Pandemia, eurobond e futuro dell’Unione europea

Pandemia, eurobond e futuro dell’Unione europea

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**  *già sottosegretario all’Economia  **economista

Chiamamoli eurobond, non covid-bond. Sono, del resto gli strumenti finanziari di lungo periodo più importanti e virtuosi che l’Unione europea dovrebbe responsabilmente mettere in campo, e non in modo occasionale, in dimensioni notevoli e appropriate per il rilancio e per uno sviluppo continuo e duraturo del suo sistema produttivo e industriale, ora, di fatto, in gran parte fermato dalla pandemia.

C’è chi vorrebbe chiamarli “recovery bond” perché, dice, il termine “eurobond” farebbe paura a molti. In realtà, se fosse solo così, si tratterebbe di un escamotage un po’ infantile per bypassare l’ostacolo. Come se chi li osteggia si facesse confondere da questo giochetto di parole. In realtà, i “recovery bond” potrebbero nascondere l’idea di un programma limitato e a tempo determinato, da accantonare subito dopo la ripresa economica. In ogni caso, se fosse l’inizio di un percorso virtuoso, sarebbero comunque ben accetti. 

Dopo che i rigidi parametri di austerità sono saltati dappertutto, anche nelle case dei più duri rigoristi, siamo travolti da un turbinio di centinaia, di migliaia di miliardi di euro e di dollari che i governi e le banche centrali dicono di voler disporre per affrontare l’emergenza. Toppi numeri e troppe parole: c’è il rischio che partoriscano il classico topolino.

L’Unione europea ha sospeso il Patto di stabilità lasciando i governi liberi di decidere i loro interventi di sostegno all’economia e ai propri cittadini. Decisione giusta, non sufficiente.

Il futuro dell’Unione europea si misurerà in rapporto alla capacità di programmare unitariamente la ripresa e il suo sviluppo continuo e congiunto. Perciò si dovrebbe elaborare un dettagliato programma di investimenti, proiettato in modo capillare verso tutte le regioni d’Europa. Valorizzarle e svilupparle non dovrebbe essere interesse soltanto locale e nazionale ma anche interesse generale dell’intero continente.

Dopo la creazione dell’euro, la politica di sviluppo industriale e tecnologico e la creazione di nuova e qualificata occupazione sono il tassello principale per la realizzazione di uno Stato europeo davvero federale, cioè la realizzazione della tanto desiderata evoluzione dell’Unione europea. D’altra parte, è noto che dopo l’unione monetaria, dopo il mercato unico, dopo l’unione bancaria, è quasi naturale, oltre che necessario, attuare una difesa comune, un sistema fiscale unico e certamente anche un sistema industriale e occupazionale europeo unitario.    

Questo piano di rilancio dell’economia europea, in tutte le sue componenti, oggettivamente esige l’emissione di titoli europei, cioè di obbligazioni pubbliche (eurobond) a lunga scadenza, eventualmente con rendimenti moderati, sicuri e fissi, garantite dall’Unione europea, quindi individualmente, congiuntamente, in solido, da tutti i Paesi membri. Sarebbe opportuno prevederne anche l’esenzione da imposte, totale o parziale. In questo modo, dopo una prima sottoscrizione coperta dal bilancio dell’Unione europea e anche dagli acquisti della Banca centrale europea, dette obbligazioni sarebbero dei safe asset che avrebbero un appeal sul mercato per i grandi investitori istituzionali di lungo termine, europei e internazionali. Non solo le assicurazioni e i fondi pensione, sarebbe così sollecitato e coinvolto anche il risparmio delle famiglie.  

Da decenni si parla di eurobond, come pilastro portante dell’Unione europea. Per primo fu Jacques Delors, presidente della Commissione, nel 1994. Fu, poi, Romano Prodi, d’accordo con il cancelliere tedesco Helmut Kohl a rilanciare l’idea. In seguito divenne anche un cavallo di battaglia di Giulio Tremonti, insieme al presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. La crisi finanziaria globale del 2008, invece di spingere l’Europa verso una politica economica comune, purtroppo, fece emergere gli egoismi nazionali e l’ideologia del “rigore” e dell’austerità, imposta poi ai Paesi più deboli e indebitati. E gli eurobond sono finiti nel dimenticatoio.

Oggi, per chiarezza e per tranquillità di quelle forze politiche “austere ma poco solidali” occorre sapere che gli eurobond non mutualizzano i debiti esistenti dei singoli Paesi membri. Gli Stati cosiddetti “virtuosi” non darebbero, quindi, la loro garanzia sui debiti pregressi degli altri Paesi. Ovviamente gli eurobond non sono trasferimenti di soldi da un Paese all’altro. Sono, invece, il meccanismo del completamento naturale della moneta unica. Sarebbero strumenti di finanziamento mirato soltanto per investimenti in infrastrutture, nuove tecnologie, modernizzazioni industriali, ricerca, educazione, sanità e in altri settori produttivi sull’intero territorio europeo.

La parola “solidarietà”, che dovrebbe caratterizzare uomini e Stati, spesso è erroneamente usata come fosse l’aiuto “peloso” del benefattore verso l’indigente. Con gli eurobond si vuole, invece, manifestare la volontà di uno sviluppo congiunto, in un momento in cui l’intera società europea è “attaccata” da un nemico esterno, da un coronavirus che non fa distinzioni di sorta.

L’emissione di questi eurobond potrebbe essere affidata a un veicolo già esistente e operante come la Banca europea degli investimenti.

Con gli eurobond l’Europa farebbe un bel passo in avanti nel cammino ipotizzato dai Padri Fondatori. Senza, quindi, non una perdita per l’Italia ma per l’Europa. E sarebbe un duro colpo alla sua credibilità, alla sua visione, alla sua stessa esistenza.

 

 

La necessità di una banca nazionale di sviluppo

La necessità di una banca nazionale di sviluppo

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**  *già sottosegretario all’Economia **economista

Il coronavirus, con la sua diffusione planetaria e i suoi effetti devastanti, condiziona tutti i Paesi, a partire dall’Italia. La sfida del rilancio economico sarà epocale, per tutti. E’ evidente che anche il futuro dell’Unione europea passa inevitabilmente attraverso il finanziamento di un programma unitario di investimenti e di sostegni all’occupazione imperniato sull’efficienza e sulla solidarietà.

Ovviamente è opportuno che vi siano anche risorse finanziarie nazionali e degli interventi più mirati alle necessità di stabilità sociale e di ripresa economica.

La decisione del governo tedesco di mettere in campo 550 miliardi di euro di investimenti nei settori dell’economia reale, attraverso la mediazione della Kreditanstalt fuer Wiederaufbau (KfW) potrebbe essere un esempio virtuoso da seguire. Al di là dei sentimenti pro o anti teutonici, concentriamoci, invece, sul contenuto politico e operativo della scelta fatta dai tedeschi. Si tratta di investimenti veri destinati all’economia, senza inutili mediazioni del sistema bancario privato.

La KfW è una banca di sviluppo pubblica, controllata dal governo federale per l’80% e dai Laender (l’equivalente delle nostre regioni ma con un potere rafforzato) per il 20%. Fu creata nell’immediato dopo guerra per emettere credito e sostenere progetti per la ricostruzione. Era un “tassello” del Piano Marshall dedicato alla Germania. Ottenne presto la possibilità di trasformare gli interessi dovuti agli Stati Uniti in aumenti di capitale proprio, e di ampliare così la sua capacità d’investimento.

Nei decenni passati è stata uno dei principali motori dello sviluppo industriale, infrastrutturale, tecnologico e sociale della Germania fino a diventare un colosso economico. Oggi ha un capitale (equity) di 30 miliardi di euro e investimenti pari a  610 miliardi. La KfW affianca sempre anche le grandi corporation tedesche, come la Siemens, la Daimler o la Mercedes, nella stipulazione di importanti contratti di cooperazione internazionale, siano essi in Cina, in Russia, negli Usa o in altre parti del mondo.

Raccoglie capitali sui mercati finanziari con l’emissione di obbligazioni, che dal 1998 per legge sono garantite dallo Stato tedesco. Li trasforma poi in crediti per investimenti in vari settori produttivi, infrastrutture, edilizia sociale, innovazione, nuove tecnologie e in sostegno forte alle imprese. Lo fa attraverso una rete di enti che ha creato e che controlla, come il fondo per le PMI, quelli per l’export, per lo sviluppo regionale e locale, per le nuove fonti di energia, per l’ambiente, per la cooperazione internazionale, ecc.

Nel 2008 ha creato anche la IPEX Bank che sostiene le imprese tedesche ed europee in progetti internazionali e nelle loro operazioni di export. Oggi ha un volume di business superiore agli 80 miliardi di euro.

La KfW, inoltre, è esentata dai requisiti di capitale e dalle regole dell’Unione bancaria, così come lo sono le banche tedesche di sviluppo regionale, le Landesbank.

In verità, anche il nostro Medio Credito Centrale (MCC) nel 1953 fu creato su questo modello ma con molti meno poteri e meno autonomia. Oggi, com’è noto, realizza e integra le politiche pubbliche a sostegno del sistema produttivo, in particolare delle Pmi. Una mission molto importante che, purtroppo, è rimasta confinata entro dimensioni troppo limitate.

Anche la nostra Cassa Depositi e Prestiti (CDP) è molto simile alla struttura della KfW. A confronto, però, è anch’essa molto più limitata nelle sue attività. Entrambe sono attive in parecchie operazioni congiunte, per esempio, nel Long Term Investors Club (LTIC). Quest’ultimo, si ricordi, dopo la Grande Crisi del 2008 è stato creato proprio con il compito di promuovere investimenti produttivi e infrastrutturali di lungo periodo in alternativa alla disastrosa finanza “mordi e fuggi”.

Per statuto la nostra CDP, che gestisce ingenti capitali generati dalla raccolta di risparmio popolare (oltre 342 miliardi di euro) attraverso le obbligazioni emesse dalle Poste Italiane, è “ingessata” su operazioni specifiche relative agli investimenti locali. Da qualche anno ha creato anche un fondo di sostegno agli investimenti nelle Pmi e ha dovuto cambiare lo statuto per avere la possibilità di operare anche nell’internazionalizzazione dei mercati a sostegno delle imprese italiane che esportano e operano all’estero. Prima non era consentito.

L’emergenza economica provocata dal coronavirus, con la sospensione del Patto di stabilità europeo, potrebbe diventare l’opportunità, la classica “window of opportunity”, per ripensare e rimodellare certi enti italiani. Senza inventare cose nuove si potrebbe “copiare” ciò che la Germania ha fatto e dare alla nostra CDP gli stessi poteri e le stesse prerogative della KfW.

Certo non si risolverebbero i gravi problemi storici dell’Italia, quali un debito pubblico troppo elevato, un’evasione fiscale sproporzionata, una corruzione intollerabile, una burocrazia inefficiente e tasse elevate su produzione e lavoro. Questi sono problemi e sfide ineludibili per lo Stato italiano. Ma, almeno, avremmo un ente, una sorta di banca nazionale per lo sviluppo, certamente più controllata e più efficiente.

Si tenga presente, inoltre, che i 550 miliardi di euro di investimenti annunciati dal governo tedesco non vanno a incrementare il debito pubblico nazionale. Saranno gestiti dalla KfW che, in quanto ente indipendente, non entra nel computo del bilancio nazionale. Lo stesso avverrebbe con l’utilizzo della CDP “rafforzata”.

Qualsiasi aumento della spesa pubblica da parte del nostro governo, sia per l’emergenza sia per altre esigenze, andrà, invece, ad aumentare direttamente il nostro debito pubblico.

Non si tratterebbe di una furbizia ma di un semplice ritorno all’idea della “banca nazionale per lo sviluppo”.

Guardando oltre l’attuale emergenza, il presidente Mattarella giustamente ha detto che “per rinascere ci è richiesta la stessa unità del dopoguerra”.  E noi, più modestamente, riteniamo siano necessari anche istituzioni, tempi e programmi economici simili.

 

 

Coronavirus, errori e follie milanesi e lombarde hanno fatto esplodere l’epidemia

A parlare di “diffusione fulminea del virus in Lombardia” è stato, il 6 marzo, l’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera.

E di recente la dottoressa Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano, centro di riferimento contro Covid-19, in accordo con la virologa Ilaria Capua, docente all’università della Florida, ha detto:

“In Lombardia c’è qualcosa che non comprendiamo. Sta succedendo qualcosa di strano, c’è un’aggressività che non si spiega.  Si sono superati i morti della Cina in un’area infinitesimamente più piccola e in un tempo minore. Le ipotesi possono essere tutte valide”.

Tutte valide, eccetto però l’ipotesi che la Lombardia sia stata colpita dalla maledizione di Montezuma o di una macumba o del voodoo di qualche extracomunuario, magari dal malocchio di qualche fattucchiera “terrona”.

Cerchiamo perciò di capire, elencando dei FATTI certi, perché la Lombardia è diventata un epicentro dell’esplosione di infezioni da coronavirus SARS-CoV-19.

Con annesso record di numero di morti che nella martoriata Bergamo ormai supera perfino quello di Wuhan, culla e incubatoio di questo virus.

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Il coronavirus e l’urgenza di una riforma della finanza

Il coronavirus e l’urgenza di una riforma della finanza

 

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**  *già sottosegretario alle Finanze  ** economista

In un momento in cui la pandemia da coronavirus impone delle riorganizzazioni e dei limiti di comportamento al singolo cittadino e alle istituzioni politiche, sociali ed economiche dei vari Paesi, è grave e inaccettabile che la finanza si comporti in modo irresponsabile. Proprio come ha sempre fatto sia prima che dopo la grande crisi del 2008.

E’ fuorviante dare la responsabilità per gli sconquassi finanziari in corso solo al coronavirus. La pandemia è l’equivalente di un disastroso evento geopolitico che può scatenare una nuova e pericolosa crisi in una situazione già precaria.

Negli ultimi 10 anni l’intero sistema economico-finanziario ha peggiorato la sua situazione, in tutti i settori. In rapporto al Pil mondiale e regionale i debiti pubblici e quelli corporate, delle imprese private, sono, purtroppo, aumentati di molto.

Varie bolle finanziarie, soprattutto negli Usa, ma anche altrove, Cina compresa, sono cresciute. Si tratta dei derivati otc e delle bolle dei mutui immobiliari, per l’acquisto di auto e in generale dei debiti per i consumi, persino quelli per i prestiti agli studenti. Anche la borsa di Wall Street, e in misura minore le altre, è cresciuta a dismisura, in modo ingiustificato e per niente proporzionale al reale andamento delle imprese quotate.

Per esempio, nel giro di poche ore il prezzo del petrolio è sceso del 30% portando il costo del barile intorno ai 30 dollari. E’ stato chiaramente provocato da una mossa geopolitica dell’Arabia Saudita contro la Russia, l’Iran e la Cina. Ovviamente con l’appoggio americano. Sarebbe sciocco pensare che sia dovuto soltanto alle contrazioni produttive in Cina o agli annunci relativi alla domanda e l’offerta del mercato.

L’operazione, invece, è stata condotta attraverso “preparate” operazioni finanziarie speculative, futures e altri derivati, mirate al ribasso. Una mossa che, nell’intenzione di chi l’ha pensata, avrebbe dovuto piegare in brevissimo tempo le resistenze russe. Così non è stato e non è, in quanto la Russia, ci sembra, da tempo si è preparata a simili evenienze.

La conseguenza sembra colpisca, invece, il mondo delle obbligazioni americane. Infatti, titoli per oltre 140 miliardi di dollari emessi da imprese energetiche americane minori, potrebbero in breve tempo finire tra i junk bond ad alto rischio, cioè diventare “obbligazioni spazzatura”. Perderebbero lo status di “investment grade”, per cui i possessori istituzionali, come le assicurazioni e i fondi pensione, dovrebbero disfarsene.

Se l’attuale andamento del mercato petrolifero dovesse prolungarsi, altre obbligazioni, già con il penalizzante rating della tripla B, per 320 miliardi di dollari, potrebbero cadere nel famoso bidone della spazzatura. Si consideri che nel settore dell’energia degli Usa vi sono altre obbligazioni a rischio ammontanti a circa 2.000 miliardi di dollari, che potrebbero fare la stessa fine. Se ciò avvenisse, si potrebbero “infettare” altri 3.000 miliardi di dollari di obbligazioni del settore corporateche già galleggiano malamente nella palude della tripla B.

Abbiamo visto in questi giorni l’inevitabile e preannunciato “contagio” delle borse mondiali, tutte in caduta libera. E’ sconcertante vedere la mancanza di interventi da parte delle autorità preposte. Lasciare la finanza e la speculazione scorazzare incontrollate è un vero suicidio.

Purtroppo la finanza, soprattutto quella speculativa delle grandi banche e dei grandi fondi, è capace di una narrazione e di un’imposizione che sembrano invincibili. In questi giorni abbiamo dovuto sentire sui media vari sedicenti banchieri e ottusi economisti spiegare che, “se ci sono operazioni finanziarie al ribasso ci sono altri che giocano al rialzo”. Secondo loro si tratta di un “gioco”, che non deve avere regole, che aiuterebbe il sistema economico a sviluppasi, che, alla fine, ci porterebbe a nuovi equilibri più virtuosi.

Secondo noi, e lo ribadiamo senza iattanza, questi “giochi” hanno un effetto distruttivo maggiore della peggiore pandemia perché possono far saltare l’intero sistema economico. Nel frattempo le banche centrali sarebbero chiamate a far fronte ai vari salvataggi per centinaia di miliardi di dollari o di euro. I grandi operatori della finanza, in verità, sanno che non basterà. Adesso chiedono il cosiddetto “helicopter money”, l’inondazione di liquidità per tutti, come se si dovessero gettare banconote da  un elicottero.

Si tratta di un’idea proposta inizialmente dal monetarista Milton Friedman e poi rilanciata nel 2002 dal governatore della Fed Ben Bernanke per prevenire i rischi di una deflazione. L’uso dell’“elicottero” proverebbe che le banche centrali, dopo il 2008, invece di riformare il sistema finanziario, hanno usato tutti i mezzi monetari convenzionali e non convenzionali a loro disposizione. Adesso sarebbero disarmati di fronte ad una crisi di gravità e dimensioni maggiori.

In Italia ben venga la decisione della Consob di proibire le operazioni allo scoperto in borsa. Dovrebbe essere una norma di divieto duraturo da adottare a livello globale.

Di fronte ai crolli e alle incontrollabili evoluzioni finanziarie, le autorità centrali devono intervenire. Se lo Stato è chiamato a rispondere in tutti i settori, come quelli sanitari, occupazionali, economici e ambientali, non può essere consentito che i mercati finanziari restino fuori da ogni controllo e influiscano negativamente sugli andamenti dell’economia e degli assetti sociali. In un mondo dove tutte le ideologie sembrano siano state superate, di fatto, resta ancora dominante il neoliberismo, che sparge il virus della “magia del mercato perfetto” della domanda e dell’offerta, senza regole e senza un ruolo dello Stato.

 Emblematico è il coronavirus: muoversi in ordine sparso, non coordinato e centralizzato non risolve il problema. Vale ancor di più per la finanza e la speculazione. Non è più procrastinabile una riforma del sistema. Serve una nuova e moderna Bretton Woods. Se Wall Street e la City continuano a resistere, allora l’Unione Europea, magari insieme ai Paesi Brics, dovrebbe farsene carico e non in tempi biblici.

 

 

L’urgenza di una politica industriale vera anche al tempo del coronavirus Covid-19

L’urgenza di una politica industriale vera

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**   *già sottosegretario all’Economia  **economista

E’ storicamente accertato che i grandi eventi di dimensione planetaria comportano sempre fibrillazioni più o meno profonde nei sistemi sociali, economici e finanziari e negli stessi equilibri geopolitici. Qualche settimana fa lo avevamo paventato sulle pagine di questo giornale, anche se il coronavirus ancora non aveva avuto l’attuale diffusione.

Siamo di fronte a una potenziale pandemia che purtroppo ha la forza devastante di provocare una generalizzata recessione economica e una nuova crisi finanziaria globale, tanto che una parte della stampa internazionale parla di una crisi peggiore di quella del 2008.

Allora la crisi sistemica fu provocata dalle speculazioni finanziarie fuori controllo che portarono il sistema bancario americano al collasso, determinando una reazione a catena a livello mondiale. La crisi finanziaria riverberò i suoi effetti nei settori dell’economia reale provocando un crollo nei commerci internazionali, nelle produzioni industriali e nei livelli di vita di molti paesi.

Questa volta la crisi sembra partire proprio dalla riduzione dei commerci e delle produzioni che l’epidemia sta inevitabilmente provocando. Di conseguenza si avrebbero anche riduzioni delle entrare e, quindi, la mancanza della necessaria liquidità per mantenere in vita le bolle finanziarie, in primis, quelle del debito pubblico e di quello corporate a livello globale. 

In questa situazione la capacità d’intervento delle banche centrali si è molto indebolita. Nei passati dieci anni, esse hanno usato quasi tutti i mezzi a loro disposizione, dalla riduzione del tasso d’interesse ai vari quantative easing, per mantenere in piedi un sistema finanziario malato. Solo la Federal Reserve ha un piccolo margine che ha consentito di ridurre dello 0,5% il tasso di sconto. Comunque, interverranno ancora con flussi di nuova liquidità, ma dovranno stare attente a non eccedere per non provocare poi un’eventuale inflazione difficilmente controllabile. Sarebbe un vero disastro.

Non è nostra intenzione portare acqua al mulino di chi vorrebbe usare il corona virus per giustificare la crisi finanziaria e coprire le enormi responsabilità di una finanza spregiudicata. Ma quello esposto potrebbe essere il meccanismo di una possibile nuova crisi.

Auspichiamo, invece, che l’attuale emergenza possa portare a una revisione profonda dei processi economici e del modo in cui la finanza è gestita. Si sarebbe dovuto fare già dopo il 2008, ma l’occasione è stata persa e si è tornati alle vecchie pratiche e ai vecchi errati comportamenti, assumendo alti rischi e rifiutando di applicare le necessarie regole.

Qualche riflessione importante, comunque, sta emergendo. Infatti, all’inizio di febbraio la rivista americana Foreign Policy ha pubblicato un interessantissimo studio intitolato “Gli Usa hanno bisogno di una nuova filosofia economica”.

La rivista, oggi di proprietà del Washington Post, è tra le più influenti nel campo delle politiche strategiche e geopolitiche americane. Detto per inciso, essa fu creata nel 1970 dal Prof. Samuel Huntington, noto per le sue tenebrose teorie riguardanti l’inevitabile “scontro di civiltà”.

Gli autori dello studio hanno ricoperto importanti ruoli nelle amministrazioni Usa. Ora sollevano con forza e in modo documentato tre questioni dirompenti.

1) Prima di tutto l’ineludibile necessità di forti investimenti nelle infrastrutture, nelle nuove tecnologie, nell’innovazione e nell’istruzione per superare quello che chiamano “una stagnazione secolare”. Sembra quasi scritto per l’Italia. Essa sarebbe una minaccia alla sicurezza nazionale superiore addirittura a quella del debito pubblico. Perciò lo studio distingue tra debito buono e debito cattivo: il primo crea crescita di lungo periodo e il secondo copre soltanto le spese correnti. Anche un generico abbattimento della pressione fiscale, motivato da ragioni ideologiche, andrebbe a beneficio delle fasce più ricche e a discapito della classe media e farebbe aumentare il debito cattivo. 

2) In secondo luogo, occorrerebbe riscoprire e riformulare la politica industriale. Al riguardo, lo studio ripercorre la storia economica degli Stati Uniti guidata da una precisa filosofia di sviluppo. Inizialmente ispirata dalle idee di Alexander Hamilton, il primo segretario del Tesoro nel periodo 1789-95, sul ruolo delle manifatture, è continuata sotto la guida del cosiddetto “Sistema americano” di sviluppo industriale, infrastrutturale e creditizio, formulato da Henry Clay, tra l’altro anche segretario di Stato tra il 1825 e il 1829, fino alla Great Society di Lyndon Johnson negli anni sessanta. Sono politiche che, purtroppo, hanno poi perso di popolarità.

Lo studio propone di individuare missioni su grande scala, come l’esplorazione dello spazio e la costruzione di un’economia a emissione zero di CO2, per mobilitare l’intero sistema produttivo sul lungo periodo. Per fare ciò occorrerebbe che lo Stato, come avviene in Cina, metta a disposizione il credito necessario per la ricerca. Non basta la ricerca fatta dai privati che, com’è noto, è spesso motivata dalla logica del profitto a breve. 

3) Infine, occorre invertire la tendenza dell’outsourcing, che ha portato molte imprese americane (ma vale anche per l’Italia e per l’Europa) a spostare le proprie attività produttive all’estero, con una delocalizzazione selvaggia nei paesi con bassi salari e un fisco “più complice”. Si propone, perciò, anche una decisa lotta contro i paradisi fiscali. Lo studio, invece, sostiene la necessità di investire nel lavoro e nell’aumento dei salari.

Si tratta di un programma razionale, importante, valido per tutti i paesi, per portare l’economia nel suo solco naturale, quello di sviluppare le competenze e le occasioni di lavoro e di benessere e, contemporaneamente, salvaguardare l’ambiente.   

Sarebbe uno scossone alle pigre elucubrazioni che ancora pervadono il dibattito politico e economico.

Paesi emergenti: allarme della Banca Mondiale sul debito, pari a 55 mila miliardi di dollari!

Paesi emergenti: allarme della Banca Mondiale sul debito

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** *già sottosegretario all’Economia  **economista

Ancora una volta suona l’allarme debito. Questa volta riguarda i paesi emergenti e in via di sviluppo. Secondo il rapporto della Banca Mondiale, “Global wave of debt” (L’onda globale del debito), pubblicato a dicembre, il debito pubblico e privato di questi paesi a fine 2018 ha raggiunto il record di 55mila miliardi di dollari. Dal 2010 il loro rapporto debito/pil è aumentato del 54% fino a raggiungere il 168%.

In questi otto anni, relativamente ai paesi oggetto dello studio, si è verificata la crescita più grande, più veloce e diffusa degli ultimi 5 decenni. In media il 7% annuo, tre volte più veloce di quanto avvenne durante la crisi del debito dell’America Latina negli anni ottanta.

Nel cinquantennio scorso, quella dei paesi emergenti sarebbe l’ultima delle quattro grandi crisi debitorie. Si è potuto evidenziare che la crescita elevata del debito è combinata con veri e propri sconquassi finanziari che hanno determinato crolli nella produzione, nei consumi e negli investimenti.

La crescita del debito in questione è stata guidata dalla Cina che ne detiene 20mila miliardi di dollari. Nel periodo di riferimento, Pechino ha visto crescere del 72% il rapporto debito/pil portandolo a 255%. Un dato preoccupante.

La pericolosità della bolla debitoria è aggravata dai rilevanti cambiamenti realizzati rispetto al passato. Non si tratta solo di debito pubblico e di quello estero ma anche di debito privato, in particolare delle imprese.

Rispetto al 2007, oggi questi paesi sono più deboli. Il 75% di loro ha deficit di bilancio e i deficit delle partite correnti (la differenza tra la spesa per le importazioni e gli introiti dalle esportazioni) sono 4 volte più grandi. Inoltre, sono coinvolte nuove categorie di creditori. In passato erano i governi e le organizzazioni internazionali, adesso i debiti sono soprattutto in mano ai vari tipi di fondi d’investimento e a settori non bancari. In aggiunta, sono negoziati nei mercati di capitali, tanto che oltre il 50% dei debiti pubblici sono in mano a operatori stranieri.

Tali debiti sono anche fuori dal Club di Parigi, cioè fuori dall’accordo che garantisce interessi moderati, eventuali sospensioni dei pagamenti e riorganizzazioni debitorie non punitive. Spesso sono denominati non in moneta nazionale ma in dollari ed espongono i paesi a fluttuazioni e crisi generate fuori dal loro controllo.

La crescita del loro debito aggregato è stata favorita, se non sollecitata, dalla politica del tasso d’interesse zero della Federal Reserve, della Bce e delle altre banche centrali. Anche la liquidità dei quantiative easing, non utilizzata in investimenti nei settori dell’economia reale dei paesi industrializzati, è spesso confluita verso le economie emergenti in cerca di rendimenti maggiori. Quando il denaro non costa più, si avallano anche le propensioni a rischi elevati e al cosiddetto azzardo morale,che nel medio periodo minano le fondamenta di qualsiasi sistema economico.

Adesso un improvviso choc globale, quale l’aumento dei tassi d’interesse o dei premi per il rischio di mercato, potrebbe generare un pericoloso stress finanziario difficilmente sostenibile.

Si ricordi che, in merito al debito, la Banca Mondiale afferma che “è la dose che può diventare veleno”.

Inoltre, si ritiene che il debito non sia un male in sé, se è usato per promuovere lo sviluppo di lungo termine. Se finisce, invece, in varie operazioni non produttive o addirittura speculative, allora diventa non sostenibile.

Le soluzioni proposte dalla Banca Mondiale sembrano, però, vaghe e astratte. Si suggeriscono priorità sociologiche più che economiche. Ad esempio si richiedono una maggiore trasparenza e una più attenta gestione del debito. Indubbiamente cose utili, che non fanno male. Ma le cause profonde sono nella progressiva degenerazione della finanza a livello globale e nella mancanza di regole cogenti e di controlli.

Certamente i governi dei paesi emergenti hanno molte responsabilità. Essi, però, seguono i modelli dei paesi occidentali, degli Stati Uniti in primis, che di solito dettano le loro condizioni da applicare all’economia e alla finanza.

Per la sostenibilità del debito e per ridurre il rischio di choc economici, i paesi emergenti e in via di sviluppo necessiterebbero, invece, d’investimenti e di crediti mirati al loro sviluppo economico e sociale. Si dovrebbero creare meccanismi per facilitare la soluzione delle loro crisi debitorie, evitando gravi conseguenze sociali. Troppo spesso essi sono trattati soltanto come fornitori di materie prime, di prodotti e di mano d’opera a basso costo. Il neocolonialismo, anche se in forme moderne, depreda le ricchezze e mantiene la maggioranza delle popolazioni nella povertà e nel sottosviluppo.

E’ augurabile che con il nuovo anno, soprattutto da parte dell’Unione europea, possa esserci un’azione nelle competenti sedi internazionali per una revisione profonda delle politiche di sostegno e collaborazione con i paesi emergenti.

 

 

Brasilia: i progressi dei BRICS

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Al recente summit dei BRICS, a Brasilia, rispetto alle crescenti preoccupazioni sullo stato dell’economia e della finanza globale i presidenti dei paesi membri hanno mostrato al mondo quello che loro stanno facendo a sostegno della crescita e dello sviluppo dei settori portanti dell’economia reale. Dal 2010 a oggi la loro quota del pil mondiale è cresciuta dal 30 al 36%..

Ecco perché la New Development Bank dei BRICS è stata al centro del summit.

Fondata nel 2014 con lo scopo primario di finanziare lo sviluppo delle infrastrutture, la NDB attualmente può contare su un capitale di base di 50 miliardi di dollari da rendere totalmente disponibile entro il 2027. Dieci sono già stati versati. Alla fine di quest’anno saranno già stati finanziati una cinquantina di progetti per un totale di 15 miliardi di dollari.

La banca è molto attiva. In Brasile ha finanziato la costruzione di hub logistici per migliorare la connettività fisica con le aree più remote. Anche durante il summit è stato firmato il finanziamento per il “North Region Transportation Infrastructure Improvement Project” per migliorare la capacità di trasporto di materie prime dalle miniere verso i porti. Invece, in Russia, oltre alle infrastrutture, vengono finanziati progetti per migliorare l’accessibilità ai centri storici e culturali del paese. In India gli investimenti riguardano la gestione delle acque e i collegamenti tra le zone rurali e i mercati. La Cina utilizza i finanziamenti della banca per il miglioramento dell’ambiente, mentre il Sud Africa si concentra su progetti per l’energia e l’acqua.

La dirigenza della NDB ha confermato ai presidenti dei paesi BRICS e all’audience mondiale il suo impegno centrale di concedere crediti in monete locali, tanto che il 40% del suo portfolio in Sud Africa è in rand. Sta crescendo notevolmente anche la domanda di prestiti in yuan per i progetti cinesi.

Anche l’espansione organizzativa della banca continua. Dopo le sedi di Johannesburg, Shanghai e San Paolo, l’anno prossimo saranno aperte quelle di Mosca e New Delhi. Non solo, ma intende anche ammettere altri soci dei paesi emergenti per arrivare a un capitale di base di ben 90 miliardi di dollari entro il 2027.

L’impostante istituto creditizio ha intenzione anche di sviluppare innovativi strumenti finanziari, non speculativi, garantiti dal capitale e dagli investimenti. Inoltre, con l’appoggio della banca centrale cinese, la NDB ha già raccolto 6 miliardi di yuan attraverso l’emissione di obbligazioni sul mercato di Shanghai.

A Brasilia si sono, quindi, discussi anche i progressi raggiunti dal BRICS Local Currency Bond Fund per lo sviluppo dei mercati obbligazionari locali. Sono tutte operazioni miranti a sottrarsi progressivamente al controllo dominante del sistema del dollaro. Si ricordi che, con l’istituzione della NDB, fu creato anche il Contingent Reserve Arrangement (CRA) con il compito di proteggere le economie e le finanze dei BRICS in caso di instabilità dei mercati e delle monete.

Nel meeting è stato evidenziato anche lo stato di allerta del citato CRA, che ha appena tenuto con successo un secondo test di preparazione per fronteggiare eventuali crisi economiche esterne.

Nella dichiarazione finale di Brasilia è stato riaffermato l’impegno per superare le crescenti minacce al multilateralismo, ponendo l’accento sul ruolo centrale delle Nazioni Unite negli affari internazionali. Si è affermata anche la necessità di riformare le organizzazioni internazionali quali l’Onu, il Fmi e l’Organizzazione Mondiale del Commercio per dare più spazio ai paesi emergenti e a quelli in via di sviluppo nell’ottica di un ordine internazionale multipolare più equo e solidale. L’OMC, il WTO, in particolare, è chiamato a svolgere un ruolo indipendente e più sollecito rispetto ai tanti conflitti sui commerci.

Non potevano, ovviamente, mancare le grandi preoccupazioni per le continue tensioni commerciali “che hanno un effetto negativo sulla fiducia, sul commercio, sugli investimenti e sulla crescita”a livello globale. Lo stesso presidente brasiliano Bolsonaro ha dovuto condividere la politica indipendente dei BRICS riaprendo “a suon di contratti” i rapporti con la Cina, dopo la sua iniziale e frettolosa vicinanza alle politiche di Trump sui dazi e sulle altre questioni internazionali.

Gli altri impegni presi interessano vasti campi, dalla protezione dell’ambiente alla biodiversità, dalla difesa del suolo alla lotta contro l’avanzamento dei deserti e allo sviluppo spaziale pacifico.

Infine, però, per l’ennesima volta i BRICS hanno lamentato che sia passato un altro anno senza la ridefinizione delle quote del Fmi. La cosa va avanti dal 2010! Che gli Usa e il sistema del dollaro temano di perdere il loro attuale potere economico e monetario è forse comprensibile. Che l’Ue e i paesi europei stiano al gioco di Washington lo è meno. Sicuramente è autolesionista.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

A Sochi il primo summit economico tra Russia e Africa

A Sochi il primo summit economico tra Russia e Africa

Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Dopo la Cina, anche la Russia ha organizzato alla fine di ottobre a Sochi il primo summit economico con tutti i 54 paesi dell’Africa e le sue più importanti organizzazioni regionali. Nel corso di due giorni di discussioni e di intensi negoziati tra le varie delegazioni e i ben 40 capi di Stato, sono stati siglati più di 500 importanti documenti, tra accordi, memorandum e contratti veri e propri per un ammontare di oltre 20 miliardi di euro.

Attualmente l’interscambio commerciale tra Russia e Africa è di circa 20 miliardi di dollari, con un aumento del 17% nell’ultimo anno. Ancora molto lontano dai 170 miliardi dei commerci tra Cina e il continente africano. Il presidente Putin, però, ha annunciato l’intenzione di raddoppiare gli scambi entro 4-5 anni. Ha ricordato che in passato la Russia ha cancellato più di 20 miliardi di dollari di debiti che i paesi africani avevano accumulato durante il periodo sovietico. “Non solo per una ragione di generosità, ma anche come una manifestazione di pragmatismo, in quanto molti paesi africani non erano in grado di pagare gli interessi sui prestiti”, ha ricordato, e anche per dare inizio ad una nuova fase di fattiva cooperazione economica e politica basata sul principio dello “scambio del debito con lo sviluppo”.

A differenza della Cina, che è in grado di offrire enormi prestiti a condizioni favorevoli in cambio, però, dell’accesso alle materie prime africane e alla costruzione e gestione delle grandi infrastrutture, come ferrovie, strade, porti e dighe, la Russia non ha grande bisogno di quelle materie prime poiché anch’essa ne possiede in grande abbondanza. Ciò vale anche per l’energia e le tante ambite “terre rare”, i materiali di importanza strategica per i delicati settori militari, delle comunicazioni e delle tecnologie più avanzate.

Mosca intende rafforzare e valorizzare soprattutto i legami scientifici e culturali con il continente che, secondo le valutazioni di molti, promette di diventare un nuovo centro di opportunità e crescita dell’economia mondiale. Cosa che, purtroppo, spesso l’Europa preferisce ignorare.

Una vecchia analisi dei rapporti in essere vorrebbe la Russia semplicemente come un grande fornitore di armi. In verità, molti armamenti provengono ancora da Mosca e personale qualificato riceve un training militare in Russia, ma la Russia è anche tra i primi 10 fornitori di cibo al mercato africano.

Ci sembra che l’intenzione russa sia strategica più che economica. S’intende creare un nuovo meccanismo per il dialogo e la partnership tra Russia e Africa, anche nell’ottica di un ordine politico internazionale multipolare. Quello di Sochi è stato il primo forum dei capi di Stato che dovrebbe ripetersi ogni tre anni, preparato con più frequenti incontri a livello ministeriale secondo le tematiche congiuntamente decise.

Putin, ovviamente, ha ricordato il sostegno russo alla lotta dei popoli africani contro il colonialismo, il razzismo e l’apartheid e ha rinnovato l’impegno per il rispetto e la difesa della loro indipendenza e della loro sovranità. Al riguardo oggi, oltre alla partecipazione nella costruzione delle infrastrutture, Mosca intende continuare l’impegno per il training professionale e scientifico di migliaia di giovani africani presso le università russe, dove già studiano 17.000 studenti africani, ma anche presso i nuovi centri di cultura e di qualificazione professionale che la Russia intende creare in molti paesi dell’Africa.

E’ importante notare le nuove aree di cooperazione discusse a Sochi: oltre alle infrastrutture, le risorse energetiche rinnovabili e il nucleare per scopi pacifici, le tecnologie digitali, la sanità, l’information security, e le nuove frontiere dell’ingegneria.

Un aspetto non secondario del Forum è stato l’impegno di favorire il rapporto tra l’Unione Economica Eurasiatica e gli stati africani, soprattutto con le sue organizzazioni, come l’Unione Africana. Ciò è ancora più importante se si considera che soltanto pochi mesi fa è stato siglato a Niamey, in Niger, l’accordo per un mercato africano libero dai dazi.

Il presidente russo naturalmente ha polemizzato con “certi stati occidentali che stanno esercitando pressioni, intimidazioni e ricatti” nei confronti dell’Africa, dichiarando di volersi opporre a qualsiasi “gioco geopolitico” che coinvolga il continente.

Come riportato nella dichiarazione finale, il Forum si è anche espressamente impegnato a “promuovere un rapporto più stretto e profondo di cooperazione e di partnership tra i paesi BRICS e l’Africa per rafforzare i meccanismi collettivi della governance globale all’interno di un sistema multipolare di relazioni internazionali”.

Tutto ciò ci induce a chiedere:”Quando l’Unione europea, come istituzione, promuoverà incontri regolari con l’Unione Africana e tutti i capi di Stato dell’Africa per programmare insieme una continua e proficua iniziativa di cooperazione e di sviluppo tra i due continenti?” L’alternativa sono forme striscianti di neo colonialismo, come recentemente è stato stigmatizzato anche dal Presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte.

Con rare eccezioni finora, purtroppo, la Francia preferisce un rapporto diretto e solitario con i paesi francofoni, l’Inghilterra fa lo steso con quelli anglofoni e gli altri paesi europei, come l’Italia, cercano di infilarsi nelle “fessure” lasciate ancora aperte e inserire le proprie imprese nei vari progetti di sviluppo.

Spesso, però, tale comportamento crea soltanto tensioni e liti tra gli europei che minano ancora di più la credibilità dell’Unione europea.

*già sottosegretario all’Economia **economista

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LE BANCHE CENTRALI EUROPEE SBAGLIANO. SOPRATTUTTO NEL VOLERE L’INFLAZIONE AL 2%

Economisti francesi: le banche centrali sbagliano

Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

Dalla Francia, ma non solo, arrivano moniti preoccupanti relativi al rischio di nuove crisi finanziarie globali. Tra gli economisti, Jacques De La Rosière, già governatore della Banca centrale di Francia e direttore generale del Fondo Monetario Internazionale, afferma che le politiche monetarie accomodanti delle banche centrali stanno indebolendo l’intero sistema finanziario, rendendo così impraticabili anche gli eventuali futuri interventi di correzione.

Anzitutto, l’idea fissa di tutte le banche centrali di dover raggiungere il tasso d’inflazione del 2%, inteso come manifestazione del corretto andamento della gestione monetaria e dell’economia, è sbagliata. Chi la sostiene argomenta che sotto quel livello ci sarebbe sempre il rischio di deflazione, cioè un crollo dei prezzi.

L’ex direttore del Fmi afferma, invece, che questo target d’inflazione annuale dovrebbe essere abbassato all’1%. Vi sono, infatti, ragioni strutturali che modificano profondamente i dati che determinano i prezzi al consumo: l’invecchiamento della popolazione, il progresso tecnologico che diminuisce i costi di produzione, la globalizzazione che ha fatto entrare nei nostri mercati merci a prezzi stracciati perché prodotte con salari bassi e un mercato del lavoro bloccato. Perciò il target dell’1% non sarebbe in alcun modo un fenomeno deflattivo.

Lo stesso dicasi per il tasso di sconto applicato dalle banche centrali. Dovrebbe aumentare in situazioni di stabilità e di crescita economica. La storia lo insegna. E ci dice anche che gli ultimi 15 anni di politiche monetarie accomodanti (più liquidità con il quantitative easing e simili misure) di fatto non hanno prodotto una crescita significativa e un effettivo miglioramento delle varie economie..

Al contrario, sottolinea De La Rosiere, la prolungata e esagerata politica del tasso zero ha prodotto gravi conseguenze: una forte propensione al debito, un indebolimento del settore bancario, un peggioramento dei bilanci dei fondi pensione con investimenti in obbligazioni pubbliche senza rendimenti, la proliferazione di “imprese zombie” dove i tassi di interesse non giocano più il ruolo discriminante di “indice di qualità”, la spinta verso investimenti e prodotti finanziari ad alto rischio e la disincentivazione per i governi a intraprendere la strada delle riforme strutturali. 

Inoltre, con un tasso zero, le imprese, invece di nuovi investimenti, sono spinte a fare più debiti con cui comprare sul mercato le loro stesse azioni. Ciò crea l’illusione di stabilità.

In verità, l’aumento della produttività non ha alcun rapporto diretto con il tasso d’interesse ma riflette, invece, i processi d’istruzione, di formazione, di diffusione delle nuove tecnologie, del clima nel commercio internazionale…

A tutto ciò si aggiungono le gravi e irresponsabili politiche nazionaliste e quelle del “beggar thy neighbour”, impoverisci il tuo vicino. Perciò l’ex governatore della Bank de France vede l’attuale situazione mondiale molto critica e simile a quella degli Anni Trenta dello scorso secolo.

Anche la politica monetaria è in una pericolosa impasse con il rischio di non essere più in grado di intervenire in caso di necessità e di crisi. Servirebbe invece un accordo stabile nel sistema monetario internazionale.

Sulla stessa linea di De la Rosière si sono espressi anche Eric Lombard, direttore generale della Caisse des Depots (la CDP francese) e Olivier Klein, direttore generale della BRED, la più grande banca popolare e cooperativa di Francia.

Essi affermano che un’attenta analisi della passata crisi fornisce elementi per dire che anche oggi vi sono sintomi molto simili. In particolare, i tassi interesse inferiori a quelli della crescita per un periodo troppo lungo hanno creato un circolo vizioso in cui gli attori economici, invece di diminuire i loro debiti, sono stati indotti a aumentarli.

Questo processo ha portato a preferire operazioni finanziarie sempre meno liquide con alti rischi di credito. Secondo loro, la bolla potrebbe, quindi, scoppiare in caso di aumento dei tassi d’interesse. Essi stimano che la crisi potrebbe iniziare a seguito di qualche evento negativo, sia economico sia geopolitico, che mettesse in difficoltà il pagamento dei debiti.

Si aspettano che la crisi finanziaria possa avvenire in particolare nel settore dello “shadow banking”, cresciuto a dismisura. Le banche sarebbero, per fortuna, meglio capitalizzate. Immettere maggiore liquidità per aiutare gli attori economici indebitati in difficoltà, potrebbe accentuare il rischio di una crisi ancora più grande.

Da ultimo si è fatto nuovamente sentire un gruppo di ex governatori delle banche centrali di Germania, Austria e Olanda che in un memorandum hanno ripreso gli argomenti sopracitati. Però, con un giudizio negativo soprattutto nei confronti dei paesi europei più indebitati. Secondo loro la politica della Bce favorirebbe proprio questi ultimi. E’ chiaro che essi vorrebbero continuare con una politica di austerità più severa e più dura. Sarebbe una sciagura!

 E’ giunto il momento di sottrarci ai rischi di una nuova crisi, attraverso una sana politica di crescita economica, occupazionale e sociale e senza l’ossessiva e fallimentare politica di austerità a tutti i costi.

 *già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Fed arranca di fronte a un sistema bancario sempre più a rischio.

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Giorni fa un pericoloso corto circuito ha messo in crisi il sistema finanziario e bancario americano. Improvvisamente è venuta a mancare una grande quantità di liquidità, facendo, di conseguenza, alzare a oltre il 10% il costo del denaro a brevissimo termine, il cosiddetto overnight. In situazioni normali non si discosta di molto dal tasso di sconto applicato dalla Federal Reserve che in quel momento era di 2,15-2,30%. La Fed, inoltre, per la prima volta dopo gli anni della Grande Crisi, ha iniziato a muoversi sul mercato interbancario con operazioni cosiddette repo (repurchase agreement operation).In generale trattasi di strumenti del mercato monetario, di “pronti contro termine”, in cui il venditore cede, in cambio di denaro, un certo numero di titoli a un acquirente che s’impegna a riacquistarli a un determinato prezzo e a una determinata data. Sono, di fatto, una specie di crediti a brevissimo termine che servono a coprire mancanze monetarie per soddisfare pagamenti urgenti.

L’accaduto è stato riportato dalla stampa come un evento speciale, sorprendente. Ma, perché si è verificata una tale scarsità di dollari? Vi sono forse nuovi e più grandi rischi per il sistema? Queste domande, purtroppo, non sono state poste. Il presidente della Fed di New York, che è dovuta intervenire urgentemente con 75  miliardi di dollari al giorno, aumentati poi a 100 miliardi, si è limitato a dire che la colpa è delle grandi banche americane. Esse, pur essendo piene di liquidità, non l’avrebbero messa a disposizione. Ha ammesso, però, l’esistenza di falle nel sistema. Ha aggiunto che “il problema non è il livello delle riserve della Fed, ma il funzionamento del mercato”. Affermazione pesantePerò, in realtà si stima che alla Fed mancherebbero almeno 400 miliardi di dollari di riserve. E’ proprio questo livello a determinare le tensioni sul mercato del credito overnight.  Tali tensioni si verificano soprattutto nei giorni precedenti la chiusura del trimestre, quando  la domanda di liquidità aumenta significativamente. Ma è compito della Fed anticipare i flussi di liquidità e sapere se e perché le banche non la mettano a disposizione. Non si può scherzare con il gioco delle responsabilità quando il sistema finanziario, come nel nostro caso, è da tempo in fibrillazione.

Com’è stato recentemente documentato, le politiche monetarie americane hanno, infatti, generato grossi problemi economici, commerciali e valutari soprattutto nei paesi emergenti che, per proteggersi da eventuali evoluzioni negative, hanno dovuto aumentare le loro riserve in dollari.  Ora ci sembra rilevante capire in particolare perché le banche “too big to fail” abbiano concentrato nelle loro mani crescenti quantità di liquidità. Che cosa temono e per quale evenienza? Si ricordi che una delle cause del fallimento della Lehman Brothers e del grave rischio d’implosione del sistema bancario americano fu proprio la mancanza di liquidità, necessaria per coprire le perdite generate dai derivati finanziari speculativi in sofferenza, soprattutto quelli legati al settore immobiliare.

Si è cercato di spiegare che la riluttanza a concedere i crediti fosse dovuta alla qualità dei titoli dati in garanzia. Ma i titoli usati sono solitamente obbligazioni del Tesoro Usa e garantiti, quindi, dallo Stato. Una spiegazione plausibile sarebbe, invece, la paura di concedere crediti ad altre banche e imprese considerate a rischio. Infatti, ci sono molti settori in difficoltà, quali, per esempio, quello del debito corporate, quello del credito al consumo e quello dell’energia ottenuta dalle scisti bituminose, il cosiddetto shale gas. Si consideri che solo il corporate debt, il debito delle imprese americane, ai margini di rischio, sarebbe di oltre 7.500 miliardi di dollari.

Intanto la Banca dei Regolamenti Internazionali ha evidenziato come la prolungata politica dei tassi d’interesse zero abbia destabilizzato l’intero sistema finanziario con effetti nuovi, senza precedenti. Ha quantificato a livello mondiale intorno a 17.000 miliardi di dollari i titoli pubblici e privati con un tasso negativo. E’ circa il 20% del pil mondiale! Inoltre, negli Usa e in altri paesi i tassi d’interesse a lungo termine sono addirittura inferiori a quelli a breve. Mai successo nella storia economica.

Adesso ci si aspetta che, dopo gli annunci della Bce, anche la Fed inizi il suo nuovo  Quantitative easing, comprando almeno 15 miliardi di dollari di obbligazioni del Tesoro Usa al mese attraverso l’immissione di nuova liquidità.

Purtroppo, secondo noi, a livello globale lo spazio di manovra delle politiche monetarie si sta ristringendo ulteriormente e i rischi di nuove crisi aumentano.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

URGE UNA PROFONDA REVISIONE DELLE REGOLE ECONOMICHE DELL’UNIONE EUROPEA!

Di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Il messaggio del presidente Mattarella per il riesame delle regole del Patto di stabilità, allo scopo di rinnovare la coesione europea e indirizzarla verso la crescita e gli investimenti produttivi, può aprire una stagione di grandi cambiamenti e innovazioni in tutti i campi della politica e dell’economia. Il Presidente interpreta bene le esigenze del nostro popolo e, soprattutto, la delicatezza della situazione che potrebbe minare l’unità dell’Unione europea.  Infatti, il momento economico è difficile per tutti i paesi dell’Ue, colpiti dalla recessione, dalla deflazione e da ondate destabilizzanti di guerre doganali. Ciò, però, potrebbe augurabilmente consentire a dare la spallata definitiva all’assurda politica dell’“austerità a tutti i costi”.

 Negli anni scorsi anche noi abbiamo sovente rilevato le esigenze più stringenti che in Europa si dovrebbero affrontare. Anzitutto sottrarre gli “investimenti per la crescita”, quelli in infrastrutture, reti, innovazione, educazione e ricerca, alla logica delle spese correnti, alle restrizioni di bilancio e al calcolo del deficit. Il rigore non può essere fine a se stesso. E’ da prima dell’Accordo di Maastricht che la politica economica dell’Ue è stata improntata all’esclusiva bussola dell’austerità. Oggi, per fortuna, anche gli economisti monetaristi riconoscono l’errore e ne ammettono il fallimento.  Tra l’altro, occorrerebbe ridefinire, con responsabilità e coraggio, anche la cosiddetta politica del bail in, che, in caso di crisi bancaria, prevede il coinvolgimento di azionisti, obbligazionisti e correntisti della stessa banca. Fu introdotto nel 2016, quando era previsto soltanto il salvataggio con soldi pubblici.  

 Ora, a nostro avviso, sarebbe necessario introdurre la “separazione bancaria” tra le banche d’investimento e quelle commerciali. Le eventuali operazioni speculative dovrebbero essere consentite soltanto alle banche d’investimento. Alle altre, invece, dovrebbe essere vietato. Il risparmio delle famiglie andrebbe, quindi, maggiormente tutelato. Un bail in più duro dovrebbe essere applicato alle banche d’investimento che intendano usare i loro capitali per operazioni rischiose e speculative. 

 Per aiutare la ripresa economica si potrebbe, inoltre, come più volte in passato indicato, fare ricorso agli eurobond. Sebbene reputiamo ancora difficile e lontana la piena trasformazione dei debiti nazionali in debito europeo, gli eurobond di project financing, cioè obbligazioni europee mirate a specifici investimenti produttivi, potrebbero essere attivati da subito. Gli eurobond sarebbero emessi dalla Banca Europea degli Investimenti (Bei) e acquistati dalla Bce ed eventualmente anche dagli Stati membri.

Finora il Quantitative easing della Bce è stato usato per acquistare titoli di Stato dei paesi Ue, in proporzione al loro livello di Pil, e altri titoli in possesso delle banche europee. Purtroppo, troppo spesso la liquidità ottenuta dalle banche non è stata destinata ai crediti per l’economia reale ma è stata deposita presso la stessa Bce. Sarebbe, invece, opportuno vincolare le politiche monetarie della Bce, e quindi anche il Qe,  direttamente ai programmi di sviluppo economico dell’Ue.

Naturalmente l’Europa non può sottovalutare i gravi problemi della fiscalità e la necessità della lotta contro l’evasione e l’elusione. Si stima che l’evasione fiscale a livello europeo sia di circa 900 miliardi di euro. La cifra è enorme, in cui la quota italiana è, purtroppo, notevole. 

La tassazione delle grandi imprese multinazionali, che finora hanno cercato abilmente di sottrarsi ai controlli, non è rinviabile. La vera sfida è uniformare i sistemi fiscali dei vari paesi Ue. Del resto non si può ignorare che alcuni paesi – Belgio, Cipro, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Malta e Olanda – “mostrano tratti da paradiso fiscale e facilitano l’approccio fiscale aggressivo”, come dice anche il rapporto preparato da una commissione del Parlamento europeo.

L’Europa deve sempre più essere la nostra casa comune. Perciò, a partire dall’Italia, è dovere di tutti mantenerla, cambiarla e migliorarla. 

 *già sottosegretario all’Economia

 **economista

 

 

 

 

 

 

L’Inghilterra molla l’Europa e per punire la Cina propone una moneta internazionale virtuale

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Alla recente riunione di banchieri a Jackson Hole il governatore della Bank of England, Mark Carney, ha proposto di sostituire il dollaro, come moneta di riferimento negli scambi commerciali e nelle riserve internazionali, con la Synthetic  Hegemonic Currency (SHC), una nuova valuta, non più fisica ma digitale.

Un’idea temeraria, come lui stesso ammette. Secondo noi, si tratta di una proposta che potrebbe rendere ancor più instabile il già precario sistema monetario internazionale.

Il governatore centrale inglese prende come esempio la moneta digitate Libra, recentemente proposta da facebook.com, che dovrebbe diventare il nuovo strumento di pagamento per le transazioni commerciali fatte sempre più online. Libra dovrebbe essere la nuova moneta privata che sostituirebbe le valute nazionali finora utilizzate, a cominciare dal dollaro. Sarebbe utilizzata da acquirenti e altri clienti privati che operano con strumenti telematici.

La SHC, invece, dovrebbe essere emessa dall’autorità pubblica, cioè dalle banche centrali attraverso una loro rete di monete digitali. L’intento britannico sembra essere soprattutto volto a opporsi alla tendenza egemonica dello yuan cinese che, come Carney afferma, dal 2018 avrebbe già superato la sterlina nei contratti petroliferi. Naturalmente la nuova moneta digitale ridurrebbe anche l’influenza dominante del dollaro stesso.

Un mondo con due monete competitive di riserva, afferma il governatore, renderebbe instabile l’intero sistema monetario mondiale. La Grande Depressione del ’29, aggravata dalle tensioni tra la sterlina e il dollaro, dovrebbe essere d’insegnamento.

La nota di Carney rivela che la Bank of England è consapevole di ciò che avviene a livello globale. Del resto egli sottolinea che “la City è il principale centro finanziario internazionale”.

La conclusione della Bank of England è sicuramente azzardata. Le sue analisi di fondo, però, meritano una certa considerazione. Il governatore afferma che la globalizzazione ha accresciuto l’impatto e i riverberi degli eventi internazionali sulle varie economie. Di conseguenza, il sistema del tasso d’inflazione flessibile e dei tassi d’interesse fluttuanti, adottato dalle banche centrali, non regge più.

Ciò ha determinato destabilizzanti asimmetrie nel sistema monetario internazionale. Infatti, mentre l’economia mondiale è passata attraverso processi di aggiustamenti, il ruolo del dollaro, invece, è rimasto uguale a quello che aveva quando il sistema di Bretton Woods nel 1971 collassò. E’ innegabile il fatto che le decisioni monetarie della Federal Reserve stiano producendo effetti negativi in molti paesi, anche in quelli che hanno pochi rapporti economici con gli Usa.

Egli afferma giustamente che “un sistema unipolare non è adatto per un mondo multipolare”. Ricerche ufficiali dimostrano come una rivalutazione del dollaro dell’1% comporterebbe una contrazione dello 0,6% nei volumi di commercio nel resto del mondo.

Si ricordi che metà delle transazioni commerciali mondiali è effettuata ancora in dollari! Ma la quota delle importazioni Usa è solo un quinto del totale dell’import mondiale. Perciò, a nostro avviso, anche la riforma delle regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), è sempre più necessaria.

Il dollaro, in quanto moneta dominante del commercio mondiale, è anche la valuta principale di riserva e di rifermento per la maggior parte dei titoli emessi nei paesi emergenti. Per circa due terzi del totale. Ciò ha inevitabilmente indotto queste economie a creare delle misure di sicurezza, aumentando le loro riserve in dollari e contribuendo così a creare quello che da tempo è chiamato “carenza mondiale di risparmi”. Si stima che le riserve monetarie dei paesi emergenti potrebbero raddoppiare nei prossimi dieci anni, con un aumento di ben 9.000 miliardi di dollari.

Noi riteniamo che la nuova moneta digitale SHC non sia la soluzione giusta. Essa, di fatto, annullerebbe progressivamente il ruolo, anche di controllo, delle banche centrali e degli stessi governi.

Una questione, affatto secondaria, riguarda la sicurezza e le garanzie monetarie: chi sarebbe il “prestatore di ultima istanza”? Finora, e lo abbiamo visto nella Grande Crisi anche se con ritardi e lacune, il garante finale è stato la banca centrale dei vari paesi coinvolti.

Come abbiamo più volte scritto in passato, il dollaro da solo non è oggettivamente più in grado di sostenere l’intero sistema monetario, finanziario, economico e commerciale mondiale. Riteniamo perciò che sia giunto il tempo per la creazione di un sistema monetario multipolare basato su un paniere di monete importanti e per l’attivazione di una nuova “moneta di conto” simile ai Diritti Speciali di Prelievo.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

 

INCREDIBILE E PERICOLOSO: tre fondi indicizzati controllano tutte le US corporation

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Le grandi istituzioni economiche, come il Financial Stability Board e il Fmi, alla fine hanno dovuto ammettere che il sistema finanziario non bancario, ufficialmente chiamato “shadow banking”, ha surclassato il tradizionale sistema bancario nella gestione del risparmio e degli investimenti finanziari.

Un recente paper “The specter of giant three”, preparato da due professori americani, Lucian Bebchulk e Scott Hirst, e pubblicato dalla rinomata Harvard Law School University di Cambridge, Massachusetts, analizza in dettaglio il ruolo dominante degli exchange trade funds (etf) nel variegato e sempre meno controllato mondo della finanza.

“Lo spettro dei tre giganti” non è soltanto un titolo provocatorio. Esso mostra una precisa fotografia del crescente potere di tre etf americani, i fondi BlackRock, Vanguard e State Street Global Advisors (SSGA).

Il primo è di gran lunga il più conosciuto in quanto a suo tempo venne utilizzato dal Dipartimento del Tesoro per “fare pulizia” di titoli tossici presenti in varie istituzioni finanziarie americane.

I fondi indicizzati etf sono fondi d’investimento che raccolgono capitali e risparmio da diversi soggetti e li investono in un “portafoglio di titoli” di corporation comprese in alcuni indici borsistici di Wall Street. Il caso emblematico è quello di Standard&Poor’s 500., Detti fondi comprano un ventaglio di partecipazioni azionarie, replicando così fedelmente la composizione dell’indice di riferimento. Com’è noto, gli etf sono anche quotati in borsa.

I Tre Giganti complessivamente gestiscono ben 14.000 miliardi di dollari di attivi (assets under management).

La loro crescita è stata vertiginosa, anche per le non irrilevanti agevolazioni fiscali. In dieci anni, di tutti i capitali confluiti nei vari fondi d’investimento, l’80% è finito nei tre colossi. In venti anni la loro partecipazione azionaria nelle grandi corporation americane, che fanno parte dello S&P 500, è quadruplicata, passando dal 5,2% al 20,7%.

BlackRock e Vanguard, di fatto, detengono ognuna più del 5% delle azioni di tutte le corporation comprese nell’indice menzionato. Ilpapersuccitato stima che i Three Giants rappresentino il 25% dei voti nelle assemblee direttive delle imprese in questione.

Questo, ci sembra, l’aspetto più preoccupante. I manager delle Tre Big sarebbero nella posizione di essere azionisti dominanti in tutte le più importanti company americane, soprattutto in quelle ad azionariato diffuso e senza un azionista di controllo. Non è un caso, quindi, che molte istituzioni pubbliche, a cominciare dal Dipartimento di Giustizia Usa e dalla Commissione federale del commercio, che vigila sulla concorrenza, siano attenti al rispetto delle leggi anti trust, al conflitto d’interesse e in generale alle eventuali manipolazioni dei mercati e delle borse.

Dopo la Grande Crisi del 2008 giustamente si era molto parlato della concentrazione di potere delle banche cosiddette “too big to fail” per tentare di introdurre nuove regole per contenerne lo strapotere. Oggi, invece, i giganti dello “shadow banking” hanno bypassato il sistema bancario, creando un nuovo e più potente oligopolio finanziario.

Nessuno può essere indifferente. Con un’attività sempre più agguerrita i Tre Giganti puntano verso i mercati asiatici e verso quelli europei. Si spera che la Commissione Antitrust dell’Ue vigili con puntualità.

 

E’ molto preoccupante assistere alla faticosa e spesso poco produttiva rincorsa delle varie agenzie di controllo dietro questi attori della grande finanza, che naturalmente corrono più veloci rispetto ai controllori. I numeri in questione e i tanti rischi per l’economia reale di molti paesi sono troppo grandi perché siano sottovalutati da parte dei decisori globali.

*già sottosegretario all’Economia **economista

TRUMP INTIMIDISCE ANCHE LA FED. POCHE IDEE E PROPOSTE DEI RESPONSABILI MONETARI MONDIALI IN FATTO DI SFIDE PER LA POLITICA MONETARIA

Di Mario Lettieri* Paolo Raimondi**

L’importante conferenza dei responsabili monetari mondiali di Jackson Hole, dedicata alle “Sfide per la politica monetaria”, ha prodotto poche e scarne idee e proposte. Si è invece segnalata piuttosto per le provocatorie dichiarazioni del presidente Trump contro Jerome Powell, capo della Federal Reserve, che vorrebbe asservito alle sue politiche e anche alle sue “manie”.

Anche il tanto atteso discorso di Powell, in verità, ha lasciato molta delusione. Il presidente della Fed si è avventurato in una lacunosa rivisitazione della storia monetaria dal dopo guerra a oggi. L’ha suddivisa in tre fasi.

La prima, dal 1950 al 1982, l’ha qualificata come di “instabilità e di grande inflazione”. Allora la politica della Fed fu indirizzata verso una stabilizzazione “stop and go”, con il forte utilizzo del tasso d’interesse per correggere il susseguirsi di momenti recessivi e di surriscaldamento del sistema economico. L’effetto di questo yo-yo fu l’esplosione dell’inflazione. Nella ricostruzione storica, Powell ha evitato di dire che il tasso di sconto della Fed nel biennio 1980-1 toccò la vetta del 20%, con effetti molto negativi per l’economia americana e, soprattutto, per i paesi più deboli del terzo mondo e anche dell’Europa. In primis l’Italia. Si deve anche a questi interessi stratosferici la crescita vertiginosa della bolla dei debiti pubblici.

La seconda fase, dal 1982 al 2009 è stata caratterizzata da “grande moderazione e da grande recessione”. Secondo Powell, è stato un periodo di maggiore controllo, con un’inflazione abbastanza stabile accompagnata da una certa crescita economica. I mercati sarebbero stati disturbati da eventi finanziari estranei agli Usa: la bancarotta del debito pubblico della Russia nel 1998, il fallimento dell’hedge fund speculativo Long Term Capital Management e la crisi finanziaria e monetaria delle cosiddette “tigri asiatiche”.

All’improvviso sarebbero emersi “eccessi finanziari” che hanno portato alla Crisi Finanziaria Globale del 2008. Inspiegabilmente, Powell si chiede se “l’espansione economica prolungata non porti inevitabilmente a eccessi finanziari destabilizzanti”. Secondo lui, i mercati tenderebbero a dimenticare gli effetti delle crisi passate e si avventurerebbero su lidi finanziari più rischiosi.

Ma anche su quest’argomento, il capo della Fed, opportunisticamente, omette di menzionare due fondamentali decisioni assunte dal governo americano che, secondo noi, hanno avuto la massima responsabilità nella deregulation finanziaria.

Il primo provvedimento fu la cancellazione nel 1998 della legge Glass-Steagal Act, fortemente voluta nel 1933 dal presidente Roosevelt, che separava la banche commerciali da quelle di investimento, vietando alle prime di usare capitale e depositi in attività speculativa. Il secondo fu l’approvazione della legge Commodity Futures Modernization Act del 2000 che, purtroppo, “modernizzò “ i prodotti derivati noti come otc (over the counter). Essi non sarebbero stati più sottoposti alla legge, approvata nel 1936, che metteva dei limiti a tali operazioni speculative. Tutto ciò catapultò l’intero sistema bancario americano e internazionale nelle torbide acque della finanza più rischiosa e speculativa.

La terza fase, dal 2010 a oggi, negli Usa sarebbe caratterizzata da un’inflazione stabile intorno al 2% e da un crescente tasso di occupazione. Secondo Powell le sfide per la Fed sono quasi tutte esterne: il rallentamento della crescita globale, la politica dei tassi d’interesse zero e le incertezze delle politiche commerciali. A ciò egli aggiunge le complicazioni geopolitiche come la Brexit, le tensioni su Hong Kong e la dissoluzione del governo italiano.

Ammette di attenzionare gli effetti dei dazi sulle esportazioni cinesi per l’economia americana ma dimentica la crescente bolla del debito corporate, quello delle imprese, valuta come moderato il pericolo di instabilità finanziaria e non vede il rischio di nuove bolle finanziarie, i crediti insostenibili  e gli altri eccessi finanziari simili a quelli ante 2008.

In questo modo Powell ha cercato di evitare lo scontro diretto con Trump. Esther L. George, presidente della Fed di Kansas City, che non condivide per niente le politiche economiche del presidente americano, è intervenuta a suo sostegno. Con una metafora ha ricordato che nel parco di Jackson Hole vi sono dei cartelli che invitano i turisti a non dare da mangiare agli orsi, poiché essi in passato si erano abituati alle merendine offerte, altrimenti cercavano di azzannare gli stessi turisti. L’allusione è evidente.

Forse per eccessivo riserbo Mario Draghi, presidente della Bce in scadenza, quest’anno non è venuto a Jackson Hole. Una certa rilevanza ha avuto il discorso di Mark Carney, governatore della Bank of England, che ha evidenziato gli enormi rischi della Brexit per l’economia inglese. Soprattutto senza un accordo. Secondo lui vi sarebbero un crollo della sterlina, una maggior inflazione, una minore domanda, serie perdite nel commercio, gravi incertezze e condizioni finanziarie negative. L’economia reale frenerebbe pericolosamente, anche per il rallentamento nei rifornimenti dei prodotti provenienti dall’Unione europea.

Ha anche evidenziato i rischi insiti nella prolungata politica del tasso zero e ha quantificato in ben 16.000 miliardi di dollari i titoli del debito globale negoziati con tassi d’interesse negativi.

Noi riteniamo che la stabilità economica non possa basarsi soltanto su politiche monetaristiche. Occorre, invece, definire politiche d’investimento e d’innovazione in tutti i campi dell’economia e del sociale se si vogliono favorire la crescita reale e lo sviluppo, di cui vi è assoluta necessità in gran parte del globo.

*già sottosegretario all’Economia **economista