da sperare che la Camera concluda in tempi brevi l’iter legislativo del provvedimento in questione.

Intanto i dati riguardanti la salute del sistema bancario, evidenziati dalla Banca d’Italia, devono far riflettere.  Si evince che il 70% delle sofferenze bancarie, pari a 140 miliardi di euro su un totale di 210, è in mano al 3% dei debitori! Il che significa che il restante 97% dei debitori detiene solo il 30% delle sofferenze bancarie.

Non possono essere, quindi, le famiglie e le pmi a pagare per le sofferenze succitate. I responsabili sono i grandi gruppi e le grandi imprese. E’ chiaro che le sofferenze sono state determinate dai prestiti facilmente concessi a chi evidentemente ex ante non era degno di credito. Continuiamo a ritenere indispensabile il puntuale accertamento delle responsabilità specifiche degli amministratori e del management delle singole banche.

Le perdite accumulate dalle cinque banche a rischio fallimento, in primis il Monte dei Paschi di Siena, sfiorano i 20 miliardi di euro, quasi pari a una manovra finanziaria. Purtroppo si calcola che dal 2013 i risparmiatori abbiano perso almeno 30 miliardi dei loro risparmi, più di 10 miliardi sarebbero stati persi solo dai 200 mila azionisti delle due banche popolari venete. 

Rispetto al problema delle sofferenze il governo e le autorità sembrano navigare ancora a vista. Secondo noi, bisognerebbe considerare le esperienze altrui. In Germania, per esempio, nel caso della Erste Abwicklungsanstalt, l’agenzia centrale creata per far fronte alle sofferenze bancarie tedesche, lo Stato ha recuperato quasi tutti i 246 miliardi di non performing loans. Berlino non solo ha fatto una rigorosa analisi delle cause ma ha anche accertato le responsabilità. Naturalmente sono state realizzate le opportune politiche per la crescita dell’economia reale.  

Si ricordi che, dopo l’esplosione della crisi finanziaria globale, per stabilizzare i relativi sistemi bancari nazionali, la Germania spese 238 miliardi, la Spagna 52 e gli Stati Uniti 426. Purtroppo l’Italia non si attivò in merito prima dell’entrata del bail in.

In conclusione si può affermare che, eliminate le varie degenerazioni, il sistema bancario italiano non sarebbe in pessime condizioni. Infatti il livello degli impieghi sul totale degli attivi, cioè i prestiti che le banche fanno sul totale delle loro attività, è quasi del 70%, mentre in Germania sarebbe del 56%. Inoltre i livelli dei derivati in Italia, sul totale degli attivi, sono meno del 10% a fronte di una media Ue del 20%, mentre in Germania essi arrivano al 34%.  

L’argomento della separazione bancaria e della difesa del risparmio è troppo importante perché diventi materia per un ulteriore scontro elettorale ed ideologico. Potrebbe invece diventare un campo di fruttuosa cooperazione, mostrando che il bene comune è superiore agli interessi partitici o di bottega. Sarebbe anche un modo concreto per mostrare che in Italia vi sono anche degli statisti e non solo dei politicanti.
*già sottosegretario all’Economia   **economista

  

  

  

  

 

Continuano le tossine, i veleni e le truffe dei derivati

Derivati senza controlli

Mario Lettieri* Raolo Raimondi **

La Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea ha recentemente pubblicato due studi sui mercati dei derivati otc in cui evidenzia che il loro valore nozionale è salito in sei mesi, dal dicembre 2015 al giugno 2016, da 493 a 544 trilioni di dollari. E’ un’impennata significativa che interrompe la tendenza decrescente iniziata nel 2013, quando la montagna dei derivati aveva raggiunto la vetta di 710 trilioni!

Il dato più preoccupante è quello relativo al cosiddetto “gross market value” degli otc  che nel periodo  indicato è letteralmente esploso, passando da 14,5 a 20,7 trilioni di dollari. Questo valore sta ad indicare il costo per rimpiazzare al prezzo di mercato tutti i contratti aperti. Tale aumento riflette la grande tensione in certi settori, soprattutto quello dei cambi monetari dove i derivati relativi alla sterlina e allo yen sono più che raddoppiati a seguito delle significative oscillazioni delle due valute. Nei citati sei mesi lo yen si è apprezzato del 15% rispetto al dollaro, mentre la sterlina ha perso il 10%. Sono segnali di grande instabilità.

La crescita dei mercati dei derivati va di nuovo di pari passo con la loro opacità. E’ l’effetto visibile e misurabile del progressivo svuotamento delle regole per contenere i fenomeni speculativi, in vigore durante l’Amministrazione Obama..

In merito, anche Aitan Goelman, ex presidente della Commodity Futures Trading Commission (CFTC), l’agenzia americana che dovrebbe regolare le operazioni in derivati finanziari, ha dichiarato che vi sarebbe una “massiccia quantità di comportamenti irregolari” nel mercato dei futures, delle options e degli swaps, i vari nomi con cui si distinguono i derivati, troppo spesso speculativi. 

Negli Usa ogni giorno vengono registrati circa 325 milioni di operazioni in derivati finanziari, di cui non poche sono truffaldine. Infatti, le manipolazioni spesso comportano l’uso di insider trading, di finanziamenti senza copertura, di capitali non propri, di piramidi finanziarie e di ordini fatti senza l’intenzione di portarli a termine. Secondo Goelman la CFTC è a conoscenza di molte frodi ma non riesce a combatterle efficacemente per mancanza di mezzi e di fondi. Ha un budget annuale di 250 milioni di dollari di cui soltanto il 20% per la lotta alle frodi. Di conseguenza almeno due terzi dei casi sospetti non vengono neanche indagati.

Una storia “molto italiana”. Nel nostro Paese le lungaggini della giustizia generano innumerevoli prescrizioni che creano impunità e sfiducia diffusa.

Anche in Europa le operazioni in derivati da parte delle banche sono state  troppo consentite. La Bce è stata molto tollerante verso le banche, soprattutto verso la Deutsche Bank che negli anni è incredibilmente diventata leader mondiale nei mercati otc.

Per ben due volte, nel 2014 e nel 2016, la Bce avrebbe omesso di valutare il rischio dei derivati cosiddetti “Livello 3”. Questi titoli non hanno un prezzo affidabile in quanto vengono trattati fuori dai mercati regolamentati. Per esempio, a fine 2015 alla banca tedesca sarebbe stato permesso di iscrivere a bilancio tali titoli per un valore di ben 31 miliardi di euro.

La Bce non sarebbe stata in grado di dare una credibile valutazione dei titoli in questione per mancanza delle necessarie competenze e degli indispensabili sofisticati software. Cosa che, guarda caso, avrebbero soltanto gli stessi inventori dei derivati otc: le grandi banche come la Goldman Sachs. Non si può pretendere da loro una corretta valutazione. Sarebbe come affidare ai lupi la protezione del gregge!

In Europa il permissivismo verso i derivati riflette, purtroppo, anche la decisione delle banche di non far fluire la liquidità verso l’economia reale e l’imprenditoria produttiva.  I dati parlano chiaro. Secondo uno studio dell’agenzia Bloomberg, le banche europee hanno depositato circa 1,16 trilioni di dollari presso la Bce, anche senza ricevere alcun interesse. Spesso sono soldi ricevuti dalla stessa Bce che acquista titoli di stato dei Paesi europei ed altri titoli in possesso delle stesse banche. 

Nonostante la Bce abbia immesso nel sistema finanziario europeo 1,8 trilioni di dollari, i finanziamenti da parte delle banche verso l’economia, nel periodo del Qe sono aumentati di appena 175 miliardi, restando comunque ben al di sotto del livello del 2012.

Sembra di raccontare una storia vecchia e ripetuta. Essendoci ancora il rischio di nuove crisi sistemiche, meglio non tacere, per non trovarsi ancora una volta impreparati.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

 

 

 

 

 

 

Si scrive Trump, ma si legge Goldman Sachs

Goldman Sachs all’arrembaggio della nave di Trump

 Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Molti negli Usa si riferiscono all’amministrazione Trump con l’appellativo “Government Sachs” in quanto ha imbarcato un numero impressionante di personaggi che, in vario modo, hanno lavorato o collaborato con Goldman Sachs, la più chiacchierata banca d’affari americana. Dall’esplosione della crisi globale la banca ha scalato molte posizioni nella lista delle banche americane più esposte in derivati finanziari over the counter fino a conquistare la terza posizione con oltre 45,5 trilioni di dollari di valore nozionale.

 Rispetto alle prime due, la Citigroup e la JP Morgan Chase, c’è una “piccola” differenza. Essa vanta il peggiore rapporto in assoluto tra il valore dei derivati e gli asset (gli attivi), che sono soltanto 880 miliardi di dollari. Il che significa che per ogni dollaro di asset, la GS ha quasi 52 dollari di derivati, mentre  la Citigroup ne ha 28,5 e la JPMorgan 20. Per cui, se queste due ultime non navigano in mari tranquilli, per la GS il mare rischia di essere sempre in burrasca. Sono dati significativi quanto preoccupanti tanto che anche l’Office of the Comptroller of the Currency (OCC), l’agenzia di controllo delle banche americane, a fine settembre 2016 ha affermato che il rapporto tra l’esposizione dei crediti e il capitale di base (credit exposure to risk-based capital) era del 433% per Goldman Sachs, rispetto al 216% della JP Morgan e al 68% della Bank of America.  Sempre secondo il citato rapporto, sei anni dopo l’entrata in vigore della riforma finanziaria Dodd-Frank, che obbligava le banche a sottoscrivere tutti i contratti derivati attraverso piattaforme regolamentate, la GS mantiene ancora il 76% dei suoi derivati in otc non regolamentati. Si tratta della percentuale più alta tra tutte le banche quotate a Wall Street.

 Come è noto l’opacità dei derivati otc ha giocato un ruolo determinante nella crisi finanziaria, in quanto le banche in quel periodo avevano in gran parte sospeso di farsi credito reciprocamente sospettando buchi nascosti. Di conseguenza le stesse hanno cercato di garantirsi contro eventuali crolli accendendo polizze presso le grandi assicurazioni, in particolare con il gigante AIG. Solo di recente è diventato noto che circa la metà dei 185 miliardi di dollari versati dal governo americano per salvare la citata AIG è andata a beneficio delle grandi banche “too big to fail”.  Infatti la GS ne avrebbe ricevuti ben 12,9 miliardi.

 Crediamo non debba sorprendere il fatto che la GS sia sempre stata al centro delle grandi indagini per far emergere i responsabili della crisi globale, né tanto meno il conoscere che la banca sia stata in prima fila nel tentativo di bloccare tutte le riforme del sistema bancario e finanziario americano.  E’ sorprendente, invece, che il presidente Trump continui a reclutare molti dei suoi uomini tra gli ex leader della GS. Da ultimo il suo team economico si è “arricchito” con l’arrivo di Dina Power, presidente della Fondazione della Goldman Sachs.

 Ma la nomina più provocatoria indubbiamente è quella di Jay Clayton a capo della Security Exchange Commission (SEC), l’agenzia governativa preposta al controllo della borsa valori, l’equivalente della nostra Consob. Clayton è un importante avvocato che ha lavorato per la GS, cosa che la di lui moglie fa ancora. Si tratta della stessa SEC che ha multato più volte Goldman Sachs per operazioni illegali di vario tipo: nel 2010 una multa di 550 milioni di dollari per operazioni fraudolente con titoli tossici immobiliari subprime e un’altra di 11 milioni  nel 2012 perché alcuni suoi analisti avevano segretamente favorito dei clienti ben selezionati.

 Anche la Federal Reserve nell’agosto 2016  le ha inflitto una sanzione di 36,3 milioni di dollari per aver usato informazioni confidenziali risultanti da operazioni di controllo fatte dalla stessa Fed. Per non dire della condanna a pagare 120 milioni per manipolazioni fatte sui tassi di interesse comminata nel dicembre dell’anno scorso dalla  Commodity Futures Trading Commission (CFTC), l’agenzia che ha il compito di controllare le borse delle merci e delle relative operazioni in derivati finanziari.

 Non è un caso, quindi, che nelle settimane passate alcuni senatori americani abbiano chiesto alla Goldman Sachs di  rendere pubbliche le sue attività di lobby contro la legge di riforma Dodd-Frank e di conoscere l’ammontare dei profitti risultanti dalla sua cancellazione. Si ricordi che tra i primi provvedimenti del presidente Trump c’è stata l’abrogazione della citata legge.

 Evidentemente, purtroppo, il presidente americano ha dimenticato quando da lui stesso detto qualche settimana fa: “Per troppo tempo, un piccolo gruppo nella capitale della nostra nazione ha raccolto i compensi governativi, mentre la gente ne ha sostenuto le spese. Washington ha prosperato, tuttavia il popolo non ha condiviso la sua ricchezza”. E’ il classico esempio di quanta distanza a volte c’è tra il dire e il fare.  

*già sottosegretario all’Economia  **economista

 

L’Orchestra Europea per la Pace: dal mondo Rom la musica per un’Europa migliore nel 60° anniversario del Trattato di Roma

L’Orchestra Europea per la Pace e l’Alexian Group in concerto per il 60^ anniversario dei Trattati di Roma il 24 marzo alle ore 19,30 nell’Aula Magna dell’Università La Sapienza.

L’Alexian Group di Santino Spinelli e l’Orchestra Europea per la Pace, diretta dal M^ Antonio Cericola, saranno protagonisti di un evento di portata europea al cospetto delle più alte cariche istituzionali italiane ed europee e della stampa internazionale. Il concerto si svolgerà, infatti, nell’ambito delle celebrazioni del 60^ anniversario dei Trattati di Roma che di fatto hanno dato inizio all’Unione Europea. La manifestazione si svolgerà nell’elegante e prestigiosa sala dell’Aula Magna dell’Università La Sapienza di Roma. Il concerto è previsto alle ore 19,30.

L’Orchestra Europea per la Pace reca con sé un messaggio di pace, di amore e di fratellanza fra i popoli per un’Europa unita, solidale e senza discriminazioni. Le musiche eseguite con l’orchestra appartengono al mondo Rom e sono composizioni originali di Santino Spinelli che eseguirà con i suoi figli, Gennaro Spinelli al violino, Giulia Spinelli al violoncello e Evedise Spinelli all’arpa e il suo Alexian Group un percorso musicale e canoro originale per una musica etno-sinfonica europea. È un viaggio attraverso gli stili musicali romanès di diverse aree geografiche elevando le tradizioni locali ad arte universale. È l’unico caso in cui l’orchestra accompagna un ensemble di musica Rom e il cui compositore è anche esecutore. È la più grande novità musicale europea che sta riscuotendo grandi consensi nei più grandi teatri d’Europa e luoghi istituzionali come il Palazzo del Consiglio d’Europa o il Parlamento Europeo.

Sarà eseguita, su musica del maestro Antonio Cericola, anche un Melologo con la poesia Auschwitz di Santino Spinelli che orna, dal 24 ottobre 2010, il Roma Memorial di Berlino per le vittime del Porrajmos, l’olocausto dei Rom e Sinti, inaugurato con la cancelliera Angela Merkel e il Presidente della Repubblica Tedesca. La poesia sarà declamata in diverse lingue da illustri personaggi: Santino Spinelli in lingua romanì, Dijana Pavlovic in serbo-croato, Miriam Meghnagi in lingua ebraica e Franca Minucci in italiano. Molti musicisti dell’Orchestra Europea per la Pace sono abruzzesi. L’evento avrà una grande visibilità mediatica. Sarà l’occasione per esportare, ancora una volta, l’eccellenza artistica abruzzese nel mondo.

sconosciuto

Il debito pubblico italiano e la globalizzazione senza regole (= speculazione sfrenata)

Il debito pubblico italiano e la globalizzazione senza regole

Mario Lettieri* e Paolo Ramondi**                                  

Il debito pubblico italiano è sempre al centro di tutte le discussioni relative al ruolo dell’Italia nell’Unione europea. Anche se siamo stati tra i fondatori dell’Unione, più di un governo europeo ci vorrebbe relegati nel secondo o addirittura nel terzo girone.

Gli ultimi dati indicano che il rapporto del debito pubblico italiano rispetto al pil è intorno al 133%. Di conseguenza, tutti si sentono autorizzati a chiedere riforme strutturali, rientri veloci, tagli ed austerità, fino a sollecitare forti sanzioni finanziarie per il mancato rispetto dei parametri di Maastricht.                                                    

L’andamento del nostro debito pubblico nei decenni passati è sempre stato in aumento per una serie di motivi negativi, politici ed amministrativi, che ancora oggi necessitano di essere affrontati e corretti.

Noi, però, dobbiamo anche evidenziare come la speculazione finanziaria internazionale, esplosa in alcuni momenti cruciali della nostra storia, ha inferto delle tremende accelerazioni nella crescita del debito pubblico, portandolo così fuori dai normali canali istituzionali.

Il primo grande attacco speculativo contro la lira avvenne nel 1992. Era parte del più vasto attacco contro il Sistema Monetario Europeo. Lo Sme doveva preparare con maggior attenzione e con una velocità moderata, il processo di cooperazione e di unione europea, anche nel campo monetario e finanziario.

Come è noto, in Italia l’attacco speculativo era combinato con la pressione internazionale verso la privatizzazione delle imprese a partecipazione statale. Ovviamente non vi fu solo la spinta internazionale… Alla fine, con la massiccia svalutazione della lira, vi fu una vera e propria svendita delle aziende pubbliche.

L’effetto sul debito pubblico fu devastante. Il rapporto debito/pil , che era di 105,4% nel 1992, salì al 115,6% nel 1993 fino a raggiungere 121,8% nel 1994.

Sotto la pressione dei mercati i tassi di interesse sui titoli di stato salirono notevolmente, aggravando ulteriormente l’andamento del debito pubblico.

Fu necessario un enorme sforzo, sia per la ripresa economica che per i tagli della spesa pubblica, per ridimensionare i tassi. Anche l’entrata nell’euro incise nel rapporto debito/pil che scese intorno al 103% nel 2004 e nel 2007/8.

Poi la crisi finanziaria globale, partita dagli Usa, investì tutto il mondo, in primis l’Europa, colpendo tutti i settori economici, bancari e commerciali provocando pesanti crolli nelle produzioni ed enormi salvataggi pubblici delle banche a rischio bancarotta.

In Italia il rapporto debito/pil schizzò dal 103,6% del 2007 al 116,0% del 2009. 

L’altra impennata più recente si è registrata nel 2011 a seguito dell’attacco speculativo contro l’Italia, che portò lo spread ad oltre 500 punti (5%)sopra il tasso di interesse del Bund decennale tedesco, con effetti pesanti per gli interessi dei titoli di stato italiani. Come noto, la crisi determinò anche mutamenti negli assetti di governo. Per fortuna l’attacco si fermò nel preciso momento in cui Mario Draghi, presidente della Bce, dichiarò che avrebbe utilizzato tutti i mezzi necessari nella difesa dell’euro. Il famoso “whatever it takes”.

Ma il rapporto debito/ pil, che nel 2011 era del 120,7%, schizzò al 127,0% l’anno successivo.

Si stima che le grande banche internazionali, in particolare quelle europee, nel pieno di quelle turbolenze finanziarie abbiano venduto non meno di 200 miliardi di euro di titoli di Stato italiano. E’ difficile dare una valutazione precisa, ma non si è lontani dalla verità se si afferma che siano state coinvolte anche certe banche tedesche e francesi, quelle stesse che in precedenza  erano state salvate dai rispettivi governi.

E’ da ipocriti affermare in Europa o in Italia che la speculazione attacca chi se lo merita, per una endogena debolezza economica di cui si è i soli responsabili. Si dimentica che un’economia più debole deve anche fare degli sforzi enormi per recuperare le perdite generate da una crisi a volte provocata da altri.

 I dati e le stesse discussioni ci dicono che c’è ancora molto da fare. Nelle sedi europee non servono né l’ottimismo di maniera né la classica voce grossa. In quelle sedi non solo bisogna evidenziare che il nostro Paese, a seguito dei ripetuti attacchi speculativi, ha subito un aggravamento del rapporto debito/pil non inferiore al 30%, ma soprattutto far comprendere che è il momento di decidere che gli investimenti non possono essere sottoposti ad un irrazionale principio di austerità che, anziché lenire, aggrava i malanni di un Paese.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Trump e le infrastrutture: chiacchiere o quale modello di investimento?

Trump e le infrastrutture: chiacchiere o quale modello di investimento?

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Ancora non si conosce il vero orientamento del presidente Trump per i settori dell’economia reale degli Usa.  

Cancellando le poche regole introdotte a suo tempo dal presidente Obama per contenere le spinte speculative, le sue decisioni riguardanti il mondo bancario e finanziario hanno deluso quanti si aspettavano i cambiamenti promessi in campagna elettorale.

Dubbi e perplessità sorgono anche per quanto riguarda il finanziamento del vasto programma infrastrutturale annunciato, che prevede ben 1.000 miliardi di dollari di investimento.    

Si farà ricorso ad obbligazioni e a fondi pubblici mirati a specifici progetti a beneficio degli utenti, oppure verranno messi in campo dei partenariati pubblico-privati (PPP) in cui si garantiscono maggiori privilegi alla parte privata?

Potrebbe sembrare una domanda secondaria ma non lo è per niente.

Se il governo si farà carico dell’intero investimento, lo Stato evidentemente si aspetterà di essere ripagato attraverso una maggiore efficienza dei settori produttivi e dai tributi fiscali derivanti dall’aumento dei redditi e dei consumi. Se si privilegiano i partenariati, gli investitori privati incasseranno le tariffe pagate dai consumatori e, forse, giovandosi anche di una rilevante garanzia pubblica.

In Italia si conosce bene la differenza in quanto negli anni, si è, purtroppo, in gran parte privatizzata la distribuzione dell’acqua, che da bene pubblico è sempre più diventato un servizio gestito da privati. Lo stesso avviene per la gestione delle autostrade che hanno portato ricchi introiti ai privati a fronte di scarsi investimenti e di insufficienti manutenzioni della rete.  

Lungi da noi l’intento di criminalizzare il modello dei partenariati. Al contrario, esso può essere uno strumento molto valido se ben utilizzato e ben controllato. Occorre però riconoscere che non è il toccasana alternativo per tutti gli investimenti pubblici.

Negli Stati Uniti si stima che la componente privata degli investimenti nei servizi di interesse pubblico produce su base decennale in media un profitto annuo tra l’8 e il 18%.

Sono soprattutto i fondi di “private equity”, controllati dalle banche, ad operare in questi settori. Molte città americane, come è noto, in passato hanno “delegato” ai privati la gestione di molti servizi pubblici.

In una situazione di tassi di interesse zero, le banche e i fondi finanziari scalpitano per investire nei progetti infrastrutturali e in certi servizi pubblici. Ecco perché il programma di Trump suscita grandi consensi da parte del sistema bancario.

Indubbiamente la materia è complessa e ha notevoli riverberi. E’ noto, per esempio, che ogni investimento pubblico nelle infrastrutture genera un aumento del valore di mercato dei terreni e degli immobili già esistenti nella zona, generando effetti perversi nell’aumento dei prezzi delle case e degli affitti.

Si ricordi che Trump è un immobiliarista che ha accumulato le sue ricchezze in questo settore. Perciò non vorremmo che in futuro gli Usa diventassero un gigantesco fondo di investimento immobiliare.

Comunque speriamo che il presidente americano ci sorprenda positivamente e fughi con le sue scelte le non poche perplessità circolanti sulla natura del suo governo.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

 

Trump: probabile disco verde alla banche USA per riprendere a speculare. Con danni anche per l’Italia

Con Trump le banche tornano libere di speculare?

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

A meno di due settimane dalla sua nomina, con un sorprendente “Executive Order On Core Principles for Regulating the United States Financial System”, il presidente Donald Trump ha cancellato la riforma di Wall Street e del mercato finanziario americano conosciuta come “Dodd-Frank Act”.

Le grandi banche “too big to fail” potranno da oggi tornare ad operare come prima delle crisi globale del 2008, senza restrizioni, senza regole e senza controlli più stringenti.

Questa decisione potrebbe avere delle ripercussioni pericolose e devastanti sul fronte economico e finanziario internazionale, soprattutto in Europa.

La Dodd-Frank, voluta da Obama dopo il fallimento della Lehman Brothers, avrebbe dovuto mettere dei freni alle operazioni finanziarie più rischiose. Tra le restrizioni previste c’era quella specifica di mantenere le operazioni speculative entro un limite percentuale delle loro attività. Erano previsti inoltre maggiori controlli per le banche con 50 miliardi di dollari di capitale che venivano considerate di “rischio sistemico”.

Pur non essendo una legge perfetta essa era stata, anche se parziale, una risposta alla crisi.

Come prevedibile, dopo la sua introduzione, il sistema bancario americano ha operato in modo sistematico e continuo per neutralizzarla.

Adesso, con un colpo di penna, Trump, che già in passato l’aveva definita “un disastro che ha danneggiato lo spirito imprenditoriale americano”, la abroga!

Lo abbiamo scritto qualche settimana fa quando Trump indicò Steve Mnuchin come suo ministro delle Tesoro. Ci sembrò che l’arrivo nell’Amministrazione di ex grandi banchieri avrebbe potuto significare una sicura involuzione a favore dei mercati finanziari.

Mnuchin è stato a capo della Goldman Sachs, una della banche più aggressive nel mondo della finanza. Non solo, nella nuova Amministrazione sono stati imbarcati altri grandi banchieri, tra questi Gary Cohn, ex Goldman Sachs, come direttore del Consiglio economico della Casa Bianca, e Wilbur Ross, ex capo della filiale americana della banca Rothschild, come capo del Dipartimento del Commercio.

La decisione di Trump è arrivata dopo il primo incontro del cosiddetto “Strategic and Policy Forum”, che è il suo gruppo di consiglieri privati, tra i quali Jamie Dimon, capo della JP Morgan e Gary Cohn. Quest’ultimo più volte ha dichiarato che le banche americane continueranno ad avere una posizione dominate nei mercati finanziari internazionali “fintanto che non ci escludiamo noi stessi attraverso un sovraccarico di regole”.

In altre parole si ritorna, purtroppo, al leit motiv secondo cui i mercati si autoregolamentano meglio senza interferenze e direttive del governo.

Al termine dell’incontro Trump ha addirittura dichiarato che “ non c’è persona migliore di Jamie Dimon per parlarmi della Dodd-Frank e delle regole del settore bancario”, mostrando un entusiasmo in verità degno di migliore causa.

Intanto l’ordinanza esecutiva impegna il Segretario del Tesoro, che dovrebbe appunto essere Steve Mnuchin nel caso ottenga l’approvazione del Congresso, a preparare entro 4 mesi un rapporto per una nuova regolamentazione del sistema finanziario. Si è ingenui chiedersi chi saranno i veri beneficiari di tali proposte?

Contemporaneamente è stato firmato un altro memorandum presidenziale soppressivo della regola secondo cui i consulenti devono anteporre l’interesse dei loro clienti a qualsiasi altra considerazione. Secondo Trump va invece rafforzato il principio secondo cui i cittadini devono liberamente fare le loro scelte finanziarie. Non è una cosa da poco. Infatti, in questo modo se un risparmiatore accetta di comprare un titolo ad alto rischio, anche senza capire bene i termini dell’operazione, non potrà in seguito lamentarsi delle eventuali perdite

Non è un caso che la stampa finanziaria di Wall Street abbia salutato le citate decisioni come una coraggiosa scelta di ritorno ad una accentuata deregulation.

Tali decisioni non possono non suscitare diffuse preoccupazioni in quanti continuano a ritenere che l’economia reale debba essere centrale e tutelata rispetto alle attività speculative.

Perciò le dichiarazioni di Trump, circa una nuova legge Glass-Steagall relativa alla separazione delle attività bancarie, suonano false o come delle mere battute elettorali. C’è da sperare che la proposta di legge per reintrodurre la Glass-Steagall, presentata al Congresso da un gruppo bipartisan appena prima dell’emissione dell’ordine esecutivo, venga discussa e approvata.

E’ ancora presto per dare un giudizio definitivo sull’Amministrazione Trump, ma questi segnali sicuramente non depongono bene.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Riportare la Russia nel G8

Summit di Taormina: riportare la Russia nel G8

Mario Lettieri * e Paolo Raimondi**

E’ partita un’iniziativa italiana per il reintegro nel G8 della Federazione Russa. E’ un’iniziativa giusta, opportuna e che tiene conto anche degli interessi del nostro Paese.

I presidenti del Consiglio Italiano del Movimento Europeo (CIME), dell’istituto di ricerche sociali EURISPES e dell’Istituto Italiano per l’Asia e il Mediterraneo (ISIAMED) hanno scritto una lettera aperta al Presidente del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni, sollecitando il nostro governo a farsi promotore di azioni affinché il presidente Vladimir Putin possa essere al summit di Taormina, al fine di costruire “ponti” e la necessaria, vera e positiva collaborazione di pace per una efficace cooperazione tra i popoli.

Come è noto, dal primo gennaio l’Italia ha la presidenza del G7, di cui sono membri anche gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna. Gli altri Paesi dell’Ue sono rappresentati dalla Commissione europea, che, si ricordi, non può ospitare i vertici ne presiederli.

Quindi a maggio a Taormina si terrà il prossimo summit dei capi di stato e di governo con la presenza di nuovi leader mondiali, come il Presidente americano Donald Trump, il prossimo Presidente francese e il Primo ministro inglese Theresa May.

E’ noto che, dal 1998 fino al 2014, al G8 ha partecipato anche la Federazione Russa. A seguito della crisi in Ucraina, del referendum in Crimea e delle conseguenti sanzioni, è stata impedita tale partecipazione.

Pertanto a Taormina, purtroppo, potrebbe non esserci, ancora una volta, il Presidente della Federazione Russa. In merito riteniamo che il meeting potrebbe essere l’occasione per l’Italia per spingere verso la riapertura di un dialogo costruttivo con Mosca. La Russia, non sfugge a nessuno, è un partner importante. Lo è ancor di più per l’Unione europea, se davvero si vuole agire per affrontare le tante questioni globali. La soluzione di problemi quali quello della sicurezza e delle migrazioni e ovviamente quelli relativi ai costruendi nuovi assetti pacifici e multipolari, non può prescindere dal coinvolgimento della Russia.

Si ricordi che il 2016 si è purtroppo chiuso con il massacro terroristico di cittadini inermi nel mercatino di Natale a Berlino e il 2017 è cominciato con l’orrendo attentato di Istanbul. Sono eventi che pongono al centro della politica europea ed internazionale la questione della sicurezza e della pacificazione e risoluzione dei troppi conflitti regionali che, come dice il Papa, nel loro insieme, anche se a pezzi, costituiscono la terza guerra mondiale.

Le grandi istituzioni internazionali, a cominciare dall’ONU e dall’Unione europea, sono chiamate ad assumere delle responsabilità dirette. Ma anche i vertici G20, G7 e G8 sono importanti organismi di coordinamento per affrontare le cause delle tante tensioni legate soprattutto alle maggiori sfide economiche e geopolitiche e dare indicazioni sulle soluzioni più adeguate e condivise.

Perciò riteniamo positivo che il primo ministro Gentiloni abbia già sottolineato la necessità per tutti di abbandonare la logica della guerra fredda, senza rinunciare ai principi, Lo sono anche le recenti dichiarazioni del Ministro degli Esteri, Angelino Alfano, che sembra sollecitare il rientro della Russia nel G8.

Ciò potrebbe aiutare anche la stessa Unione europea a recuperare un ruolo più incisivo nel contesto internazionale. Il vertice di Taormina, città di grande storia proiettata nel Mediterraneo, potrebbe, quindi, essere davvero l’occasione per aprire nuove prospettive di cooperazione e crescita comune.

L’esclusione della Russia sarebbe non solo inopportuna e ingiustificata, ma darebbe l’impressione di una decisione negativa esclusiva dell’Europa, tenuto conto delle più recenti dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti.

Mancando la Russia, oltre alla Cina e all’India che non vi hanno mai fatto parte, il G7 rischia di essere visto nel mondo come un club di amici dell’Occidente. Un club di Paesi che, rispetto al loro Pil, sicuramente occupano le prime posizioni mondiali, ma hanno economie in prolungata stagnazione.

Si rammenti che le perduranti sanzioni incrociate con la Russia penalizzano esclusivamente le economie europee. In proporzione, è l’Italia a rimetterci di più. Se ciò è vero, come è vero, il nostro Paese non può non cogliere l’opportunità di Taormina per assumere un ruolo più incisivo ed avere un maggiore spazio nella scena internazionale, a partire dal Mediterraneo e dalla stessa Europa.

*già sottosegretario all’Economia **economista