Tether: la stablecoin senza stabilità. Notizie taroccate e giornalismo tv italiano irresponsabile

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Ecco un’altra grave prova di come le notizie possono essere interpretate a proprio vantaggio.

“Tether Ltd e Bitfinex esprimono grande soddisfazione per aver raggiunto un accordo legale con il Procuratore generale di New York. E nell’accordo non ammettiamo alcun illecito”. Così recita il comunicato ufficiale delle due societàsuccitate, registrate a Hong Kong, che operano nel settore delle criptovalute.

L’ufficio del Procuratore generale, invece, afferma che le società menzionate “ hanno coperto in modo sconsiderato e illegale enormi perdite finanziarie per proseguire nelle loro attività… L’affermazione di Tether Ltd, secondo cui la criptovaluta fosse stata sempre e completamente sostenuta da dollari Usa, è falsa”.

Le società dovranno pagare una multa pari a 18,5 milioni di dollari e non potranno operare con persone e aziende dello Stato di New York. Ciò, purtroppo, non preclude loro di presentare l’intera faccenda come una grande vittoria in quanto, pagata l’ammenda, sono libere di continuare a operare indisturbate nel resto del mondo. D’altra parte esse affermano che, durante i due anni e mezzo di conflitto legale, le loro operazioni sono passate da 2 a 35 miliardi di dollari. Come già successo più volte in passato, i buoni avvocati sanno come “interpretare” le leggi e “barattare” condanne più severe con l’applicazione di attenuanti e con delle semplici multe pecuniarie. Il procuratore generale, in ogni caso, comprendendo la rischiosità di simili operazioni, ha aperto un nuovo dossier legale per comportamenti fraudolenti di un’altra piattaforma di trading di cripto valute, la Coinseed.

Il tether è una cosiddetta stablecoin, una delle criptovalute agganciate a delle monete reali, come il dollaro e l’euro. Per esempio, 1 tether equivale a 1 dollaro e la riserva in dollari deve coprire il 100% dei tether in circolazione. La Tether Ltd emette la suddetta stablecoin e lavora in partnership con la piattaforma di scambi online, Bitfinex. Entrambe sono controllate dalla società madre, la Finex Inc. Collegate a loro vi sarebbe anche la Tether Holdings Ltd con sede nelle Isole Vergini britanniche, uno dei più noti centri finanziari off shore. Esse vantano anche l’italiano Giancarlo Devasini come loro chief financial officer. Il tether è lo strumento più usato per acquistare i bitcoin. Come le altre cripto valute, il tether, sfruttando la cosiddetta “tecnologia blockchain”, consente di archiviare, inviare e ricevere valori digitali da persona a persona, a livello globale, in modo istantaneo e senza intermediari.

Le indagini erano partite nel 2017. La Tether Ltd e la Bitfinex, avrebbero operato in modo “oscuro” e con grandi rischi per gli investitori. Nel 2018 avrebbero fatto dichiarazioni false per oscurare un ammanco di almeno 850 milioni di dollari, frutto di un’operazione opaca con la shadow bank panamense CryptoCapital, poi fallita. Era emerso che Tether Ltd non aveva alcun accesso a servizi bancari, in nessuna parte del mondo e quindi non c’erano le riserve per sostenere la parità di un dollaro per ogni tether in circolazione. Poche ore prima della certificazione ufficiale delle reali riserve in dollari di Tether Ltd, Bitfinex le concesse un prestito di 400 milioni e poi una linea di credito di 900 milioni di dollari. In seguito, le due società aprirono un altro contro presso la Deltec Bank alle Bahamas per 1,8 miliardi di dollari. Ottenuta la certificazione, gran parte dell’ammontare, manco a dirlo, fu subito trasferito altrove.    

Nel 2017 in occasione di un simile controllo, esse avevano aperto un conto presso la Noble Bank di Puerto Rico su cui furono versati 382 milioni di dollari. Guarda  caso era lo stesso giorno durante il quale si doveva ufficialmente certificare l’ammontare delle riserve in dollari di Tether Ltd.  La criptovaluta tether gioca un grande ruolo negli acquisti di bitcoin: più di due terzi di tutte le operazioni quotidiane. Il prezzo dei bitcoin, quindi, non è fissato in rapporto al dollaro, ma a stablecoin. Il mercato delle criptovalute a livello mondiale ha già raggiunto 1.400 miliardi di dollari. Il valore dei bitcoin è molto volatile: può salire o scendere alla velocità della luce o di qualche clic sui computer. Le banche centrali e le autorità di controllo sono preoccupate e starebbero approntando un’adeguata vigilanza.

E’ singolare ed irritante vedere tutte le reti tv italiane parlare in modo acritico dei record dei bitcoin some se fosse un gioco.  

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

Torna la paura dell’inflazione?

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Gli ambienti economici internazionali più attenti alle possibili tendenze future  incominciano a porsi delle domande rispetto al pericolo di una ripresa dell’inflazione. Temono che possa superare il target ottimale d’inflazione del 2%. La preoccupazione maggiore riguarda gli Stati Uniti. Lungi da noi l’idea di introdurre un altro elemento di tensione e di paura in una situazione già sovraccarica di problemi. Ci sembra, però, doveroso riflettere sulle conseguenze di alcune decisioni, che, se pur necessarie, meritano di essere tenute sotto controllo.

Nei giorni scorsi il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, ha voluto rassicurare i mercati che il recente aumento dei tassi di rendimento dei Treasury bond rifletterebbero l’ottimismo per la ripresa economica e non l’attesa di una ripresa inflazionistica. Ci sembra, però, opportuno rilevare che storicamente la crescita dell’inflazione è sempre stata legata all’eccessiva offerta di liquidità rispetto alla domanda. Ciò che governi e banche centrali hanno fatto nel 2020 e si apprestano a fare nel 2021, per contenere gli effetti gravemente recessivi della pandemia, è di grande rilievo. Negli Usa la Fed ha immesso liquidità portando il suo bilancio a oltre 7.600 miliardi di dollari, un aumento di quasi 3.500 miliardi.

Il governo di Washington ha stanziato fondi pubblici per sostenere l’economia e l’occupazione portando il deficit annuale al 17% e il debito pubblico americano ai massimi livelli, pari al 132% del pil. Inoltre, Biden ha appena annunciato altri 1.900 miliardi per far fronte all’emergenza Covid e preparebbe un altro deficit del 9%. Da febbraio 2020 a oggi l’indice M2, che misura la disponibilità di moneta e di altre attività finanziarie molto liquide, è cresciuto del 26%, l’aumento più forte nell’intera storia americana. L’Europa ha fatto una simile politica.

 E’ importante evidenziare la situazione degli Stati Uniti, anche perché ciò che avviene in quel Paese ha sempre forti ripercussioni nel resto del mondo, in primis in Europa. 

Negli Usa molti negano la crescita dell’inflazione. Nel 2020, dicono, c’è stata una deflazione, con una perdita di Pil e un aumento annuo dei prezzi inferiore all’1,4%. Se è vero ‘è da chiedersi dove sia andata tutta la liquidità messa a disposizione. Certo, una parte, per fortuna, ha permesso alle famiglie e alle piccole imprese di superare l’emergenza. Una grande parte, però, è finita in Borsa. Negli Usa, da marzo a fine 2020 il Pil ha perso il 3,5% mentre l’indice Dow Jones ha guadagnato il 65%! Anche il risparmio delle famiglie è cresciuto a dismisura: a settembre 2020, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, è stato di 2.200 miliardi di dollari in più. Gli sviluppi e gli effetti sono alquanto incerti. “C’è una possibilità che uno stimolo macroeconomico, su una scala più vicina ai livelli della seconda guerra mondiale che ai normali livelli di recessione, inneschi pressioni inflazionistiche di un tipo che non abbiamo visto in una generazione”, ha avvertito Larry Summers, già segretario al tesoro con Clinton.

Dopo i vaccini e i lockdown, i menzionati risparmi potrebbero trasformarsi in un’intensa domanda di consumi di beni e servizi. Il che potrebbe portare a una fiammata dell’inflazione. Il rifinanziamento di un debito cresciuto enormemente potrebbe richiedere un aumento dei tassi d’interesse offerti per trovare gli acquirenti.  I prezzi delle materie prime sono già in movimento, nonostante le produzioni siano inferiori a quelle pre pandemia. Ad esempio il prezzo della benzina negli Usa è tornato ai livelli dell’inizio del 2020, nonostante che la gente viaggi molto di meno. Nel 2020 il prezzo del rame è salito del 56%, quello della soia del 54%, del legname del 117% e quello dei noli per il trasporto di merci del 215%.

In Europa cresce una certa preoccupazione, espressa soprattutto da economisti tedeschi che hanno sempre il terrore dell’esperienza della Repubblica di Weimar. Anche l’economista capo della Bce ai tempi di Mario Draghi, Peter Praet, avverte la necessità di prepararsi ai nuovi scenari. E’ un’analisi condivisa anche da Jens Weidmann, capo della Bundesbank.

La domanda che sta circolando è: la Fed e le altre banche centrali stanno pensando adeguatamente all’inflazione? Speriamo di sì, purché non pensino solo all’inflazione ma anche all’occupazione e allo sviluppo.

 *già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

 

 

Draghi e la questione del debito

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La pandemia e il 2020 hanno cambiato in modo profondo, forse definitivo, alcune idee di un certo liberismo economico, che è stato dominante nei passati quattro decenni.

Per far fronte all’emergenza, si è dovuto mettere da parte l’approccio del rigore a tutti i costi e dell’austerità come toccasana dei bilanci. Si è riscoperto, invece, il ruolo centrale e fondante dell’economia reale e del credito produttivo, quale motore di sviluppo, di avanzamento tecnologico e anche di ampliamento dell’occupazione.

Molte annose questioni, come quella riguardante il debito pubblico degli Stati, dovranno, quindi, essere rivisitate e affrontate con metodologie e programmi diversi. Ciò dovrebbe essere ovvio per tutti. Particolarmente dopo che nel 2020 l’emergenza sanitaria, economica e finanziaria ha dettato l’agenda ai governi costringendoli a mettere in campo aiuti e stimoli fiscali per 12.000 miliardi di dollari. E le stesse banche centrali sono state costrette a creare almeno 8.000 miliardi di nuova liquidità. Ovviamente, sono tutte risorse create contraendo nuovi debiti.

Secondo l’Istituto di finanza internazionale di Washington, il debito aggregato, pubblico e privato, che era già tre volte il Pil mondiale, nel 2021 dovrebbe mediamente aumentare del 20% nelle cosiddette economie avanzate e in quelle di altri Paesi emergenti.

Mario Draghi, sorprendendo molti, in verità anche noi, è stato forse l’economista che, avendo avuto ruoli istituzionali assai rilevanti a livello mondiale, per primo ha riconosciuto il cambiamento di paradigma.

Al Meeting di Rimini, tenutosi il 18 agosto dello scorso anno, in merito al debito disse: ”La ricostruzione, in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve, è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi, ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè debito buono. La sua sostenibilità verrà meno se, invece, verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato debito cattivo.”

A dire il vero, Draghi su questo tema era già intervenuto all’inizio del lockdown. Nella sua lettera, pubblicata il 25 marzo dal Financial Times, affermava: “I diversi paesi europei hanno strutture finanziarie e industriali diverse, l’unico modo efficace per rispondere immediatamente a un crack dell’economia è quello di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici I livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia ed eventualmente per il credito pubblico.

Giustamente, egli ha sollecitato un modo differente di pensare e di intervenire. “Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempo di guerra”, ha affermato, aggiungendo che “ci deve essere di ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa, l’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Si pensi ai leader che, ispirati da J.M. Keynes, si riunirono a Bretton Woods nel 1944 per la creazione del Fondo Monetario Internazionale”.

Questa è la ragione e l’ineludibile necessità di riflettere in modo nuovo e innovativo anche sulla gestione e su una possibile riduzione, se non cancellazione, di almeno parte del debito pubblico. Nei mesi scorsi, in verità, ci sono state delle proposte rilevanti.

Recentemente oltre 100 economisti, soprattutto francesi, italiani e spagnoli, hanno scritto un manifesto in cui si sostiene che “Il debito detenuto dalla Bce si può e si deve annullare”. Il 25% del debito pubblico europeo è detenuto dalla Banca centrale europea, cioè una quota di debiti pari a circa 2.500 miliardi di euro, che i cittadini europei devono a loro stessi.

Nella storia, la cancellazione del debito non è sempre stata un tabù: alla Conferenza di Londra del 1953, per esempio, i partecipanti, guidati dagli Stati Uniti, decisero la cancellazione di due terzi del debito pubblico della Germania, che iniziò così il suo percorso di ripresa e di prosperità.

La loro proposta è chiara. I paesi europei e la Bce siglano un accordo in cui quest’ultima si impegna a cancellare il debito pubblico che detiene (o a trasformarlo in debito perpetuo senza interessi), mentre gli Stati si dovrebbero impegnare a investire lo stesso importo nella ricostruzione ambientale e sociale. Ricetta semplice, impegnativa ed efficace.

Vi sono anche altre proposte simili, come quella che prevede che i debiti accesi per far fronte alla crisi attuale siano nella forma di titoli irredimibili, senza scadenza e senza interessi, garantiti dalla Bce.

Del resto, anche un grande paese come il Giappone ha dovuto e deve fare i conti con la sua situazione debitoria. Pur essendo un paese avanzato e tecnologizzato forse più dell’Europa, ha il più grosso debito pubblico al mondo, pari a 252% del suo Pil. Nel 2020 ha aumentato il suo bilancio del 20% attraverso l’emissione di nuovi titoli di Stato. Ma in Giappone oltre il 40% di tutto il debito pubblico è in mano alla Banca centrale e il resto, in maggioranza, è posseduto dalle banche e dalle famiglie giapponesi. Non è in una situazione idilliaca, ma controllando il suo debito, il Giappone non è soggetto a pressioni esterne o a speculazioni da parte dei mercati internazionali.

In conclusione, la cosa decisiva è che il “debito buono” venga utilizzato per la crescita economica. In tal modo aumentando il denominatore, il tasso debito/Pil inevitabilmente si abbassa. Ma non è la frazione matematica che interessa. Con la ripresa economica si possono finalmente affrontare i problemi reali delle famiglie e delle imprese.

Il fatto che Draghi, nel frattempo, sia diventato capo del governo del nostro paese, ci fa ben sperare. Certo, anche noi, come cittadini e come singoli, dovremmo modificare i nostri comportamenti, ispirandoli al rispetto delle leggi e dei valori costituzionali.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

 

 

 

 

 

 

L’importanza del coordinamento internazionale contro la corruzione

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Prima di fine anno l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha organizzato l’International Anti-Corruption Day per mettere la lotta contro la corruzione al centro delle varie iniziative dei governi. E’un problema spinoso e importante. E’una delle grandi priorità, perché la corruzione per tutti i Paesi rappresenta una delle maggiori minacce alla crescita economica, mina i valori della democrazia, ed è una delle cause non secondarie delle disuguaglianze sociali.

Il tutto è stato oggetto della conferenza internazionale organizzata online dal Global Forum on Trasparency and Exchange of Information for Tax Purposes, durante la quale è stato presentato il rapporto 2020 pubblicato dal Forum. Si ricordi che il Forum Globale sulla trasparenza e lo scambio di informazioni a fini fiscali fu creato dall’Ocse nel 2000 e successivamente ripreso e promosso dal G20 nel 2009, quando affermò “la fine dell’era del segreto bancario”. Oggi esso coinvolge ben 161 giurisdizioni statali, tra membri dell’Ocse e altri partecipanti.

Anche la pandemia del Covid-19 ha fatto emergere l’urgenza di affrontare la “piaga globale” della corruzione. Al riguardo è partito un nuovo programma di lavori mirato a fronteggiare le situazioni di crisi e di emergenze, chiamato “Global Law Enforcement Response to Corruption in Crisis Situation”. Contemporaneamente l’Ocse interviene a sostegno delle attività dei governi con delle Raccomandazioni per l’Integrità Pubblica, con lo scopo di trasformare eventuali azioni isolate in una strategia globale. E’ certamente positivo che il Forum abbia realizzato un training specializzato sulla materia per parecchie migliaia di dirigenti pubblici. 

In verità, l’Ocse è sempre stata in prima fila in questa battaglia, fin dal 1999, quando diede inizio alla Anti-Bribery Convention, cioè al lavoro congiunto contro le frodi. Un lavoro importante, anche se, bisogna ammetterlo, ancora troppo lento: 615 individui e 203 entità legali sono stati finora scoperti e condannati per frode. Attualmente sono in corso 528 indagini in 28 Paesi.

Uno degli interventi di crescente importanza mira a disciplinare le attività di lobbying e promuoverne la trasparenza e la correttezza. Negli anni recenti le lobby hanno assunto un potere enorme. Operano con grandi mezzi finanziari, e anche con grandi competenze, per conto di interessi privati, spesso in contrapposizione con l’interesse pubblico degli Stati e delle comunità. Già prima della Grande Crisi si stimava che per ogni membro del Congresso americano vi fossero almeno tre agguerriti, e spesso molto preparati, lobbysti che lavoravano per far approvare progetti, programmi e riforme legislative fortemente desiderati dal mondo bancario, assicurativo e in generale dalla finanza. E non solo.

Più recentemente l’Ocse ha opportunamente elaborato delle linee guida per aiutare i governi nella lotta contro la corruzione che, non lo si dimentichi, da tempo sta penetrando le imprese controllate dallo Stato. I danni e i rischi sono enormi quando la corruzione e il crimine cercano di penetrare e controllare persino certe strutture pubbliche. Si metterebbe in discussione il concetto stesso di Stato e di autorità pubblica.

L’Ocse, per fortuna, è diventata particolarmente attiva anche nella lotta contro i crimini di carattere fiscale. Secondo il Global Forum report, 100 giurisdizioni statali nel 2019 si sono scambiate in modo automatico informazioni relative a 84 milioni di conti finanziari che rappresentavano asset per circa 10.000 miliardi di euro. Questo impegno dell’Ocse e del Global Forum, nel periodo 2009 -2020, ha reso possibile la “raccolta aggiuntiva” di oltre 107 miliardi di euro per il fisco, attraverso programmi di emersione volontaria, di indagini sui centri offshore e altre misure. Si noti che, di tale cifra, 29 miliardi sono stati raccolti nei Paesi in via di sviluppo.

L’Ocse ha favorito la creazione dell’Anti Corruption Working Group all’interno del G20 per promuovere la convergenza d’azione tra gli Stati membri e per sostenere l’applicazione di standard di comportamento e d’intervento. E’ un fatto importante. Lo è ancor di più perché nel 2021 la presidenza italiana del G20 intenderebbe porre come priorità la lotta internazionale contro la corruzione.

L’impegno del Global Forum e dell’Ocse per il 2021è di mantenere alto e puntuale lo scambio di informazioni tra i Paesi partecipanti, nonostante le restrizioni imposte dalla crisi sanitaria globale. Saranno apportati aggiustamenti se la pandemia dovesse creare delle situazioni difficili, perché la cooperazione internazionale nel campo fiscale non subisca rallentamenti. Allo scopo si è decisa la costituzione di una nuova Task Force on Risk per identificare preventivamente l’insorgere di rischi rispetto all’attuazione e al rispetto degli standard relativi agli scambi di informazioni.

Tutti provvedimenti opportuni che vanno nella giusta direzione. Tuttavia non si può dimenticare che la lotta alla corruzione potrà avere successo soltanto se la reputazione delle aziende, degli amministratori delegati, dei manager, dei governati pubblici sarà davvero elevata.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Problemi e speranze per il dopo Covid

Problemi e speranze per il dopo Covid

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’Economic Outlook sullo stato dell’economia mondiale, recentemente pubblicato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), traccia una situazione veramente molto preoccupante. E, siccome si basa su dati precedenti alla seconda ondata della pandemia, le prospettive per l’anno 2021, purtroppo, sono peggiori di quanto analizzato. Ciò a prescindere dall’arrivo e dall’utilizzo del vaccino anti Covid.

Il Pil mondiale dovrebbe ridursi del 4,25% nel 2020 e dovrebbe ricuperare tale percentuale nel 2021. Le perdite maggiori nell’economia americana e in quella della zona euro, stimata intorno al 7,5%, sarebbero parzialmente compensate dalla crescita cinese del 3,5% di quest’anno. Mediamente, i Paesi cosiddetti avanzati e quelli emergenti alla fine del 2022 potrebbero aver perso l’equivalente di 4-5 anni di crescita attesa per il reddito procapite reale.

Secondo l’Ocse i dati sono ben più seri se si osservano i settori legati all’economia reale. La produzione industriale globale perde oltre il 10% rispetto al 2019 e in molti Paesi, anche alla fine del 2022, rimarrebbe sotto del 5% rispetto al livello pre-Covid.

Come nella Grande Crisi del 2007-8, anche il commercio mondiale ha subito una riduzione eccezionale: nei primi sei mesi del 2019 lo scambio di merci si è ridotto del 16%! Alla fine dell’anno tale perdita potrebbe ridursi grazie alla parziale ripresa economica della Cina e di altri Paesi asiatici.

Nonostante gli aiuti e il sostegno ai salari messi in atto dai vari governi per evitare licenziamenti di massa, il tasso di disoccupazione nei Paesi Ocse è salito al 7,25%. In Italia si stima che nel 2019 si siano persi 700.000 posti di lavoro!

L’Ocse teme fortemente quanto potrebbe succedere nel 2021, quando i sostegni alla cassa integrazione potrebbero diminuire nel contesto di una prevedibile ripartenza incerta dell’economia. Una cosa è certa: per parecchio tempo l’occupazione rimarrà sotto i livelli pre-Covid, contribuendo a far lievitare per diversi anni i costi della pandemia e a mettere sotto pressione i salari, i redditi e i consumi.

Inevitabilmente gli investimenti si sono fermati. Nella prima metà dell’anno, nonostante gli effetti negativi sui redditi delle famiglie, i loro risparmi sono addirittura aumentati tra il 10 e il 20%. Probabilmente impaurite dalle oscure prospettive future. Insieme ai vari lockdown, ciò ha provocato un effetto valanga nei settori del turismo, del retail, della ristorazione e di altri servizi. Anche per il 2021 ci si aspetta una crescita del risparmio di circa il 2%. Ovviamente non è un bene.

Realisticamente, uno scenario dell’Ocse per il 2021, rispetto al periodo pre pandemia, prevede una diminuzione del 7% del commercio mondiale, una diminuzione del 12% degli investimenti, un aumento della disoccupazione di 1,7% e una forte deflazione con un’inflazione negativa di almeno 1,25% sui prezzi al consumo. Mediamente, nei paesi avanzati il rapporto debito pubblico/pil dovrebbe crescere del 7,5% entro il 2022.

I mercati finanziari e le borse dovranno, di conseguenza, essere gli osservati speciali. Il citato rapporto prevede che gli choc della pandemia possano determinare una riduzione dell’1% del capitale investito nel business entro la metà del 2021. L’aumento del debito, in particolare quello corporate, potrebbe far salire di almeno 50 punti base, lo 0,5%, il costo del premio al rischio. Globalmente, nel 2021 si stima anche una diminuzione del 10% del prezzo delle azioni e del 15% di quello delle commodity non alimentari. Tendenze negative che, ci si augura, potrebbero essere superate durante il 2022.

Anche i sistemi bancari dovranno affrontare una serie di problematiche, a partire ovviamente dalla crescita dei cosiddetti non performing loans, dei crediti inesigibili. E’ ovvio che le perdite di reddito, di produzioni e di entrate che tutti i settori produttivi stanno subendo, creeranno enormi difficoltà alle famiglie e alle imprese per far fronte ai vecchi e agli eventuali nuovi debiti con le banche.

La situazione tracciata è molto difficile. Ma non è la fine del mondo. Nella storia umana, anche nel secolo da poco terminato, si è stati in grado di rispondere in modo efficace e virtuoso alle catastrofi delle guerre, dei terremoti e di altre pandemie.

Perciò è fondamentale non perdere l’occasione per realizzare le riforme globali necessarie e giuste. Cosa che, invece, i governi non hanno fatto dopo la Grande Crisi del 2008.

Guardando al mondo di oggi e alla necessità di renderlo più equilibrato e integrato, nello spirito della lontana Bretton Woods è opportuno e inderogabile affrontare le sfide del futuro all’interno di una nuova architettura globale da definire insieme, e non solo per tutti i settori dell’economia. In particolare, nel mondo della finanza si dovrà realizzare un moderno sistema del credito produttivo, contrapposto alla devastante deregulation inanziaria e bancaria, che ha creato le ben note bolle speculative di ogni tipo.

Nuovi accordi, secondo noi, sono inevitabili nel commercio mondiale, nel sistema monetario internazionale, nella politica degli investimenti e delle produzioni, definendo le effettive priorità nel campo della ricerca, della sanità, della cultura, dell’ambiente e dell’educazione.

Il Covid, nella sua brutalità, ha dimostrato come la globalizzazione sia una realtà oggettiva e non un progetto geopolitico di qualcuno. Ha costretto i governi e i popoli a cercare forme di collaborazione. Ha provato, in modo drammatico, che siamo effettivamente tutti sulla stessa barca, in un villaggio comune, dove povertà e sottosviluppo non dovrebbero più avere posto.

*già sottosegretario all’Economia **economista

LA SFIDA DELL’EURO DIGITALE

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

E’ in arrivo l’euro digitale. La Banca centrale europea da tempo sta lavorando per studiarne il metodo di emissione e di gestione, In merito ha recentemente pubblicato un rapporto preliminare. In vari paesi europei si stanno portando avanti dei test per verificare la complessità dell’operazione.

Nel vecchio continente si preparano anche i sistemi di “instant payment”, cioè di pagamenti istantanei con disponibilità immediata dei fondi trasferiti, che dovrebbe entrare in funzione entro la fine del 2021. Vari passi e consultazioni pubbliche sono stati fatti per ridefinire le regole, i controlli e tutta la relativa legislazione. Anche per attestare alla Bce il potere di sottoporre a controlli i cosiddetti “technology providers”, coloro che immettono nel sistema le nuove tecnologie fintech relative ai pagamenti e a tutte le altre operazioni finanziarie digitali.

Del resto non si può ignorare il fenomeno della digitalizzazione del sistema dei pagamenti, a cominciare da quelle degli acquisti dei privati. Nel 2019 le persone adulte della zona euro, in media, hanno compiuto due pagamenti al giorno. In un anno il mondo del retail europeo ha registrato 213 miliardi di operazioni di pagamento per un valore stimato in 164.000 miliardi di euro.

Il 73% di tutte le transazioni è stato fatto in cash, pari al 48% del valore in euro, in calo rispetto al 2016, quando i due rapporti erano rispettivamente del 79% e del 54%. Il resto, intorno al 24% del volume e al 41% del valore, è stato fatto con carte di credito.

Due grandi istituti di servizi finanziari e di emissione di carte di credito, VISA e Mastercard, entrambe con sedi negli Stati Uniti, hanno gestito due terzi di tutti i pagamenti con carte di credito nell’Ue. Le due, più la società americana PayPal, che offre servizi di pagamento digitale e di trasferimento di denaro tramite internet, dominano completamente il sistema dei pagamenti online in Europa.

Appare, perciò, doveroso per la Bce e per il Sistema europeo delle banche centrali entrare in campo direttamente nei settori dei pagamenti digitali. Stare alla finestra e guardare come il digitale sta rivoluzionando il mondo dei pagamenti e, in generale della finanza, vorrebbe dire rimanere all’ultimo posto della fila, buono soltanto a gestire eventuali danni e crisi provocate dai grandi operatori finanziari internazionali.

L’euro digitale sarebbe il primo passo, forse il più importante. Con esso l’Eurosystem assicurerebbe ai cittadini europei l’accesso a soluzioni efficienti di pagamento, garantendo al tempo stesso che le transazioni siano sicure. Esso affiancherebbe l’euro, nella forma tradizionale di moneta, mantenendo inalterata la sovranità monetaria.

Si ricordi che le banche centrali di tutti i paesi del mondo stanno creando delle proprie monete digitali, o già operano con esse, In ogni caso l’Europa ne verrebbe invasa e fortemente influenzata e destabilizzata.

Questi movimenti monetari digitali internazionali rischierebbero di rendere vani tutti gli strumenti di controllo e di regole costruiti dalla Bce. Soprattutto perché gli istituti, che dominano il sistema dei pagamenti digitali, sono i leader mondiali nello sviluppo di queste tecnologie e stanno diventando anche i primi operatori dei finanziamenti e del credito. Ciò renderebbe l’Europa vulnerabile e dipendente in un settore tecnologico chiave e sarebbe incapace di gestire moneta e credito, che fino a oggi avviene attraverso il sistema delle banche tradizionali.

Si tenga presente che oggigiorno la quantità di banconote in circolazione nell’area euro ammonta a circa €3.000 pro capite, per un totale di 1.200 miliardi. Si ipotizza una cifra simile di euro digitali che la Bce potrebbe mettere a disposizione, soltanto come mezzo di pagamento, praticamente a costo zero.

La Bce deve, però, “studiare” come evitare che esso diventi una forma d’investimento in concorrenza con altri strumenti finanziari. La Banca centrale non vorrebbe, pare, acquisire depositi in euro digitali. E’ tutto in discussione. E’ anche da definire se i pagamenti con la moneta digitale saranno fatti attraverso i conti tenuti presso la banca centrale oppure in altri modi, direttamente tra chi paga e chi riceve.

L’euro digitale potrebbe diventare accessibile anche fuori dall’eurozona. D’altra parte, si ricordi che già nel 2016 il 30% di tutto il cash in euro circolante era detenuto fuori dai confini europei.

Uno degli aspetti rilevanti dell’operazione riguarda anche il futuro delle banche e del sistema bancario europeo. Un effetto evidente sarebbe la diminuzione dei depositi dei cittadini e delle imprese e quindi la riduzione di tutta una serie di attività a essi correlate. Ci si chiede, tra l’altro, se la Bce dovrà continuare, oltre i tempi di ripresa dalla Grande Crisi e dal Covid, con le varie operazioni di quantitative easing per sopperire alla mancanza di asset da parte delle banche.

Inevitabilmente la discussione riguarda anche l’infrastruttura e i principi su cui si basano le banche centrali, come la definizione dei tassi di interesse e dei livelli di moneta in circolazione.

L’euro digitale, così come le altre monete digitali create dalle banche centrali, avrebbe un valore fisso, sarebbe accessibile universalmente e sarebbe uno strumento valido e legale in tutte le transazioni. Caratteristiche che lo rendono completamente differente rispetto alle monete virtuali create da enti privati. E, naturalmente, manterrebbe la sovranità monetaria dell’Unione europea. Tutte scelte non facili, ma il cammino sembra tracciato.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Le stablecoin: monete private senza controllo?

Le stablecoin: monete private senza controllo?

 Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 La digitalizzazione è indubbiamente un profondo ed efficiente ammodernamento di tutti i settori della società. In particolare dei processi tecnologici, economici e finanziari.

 Anche nei settori dei pagamenti si è avuto un vero a proprio “boom digitale” e sono sottoposti a dei cambiamenti continui, a un ritmo incalzante. L’e-commerce, per esempio, sta celermente soppiantando i tradizionali settori di vendita. Le transazioni e i pagamenti hanno sempre più accantonato l’uso del contante, anche quello della carta di credito di plastica. Oggi si acquista e si paga attraverso specifiche “app” presenti negli smartphone personali.

 Una ricerca della Bce ha evidenziato che, in un breve lasso di tempo, sono state avanzate ben oltre 200 nuove proposte e iniziative nel campo dei pagamenti. Sono dei servizi così innovativi e ambiti dal grande business tanto da essere offerti a titolo gratuito in cambio, però, della disponibilità e della gestione di informazioni e di dati riguardanti i singoli utenti. Naturalmente a discapito della privacy. A proporli sono le cosiddette imprese bigtech, i giganti tecnologici globali, quali Google, Amazon, Facebook e molti altri tra cui la cinese Alibaba. Sono i dominatori assoluti dei listini di tutte le borse valori intenzionali. La loro forza sta non solo nell’abbondanza della liquidità ma anche nel controllo delle piattaforme online, dei social media e delle le tecnologie di comunicazione mobile.

 Tale sistema presuppone l’esistenza di conti correnti coperti da disponibilità o da garanzie reali. Se tenuto sotto un puntuale controllo da parte delle istituzioni di vigilanza, non vi sarebbero rischi o particolari problemi. Anzi, potrebbe agevolare e velocizzare il segmento dell’economia finanziaria e bancaria.

 La cosa, però, cambia completamente quando certe grandi organizzazioni economiche e finanziarie internazionali intendono creare delle monete digitalizzate private. E’ il caso delle cripto valute la cui volatilità, opacità e mancanza di controlli hanno già creato seri rischi alla stabilità dell’intero sistema.

 La storia dei bitcoin docet: valori saliti alle stelle e poi crollati improvvisamente, mentre le banche centrali, incapaci di intervenire, stavano a guardare preoccupate.  

 Adesso sul mercato sono arrivate le cosiddette stablecoin globali. Sono degli strumenti finanziari sviluppati proprio per ovviare alla volatilità delle cripto valute, in quanto il loro prezzo dovrebbe essere stabilizzato rispetto a un asset di riferimento: una moneta, come il dollaro e l’euro, l’oro o altre materie prime, oppure titoli e  indici di borsa. Esse devono avere come sottostante un portafoglio di asset, di “attività di riserva”. In altre parole, le stablecoin sarebbero delle cripto valute ancorate, per esempio, a delle monete garantite dalle tradizionali istituzioni internazionali. Esse hanno già suscitato grande attenzione e curiosità soprattutto quando Facebook ha annunciato di voler attivare la libra, che sarebbe la sua stablecoin globale in grado di operare senza utilizzare i sistemi di pagamenti e di compensazione e senza i vincoli dei regolamenti esistenti.

 Vi sono, poi, altri metodi usati da certe stablecoin, sganciati da affidabili entità centrali, per le quali la stabilizzazione sarebbe data dall’andamento di un algoritmo che detterebbe il comportamento di espansione o di riduzione delle stablecoin stesse. La loro affidabilità è certamente dubbia e molto inferiore, così come quella data dalle cosiddette collateralized stablecoin che usano appunto degli asset digitali come collaterali per garantire la loro emissione. Come al solito non è sempre oro ciò che luccica!

E’chiaro che un’espansione significativa e non regolamentata del loro uso potrebbe produrre effetti negativi e destabilizzanti sul sistema economico.

Lo hanno sottolineato anche il G7 e la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea che hanno definito le stablecoinuna “crescente minaccia alla politica monetaria, alla stabilità finanziaria e alla concorrenza”. Infatti, le loro assicurazioni e garanzie potrebbero non essere sufficienti a far fronte alla richiesta di rimborsi in eventuali situazioni di “run”, di corsa al riscatto da parte dei detentori. Pertanto il loro valore potrebbe “oscillare” molto, “contagiando” l’intero sistema finanziario.

Essendo un vero e proprio meccanismo di pagamento, una inadeguata gestione dei rischi di liquidità, di quelli operativi e cibernetici potrebbe provocare una crisi sistemica.

Inoltre, aspetto non irrilevante, gli emittenti delle stablecoin andrebbero ad aumentare il cosiddetto shadow banking, la cui dimensione da anni ha di molto sorpassato il tradizionale settore bancario. Attraverso un loro eventuale ingente acquisto di titoli influirebbero pesantemente sui mercati, sull’operatività delle stesse banche e sulle politiche monetarie e dei tassi di interesse.

Senza attente e stringenti misure di controllo da parte delle agenzie governative preposte, vi è anche un alto rischio che esse siano vulnerabili all’abuso criminale e all’uso per il riciclaggio e per il finanziamento di attività terroristiche.

In Europa, le varie istituzioni stanno studiando le caratteristiche e gli effetti delle stablecoin con grande attenzione e preoccupazione.

 La Commissione europea intende approntare un regolamento del mercato delle cripto attività, senza il quale giustamente teme effetti incontrollabili e molto destabilizzanti. Le stablecoin dovrebbero  rispettare i requisiti legali, i regolamenti e gli standard previsti per tutti i sistemi e gli strumenti di pagamento.

 La Bce e le banche centrali nazionali stanno elaborando nuove norme relative alla sorveglianza sui sistemi dei pagamenti, soprattutto su quelli elettronici. Per far fronte alla richiesta di innovazione e alla sfida di ineludibili  modernizzazioni, Francoforte pensa di introdurre un euro digitale, affidabile e privo di rischi. Esso affiancherebbe il contante senza sostituirlo, rendendo il sistema dei pagamenti più fruibile, più celere ed efficiente.

 Si ricordi che le stablecoin sono dei mezzi di pagamento emessi da privati. Sono delle valute private, come nel medioevo quando ogni principe, piccolo o grande che fosse, coniava le proprie monete.

 E’ in gioco la sovranità monetaria pubblica! Chi ha il dovere di intendere lo faccia!

 

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

Il Covid tra ricchi e poveri

Il Covid tra ricchi e poveri

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Stranezze da Covid19.

La pandemia ha impoverito molte centinaia di milioni di persone ma, allo stesso tempo, ha fatto di molto arricchire alcune centinaia di “paperoni” già superricchi.

Secondo lo studio “ Riding the storm” (Cavalcando la tempesta) recentemente pubblicato dalla banca svizzera UBS insieme a Price Waterhouse  Coopers, il “consulente contabile” delle grandi multinazionali, la ricchezza di 2.189 persone più ricche al mondo è aumentata dagli 8.000 miliardi di dollari dell’inizio di aprile ai 10.200 miliardi di luglio. In meno di quattro mesi, e nel mezzo dello stravolgimento economico, sociale e sanitaria più grande della storia umana se non si contano le due guerre mondiali, la loro ricchezza è cresciuta di oltre un quarto! Sbalorditivo e allucinante. E’ da notare che il rapporto ha evidenziato che la ricchezza succitata era alla fine del 2017 di 8.900 miliardi di dollari e aveva subito una riduzione significativa nel 2019 e soprattutto nei primi mesi del 2020. Poi la “giostra” è ripartita alla grande a seguito dell’inondazione di liquidità da parte delle banche centrali e dei governi.

Tra questi plurimiliardari primeggiano quelli dei settori delle nuove tecnologie, con un aumento medio del 42,5%, della sanità, con un aumento del 50,3%, dell’informatica e, naturalmente, della vendita online.

Geograficamente, in Cina la loro ricchezza è aumentata del 1.146%, in Francia del 439% e negli Usa del 170%.

In merito, l’ong internazionale Oxfam calcola che nel mondo i duemila mega miliardari detengono il 60 di tutta la ricchezza globale. Una ricchezza più grande di quanto possiedono i 4 miliardi e 560 milioni di persone, pari a oltre la metà della popolazione mondiale. Secondo la ong, le 32 maggiori multinazionali del pianeta nel 2020 aumenteranno i profitti di ben 109 miliardi di dollari.

Secondo l’Institute for Policy Studies americano, da marzo a ottobre 2020 la ricchezza di 644 “paperoni” Usa è aumentata di 931miliardi di dollari. Per esempio, il patrimonio personale di Jeff Bezos, l’amministratore delegato di Amazon, è arrivato a 193 miliardi di dollari, con un aumento del 70% in sette mesi, mentre quello di Elon Musk, il padrone dell’impero tecnologico di Tesla e SpaceX, ha superato i 91 miliardi con un aumento pari a circa il 273%!

E’ contemporaneamente rilevante, invece, notare che le azioni delle quattro maggiori banche americane, la JP Morgan Chase, la Bank of America, la Citigroup e la Wells Fargo, sarebbero del 20-50% sotto i livelli di 12 mesi fa. Ciò rivela un grave problema di tenuta del sistema bancario, nonostante che le borse più importanti siano state, molto artificialmente, mantenute ai livelli più alti di capitalizzazione.

Ne è preoccupato anche il Fmi. Nel suo ultimo rapporto “The world economic outlook” riconosce che il Covid “ ha provocato una crisi economica globale senza precedenti” e che nel 2020 si registrerà una fenomenale contrazione economica mondiale. Pur apprezzando il fatto che le banche centrali abbiano immesso liquidità per 7.500 miliardi di dollari, cui si aggiungono 12.000 miliardi di stimoli fiscali e aiuti di vario tipo da parte di tutti i governi, il Fmi teme l’andamento della gigantesca “bolla del debito”, sia quello esso sovrano degli Stati e sia quello cosiddetto corporate debtdelle imprese.

Ovviamente sono i più deboli ed esposti a farne le spese: le decine di milioni di persone che hanno perso il lavoro e le numerosissime pmi a rischio fallimento nei Paesi cosiddetti avanzati. Per non dire dei numerosi Paesi poveri e delle economie emergenti che sono davanti al collasso e alla bancarotta.

L’aumento della ricchezza di pochi si scontra inevitabilmente con la crescita esponenziale della povertà nel mondo. La Banca mondiale stima che, per la prima volta in venti anni, nel 2020 c’è un notevole aumento della povertà estrema, che potrebbe colpire il 9% della popolazione mondiale. Com’è noto, si definisce povertà estrema quando un individuo vive con meno di 1,90 dollari al giorno.

Il Programma Alimentare Mondiale dell’Onu (PAM), che quest’anno ha vinto il Premio Nobel per la Pace, paventa il rischio di “carestie di proporzioni bibliche”. Secondo la citata organizzazione, 7 milioni di persone sono morte per fame quest’anno e, se non si uscisse dal Covid, il numero potrebbe salire persino di 5 volte. E non deve sorprendere quando afferma che il 60% delle persone che soffrono veramente la fame sta in aree di conflitti militari. Ricordiamoci che 500 milioni di persone vivono in area destabilizzate che vanno dal Sahel al Medio Oriente.

Anche il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, ha ammonito della “minaccia della fame”, in particolare in molte aree dell’Africa, dove i lockdown hanno avuto effetti molto negativi per i produttori, i distributori e i consumatori. D’altra parte, in Africa circa l’80% del cibo è di produzione locale. Una condizione positiva, ma soltanto in tempi di pace e di stabilità. Altrimenti l’insicurezza alimentare, combinata ad altre forme di speculazione, fa lievitare i prezzi. In molti paesi del Sub Sahara nei mesi scorsi si è registrata un’inflazione di circa il 15% dei prezzi dei generi alimentari di base.

I dati, purtroppo, confermano le drammatiche disuguaglianze tra continenti, paesi e popoli. Essi interpellano soprattutto i governanti dei paesi cosiddetti avanzati sulla necessità e l’urgenza di una doverosa politica globale che determini migliori convinzioni di vita e di pace in tutte le parti del mondo.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

Super multa per la JPMorgan per manipolazione dei mercati. Ma tanto poi non cambia niente….

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La JP Morgan Chase, la più grande banca americana, dovrà pagare una multa di 920,2 milioni di dollari, la più salata della storia, per protratte operazioni di manipolazione del mercato. La decisione è stata presa dalla Commodity Futures Trading Commission (Cftc), l’agenzia del governo statunitense che si occupa della regolamentazione dei future e di altri derivati finanziari contrattati sui mercati delle commodity, quelli delle materie prime e dei prodotti alimentari.  Il suo scopo è quello di garantire l’integrità del settore finanziario.

Secondo l’ordinanza della citata Cftc, dal 2008 al 2016 la JP Morgan ha tenuto “una condotta manipolatrice e ingannevole” in particolare nei mercati dei metalli preziosi e dei contratti future legati alle obbligazioni del Tesoro. Di fatto, gli operatori, i trader, della JP Morgan hanno emesso centinaia di migliaia di ordini di acquisto che venivano poi ritirati, cancellati, prima della loro esecuzione. In questo modo hanno stravolto il normale andamento della domanda e dell’offerta, inducendo gli altri investitori a intraprendere azioni finanziarie basate su valutazioni e attese falsate.

In pratica il sistema JP Morgan funzionava in questo modo: gli operatori emettevano ordini farlocchi di acquisto, per esempio, di contratti future sull’oro, i cosiddetti spoof order. Creavano così un “effetto onda”, imitato da altri operatori, per far salire il prezzo dei derivati. Poi, un momento prima di ritirare gli ordini fatti, essi emettevano un ordine vero, il cosiddetto genuine order, con il quale, invece, vendevano il future, il cui valore a quel punto era salito.  

Solo per un dato segmento di operazioni analizzate, è stato appurato che la JP Morgan avrebbe fatto profitti per oltre 172 milioni di dollari mentre gli altri operatori avrebbero avuto perdite per circa 312 milioni.

Nell’ordinanza della Cftc si legge anche che per anni la banca ha disinformato e manipolato la stessa agenzia di controllo, rallentando così ogni possibile intervento di correzione e di sanzione. La JP Morgan non ha potuto nemmeno giustificarsi e scaricare le responsabilità su qualche singolo dipendente “avventuriero”, in quanto i vari dirigenti dei dipartimenti preposti ai mercati erano direttamente coinvolti.

Soltanto nel 2016 la JP Morgan avrebbe iniziato a collaborare con l’agenzia di controllo. Per questa ragione, e ciò è alquanto sorprendente, l’ammontare della multa è stato proposto dalla banca e accettato dalla Cftc. Inoltre, sempre per tale tardiva e discutibile dimostrazione di buona volontà e di cooperazione, l’agenzia non ha chiesto che la banca fosse squalificata e dichiarata bad actor e, quindi, esclusa dai mercati perché “cattivo operatore”. Il che, e non solo secondo noi, sarebbe stata una vera rivoluzione nella finanza.  

Ancora una volta per le banche too big to fail si applica un conveniente accordo di favore. Le multe, anche se apparentemente salate, sono spesso solo una misera percentuale dei profitti fatti illegalmente e fraudolentemente. Il loro patteggiamento, di conseguenza, comporta sempre la fine delle indagini e dei procedimenti legali intrapresi.

In merito, comunque, il Dipartimento di Giustizia e il Procuratore dello Stato del Connecticut stanno istruendo dei procedimenti penali per frode. Anche la Security Exchange Commission (Sec), la Consob americana, l’agenzia federale preposta alla sorveglianza delle attività delle borse valori e alla protezione degli investitori, sta iniziando un caso legale in sede civile. Vedremo se andranno oltre l’imposizione di semplici ammende. C’è poco da sperarci.

Indubbiamente è in corso un profondo dibattito negli Stati Uniti circa l’efficacia delle azioni di controllo e di repressione da parte delle agenzie preposte al funzionamento dei mercati. Infatti, due consiglieri della succitata Cftc, si sono dichiarati non completamente soddisfatti per la mancata applicazione dello status di bad actor per la JP Morgan. Hanno richiesto una maggiore e fattiva collaborazione tra la Cftc e la Sec, che avrebbe l’autorità di escludere dai mercati le banche e gli operatori considerati inaffidabili. “Essenzialmente, hanno detto i due consiglieri, oggi la Sec consiglia alla Cftc quello che la Cftc deve consigliare alla Sec, il cui regolamento, poi, le vieta di fare”, Un “procedimento circolare” che oscura la trasparenza e le responsabilità con uno spreco di risorse. E’ qualcosa che anche in Europa e in Italia dovremmo imparare, circa le nostre varie agenzie di controllo.

La gravità dell’affaire della JP Morgan va ben oltre il caso in sé. La manipolazione dei mercati delle commodity non ha soltanto una valenza finanziaria. In questi mercati vengono contrattate le derrate e le risorse più importanti per l’economia e per la vita dei popoli e dei singoli cittadini: il cibo, l’energia, e tutte le materi prime che entrano nei settori produttivi dell’economia reale.

Non ci si può dimenticare dei picchi d’inflazione relativi ai prezzi del grano, del riso o del petrolio che, più volte in questi primi venti anni del ventunesimo secolo, hanno stravolto intere nazioni e impoverito, spesso fino alla fame, centinaia di milioni di persone.

Su problemi di tale portata non si dovrebbe né mettere la testa sotto la sabbia per non vedere né usare la mano leggera quando si scoprono comportamenti illegali. Essi, di solito, sono alla base di scandalosi arricchimenti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

L’enciclica “Fratelli tutti” e l’economia

L’enciclica “Fratelli tutti” e l’economia

 

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 

La recente enciclica “Fratelli tutti” aprirà inevitabilmente un profondo e vivace dibattito, in tutti i settori della società, non solo all’interno delle gerarchie vaticane. Ben venga, ce n’era bisogno.

 

E’ una sfida forte al pensiero unico che la globalizzazione, economica, finanziaria e culturale, ha silenziosamente imposto nel mondo in questi ultimi decenni.

 

Senza sottovalutare il suo richiamo etico, morale, oltre che religioso, noi laicamente ne vorremmo evidenziare alcuni aspetti che toccano l’economia e l’organizzazione sociale. La pandemia, ha detto Papa Francesco, ha evidenziato la frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che toccano tutti, nonostante l’iper-connessione.

 

Tale frammentazione sembra in contraddizione con la globalizzazione. In realtà, il Papa dice che l’espressione ”aprirsi al mondo” è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza. Essa, però, “si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri e alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi”.

 

Il pensiero unico sembra unificare il mondo ma in realtà divide le persone, le nazioni e i continenti. Mentre nella società umana si indebolisce la dimensione comunitaria, “aumentano piuttosto i mercati, dove le persone svolgono il ruolo di consumatori o di spettatori”. Dove il più forte s’impone e protegge i propri interessi a discapito dei più deboli e poveri. Ovviamente, “in tal modo la politica diventa sempre più fragile di fronte ai poteri economici transnazionali che applicano il divide et impera”.  

 

L’aspirazione al dominio dei più forti, dei mercati, mira a “demolire l’autostima” degli altri. “Da ciò traggono vantaggio  l’opportunismo della speculazione finanziaria e lo sfruttamento, dove i poveri sono sempre quelli che perdono”, ammonisce Papa Francesco.

 

L’enciclica è una forte e precisa critica al liberismo economico, quale proiezione dell’individualismo più radicale.  Tanto che nel testo si dice che “la mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità”. Ci si ingannerebbe se pensassimo che “accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune.”

 

Secondo noi, questa falsità è la base dell’ideologia e della cosiddetta teoria del liberismo economico radicale. E’ stata elaborata già all’inizio del 1700 nel libro “La favola delle api: ovvero, vizi privati, pubbliche virtù” di Bernard de Mandeville. L’autore descrive la vita dell’alveare.  «Essendo così ogni ceto pieno di vizi, tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità, era adulata in pace, temuta in guerra.. I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica”. Ma, scriveva Mandeville, quando le api vollero diffondere per tutto l’alveare l’onestà e la giustizia, allora la vanità e il lusso, che davano lavoro e commercio, diminuirono e con essi anche la prosperità dell’alveare. 

 

“Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa.”, sentenziava Mandeville.

 

Non si tratta evidentemente di una semplice favola per grandi. E’, invece, la giustificazione di una società ingiusta che ha avuto, però, una grande influenza su molti studiosi di economia, a partire da Adam Smith, del quale la “mano invisibile” regolerebbe in modo autonomo e automatico l’andamento dei mercati. 

 

In merito Papa Francesco fa sentire la sua voce. “Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del “traboccamento” o del “gocciolamento” – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’iniquità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale”, afferma.

 

“La fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato”, ricorda ancora l’enciclica, denunciando che “la speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage.”

 

Come anche noi più modestamente abbiamo spesso scritto, il Papa ripete che «la crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale”. Purtroppo non c’è stato un ripensamento delle politiche economiche e sociali che governano il mondo!

 

L’enciclica, giustamente, vuole proporre una riforma nei rapporti economici e politici a livello globale. Poiché “ la società mondiale non è il risultato della somma dei vari Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi”, serve “una nuova rete nelle relazioni internazionali”. Pertanto nel testo si afferma: “E’ necessaria una riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni”.

 

Secondo Papa Bergoglio un’iniziativa urgente riguarda il debito dei paesi più poveri. Egli chiede che “si assicuri il fondamentale diritto dei popoli alla sussistenza e al progresso, che a volte risulta fortemente ostacolato dalla pressione derivante dal debito estero. Il pagamento del debito in molti casi non solo non favorisce lo sviluppo bensì lo limita e lo condiziona fortemente”.

 

Il secolo XXI registra un’evidente perdita di potere degli Stati nazionali a causa dei caratteri transnazionali che oggettivamente ha l’odierna attività finanziaria, limitando così il ruolo della politica e le stesse scelte dei singoli governi. In questo contesto, l’enciclica afferma che “diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del potere di sanzionare.”

 

Il testo è d’indubbio valore, per molti versi rivoluzionario, sicuramente stimolante per quei governanti che hanno ancora a cuore il destino non solo de proprio Paese ma anche quello del mondo in questo terzo millennio.

 

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

 

Il coinvolgimento delle grandi banche in traffici illeciti

Il coinvolgimento delle grandi banche in traffici illeciti

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij) è al centro dell’attenzione dei media perché è entrato in possesso di 2.500 pagine di segnalazioni di attività sospette (SAR) riguardanti le banche. Trattasi di documenti riportati, tra il 1999 e il 2017, alla Financial Crimes Enforcement Network (FinCEN) del Departimento del Tesoro americano che li ha resi parzialmente pubblici. La FinCEN è l’agenzia governativa con il compito di combattere il riciclaggio di denaro.

Sono gli stessi giornalisti che nel 2016 hanno pubblicato i cosiddetti “Panama Papers”, e hanno fatto emergere lo scandalo di vaste attività relative a evasioni fiscali e al riciclaggio dei soldi sporchi con il coinvolgimento di grossi personaggi e di banche internazionali.

Adesso, emergerebbe, ancora una volta, una vastissima rete di traffici illegali e di movimenti di denaro riciclato per il traffico di droga e di armi e per evitare controlli e tasse attraverso società fittizie e finanche per il finanziamento del terrorismo. C’è di tutto e di più: coinvolgimento di discussi personaggi russi e ucraini, pericolose operazioni in Venezuela e in Malesia, finanche alcune operazioni per conto di Paul Manafort, l’ex manager della campagna elettorale di Donald Trump,attualmente in carcere per frode fiscale e bancaria. Sono tutte segnalazioni che, comunque, sarebbero dovuto essere indagate per arrivare a eventuali condanne.

 I documenti identificano le responsabilità di cinque banche globali: due americane, la JP Morgan, prima banca Usa, e la Bank of New York Mellon, due inglesi, la Hong Kong Shangai Bank Corporation (HSBC), la maggiore banca europea,  e la Standard Chartered Bank e la tedesca Deutsche Bank. Le transazioni sospette di riciclaggio e per altre attività illegali ammonterebbero a oltre 2.000 miliardi di dollari!

Sembra un ammontare stratosferico ma i file resi pubblici rappresenterebbero meno dello 0,02% degli oltre 12 milioni attività sospette che le differenti istituzioni finanziarie hanno riportato alla FinCEN nel periodo 2011-17.

Sono molti gli aspetti inquietanti in questa scandalosa storia. Vorremmo evidenziarne due che, secondo noi, meriterebbero una particolare attenzione.

In primo luogo c’è il ruolo della Deutsche Bank che, secondo i documenti, deterrebbe il peggior primato con ben 1.300 miliardi di dollari in transazioni sospette. E’ la seconda volta che la banca tedesca scala la piramide negativa: lo aveva già fatto quando è diventata il numero uno al mondo per i derivati finanziari over the counter, noti strumenti speculativi sempre più aleatori e di difficile, complicata e rischiosa gestione.

La stampa tedesca torna a chiedersi cosa stia realmente succedendo da molti anni in questa banca che porta il nome della Germania nel suo logo. Anche secondo noi i continui riferimenti ai coinvolgimenti della DB in operazioni di vario tipo sono motivo d’imbarazzo e di vergogna per l’intera Europa, non solo per la Germania. Ci si chiede come sia possibile che, anno dopo anno e scandalo dopo scandalo, le autorità tedesche e quelle europee non siano ancora riuscite a costringere la banca a ripulire veramente i suoi comportamenti e tornare a essere una delle maggiori banche promotrici di grandi progetti industriali e di sviluppo reale, come ai tempi del presidente Alfred Herrhuasen, prima che fosse ucciso dai terroristi. 

Il secondo aspetto riguarda i comportamenti assai discutibili delle banche coinvolte. Da anni, nonostante fossero state pesantemente accusate, condannate e sanzionate dalle autorità di controllo, quasi sempre americane, esse hanno continuato indisturbate a fornire i propri servizi per operazioni sporche, illegali e di riciclaggio. Gli esempi non mancano.

Secondo le analisi pubblicate, nel 2012 l’HSBC, per bloccare il procedimento criminale, ammise di aver riciclato 881 milioni di dollari per un cartello della droga latino-americano e pagò un’ammenda di 1,9 milioni. Le accuse sarebbero state cancellate definitivamente qualora la banca avesse dimostrato di partecipare alla lotta contro il riciclaggio nei successivi cinque anni. I file dell’Agenzia americana proverebbero, invece, che l’HSBC, violando il patteggiamento, non solo ha continuato nelle operazioni di riciclaggio di soldi sporchi ma sarebbe stata implicata in una grande “piramide finanziaria” che coinvolgeva parecchi Paesi.

Lo stesso sarebbe avvenuto con la Standard Chartered, accusata di aver favorito transazioni finanziare verso gli Usa da parte di clienti dell’Arab Bank legati alle reti terroristiche. Sebbene multata per 670 milioni di dollari, avrebbe continuato con simili operazioni anche durante il “periodo di buona condotta”. Anche le altre banche menzionate, compresa la Deutsche Bank, hanno mantenuto lo stesso comportamento. Accusate di attività illecite hanno pagato le multe per bloccare le sanzioni penali continuando imperterrite a operare as usual.

Certo è molto conveniente pagare la multa di 1dollaro per 100 incassati illegalmente. Ma, in merito, il controllo dei governi e delle agenzie preposte è indipendente e davvero stringente? Poiché la pandemia sta mettendo a soqquadro tutti i sistemi, economici, sociali e sanitari, non si capisce perché la grande finanza resti intoccabile.

Naturalmente le banche hanno spesso dichiarato di non conoscere l’identità dei correntisti finali. E’ singolare che oltre il 20% dei rapporti inviati alla FinCEN abbiano un cliente con un indirizzo presso le Virgin Islands britanniche, uno dei più grandi paradisi fiscali al mondo.

In conclusione, si ricordi che anche per l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC), non meno di 2.400 miliardi di dollari di denaro illecito sarebbero riciclati ogni anno. Sono dati sconvolgenti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

 

 

La pericolosa bolla del “corporate debt”.

La bolla del corporate debt

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

E’ indubbio che la pandemia abbia messo in serie difficoltà moltissime imprese. In particolare quelle di piccola e media dimensione, che hanno bisogno di sostegni concreti e veloci. E’ doveroso e opportuno, però, distinguerle nettamente da quelle società di più grandi dimensioni che in passato hanno approfittato, creando in modo speculativo la pericolosissima bolla del cosiddetto corporate debt. Queste ultime, guarda caso, oggi sono in prima fila a chiedere gli aiuti di stato.

La società americana Janus Henderson, tra le più grandi al mondo nella gestione di capitali con quasi 300 miliardi di dollari di assets under management, ha recentemente pubblicato il suo primo rapporto annuale, il Corporate Debt Index (JDCDI). La società ha sede a Londra ma è quotata a Wall Street. L’indice coinvolge 900 delle maggiori corporation internazionali non finanziarie e non immobiliari. E’ concentrato soprattutto sul settore corporate bond, quello delle obbligazioni.

Il debito delle imprese, oltre che attraverso l’emissione di obbligazioni, può essere aumentato anche con altri “veicoli”, tra cui il prestito bancario. Quest’ultimo sistema, per esempio, è sicuramente prevalente in Europa, in Giappone e in altri paesi dell’Asia. L’altra possibilità è l’emissione di nuove azioni. Essa, però, è ritenuta di solito più costosa e politicamente più complicata rispetto all’emissione di nuove obbligazioni di debito.

Secondo l’Index, nel 2019, senza Covid quindi, il debito corporate in bond, al netto del cash, aveva raggiunto il totale record di 8.300 miliardi di dollari con un aumento annuo di 625 miliardi, pari all’8,1%.

Da sole 25 corporation hanno accresciuto il loro debito in obbligazioni di 410 miliardi. Gli Usa detengono il 51% del totale e l’Unione europea il 23%. In Europa la Germania ha il 38%, l’Italia il 9%.

Secondo l’agenzia Standard&Poors, solo il mercato delle obbligazioni corporate sarebbe globalmente di circa 13.000 miliardi di dollari, tre quinti dei quali negli Usa.

La somma succitata non considera la liquidità presente in certe società. Infatti, alcune corporation americane, come Alphabet proprietaria di Google con 104 miliardi di cash, sono strapiene di liquidità, per cui i debiti sono sicuramente di dimensione maggiore.

La società più indebitata è la tedesca Volkswagen, con un’esposizione quasi pari al debito di nazioni come il Sud Africa e l’Ungheria. Cinque delle prime dieci imprese più indebitate sono del settore dell’auto. Le case automobilistiche tedesche VW, Daimler e Bmw insieme contano ben 762 miliardi di dollari di corporate debt. Non a caso nella lista per nazioni la Germania è seconda, dopo gli Usa.

L’indebitamento delle imprese italiane incluse nell’indice è cresciuto più lentamente. Il comparto delle utilities è quello con un indebitamento maggiore.

Il rapporto succitato stima che nel 2020 l’aumento del corporate debt sarà di oltre mille miliardi, il12% in più! Il 2020 sarà un anno horribilis poiché si prevedono una forte caduta dei profitti e, di conseguenza, una maggiore difficoltà nei pagamenti degli interessi sui debiti.

I tassi d’interesse molto bassi e la crescente assunzione del rischio da parte delle imprese hanno indubbiamente favorito la crescita dell’indebitamento. I capitali raccolti sono stati destinati principalmente all’acquisizione di altre imprese. Ben 9 delle 10 imprese che hanno maggiormente aumentato il loro indebitamento, hanno usato i fondi per tale scopo.

Alcuni hanno riacquistato le proprie azioni sul mercato. Si tratta di un fenomeno tipicamente americano: le imprese hanno speso globalmente oltre 710 miliardi di dollari in simili operazioni.  La metà delle quali, secondo Goldman Sachs, sarebbe stata fatta con nuovi debiti.

Neanche a dirlo spesso i debiti aumentano per distribuire dividendi agli azionisti in misura maggiore rispetto a quanto effettivamente realizzato. Il Fondo Monetario Internazionale ha denunciato queste pericolose e fuorvianti operazioni.

Agli investimenti sono andati soltanto gli spiccioli rimasti. Tutte queste situazioni di solito determinano in poco tempo crisi recessive. Si tenga presente che nel 2019 gli utili si sono già ridotti per le tensioni sul fronte commerciale e per la decelerazione dell’economia mondiale, ancora in corso.

In sintesi, le preoccupazioni degli analisti derivano dal fatto che negli ultimi 5 anni la crescita degli indebitamenti ha ampiamente superato quella degli utili. Il rapporto tra il debito netto (senza il cash) e il profitto è passato dal 251% del 2014 al 310% del 2019.

Riteniamo che, senza ledere l’autonomia delle attività imprenditoriali, le autorità preposte debbano verificare i bilanci effettivi per evitare fallimenti, licenziamenti e i riverberi negativi sull’intera economia dei singoli paesi.

*già sottosegretario all’Economia **economista