TRUMP IGNORA LE AMARE LEZIONI DEL PROTEZIONISMO

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Se gli Stati Uniti, la prima potenza economica e militare mondiale, lanciano una politica protezionistica imponendo alti dazi sulle importazioni, evidentemente intendono iniziare una vera e propria guerra commerciale. Le recenti dichiarazioni di Trump nei confronti della Cina e dell’Unione europea ne sono la prova.
Eppure Washington sa che, quando in passato sono state introdotte simili politiche, esse hanno soltanto esacerbato le crisi in corso aggravando le tensioni politiche internazionali.
Ciò avvenne dopo il crollo di Wall Street del 1929 con la conseguente Grande Depressione. Nel 1930 il presidente Herbert Hoover e, più ancora, il Congresso americano, allora dominato dal Partito Repubblicano, approvarono la legge Smoot-Hawley Tarif Act (dai nomi dei due parlamentari che la presentarono) che impose pesanti dazi su oltre 20.000 prodotti d’importazione.
Si trattò di una specie di “America First” che avrebbe dovuto rilanciare produzioni, consumi e occupazione, sbarrando la strada ai prodotti provenienti da altri paesi. Fu la risposta negativa all’appello generale fatto in precedenza, nel 1927, dalla Lega della Nazioni, precursore dell’ONU, che, al contrario, chiedeva di “porre fine alla politica dei dazi e di andare nella direzione opposta”.
Fino allora gli Usa avevano avuto una bilancia commerciale positiva, con un surplus delle esportazioni.
I dazi imposti sui beni inclusi nella lista, che mediamente erano del 40,1% nel 1929, raggiunsero il livello di 59,1% nel 1932, con un aumento del 19%.
Ovviamente su tali politiche restrittive sono stati fatti molti studi. Però nessuno mette in discussione l’effetto recessivo e depressivo provocato dai dazi.
Nel quadriennio 1929 – 1933 le importazioni americane diminuirono del 66% e le esportazioni scesero del 61%. Anche l’export-import con l’Europa crollò. Il Pil Usa passò da 103 miliardi di dollari del 1929 a 76 nel 1931 e a poco più di 56 nel 1933. Anche il commercio mondiale nel suo insieme si ridusse di circa il 33%.
Nello stesso periodo la disoccupazione americana salì dall’8% del 1930 al 25% nel 1933. Questa tendenza cambiò solo durante la seconda guerra mondiale con la grande mobilitazione produttiva bellica.
Purtroppo oggi c’è la tendenza a ignorare le lezioni del passato.
Gli Usa e le corporation americane sono stati loro a iniziare la cosiddetta politica dell’outsorucing e a portare all’estero le produzioni di componenti di prodotti manifatturieri, perché c’è mano d’opera a basso costo.
E’ stata la Federal Reserve a inondare il mondo, soprattutto le economie emergenti, con tanta liquidità a bassissimi tassi d’interesse. Fu il famoso Quantitative easing che ha favorito gli acquisti all’estero di beni da parte delle imprese americane e ha sostenuto al contempo i consumi interni. Al contrario i paesi emergenti hanno visto crescere i loro debiti e hanno accentuato la propria destabilizzazione finanziaria.
L’economia è stata quindi messa sottosopra, generando deficit enormi nella bilancia commerciale americana e di molti altri paesi. Si consideri che nel 2006 negli Usa esso era di 762 miliardi di dollari e nel 2017 era ancora di 566 miliardi. Però il deficit commerciale del settore dei beni reali va ben oltre gli 810 miliardi di dollari.
Di conseguenza anche il budget federale Usa è andato in tilt con deficit strepitosi: oltre 1400 miliardi nel 2009, 1300 miliardi nel 2011 e ancora 665 nel 2017. Quest’anno dovrebbe salire a oltre 830.
Tali politiche hanno portato a un grande indebitamento americano anche verso l’estero, in particolare verso la Cina, che detiene circa 1.000 miliardi di dollari in obbligazioni del Tesoro Usa, evidentemente emesse per coprire i deficit di bilancio.
Purtroppo Washington si sta muovendo come un elefante in un negozio di porcellane. Provoca tensioni con i partner commerciali, a cominciare dalla Cina e dall’Ue, e nello stesso tempo continua a esporsi con deficit e debiti che il resto del mondo dovrebbe in certo qual modo garantire.
C’è il forte timore che un qualsiasi evento non prevedibile in campo economico e finanziario possa generare guerre commerciali e monetarie con conseguenze incalcolabili. Ovviamente non solo negli Usa.

*già sottosegretario all’Economia **economista

MA LA FLAT TAX E L’INFLAZIONE AL 2% RISOLVONO DAVVERO TUTTI I MALI?

Gli esempi poco esaltanti della flat tax

Mario Lettieri *  Paolo Raimondi**

La flat tax, di cui tanto si parla in questa campagna elettorale, non è la parola magica per la giustizia fiscale del nostro paese. Non è comunque la cattiva parola da demonizzare tout court. I limiti e gli obblighi costituzionali non si possono ignorare. Nel caso, quindi, di una sua eventuale e deprecabile introduzione, sarà necessario individuare meccanismi di deducibilità che rendano effettivo il principio della progressività.

C’è da sapere comunque che, dopo il voto, l’indomani come si sol dire al cinema, è un nuovo giorno. E pertanto le promesse e le decisioni si possono cambiare.

E’ doveroso prima di ogni decisione valutare quanto è accaduto e accade nei paesi, in cui la flat tax è stata introdotta. Il caso emblematico ci sembra quello russo, dove le famiglie povere e quelle indigenti sono fortemente aumentate tanto da spingere le masse delle periferie urbane e i residenti nei territori rurali a chiedere di rivedere il sistema fiscale, introducendo forme di progressività nella tassazione.

In Russia, com’è noto, nel 2001 Putin, al suo primo mandato, introdusse la tassa fissa del 13% per tutti, ricchi e poveri, singoli e imprese, aziende produttive e società dubbie. Egli aveva raccolto un paese in ginocchio, devastato dalla corruzione del periodo di Eltsin, dalla penetrazione della finanza speculativa internazionale, dalla svendita delle ricchezze nazionali alle grandi corporation e dal sostanziale fallimento dello Stato del 1998.

E quel che era più grave, c’era una generale sfiducia. Nessuno aveva fiducia nel rublo, nessuno pagava le tasse, o per corruzione o per indigenza, I cosiddetti oligarchi “spostavano” centinaia di miliardi di dollari a Londra o nei paradisi fiscali.

Perciò la tassa del 13% servì anzitutto a riportare un certo ordine e un po’ di razionalità nel sistema economico. Fu il modo per garantire un minimo di stabilità politica e un minimo di entrate fiscali.

Pertanto il vero motore della ripresa russa, più che la flat tax, è stato lo sfruttamento delle risorse energetiche, del petrolio e del gas, le cui riserve, insieme alle altre ricchezze naturali, sono enormi. Per anni la Russia ha incassato elevate fatture dalla vendita di crescenti quantità di risorse energetiche. Nel frattempo si è frenata in qualche modo sia la corruzione sia la fuga dei capitali. Si ricordi che in questi anni la differenza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita di petrolio e gas ha garantito entrate davvero eccezionali. Tanto che nel 2008 il classico barile di petrolio ha toccato la vetta di 150 dollari!

Oggi, però, la Russia, come altri paesi, sta vivendo una crescente e pericolosa ineguaglianza economica e sociale. Soprattutto dopo le sanzioni economiche e il crollo del prezzo del petrolio. C’è un recente studio del Credit Suisse in cui si dimostra come la Russia sia uno dei più “disuguali”paesi del mondo: il 10% della popolazione detiene l’87% della ricchezza della nazione. L’1% della popolazione detiene il 46% dei depositi bancari.

Anche la situazione della tanto decantata Ungheria merita un’attenta disamina. Il paese, si ricordi, è entrato nell’Unione europea nel 2004 mantenendo però la sua moneta nazionale, il fiorino. Con una popolazione di 10 milioni di persone, nel 2008 aveva un pil di 157 miliardi di dollari a prezzi correnti. A seguito della crisi globale, nel 2011 il prodotto interno scese a 140 miliardi e nel 2012 a 125. Nell’ultimo periodo ci sono stati dei miglioramenti nell’economia magiara, trainata dalla piccola ripresa europea e soprattutto dall’attivismo industriale della vicina Germania.  

Non sembra che l’introduzione della flat tax del 16%, avvenuta nell’anno 2001, abbia aiutato la ripresa e le crescita in Ungheria. Ciò che ha invece veramente aiutato Budapest a mantenere una certa stabilità sono stati gli aiuti rilevanti da parte dell’Unione europea e la sua partecipazione al mercato unico europeo. Gli aiuti sono stati riconfermati anche recentemente: dal 2004 al 2020 l’Ungheria riceverà da Bruxelles sovvenzioni per complessivi 22 miliardi di euro, cioè oltre 3,5 miliardi l’anno.

Sono soldi che provengono anche dall’Italia, nonostante la forsennata propaganda magiara anti euro e anti Unione europea.  

Si ricordi che l’Italia contribuisce al bilancio dell’Ue con ben 20 miliardi di euro e ne riceve 12. Gli 8 miliardi rappresentano il contributo netto dell’Italia. Se fossimo trattati come l’Ungheria dovremmo ricevere, in proporzione alla popolazione italiana che è 6 volte quella magiara, aiuti da Bruxelles per 22 miliardi di euro ogni anno. Altro che flat tax!

La pressione fiscale nel nostro paese ha raggiunto livelli intollerabili. Deve essere ridotta e semplificata per dare ossigeno alle famiglie, ai lavoratori e alle imprese, ma non si può pensare di eliminare il principio di progressività perché così si minerebbe il principio stesso di una società civile e democratica.

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Inflazione al 2%: panacea di tutti i mali?

 Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

 Il presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, e la presidente della Federal Reserve americana, Janet Yellen, nelle loro brevissime dichiarazioni prenatalizie hanno fatto a gara a parlare dell’inflazione che non c’è. Per loro una vera e propria ossessione.

A nostro avviso è la dimostrazione della mancanza di una corretta valutazione della situazione economica e finanziaria nazionale e internazionale e dell’assenza di un virtuoso piano di rilancio economico che punti allo sviluppo e non solo alla crescita.

La parola “inflazione” è stata ripetuta da entrambi ben 15 volte in un testo di 2 paginette. Yellen però batte Draghi 4 a 3 nella citazione del 2% di inflazione quale obiettivo da raggiungere per avere un’economia ben funzionante. Dal 2010 il target del 2% è diventato un mantra ossessivamente ripetuto in tutte le salse.

Nell’immaginazione di alcuni economisti di recente grido, il 2% d’inflazione sarebbe sinonimo di un’economia in movimento, dove aumentano gli investimenti, i consumi, i redditi delle famiglie e, dulcis in fundo, farebbe diminuire anche il debito pubblico che si svaluterebbe di anno in anno in rapporto ad un Pil inflazionato.

Questa teoria è stata totalmente sposata dalle banche centrali che, come è noto, da anni si danno da fare per far ripartire l’inflazione. Alcuni, per abbattere il debito pubblico, la vorrebbero al 4-6% annuo. Ci si scorda evidentemente che in un passato recente molti governi e molte famiglie in vari Paesi hanno lottato contro l’iperinflazione del 15-20%.

L’inflazione è una bestia selvaggia, innocua se ne parla soltanto, ma terribile e incontrollabile se si muove e comincia a galoppare.

Certo, anche la deflazione che abbiamo avuto per alcuni anni dopo la Grande Crisi è un “animale” non meno pericoloso. Essa avviene quando l’economia si avvita su se stessa, con una diminuzione dei prezzi dovuta in gran parte alla riduzione dei consumi e dei bilanci pubblici, al crollo dei commerci internazionali e di conseguenza anche delle produzioni e dell’occupazione.

La deflazione genera un immobilismo progressivo in cui tutti gli attori economici sono indotti a posticipare le decisioni d’investimento o di acquisto nella prospettiva che i prezzi possano scendere ancora. E’ un processo che porta direttamente alla recessione.

L’obiettivo “inflazione al 2%” è il “fratello gemello” della politica monetaria espansiva del Quantitative easing di creazione di grande liquidità da parte delle banche centrali per acquistare titoli di stato e, soprattutto, i titoli cosiddetti asset-backed-security (abs) in possesso delle grandi banche, che spesso sono di carattere speculativo e di bassa affidabilità.

Il programma avrebbe dovuto spingere il sistema bancario a concedere più crediti alle imprese e alle famiglie che così avrebbero creato più investimenti, più ricchezza, più consumi e, quindi, anche generato la desiderata inflazione del 2%.

Gli anni passati di bassa inflazione hanno anche comportato tassi d’interesse molto bassi, vicini allo zero, che, secondo la teoria, avrebbero dovuto agevolare nuovi crediti per nuovi investimenti.

Così non è stato. Si è trattato di due automatismi che non hanno funzionato. L’unico parametro che, invece, è veramente cresciuto è stato quello concernente i debiti pubblici e quelli delle imprese. L’altro parametro negativo è stato quello dei salari bassi e della precarietà.

Evidentemente le banche centrali, soltanto con la politica monetaria e finanziaria, non riescono a influenzare gli andamenti macroeconomici, come ad esempio i prezzi del petrolio e delle altre materie prime. In verità secondo noi, non sono state nemmeno capaci di orientare i comportamenti del sistema bancario e della finanza. 

Alla fine s’intuisce che il cosiddetto “inflation targetting” più che una teoria economica è una politica dell’informazione. Da qualche tempo le banche centrali hanno fatto della loro comunicazione l’asse portante delle scelte economiche e monetarie, ritenendo che l’annuncio di alcuni paletti e degli obiettivi delle loro politiche fosse sufficiente a determinare comportamenti virtuosi nel complesso mondo bancario e finanziario.

E’ arrivato il momento di ritornare ai sani principi dello sviluppo economico. Se l’economia privata stenta a muoversi, lo Stato deve iniziare a investire in settori, come le infrastrutture, la modernizzazione tecnologica e altri, che possono trainare l’intera economia. Spesso lo ha fatto l’America industriale e capitalista. Negli anni trenta dello scorso secolo con il New Deal lo fece il presidente Franklin D. Roosevelt. Quindi, se il sistema bancario privato non fa rifluire sui mercati i soldi offerti gratuitamente dalle banche centrali, occorre creare nuovi canali di credito.

A proposito, in Europa che fine hanno fatto i project bond che la Commissione europea aveva proposto qualche anno fa? Si trattava di finanza produttiva e non speculativa che avrebbe dato un grande stimolo alla realizzazione delle nuove infrastrutture e alla modernizzazione del sistema produttivo, creando sicuramente nuovo reddito e una qualificata occupazione, soprattutto per tanti giovani lasciati allo sbando fuori dal mercato del lavoro. 

Non vorremmo che nel nostro Paese il recente aumento delle bollette energetiche e delle tariffe autostradali, non certo giustificabili, fosse funzionale al fantomatico obiettivo dell’inflazione al 2%.

 

*già sottosegretario all’economia

**economista

La guerra idiota di Trump contro Putin a base di sanzioni ha effetto opposto a quello voluto

Sanzioni finanziarie: risposte inattese dalla Russia

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

A marzo si vota anche in Russia, non solo in Italia. A Mosca le cose non sembrano così incerte come a Roma: la rielezione di Vladimir Putin a presidente della Federazione Russa sembra scontata. Ma, dopo le mosse dei grandi attori mondiali a Davos sul commercio internazionale, sul protezionismo e sui futuri scenari finanziari internazionali, ciò che avviene in Russia merita una più attenta disamina che vada oltre i soliti argomenti ideologici e mediatici.   C’è l’ala cosiddetta liberale, o meglio dire liberista, guidata dall’ex ministro delle Finanze, Alexey Kudrin, che fa affidamento sulle sanzioni economiche votate dal Congresso americano lo scorso luglio per indebolire Putin. Si ricordi che il dato più rilevante delle sanzioni è quello finanziario che sarà reso operativo prima delle elezioni russe.

A seguito all’ordine presidenziale di Trump, il Tesoro americano ha stilato un “Rapporto sul Cremlino” mettendo nel “mirino” oltre 200 alti funzionari ed uomini d’affari russi. Il Ministero del Tesoro ha il potere di blocco e di sequestro dei fondi detenuti all’estero dai grandi magnati russi. Fondi che si calcolano in circa mille miliardi di dollari. Le sanzioni americane sono molto mirate su ben determinati personaggi e su certi settori economici. L’idea è di intimorirli, con la minaccia del sequestro dei beni, per spingerli ad abbandonare Putin e la Russia. Questa strategia dovrebbe mettere in presidente russo in un angolo, isolarlo dai detentori del potere economico, per poi politicamente sconfiggerlo.

Come reazione alle sanzioni economiche, invece, è nato un movimento chiamato “Ryvok – Ripartenza” che si sta muovendo per far rimpatriare in vari modi i soldi russi portati o lasciati nelle banche internazionali o nei paradisi fiscali. Sembra che questo movimento abbia il sostegno di Putin e di molti potenti manager delle grandi corporation russe pubblico-private. I leader politici di “Ripartenza” sono membri del partito “Russia Unita” (il partito di Putin), come il deputato della Duma, Denis Kravchenko. Tra gli ispiratori di questo movimento vi sono noti economisti e uomini di cultura, tra cui il prof. Yury Gromiko e il prof. Yury Krupnov, che sono stati gli ideatori del grande progetto di sviluppo infrastrutturale euroasiatico conosciuto come “Razvitie”. Si rammenti che tale progetto sarebbe il parallelo russo della “Belt and Road Initiative”, la nuova via della seta cinese relativa alle grandi infrastrutture continentali.

Le sanzioni contro la Russia, purtroppo, stanno mettendo in discussione la sicurezza economica e quindi la tolleranza verso gli evasori. Di ciò risente anche l’elite russa. Il manifesto di “Ripartenza” contiene un ultimatum: riportare i soldi offshore a casa per investimenti produttivi nell’economia oppure lasciare le posizioni di potere detenute in Russia. Il movimento popolare chiede anche il carcere per chi, illegalmente e contro gli interessi del paese, vuole continuare a mantenere o portare i soldi all’estero. Inoltre si punterebbe a correggere anche l’intero processo di privatizzazioni dell’industria di Stato fatto ai tempi di Yeltsin.

Per accelerare il rientro dei capitali, transitoriamente si permetterebbe che essi vengano depositati nelle banche svizzere con la condizione che siano trasformati in fondi di investimento e di sviluppo da destinare all’economia russa. Tali fondi dovrebbero finanziare dei project bond per investimenti nei vari settori del sistema produttivo russo, con l’esclusione del petrolio e del gas perché ritenuti da “Ripartenza” una “droga” dell’economia.   In conclusione, le sanzioni finanziarie stanno provocando all’interno della Federazione Russa non un danno ma un effetto boomerang non previsto da coloro che le hanno volute.

*già sottosegretario all’Economia **economista

APPELLO A TUTTI I COLLEGHI E IN PARTICOLARE ALLA GIORNALISTA LAURA BOLDRINI, PRESIDENTE DELLA CAMERA, E AL GIORNALISTA SUO PORTAVOCE ROBERTO NATALE, GIÀ PRESIDENTE DELLA FNSI

APPELLO A TUTTI I COLLEGHI E IN PARTICOLARE ALLA GIORNALISTA LAURA BOLDRINI, PRESIDENTE DELLA CAMERA, E AL GIORNALISTA SUO PORTAVOCE ROBERTO NATALE, GIÀ PRESIDENTE DELLA FNSI
Il ricorso di 21 colleghi contro il contratto nazionale di lavoro giornalistico firmato il 21 ottobre 2014 dalla FNSI è stato respinto dal giudice monocratico di Roma dottoressa Cecilia Bernardo con una sentenza ( http://www.senzabavaglio.info/wp-content/uploads/2017/11/Senza-Bavaglio-17-11-06-Sentenza-contro-FNSI.pdf ) che è chiaramente sbagliata e punitiva.
1) – La sentenza è sbagliata.
Lo si evince chiaramente dalle stesse argomentazioni conclusive del giudice, laddove scrive:
“Al successivo art. 7 [dello statuto della FNSI] vengono, poi, elencati gli organi della FNSI, che sono: il Congresso Nazionale; il Consiglio Nazionale; la Giunta Esecutiva; il Presidente della FNSI; il Segretario generale; la Segreteria Nazionale; il Collegio dei revisori dei conti; il Collegio nazionale dei Probiviri; i dipartimenti, le commissioni contrattuali e le commissioni di lavoro. Orbene, dalle suindicate disposizioni statutarie emerge che sono associati della Federazione Nazionale esclusivamente le singole Associazioni regionali e interregionali, che sono organismi autonomi dotati di un proprio statuto. Per contro, gli iscritti alle associazioni territoriali sono associati delle suddette associazioni, ma non associati della Federazione nazionale, che si sostanzia in una associazione di secondo livello (associazione di associazioni). Ciò, del resto, emerge chiaramente anche da quanto disposto all’art. 8 dello Statuto, che detta la disciplina relativa al funzionamento del Congresso nazionale della FNSI, massimo organo deliberante della Federazione. Orbene, dal citato art. 8 risulta che i singoli iscritti alle Associazioni territoriali non possono automaticamente partecipare al Congresso nazionale della Federazione (cosa che invece sarebbe certamente possibile se gli stessi fossero associati della Federazione stessa), ma possono parteciparvi esclusivamente i delegati di ciascuna Associazione regionale, in rappresentanza di quest’ultima.
Inoltre, non risulta che gli odierni attori rappresentino o abbiano fatto parte di uno degli organi della Federazione, elencati dall’art. 7 dello Statuto.

Ne consegue che – alla luce del chiaro disposto dell’art. 23 c.c. – i predetti non sono legittimati ad impugnare delle deliberazioni assunte dalla Giunta Nazionale della FNSI, non essendo associati della Federazione, né facendo parte di uno dei suoi organi”.

Sta di fatto che sul retro di qualunque tessera di iscrizione per esempio all’Associazione Lombarda dei Giornalisti (ALG) è documentata in modo chiaro e inequivocabile l’iscrizione anche alla FNSI. A favore della quale, come se non bastasse, nelle buste paga e nel rateo di pensione di almeno alcuni dei 21 c’è un’apposita trattenuta. E che i 21 siano iscritti anche alla FNSI oltre che alle rispettive ARS è PROVATO anche dal fatto che l’FNSI nel contestare in sede legale il ricorso dei 21 non ha sollevato neppure di striscio l’improponibile e peregrino argomento partorito dal giudice.
La cantonata presa dal magistrato ha dunque proporzioni imbarazzanti. Ancor più imbarazzanti alla luce del fatto che alcuni dei 21 ricorrenti, come per esempio Pierangelo Maurizio e Massimo Alberizzi, fanno e hanno fatto parte di almeno due degli “organi della Federazione elencati all’art. 7 dello statuto”. Alberizzi e Maurizio sono infatti membri del Consiglio Nazionale della stessa FNSI, sono cioè membri di suoi organi dirigenti! Inoltre gran parte dei 21 ha firmato il ricorso in quanto eletti come delegati delle proprie ARS a più di un congresso nazionale della FNSI. Alberizzi e Maurizio, per esempio, sono stati eletti delegati ai congressi nazionali del 2007, 2011, 2015 (ricordiamo che il contratto nazionale di lavoro è stato firmato nel 2014). Fabrizio De Jorio inoltre è membro del consiglio direttivo dell’Associazione Stampa Romana.
Non vogliamo insinuare nulla, ma chi ha fornito al magistrato notizie sui 21 clamorosamente monche se non false? A chi può essersi rivolto il magistrato per avere delucidazioni sui curricula sindacali dei 21? Si è rivolto forse alla FNSI? Se così fosse, sarebbe grave che la FNSI avesse inviato curricula inesatti. Tanto inesatti da poter essere utilizzati per rigettare il ricorso dei 21 e condannarli inoltre a spese legali fuori misura.
Il magistrato pur animato da tanto zelo non ha minimamente rilevato – anzi, lo ha tranquillamente ed esplicitamente accettato – che la FNSI presenta una non bella anomalia, è infatti forse l’unico caso italiano di sindacato unico di un’intera categoria professionale. Anomalia a fronte della quale, a prescindere da eventuali ricorsi, ci si potrebbe interrogare anche sulla validità dei contratti da essa firmati. Vogliamo ricordare che questo discutibile monopolio sindacale della FNSI è una conseguenza dell’accordo raggiunto a fine anni ’50 del secolo scorso dai sindacati nazionali CGIL, CISL e UIL, accordo che aveva voluto escludere dalla politicizzazione sindacale i giornalisti e le forze dell’ordine proprio per il loro particolare ruolo nella società: giornalisti e poliziotti potevano dunque avere sì un proprio sindacato, ma esclusivamente unitario, vale a dire unico, onde evitare singoli sindacati politicamente orientati.
La cosa strana, ma sintomatica della mentalità da inciucio, è che mentre per la polizia questa limitazione veniva abolita dopo gli anni 70 a seguito della sua smilitarizzazione, per i giornalisti è invece rimasta in piedi: come fossimo militarizzati! E per giunta come fossimo l’unica professione militarizzata!
Perché una tale ingiustificabile anomalia?
2) – La sentenza è punitiva.
Non vogliamo mettere in discussione il principio in base al quale chi perde una causa paga anche le spese legali degli avversari. Quello che è assolutamente fuori norma, e quindi inammissibile, è l’ammontare delle spese legali da liquidare agli avvocati della FNSI, della FIEG e della Presidenza del Consiglio: 40.000 euro! Pari a oltre 13.000 euro per ognuno degli avvocati dei tre soggetti citati.
E’ quindi legittimo pensare che si tratti di una vera e propria intimidazione contro i 21 temerari che hanno osato sfidare i poteri forti dell’editoria giornalistica. Il messaggio è forte e chiaro: “Non osate farlo più!”.
L’altro messaggio, altrettanto forte e chiaro è il seguente: solo chi è ricco può intraprendere un’azione giudiziaria, chi non ha i mezzi invece stia zitto e pieghi la testa.
Ci chiediamo sbalorditi come possa la FNSI permettere un tale scempio
Stando così le cose, invochiamo ad alta voce la solidarietà e l’intervento attivo della giornalista Laura Boldrini – che in qualità di presidente della Camera anche in tempi recenti si è dimostrata sollecita sui temi della libertà e dignità del giornalismo – e del giornalista suo portavoce Roberto Natale: che in qualità di ex presidente della stessa FNSI può certamente contribuire a far ragionare in modo non punitivo e vendicativo l’attuale sua dirigenza.
Chiediamo inoltre a tutti i colleghi, Boldrini e Natale compresi, di dare un contributo in danaro per poter pagare quei 40 mila euro. Il contributo va versato sul conto corrente avente le seguenti coordinate bancarie:
- IBAN IT10B0311101603000000000413
- UBI Banca, sede di Milano
- Causale: Per i 21 ricorrenti
- Intestatario: Senza Bavaglio – Centro Studi per il Giornalismo.
Grazie.
Pino Nicotri
(Senza Bavaglio)

CON PREGHIERA DI CONTRIBUIRE CON UN’OFFERTA LIBERA – http://www.senzabavaglio.info/2017/12/03/il-giornalismo-muore-mentre-il-sindacato-si-autocelebra-basteranno-i-21-coraggiosi/

http://www.senzabavaglio.info/2017/12/03/il-giornalismo-muore-mentre-il-sindacato-si-autocelebra-basteranno-i-21-coraggiosi/

Il giornalismo muore mentre il sindacato si autocelebra. Basteranno i 21 coraggiosi?
Senza Bavaglio
3 dicembre 2017

Ecco il comunicato stampa divulgato dalla FNSI dopo l’intervento del Senatore Maurizio Gasparri che trovate qui:

http://www.senzabavaglio.info/2017/11/29/gasparri-interviene-sulla-sentenza-che-ci-da-torto/

«È singolare che il senatore Maurizio Gasparri finga di non conoscere una regola basilare dello Stato di diritto, quella secondo la quale tutti possono agire liberamente in giudizio salvo poi pagare le spese in caso di soccombenza. Il caso che tanto appassiona il senatore Gasparri non fa eccezione. È legittimo che una sparuta minoranza di giornalisti abbia cercato di far annullare in giudizio un contratto nazionale di lavoro che, potrà piacere o no, è stato approvato da una larghissima maggioranza di giornalisti. Quello che non è accettabile è che, adesso, chi ha visto respingersi il ricorso pretenda che la FNSI, dopo essere stata trascinata in giudizio ed esserne uscita a testa alta, si accolli anche le spese legali di chi ha promosso il ricorso. Il senatore Gasparri è libero di farsi paladino di tutte le cause perse, ma non può dare lezioni di democrazia a nessuno, tantomeno alla FNSI».

Perfetto. Ecco la differenza tra noi e i dirigenti della FNSI. Pochi giorni prima di perdere la causa per abolire un contratto scellerato, noi abbiamo vinto una causa e sterilizzato uno statuto della Lombarda, fatto passare – secondo i giudici, non secondo noi – con metodi non regolari. L’Associazione Lombarda dei Giornalisti è stata condannata a pagare le spese legali, ma noi ci siamo ben guardarti da chiedere il denaro. Sono soldi dei colleghi e per noi sono sacri. Certo non imploriamo elemosine dalla FNSI ma siccome le spese cui siamo stati condannati sono ingenti, oltre che assurde, annunciamo già che solo qualcuno di noi andrà in appello.

Il sindacato critica i politici per le querele temerarie, fa finta però di non rendersi contro che 40 mila euro chiesti a colleghi (alcuni dei quali guadagnano 2000 euro all’anno) sono una cifra iperbolica. Cioè una condanna emessa per intimidire, cioè per ingiungere: “Se vi azzardate a toccare il manovratore rimarrete fulminati. Sudditi screanzati: non osate sfidare il potere del re”.

Ma se ci siamo rivolti ai giudici è perché siamo sicuri di aver subìto un torto. E lo dimostra la dichiarazione avventata e altezzosa del comunicato della FNSI, secondo cui il contratto “è stato approvato da una larghissima maggioranza di giornalisti”.

Bene. Sapete quali erano le regole stabilite dai dirigenti del sindacato? Il referendum sarebbe stato valido solo se avesse votato il 50 per cento più uno degli iscritti. Ridicolo, quando si sa che alle elezioni vota solo il 10/15 per cento degli aventi diritto.

Ma non solo. Ammessi al voto anche i colleghi della RAI ai quali non si applica il contratto FNSI/FIEG. Infatti i giornalisti dell’ex servizio pubblico hanno, per esempio, diritto all’indennità ex fissa che il contratto ha abolito per tutti gli altri. Senza contare che i giornalisti della Rai non saranno mai licenziati, quelli delle aziende “normali” rischiano invece il posto ogni giorno.

Quello che stupisce è la determinazione con cui la FNSI difende un contratto che favorisce gli editori e penalizza i giornalisti. Il sindacato parla di perdita di posti di lavoro e di distruzione di quel tessuto sociale che per anni ha garantito una straordinaria difesa dell’indipendenza e dell’autonomia del giornalismo italiano.

Ma non riconosce l’errore storico di aver firmato nel 2014 quel contratto che ha permesso tutto questo. Siamo pronti a un confronto pubblico con chi sostiene che quello in vigore sia un buon contratto che ha garantito maggiori spazi di informazione e posti di lavoro a volontà.

Per capire lo sfacelo che ha investito l’informazione basta leggere il documento di quello che ha caparbiamente voluto questo contratto, l’allora segretario Franco Siddi, il sindacalista che sta concludendo la sua carriera nel consiglio d’amministrazione della RAI.

http://www.senzabavaglio.info/2017/10/26/ecco-cosa-diceva-franco-siddi-nel-2009-sul-contratto-ora-siede-nel-cda-della-rai/

Se fossero seri e veramente interessati a difendere i giornalisti, i dirigenti della FNSI avrebbero dovuto ringraziare i colleghi che hanno fatto causa. Li avrebbero tratti d’impiccio da un errore clamoroso, il contratto appunto, fatto dai loro predecessori. Avrebbero dovuto dire: “Speriamo che i giudici vi diano ragione perché il contratto attuale è una porcheria”. Invece no. Si ostinano a sostenere che in fondo è un bel contratto. Vadano a dirlo ai colleghi ex RCS, della Mondadori, del Messaggero, della Domus, dell’Universo e di tante altre grandi case editrici, che hanno perso il posto di lavoro, alle decine di prepensionati, ai giornalisti delle piccole testate chiuse lasciati a spasso, a quelli che hanno dovuto cambiare lavoro perché con il giornalismo non vivono più, ai freelance sottopagati, a quanti hanno visto tagliati i loro compensi da editori incapaci. Si tratta di centinaia di colleghi.

A ringraziare questo sindacato sono i manager che hanno ricevuto bonus favolosi per aver svolto un compito inumano: tagliare i posti di lavoro e lasciare centinaia di famiglie sul lastrico.

E quegli editori che nonostante non avessero i bilanci in rosso hanno potuto cacciare i giornalisti.

Mentre la dirigenza sindacale si autocelebra, il giornalismo muore, i posti di lavoro vengono erosi, i giornali sono illeggibili e settori trainanti come gli esteri sono stati abbandonati.

E che il sindacato sia allo sbando e viva ormai fuori dalla realtà, lo dimostra l’atteggiamento preso sulla vertenza legale che lo oppone a 21 coraggiosi colleghi.

E’ singolare, diciamo noi, non che Gasparri abbia sollevato critiche alla FNSI ma che il sindacato unico dei giornalisti non si sia accorto di quanto abnorme sia l’ammontare delle spese legali che i 21 giornalisti sono stati condannati a pagare. Qui non si discute sul fatto che chi perde, se condannato a pagare le spese legali, deve saldare il conto. Quello che è assolutamente fuori norma è l’ammontare, 40.000 euro in totale. Chiaramente un’intimidazione contro questi 21 coraggiosi colleghi che hanno osato sfidare i poteri forti. “Lesa maestà”, potremmo dire, e un monito: “Non fatelo mai più”.

Un monito rafforzato dalla reazione rabbiosa dei legali FIEG (comprensibile, visto il ruolo) e sorprendentemente determinata di quelli della FNSI. Come dire: “Giù la testa. E con la vostra, anche la testa dell’informazione seria che deve essere orientata, a forza, verso una libertà di stampa sempre più minuscola. Sempre più lontana dai suoi lettori”.

Tanto per la cronaca. Ormai lo sport più in voga tra i dirigenti delle Istituzioni dei giornalisti è quello di disattendere Statuti e leggi e di interpretare le norme a vantaggio personale, quindi non resta che rivolgersi ai giudici sperando appunto di ristabilire giustizia. Ecco perché abbiamo fatto causa a Milano (e abbiamo vinto) e a Roma (e abbiamo perso). Le sentenze le trovate qui:

La sentenza dei giudici di Milano che ci dà ragione:

http://www.senzabavaglio.info/2017/10/10/niente-modifiche-allo-statuto-il-tribunale-accoglie-il-ricorso-di-senza-bavaglio-contro-la-lombarda/

La sentenza dei giudici di Roma che ci dà torto:
http://www.senzabavaglio.info/2017/11/13/la-sentenza-dei-giudici-di-roma-che-ci-da-torto/

Credevamo che il sindacato dei giornalisti avesse tra i suoi compiti la difesa dello Stato di diritto. Forse i suoi capi non si sono accorti che la sentenza di Roma sancisce un principio aberrante: solo chi è ricco può intraprendere un’azione giudiziaria. Chi non ha i mezzi invece stia zitto e pieghi la testa. Il sindacato dei giornalisti – quello che parlava di schiena dritta, vi ricordate? – non esiste più: davanti ai poteri forti non si deve reagire. Invece noi abbiamo un vizio: reagiamo alla prepotenza e all’arroganza. Scusate siamo fatti così: noi siamo giornalisti!

Senza Bavaglio

Noi continuiamo a lottare per tutti i giornalisti e per difendere i diritti calpestati.

Se volete aiutarci a sostenere i costi legali della battaglia comune

potete versare il vostro contributo sul conto intestato a:

Senza Bavaglio – Centro studi per il giornalismo

UBI Banca, sede di Milano

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RICEVO DAL MIO AMICO ROM MUSICISTA, MUSICOLOGO E DIRETTORE D’ORCHESTRA ALEXIAN SANTINO SPINELLI IL SEGUENTE COMUNICATO CHE PUBBLICO VOLENTIERI

RICEVO DAL MIO AMICO MUSICISTA, MUSICOLOGO E DIRETTORE D’ORCHESTRA ALEXIAN SANTINO SPINELLI ( https://it.wikipedia.org/wiki/Santino_Spinelli ) IL SEGUENTE COMUNICATO CHE PUBBLICO VOLENTIERI:

Alexian Santino spinelli: La lettera aperta delle associazioni e delle federazioni rom e sinte italiane, rivolta alla cultura e alla politica, che ha preso spunto da un convegno organizzato dall’icismi presso l’università del Salento, ha suscitato reazioni inaspettate. Non vogliamo sopravvalutare l’importanza di un convegno disertato dalla politica e dal pubblico, ma neppure sottovalutare il fatto che nel corso del dibattito pubblico si è arrivati a definire attacchi fascisti quelli di chi, come Santino Spinelli, sui social, ha posto problemi di metodo e di sostanza. Basterebbe questo a squalificare il livello del dibattito e a interrompere qualunque tipo di interlocuzione. Ricordiamo, a chi non ha gusto per la memoria e il rispetto che le si deve, che la famiglia di Santino Spinelli, come quella di tanti rom e sinti italiani, ha subìto l’infame internamento nei lager italiani per rom e sinti organizzati dai fascisti dall’11 settembre del 1942. Ci auguriamo che la supponenza accademica ammetta l’ignoranza e soprattutto la vergogna.
Così come ci è parso supponente chiederci: “ Solo i rom possono parlare di “questioni rom”? E se si, quali rom sono legittimati a farlo?” perché la lettera aperta poneva il problema antico che ricerche, analisi, dibattiti, convegni che riguardano le comunità rom e sinte escludono, se non nella parte di comprimari e comunque sempre come oggetto e non come soggetto, il punto di vista che pure rom e sinti hanno sviluppato in questi anni, organizzandosi e misurandosi con i problemi della propria condizione.
Ma detto questo, ci interessa riprendere in un dibattito più ampio le considerazioni che proponevamo nella lettera aperta, aggiungendo alcune domande, non solo agli interlocutori del convegno di Lecce, ma come temi di una discussione aperta.
La prima. Dal dibattito in corso, anche a livello delle politiche sociali sul territorio, emerge un antico dilemma: gli “zingari” sono una “piaga sociale”, come teorizzato nel dopoguerra anche in Italia per giustificarne la persecuzione, oppure sono un popolo complesso e articolato con una storia, una cultura, una lingua e quindi con un’identità? Le politiche assistenziali degli ultimi trent’anni – dai campi istituzionali ai Centri di emergenza sociale – sono legate alla prima ipotesi. In questo modo il pregiudizio e la discriminazione sono frutto non della costante persecuzione di un popolo ma del disagio di fronte alle brutture delle condizioni materiali in cui è condannato proprio da quel pregiudizio e da quella discriminazione. Quando si dice che il problema riguarda solo le “poche” migliaia di rom e sinti che vivono nei campi, avendo sempre come modello i lager romani e non altre ben diverse situazioni in giro per tutta l’Italia, si cerca la scorciatoia per eludere proprio il tema dell’antiziganismo che pervade la società, in Italia come in tutta Europa (e non a caso il tema qui arriva dopo che anche a livello istituzionale è stato posto dalla Comunità europea) e per non affrontare del riconoscimento storico-culturale della minoranza rom e sinta anche come modo per eliminare la discriminazione istituzionale.
La seconda domanda. In questo Paese esiste una vera ricchezza: la capacità di infiniti soggetti di organizzarsi in forme associative per rappresentare propri punti di vista e interessi e nessuno mette in discussione questo loro diritto che si trasforma poi, giustamente, in quello di essere ascoltati come interlocutori di un dato interesse. Perché rom e sinti dovrebbero lasciare questo diritto ad altri soggetti che, guarda caso, di norma sono soggetti che hanno come attività propria l’ “assistenza” delle comunità rom e sinte? Mafia Capitale, lo diciamo brutalmente, era solo l’aspetto criminale, di un sistema fondato sull’assistenza nel quale i vantaggi economici e politici erano tutti degli “assistenti” e nessuno degli “assistiti.
Se uno più uno fa due, allora la condizione di “emergenza sociale” indotta è funzionale a sostenere un sistema che negli ultimi decenni ha prodotto danni sociali e culturali spaventosi nelle comunità rom e sinte. Crediamo che quindi si possa capire una certa riluttanza a considerare nostri interpreti o addirittura portavoce questi soggetti. Lo diciamo senza disprezzare il ruolo caritatevole che in molte situazioni riempie un vuoto e una disperazione e neppure il contributo che possono dare a disvelare una condizione umana insostenibile. Ma la carità non basta e a volte può essere pelosa.
Terza e ultima domanda. La risposta alla nostra lettera aperta si concludeva con l’augurio “che in seguito su queste questioni si possano trovare, con i firmatari della lettera aperta, il modo e le sedi per un confronto civile e sereno”. Lo stesso chiedevamo nella nostra lettera perché siamo ben consapevoli che nessun diritto di una minoranza può essere conquistato senza la consapevolezza sociale della sua legittimità ed è nostro interesse un dialogo e un confronto con la cultura e la politica di questo Paese. Però, lo chiediamo esplicitamente, siamo in grado veramente di aprire questo confronto riconoscendoci pari dignità di interlocuzione, il che significa senza pregiudizi o teorie preconfezionate o condizionate da ideologie?
Noi non siamo insetti per entomologi.
Nel 2010 all’università Bicocca di Milano si svolse un fondamentale convegno internazionale di tre giorni sulla condizione giuridica di rom e sinti in Italia. Con un orgoglio che era anche il segno della delusione per una esperienza purtroppo unica, nell’introduzione si diceva che per la prima volta un lavoro del genere era stato preparato in lunghi mesi di confronto con le comunità rom e sinti. E il risultato di quel lavoro fu una proposta per una legge organica per il riconoscimento della minoranza rom e sinta anche in Italia, proposta oggetto di una campagna delle associazioni rom e sinte e che è ora depositata in Parlamento. Ecco cosa intendiamo quando parliamo di partecipazione: un lavoro comune nel riconoscimento reciproco di ruoli e identità che porta a passi concreti. Crediamo che sia tempo di riprendere quella strada. Noi siamo pronti.

Alleanza Romanì, Federazione Federarte Rom, Federazione Rom e Sinti Insieme, Associazione Romano Glaso, Associazione nazionale Them Romanò, Associazione Nevo Drom, Associazione Sinti italiani Prato, Associazione Stay Human, Accademia europea d’arte romanì, Associazione FutuRom, Associazione Upre Roma, Cooperativa Romano Drom, Amici del beato Zefferino, Associazione Romano Krlo, Museo del viaggio Fabrizio De Andre, Associazione Liberi, Associazione Sucar Drom, Associazione Roma Onlus, Cooperativa Roma Roma e Assiciazione Sinti Project International

L’amaro frutto della Brexit

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Nel mondo della finanza e delle grandi istituzioni bancarie cresce il turbinio di accuse incrociate contro chi sarebbe il primo responsabile di un’eventuale nuova crisi globale. Se fossero solo commenti più o meno forti non sarebbe un problema. Purtroppo i veri problemi ci sono e sono malamente celati sotto il tappeto.

Si ricordi che il cuore finanziario mondiale è ancora Londra. Ecco perché certi effetti destabilizzanti della Brexit stanno emergendo in campo finanziario e bancario. Il governatore della Bank of England ha recentemente detto davanti al parlamento britannico che circa 25 trilioni (!) di dollari di derivati over the counter (otc) sarebbero a rischio, qualora la separazione tra Londra e l’Unione europea avvenisse in modo disordinato.

Servirebbe un accordo tra le parti prima di marzo 2019 in modo tale che i contratti possano essere onorati. Altrimenti l’intero sistema di rischio, capitali, collaterali e persone coinvolte dovrebbero lasciare la City e trasferirsi in uno degli altri paesi dell’Ue. E’ ovvio che eventuali iniziative unilaterali non sarebbero risolutive. A oggi i contatti tra il governo britannico e la Commissione di Bruxelles non sembrano procedere positivamente.

Anche il Comitato finanziario della Bank of England ha preparato uno studio sullo stesso argomento. Si dice che, senza un accordo congiunto, i derivati otc rischiano di essere invalidati. Anche una loro eventuale rinegoziazione richiederebbe tempi molto più lunghi rispetto ai pochi mesi che ci separano dalla primavera del 2019.

Secondo una recente analisi del Financial Times, anche il mercato dei cambi monetari sarebbe messo in grande fibrillazione dalla Brexit. Si pensi che le relative operazioni quotidiane ammontano a circa 5 trilioni di dollari, il 40% delle quali è trattato nella City. Il giornale inglese riporta anche che circa la metà degli esistenti 600 trilioni di dollari di derivati otc sarebbe contrattata sul mercato londinese.

E’ chiaro che Londra sta facendo di tutto per sollevare, forse anche con toni esagerati, i rischi e i pericoli insiti negli spostamenti dei mercati finanziari. Sta cercando in tutti i modi di mantenere la City come centro finanziario mondiale. Cosa non facile dopo la Brexit.

Grandi attori economici, tra cui la Cina e il Giappone, hanno sospeso le proprie decisioni relative ai loro futuri rapporti con la City, in attesa di conoscere meglio gli effetti del divorzio con l’Ue. Londra vorrebbe che nel business si procedesse “as usual” e che alla City fosse garantito comunque il suo ruolo centrale e dominante nella finanza mondiale.

Il problema di tutti gli attori in campo, però, potrebbe essere quello di sottovalutare i rischi e di sopravalutare una presunta capacità di gestione della crisi, che, nelle passate situazioni difficili, è sempre stata fatale. In questa diatriba, di fatto, si getta un velo sulla rischiosità intrinseca della montagna di derivati otc in circolazione e si mette in ombra la necessità di una profonda riforma di questo mercato molto speculativo, così come da noi ripetutamente evidenziato.

Un altro argomento di scontro sulle responsabilità di una nuova crisi è la montagna del debito aggregato, pubblico e privato. Un recente dossier del Fondo Monetario Internazionale affermerebbe che l’intero sistema globale sarebbe minacciato dalla forte crescita del debito del settore non finanziario, pubblico e privato, della Cina. Si tratta cioè della somma del debito pubblico e di quello corporate, cioè delle imprese: Secondo il Fmi nel 2022 esso arriverebbe al 290% del Pil. Nel 2015 era al 235%.

Indubbiamente in Cina sono cresciute molte bolle finanziarie. Ma ci sembra un tentativo pretestuoso per trovare un capro espiatorio. Invece è l’intero sistema che deve essere messo sotto la lente d’ingrandimento e riformato.

Intanto economisti cinesi sono stati messi in campo per confutare le analisi del Fondo. Affermano che gran parte del debito cinese poggia su attivi e investimenti sottostanti nei settori dell’economia reale e delle infrastrutture. Ad esempio, nel 2015 i titoli sovrani cinesi erano pari a oltre 100.000 miliardi di yuan, equivalenti a circa 15.000 miliardi di dollari, però gli attivi sottostanti erano stimati a oltre 20.000 miliardi di yuan. Un rapporto indubbiamente migliore rispetto a tanti paesi dell’Occidente.

La Cina, da parte sua, punta il dito contro le politiche di Quantitative easing che hanno inondato il sistema di liquidità senza mettere in moto nuovi investimenti e perciò causa di nuove instabilità.

Sono segnali brutti. Quando, invece di incontrarsi per definire unitariamente la necessaria e improcrastinabile riforma del sistema finanziario globale, ci si accusa reciprocamente, allora c’è veramente da temere il peggio. Il che significa ignorare le lezioni del passato. Il “black monday” di trent’anni fa docet!

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

Vocabolario per sole persone colte

ABBECEDARIO: espressione di sollievo di chi s’è accorto che c’è anche Dario

ADDENDO: urlo della folla quando a Nairobi stai per pestare una merda

ALLUCINAZIONE: violento colpo inferto col ditone del piede

APPENDICITE: attaccapanni per scimmie

ASSILLO: scuola materna sarda

BALESTRA: sala ginnica per gente di colore

BASILICA: chiesa aromatica

CACHI: domanda che rivolgi ad uno chinato dietro un cespuglio

CALABRONE: grosso abitante di Cosenza

CALAMARI: molluschi responsabili della bassa marea

CERBOTTANA: cervo femmina di facili costumi

CERVINO: domanda dei clienti all’oste romano

COREOGRAFO: studioso delle mappe della Corea

CUCULO: gay balbuziente

CULMINARE: fare uso di supposte esplosive

DOPING: pratica anglosassone di rimandare a più tardi

EQUIDISTANTI: cavalli in lontananza

EQUINOZIO: cavallo che non lavora

FAHRENHEIT: tirar tardi la notte

FANTASMA: malattia dell’apparato respiratorio che colpisce i consumatori di aranciata

FOCACCIA: foca estremamente selvaggia

FONETICA: disciplina che regola il comportamento degli asciugacapelli

GESTAZIONE: gravidanza di moglie di ferroviere

GIULIVA: slogan di chi è vessato dall’Imposta sul Valore Aggiunto

INTERPRETATO: posto tra due preti

LATITANTI: poligoni con moltissime facce

MASCHILISTA: elenco di persone di sesso maschile

NEOLAUREATO: punto nero della pelle che ha fatto l’università

PARTITI: movimenti politici che nonostante il nome sono ancora qui

PRETERINTENZIONALE: un prete che lo fa apposta

PREVENIRE: soffrire di eiaculazione precoce

RADIARE: colpire violentemente usando una radio

RAZZISTA: fabbricante di missili

REDUCE: sovrano con tendenze di estrema destra

RUBINETTO: gemma preziosa di piccole dimensioni

SANCULOTTO: patrono degli omosessuali

SCIMUNITO: attrezzato per gli sport invernali

SCORFANO: pesce che ha perduto i genitori.

Giulio Regeni, un cadavere gettato contro l’Eni e Al Sisi

La ricerca della verità riguardo l’uccisione al Cairo di Giulio Regeni a volte appare se non proprio pilotata almeno spintonata rudemente verso direzioni prestabilite. Vale a dire:

1) verso la chiusura del cerchio dando tutte le responsabilità agli apparati polizieschi e di sicurezza egiziani, cioè in definitiva al presidente Al Sisi, indicandolo come colpevole quanto meno di omertà
2) e verso il biasimo dell’operato della nostra Eni per metterle almeno i bastoni tra le ruote, colpevole dell’enorme duccesso colto, come vedremo, proprio in Egitto. 

A guardar meglio le cose Al Sisi potrebbe essere invece vittima del tentativo di un qualche “servizio” egiziano di screditarlo, date le lotte feroci che da sempre esistono in Egitto tra militari, anche perché sono loro i veri padroni dell’economia del Paese. Colpevole o vittima Al Sisi, sta di fatto che in ogni caso viene esercitata una pressione enorme anche sull’Eni.
 
La clamorosa notizia sparata di recente dal New York Times con un lungo articolo a firma dell’autorevole giornalista Declan Walsh sembra voler dire tutto, ma in realtà a leggerlo bene non chiarisce nulla, a partire da chi sia la fonte e se racconta fatti veri o no. Chiarisce però invece bene la volontà, appunto, di chiudere il cerchio attorno al collo di Al Sisi.
 
Ecco i passi più importanti – riportati dai giornali italiani – dell’articolo di Walsh, dove il virgolettato è quanto detto a lui dalla fonte, purtroppo anonima, mentre il resto sono parole del giornalista: 

“Gli Stati Uniti vennero in possesso dall’Egitto di prove di intelligence esplosive, prove che dimostravano come Regeni fosse stato rapito, torturato e ucciso da elementi della sicurezza egiziani”. Fonti dell’allora Amministrazione Obama citate dallo stesso giornale affermano che l’amministrazione USA era in possesso di “prove incontrovertibili delle responsabilità egiziane”. A questo punto il materiale venne girato “al governo Renzi su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca”. Ma “per evitare di svelare l’identità della fonte non furono passate le prove così come erano, né fu detto quale degli apparati di sicurezza egiziani si riteneva fosse dietro l’omicidio”. Altre fonti sempre citate dal New York Times affermano: “Non è chiaro chi avesse dato l’ordine di rapire e, presumibilmente, quello di uccidere” Regeni, ma “quello che gli americani sapevano per certo, e fu detto agli italiani, è che la leadership egiziana era pienamente a conoscenza delle circostanze dell’uccisione “del ricercatore””. 
 
Il racconto pubblicato dal New York Times purtroppo è privo di qualunque elemento di prova e quindi potrebbe anche essere falso, la fonte potrebbe avere ingannato a bella posta Walsh per strumentalizzarne l’autorevolezza, tant’è che il governo italiano ha subito seccamente smentito la parte che lo tira in ballo. Ma vediamo come prosegue il racconto dell’articolo del New York Times, sempre tenendo presente che il virgolettato è quanto detto a Walsh dalla sua fonte, mentre il resto sono parole del giornalista:

““Non abbiamo dubbi di sorta sul fatto che i fatti questo fosse conosciuto anche dai massimi livelli”. Insomma, non sapevamo se fosse loro la responsabilità, ma sapevano, sapevano”. Questo portò alcune settimane dopo “l’allora segretario di Stato, John Kerry, a un aspro confronto con il ministro degli esteri egiziano Sameh Shoukry, nel corso di un incontro che si tenne a Washington”. Si trattò di una conversazione “quanto mai burrascosa” anche se da parte della delegazione americana non si riuscì a capire se il ministro stesse erigendo un muro di gomma o semplicemente non conoscesse la verità”.
 
Come si vede, con la prima frase la fonte ammette che gli USA non sapevano se Al SISI e dintorni fossero colpevoli o no, si limita ad affermare che sapevano cosa fosse successo, e con l’ultima frase riporta tutto in alto mare: il ministro degli Esteri egiziano forse del caso Regeni non ne sapeva nulla, cosa piuttosto inspiegabile se Al Sisi e i vari apparati fossero davvero colpevoli. 
 
Dobbiamo ricordare che nell’agosto di due anni fa, qualche giorno prima della scomparsa e uccisione di Regeni, l’ENI aveva scoperto nelle acque del mare egiziano il più grande giacimento di gas del Mediterraneo. Si chiama Zhor e contiene la mostruosa quantità di 850 miliardi di metri cubi di gas, in grado di dare all’Egitto l’autonomia energetica per un bel pezzo e alla società italiana un bel pacco di miliardi di euro. Ce n’è abbastanza per scatenare gli appetiti e la concorrenza dei vari Stati che, come la Francia e l’Inghilterra, per non parlare degli Stati Uniti, per accaparrarsi le altrui fonti energetiche hanno ampiamente e sempre dimostrato di non arretrare di fronte a nulla, guerre comprese.
 
Gli egiziani sono così imbecilli da alienarsi le simpatie dell’Italia dell’ENI con un delitto spettacolare da incapaci? Gli agenti dello spionaggio ti fanno sparire e basta, senza lasciare tracce, e lo sanno fare a iosa anche quelli egiziani, senza ricorrere a torture e sevizie da vecchi film. 
 
Regeni invece è stato ucciso con metodi più da camorra che da “servizi” e il suo cadavere, con bene in vista le prove di quei metodi, è stato dato in pasto all’opinione pubblica indirizzando di conseguenza le indagini in modo fin troppo scoperto. Come se le polizie e i servizi segreti di Al-Sisi dovendo liquidare qualcuno fossero così scemi e autolesionisti da autodenunciarsi mettendo in piazza la via crucis e la crocifissione finale della loro vittima anziché farla sparire totalmente come avvenuto e avviene regolarmente non solo in Egitto. Se del povero Regeni non si fosse fatto trovare nulla, non sarebbe scoppiata nessuna tempesta. 

Bisogna inoltre per onestà e completezza  ricordare che secondo il quotidiano La Stampa ( 
https://www.lastampa.it/2016/02/16/esteri/regeni-a-londra-lavor-per-unazienda-dintelligence-Ue3kZmmArej9wuMH279t5J/pagina.html    ) il 28enne Giulio Regeni, da dieci anni in Inghilterra, dove si è laureato, conoscitore della lingua araba,  e dottorando in un’Università sempre inglese, collaborava – a propria insaputa o no – con i servizi segreti inglesi, il famoso, mitico e sempre sfuggente M16. L’articolo, scritto a Londra, prende lo spunto dal fatto che Regeni aveva lavorato un anno per la Oxford Analytica ( https://en.m.wikipedia.org/wiki/Oxford_Analytica ), società che a detta dell’autore dello stesso articolo, Alessandra Rizzo, è dei servizi inglesi. Affermazione che però non trova conferma ufficiali, ovviamente. Interessante comunque notare che la Oxford Analytica è stata fondata da un ex consigliere del Segretario di Stato Usa Henry Kissinger ed ex membro del potentissimo National Security Council all’epoca di Nixon, nel cui Watergate fu coinvolto, tale David Young ( https://en.m.wikipedia.org/wiki/David_Young_(Watergate)   ).

Forse Regeni con l’M16 non c’entrava nulla, ma l’intervista (  http://www.corriere.it/esteri/16_febbraio_16/regeni-lavoro-ad-oxford-analytica-genitori-giulio-non-era-servizi-23c620a8-d4af-11e5-8855-fe9a1275bf2e.shtml ) al Numero Uno della Oxford Analytica, Graham Hutchings, pubblicata il 16 febbraio dell’anno scorso dal Corriere della Sera e gli annessi “No comment” di una sua collega di lavoro lasciano perplessi. Come che sia, è impensabile che l’M16 dato il campo di studi e ricerche del nostro connazionale non abbia preso diligentemente nota della sua presenza. 
Il giornalista Marco Gregoretti, ex inviato di “Panorama” e vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, ha ipotizzato anche una collaborazione con i servizi segreti civili italiani ( 
http://www.marcogregoretti.it/cronaca-misteri/giulio-regeni-era-un-agente-segreto-dellaise/ ). Che però hanno prontamente smentito, anche se in ogni caso non avrebbero potuto fare altro. 
Difficile, se  non impossibile, stabilire con certezza cosa ci sia di vero in quelle notizie. Che a onor del vero paiono un po’ tirate per i capelli, possibile frutto del sensazionalismo che in certi casi non manca mai, ma contribuiscono a rendere il quadro meno decifrabile di quel che sembra o si vuole far sembrare. Il caso riguardante la scomparsa di Emanuela Orlandi, il 22 giugno 1983, è un caso da manuale per quanto riguarda i danni da sensazionalismo e scoopismo a tutt i costi.

Altre perplessità e domande possono nascere dal fatto che è molto impegnata nella campagna “Verità per Regeni” l’organizzazione non governativa (ONG) Amnesty International. I malpensanti hanno notato infatti che il suo organigramma USA riporta presenze come quella della direttrice esecutiva dal 2012 al 2013, Suzanne Nossel, con un passato al Dipartimento di Stato americano, e come quella di chi ne ha preso il posto, Margaret Huang, nel cui curriculum figura un impiego presso il Comitato per gli Affari Esteri del Senato, sempre Usa. Ovviamente c’è chi si chiede se le due manager una volta entrate in Amnesty abbiano o no reciso ogni legame con i citati ambienti di provenienza.
Domande eccessive e fuori luogo? Può darsi. Però non manca neppure chi fa notare che tra i maggiori finanziatori di Amnesty sono comparse la Ford Foundation e la Open Society Foundations. La prima è tra le più ricche fondazioni statunitensi, sovvenziona fin dal 1954  il famoso e molto chiacchierato gruppo Bilderberg. La seconda è invece la cassaforte della quale lo straricco speculatore globale George Soros si serve per finanziare rivoluzioni e sommosse ovunque ci sia da lucrare attirando interi Paesi, dalla Libia all’Ucraina, nell’orbita occidentale e magari anche Nato. 

 Insomma, non si può affatto escludere che Regeni, in nome della ormai secolare lotta feroce per le fonti energetiche, possa essere stato ucciso o fatto uccidere e fatto ritrovare apposta cadavere martoriato, se non per mano almeno per ispirazione dei servizi di Sua Maestà out similia. Che potrebbero anche avere “solo” suggerito a poliziotti e 007 egiziani a libro paga di fare quello che è stato fatto. Non c’è bisogno di accusare in blocco l’M16 o uno degli organi di sicurezza egiziani: noi italiani sappiamo benissimo che certe cose, specie se orrende, possono essere farina del sacco non dei servizi segreti in quanto tali, quelli ufficiali, ma dei loro “pezzi deviati”…
 
Mettere in difficoltà Al Sisi e l’Eni avrebbe l’indubbio vantaggio di prendere due piccioni con una fava. Nonostante tutto, l’Eni in quei giorni tempestosi è però riuscita comunque a portare a casa il contratto per lo sfruttamento di Zhor. Ma è da notare che qualche giorno dopo il ritrovamento del cadavere del nostro connazionale la British Petroleum è riuscita a concludere con l’egiziana Natural Gas Holding Company (EGAS) un bel contratto che prevede tra l’altro lo sviluppo del giacimento Atoll di gas, a nord di Damietta, e una concessione offshore nel delta orientale del Nilo. 
In aggiunta, l’allora presidente francese Hollande è riuscito a vendere all’Egitto armi per oltre un miliardo di dollari, compresi aerei piuttosto vecchi. È impressionante vedere a volte all’aeroporto del Cairo la sterminata quantità di aerei piuttosto obsoleti dismessi soprattutto dall’Europa. Aerei a parte, è noto che Italia e Francia dietro le quinte dei bei sorrisi sono da sempre in lotta dura tra loro per accaparrarsi gas e petrolio altrui. La nostra ENI (in origine acronimo di Ente Italiano Idrocarburi) per poter avere ottimi rapporti con l’Algeria, importante produttrice di gas naturale e petrolio, ne ha finanziato sotto banco la Resistenza contro la Francia coloniale occupante. La Francia in tempi più recenti ha ricambiato il favore organizzando, assieme agli inglesi, la caduta di Gheddafi e la “rivoluzione” libica anche per scalzare l’Italia prendendone almeno in parte il posto nei buoni rapporti, vale a dire negli 11 miliardi di euro di interscambio. Come conferma il recente tentativo della francese Total di soppiantare l’Eni.
 
Così stando le cose, le proteste per la ripresa in questi giorni delle relazioni diplomatiche con l’Egitto, fatta oltretutto passare per uno schiaffo in faccia alla famiglia Regeni, ha un sapore leggermente strumentale, oltre che buonista e “politicamente corretto” a metà tra il libro Cuore e Alice nel Paese delle Meraviglie. Buono solo a farsi un po’ di (dubbia) pubblicità.