Greensill: un altro inganno per i risparmiatori?

 Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

Greensill come la crisi dei subprime? Ancora una classica operazione speculativa, con possibili pericolose conseguenze sistemiche.

Nei giorni scorsi il gruppo finanziario Greensill ha portato i suoi libri contabili in tribunale a Londra e dichiarato insolvenza. Greensill Capital è un fondo londinese che porta il nome del suo fondatore.

La sua “mission” iniziale era la finanza della supply-chain: anticipare il pagamento delle fatture, emesse da clienti e fornitori minori nei confronti delle grandi corporation, garantendo loro incassi più celeri. I fornitori erano contenti di ottenere i pagamenti dovuti e, quindi, di sottrarsi ai tempi lunghi delle corporation. In seguito, la Greensill Capital portava le fatture all’incasso presso le grandi imprese, ottenendo naturalmente un certo premio. Queste ultime vedevano, con soddisfazione, allungarsi i tempi di pagamento. Purtroppo, però, non tutti i bilanci delle imprese coinvolte erano, e sono, trasparenti e solidi.

Il sistema veniva propagandato come una “democratizzazione del capitale e della finanza”.

Ovviamente, la “monetizzazione” degli asset acquisiti (le fatture da incassare) veniva trasformata in investimenti o in crediti per altre imprese. Ancora più importante era la cartolarizzazione delle fatture acquisite che venivano “impachettate” con altri prodotti finanziari e titoli vari da piazzare agli investitori, in particolare quelli istituzionali. Proprio come accadde negli Usa con i subprime prima della Grande Crisi.

Il sistema veniva internazionalizzato con una rete finanziaria, attraverso la creazione di istituti e di banche, la realizzazione di rapporti con grandi organismi finanziari e assicurativi e la partecipazione attiva in importanti operazioni di finanziamento  o di acquisizione di altre corporation. 

Ciò è avvenuto con la “benedizione” della City, del governo di Londra e persino della Casa Reale britannica. Lex Greensill è stato consulente speciale per gli affari finanziari del governo di David Cameron, il quale nel 2018 ebbe l’incarico di special adviser della Greensill Capital. A coronamento di tutto ciò, la regina Elisabetta II nel 2017 nominò Lex Greensill “Comandante dell’Ordine dell’Impero Britannico”. Il cerchio magico si era così chiuso.

Di fronte a un così promettente pedigree, gli investitori sono stati pronti a partecipare all’affaire. Prima il fondo americano di private equity, General Atlantic, poi il conglomerato industriale-finanziario giapponese, SoftBank Group. Intanto, il valore di mercato della società aumentava quotidianamente. Del resto, oggi si stima in 55.000 miliardi di dollari il mercato supply-chain.

Con la cartolarizzazione, i “titoli salsiccia”, ovviamente con rendimenti superiori a quelli delle normali obbligazioni di Stato, sono stati piazzati a importanti clienti, tra cui la Global Asset Management (GAM), società di gestione patrimoniale svizzera. Anche il Credit Suisse  ne avrebbe comprato per i propri clienti per almeno 10 miliardi di dollari.

Per rendere i titoli più attraenti era necessario che fossero coperti da importanti compagnie assicurative internazionali. E qui entrò in campo la giapponese Tokyo Marine, che l’anno scorso, verificata la mancanza di solidità della Greensill Capital, decise di non rinnovare le garanzie assicurative su 4,6 miliardi di dollari di crediti.

 Nel 2014, Greensill Capital acquistò una banca tedesca, la Nordfinanz Bank AG di Brema, poi Greensill Bank AG, usata per espandere le operazioni della casa madre in molti settori e per raccogliere fondi anche da piccoli risparmiatori.

L’iniziale affidabilità della banca ha spinto molti comuni e altri enti pubblici tedeschi a investire in questi “titoli salsiccia”. Ora, purtroppo, la banca è esposta per oltre tre miliardi di euro. Perciò la Bafin, l’equivalente della nostra Consob, è stata costretta a sospendere la licenza e a fermare tutte le operazioni finanziarie della banca.

Le conseguenze globali dell’insolvenza della Greensill Capital sono tutte da verificare. Il rischio sistemico deve essere ancora misurato. La vicenda segue altri casi simili, come quelli di Wirecard e di GameStop.

Il ripetersi di questi disastri finanziari speculativi ripropone l’urgenza di una seria riforma del sistema finanziario internazionale e, comunque, almeno di un coordinamento tra le agenzie di controllo per tutelare i risparmiatori e i settori delle economie reali.

 *già sottosegretario all’Economia
**economista

 

 

Rischi finanziari anche per la Cina

 Mario Lettieri*  Paolo Raimondi**

 Anche la Cina sta facendo i conti con le sue bolle finanziarie, create nei passati due decenni con la scadente applicazione del modello finanziario speculativo americano. Perciò è scesa in campo la potentissima China Banking and Insurance Regulatory Commission, l’agenzia governativa di controllo sulle attività bancarie e assicurative, attraverso il suo presidente Guo Shuqing, manager competente e uomo forte del Partito Comunista Cinese. Il problema numero uno è il rischio rappresentato dal debito corporate cinese e del crescente stock di non performing loans, i crediti inesigibili delle imprese. 

 Secondo l’International Capital Market Association, l’associazione degli investitori nel fixed income, il mercato obbligazionario cinese interno in yuan, è equivalente a circa 15.000 miliardi di dollari, il secondo al mondo dopo quello Usa. La parte strettamente relativa al debito corporate non finanziario sarebbe pari a 3.700 miliardi di dollari. Il mercato obbligazionario cinese offshore è di 752 miliardi di dollari. E’ in grande crescita e legato soprattutto al settore immobiliare.

Il 2020 è stato l’anno che ha certamente “shoccato” la Cina e i mercati internazionali per i debiti corporate interni: circa 40 fallimenti per 30 miliardi di dollari, il 14% in più rispetto al 2019. Anche 12 imprese cinesi offshore sono fallite coinvolgendo obbligazioni per 7 miliardi di dollari. Ciò sta provocando forti preoccupazioni per una possibile crisi del debito nel periodo post Covid. Infatti, nel 2021 bond per 7,1 trilioni di yuan (6,5 yuan sono equivalenti a 1 dollaro) arriveranno a scadenza sul mercato interno. Alcune delle imprese fallite sono delle controllate dallo Stato e ciò solleva dubbi anche sulla garanzia, finora certa, di salvataggi pubblici. 

Nel recente incontro con la stampa, Guo Shuqing ha dato un quadro preoccupante della situazione: “Nel 2020, il rimborso di 6,6 trilioni di yuan di prestiti è stato differito”. Per quanto riguarda gli NPL (Non Performing Loans, in italiano “crediti deteriorati”) ha detto:”Un numero considerevole di imprese potrebbe dover affrontare una riorganizzazione o liquidazione fallimentare.Pertanto, l’aumento dei crediti in sofferenza è una tendenza inevitabile.Nel 2020, abbiamo ceduto 3.02 trilioni di yuan di attività deteriorate.È possibile che i crediti in sofferenza aumentino nel 2021 e anche nel 2022.”. 

Guo Shuqing ha annunciato alcuni programmi d’intervento e illustrato i risultati già ottenuti. In primo piano vi è la riduzione dell’elevato effetto leva all’interno del sistema finanziario, che aveva visto una pericolosa crescita nel periodo 2017-19. Sarebbe in atto lo smantellamento del settore bancario ombra, la cui portata è diminuita nel 2020 di circa 20 trilioni di yuan. All’inizio dell’anno il totale era di 85 trilioni di yuan, pari all’86% del pil cinese.

La Regulatory Commission teme che alcune attività ad alto rischio dello scado banking possano ripresentarsi sotto forma di pseudo “innovazioni”. Perciò, per l’internet private banking, saranno applicate le stesse regole di adeguatezza patrimoniale e di garanzie valide per il settore bancario.

Guo ha ammesso che “nel settore immobiliare la finanziarizzazione e la tendenza a diventare una bolla sono ancora relativamente forti, anche se nel 2020 il tasso di crescita dei prestiti investiti nel real estate è sceso per la prima volta sotto quello medio dei prestiti”. E’ un pericoloso “rinoceronte grigio”, perché “molte persone comprano case non per abitarci, ma per investimenti o per speculazioni. Se in futuro il mercato dovesse scendere, potrebbero esserci grandi perdite e i prestiti non sarebbero rimborsati, mandando le banche e l’intera economia in sofferenza.”. Usa docent.

Guo, inoltre, ha spostato l’attenzione sui mercati finanziari negli Usa e in Europa che opererebbero “in contraddizione con l’economia reale”. “Il mercato finanziario dovrebbe riflettere lo stato dell’economia reale, ha detto, altrimenti sorgeranno problemi e sarà costretto alla fine ad adeguarsi. Pertanto, siamo molto preoccupati per il giorno in cui scoppierà il mercato finanziario, in particolare la bolla delle attività finanziarie estere.”.

Considerazioni corrette, che valgono anche per i comportamenti finanziari della Cina e per i rischi sistemici che stanno creando. Alla fine, in Cina o negli Usa, in Africa o in Europa, la finanza speculativa è sempre un pericolo per l’economia reale.

 *già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

Le vergogna dello Stato italiano: NON assegna le medaglie d’oro, e la pensione, al personale sanitario che nella lotta al Covid ci ha rimesso la vita e che viene proposto per il Premio Nobel per la Pace..

Sorvoliamo sul fatto che non si vede cosa c’entri la Pace con la lotta al Covid. Non sorvoliamo invece sull’ipocrisia dello Stato italiano e annessa presidenza.
https://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/premio-nobel-per-la-pace-a-medici-e-infermieri-italiani-la-proposta-ce-ma-dallo-stato-italiano-niente-medaglia-3259504/

Tether: la stablecoin senza stabilità. Notizie taroccate e giornalismo tv italiano irresponsabile

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

 Ecco un’altra grave prova di come le notizie possono essere interpretate a proprio vantaggio.

“Tether Ltd e Bitfinex esprimono grande soddisfazione per aver raggiunto un accordo legale con il Procuratore generale di New York. E nell’accordo non ammettiamo alcun illecito”. Così recita il comunicato ufficiale delle due societàsuccitate, registrate a Hong Kong, che operano nel settore delle criptovalute.

L’ufficio del Procuratore generale, invece, afferma che le società menzionate “ hanno coperto in modo sconsiderato e illegale enormi perdite finanziarie per proseguire nelle loro attività… L’affermazione di Tether Ltd, secondo cui la criptovaluta fosse stata sempre e completamente sostenuta da dollari Usa, è falsa”.

Le società dovranno pagare una multa pari a 18,5 milioni di dollari e non potranno operare con persone e aziende dello Stato di New York. Ciò, purtroppo, non preclude loro di presentare l’intera faccenda come una grande vittoria in quanto, pagata l’ammenda, sono libere di continuare a operare indisturbate nel resto del mondo. D’altra parte esse affermano che, durante i due anni e mezzo di conflitto legale, le loro operazioni sono passate da 2 a 35 miliardi di dollari. Come già successo più volte in passato, i buoni avvocati sanno come “interpretare” le leggi e “barattare” condanne più severe con l’applicazione di attenuanti e con delle semplici multe pecuniarie. Il procuratore generale, in ogni caso, comprendendo la rischiosità di simili operazioni, ha aperto un nuovo dossier legale per comportamenti fraudolenti di un’altra piattaforma di trading di cripto valute, la Coinseed.

Il tether è una cosiddetta stablecoin, una delle criptovalute agganciate a delle monete reali, come il dollaro e l’euro. Per esempio, 1 tether equivale a 1 dollaro e la riserva in dollari deve coprire il 100% dei tether in circolazione. La Tether Ltd emette la suddetta stablecoin e lavora in partnership con la piattaforma di scambi online, Bitfinex. Entrambe sono controllate dalla società madre, la Finex Inc. Collegate a loro vi sarebbe anche la Tether Holdings Ltd con sede nelle Isole Vergini britanniche, uno dei più noti centri finanziari off shore. Esse vantano anche l’italiano Giancarlo Devasini come loro chief financial officer. Il tether è lo strumento più usato per acquistare i bitcoin. Come le altre cripto valute, il tether, sfruttando la cosiddetta “tecnologia blockchain”, consente di archiviare, inviare e ricevere valori digitali da persona a persona, a livello globale, in modo istantaneo e senza intermediari.

Le indagini erano partite nel 2017. La Tether Ltd e la Bitfinex, avrebbero operato in modo “oscuro” e con grandi rischi per gli investitori. Nel 2018 avrebbero fatto dichiarazioni false per oscurare un ammanco di almeno 850 milioni di dollari, frutto di un’operazione opaca con la shadow bank panamense CryptoCapital, poi fallita. Era emerso che Tether Ltd non aveva alcun accesso a servizi bancari, in nessuna parte del mondo e quindi non c’erano le riserve per sostenere la parità di un dollaro per ogni tether in circolazione. Poche ore prima della certificazione ufficiale delle reali riserve in dollari di Tether Ltd, Bitfinex le concesse un prestito di 400 milioni e poi una linea di credito di 900 milioni di dollari. In seguito, le due società aprirono un altro contro presso la Deltec Bank alle Bahamas per 1,8 miliardi di dollari. Ottenuta la certificazione, gran parte dell’ammontare, manco a dirlo, fu subito trasferito altrove.    

Nel 2017 in occasione di un simile controllo, esse avevano aperto un conto presso la Noble Bank di Puerto Rico su cui furono versati 382 milioni di dollari. Guarda  caso era lo stesso giorno durante il quale si doveva ufficialmente certificare l’ammontare delle riserve in dollari di Tether Ltd.  La criptovaluta tether gioca un grande ruolo negli acquisti di bitcoin: più di due terzi di tutte le operazioni quotidiane. Il prezzo dei bitcoin, quindi, non è fissato in rapporto al dollaro, ma a stablecoin. Il mercato delle criptovalute a livello mondiale ha già raggiunto 1.400 miliardi di dollari. Il valore dei bitcoin è molto volatile: può salire o scendere alla velocità della luce o di qualche clic sui computer. Le banche centrali e le autorità di controllo sono preoccupate e starebbero approntando un’adeguata vigilanza.

E’ singolare ed irritante vedere tutte le reti tv italiane parlare in modo acritico dei record dei bitcoin some se fosse un gioco.  

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

Torna la paura dell’inflazione?

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Gli ambienti economici internazionali più attenti alle possibili tendenze future  incominciano a porsi delle domande rispetto al pericolo di una ripresa dell’inflazione. Temono che possa superare il target ottimale d’inflazione del 2%. La preoccupazione maggiore riguarda gli Stati Uniti. Lungi da noi l’idea di introdurre un altro elemento di tensione e di paura in una situazione già sovraccarica di problemi. Ci sembra, però, doveroso riflettere sulle conseguenze di alcune decisioni, che, se pur necessarie, meritano di essere tenute sotto controllo.

Nei giorni scorsi il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, ha voluto rassicurare i mercati che il recente aumento dei tassi di rendimento dei Treasury bond rifletterebbero l’ottimismo per la ripresa economica e non l’attesa di una ripresa inflazionistica. Ci sembra, però, opportuno rilevare che storicamente la crescita dell’inflazione è sempre stata legata all’eccessiva offerta di liquidità rispetto alla domanda. Ciò che governi e banche centrali hanno fatto nel 2020 e si apprestano a fare nel 2021, per contenere gli effetti gravemente recessivi della pandemia, è di grande rilievo. Negli Usa la Fed ha immesso liquidità portando il suo bilancio a oltre 7.600 miliardi di dollari, un aumento di quasi 3.500 miliardi.

Il governo di Washington ha stanziato fondi pubblici per sostenere l’economia e l’occupazione portando il deficit annuale al 17% e il debito pubblico americano ai massimi livelli, pari al 132% del pil. Inoltre, Biden ha appena annunciato altri 1.900 miliardi per far fronte all’emergenza Covid e preparebbe un altro deficit del 9%. Da febbraio 2020 a oggi l’indice M2, che misura la disponibilità di moneta e di altre attività finanziarie molto liquide, è cresciuto del 26%, l’aumento più forte nell’intera storia americana. L’Europa ha fatto una simile politica.

 E’ importante evidenziare la situazione degli Stati Uniti, anche perché ciò che avviene in quel Paese ha sempre forti ripercussioni nel resto del mondo, in primis in Europa. 

Negli Usa molti negano la crescita dell’inflazione. Nel 2020, dicono, c’è stata una deflazione, con una perdita di Pil e un aumento annuo dei prezzi inferiore all’1,4%. Se è vero ‘è da chiedersi dove sia andata tutta la liquidità messa a disposizione. Certo, una parte, per fortuna, ha permesso alle famiglie e alle piccole imprese di superare l’emergenza. Una grande parte, però, è finita in Borsa. Negli Usa, da marzo a fine 2020 il Pil ha perso il 3,5% mentre l’indice Dow Jones ha guadagnato il 65%! Anche il risparmio delle famiglie è cresciuto a dismisura: a settembre 2020, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, è stato di 2.200 miliardi di dollari in più. Gli sviluppi e gli effetti sono alquanto incerti. “C’è una possibilità che uno stimolo macroeconomico, su una scala più vicina ai livelli della seconda guerra mondiale che ai normali livelli di recessione, inneschi pressioni inflazionistiche di un tipo che non abbiamo visto in una generazione”, ha avvertito Larry Summers, già segretario al tesoro con Clinton.

Dopo i vaccini e i lockdown, i menzionati risparmi potrebbero trasformarsi in un’intensa domanda di consumi di beni e servizi. Il che potrebbe portare a una fiammata dell’inflazione. Il rifinanziamento di un debito cresciuto enormemente potrebbe richiedere un aumento dei tassi d’interesse offerti per trovare gli acquirenti.  I prezzi delle materie prime sono già in movimento, nonostante le produzioni siano inferiori a quelle pre pandemia. Ad esempio il prezzo della benzina negli Usa è tornato ai livelli dell’inizio del 2020, nonostante che la gente viaggi molto di meno. Nel 2020 il prezzo del rame è salito del 56%, quello della soia del 54%, del legname del 117% e quello dei noli per il trasporto di merci del 215%.

In Europa cresce una certa preoccupazione, espressa soprattutto da economisti tedeschi che hanno sempre il terrore dell’esperienza della Repubblica di Weimar. Anche l’economista capo della Bce ai tempi di Mario Draghi, Peter Praet, avverte la necessità di prepararsi ai nuovi scenari. E’ un’analisi condivisa anche da Jens Weidmann, capo della Bundesbank.

La domanda che sta circolando è: la Fed e le altre banche centrali stanno pensando adeguatamente all’inflazione? Speriamo di sì, purché non pensino solo all’inflazione ma anche all’occupazione e allo sviluppo.

 *già sottosegretario all’Economia **economista

 

 

 

 

Draghi e la questione del debito

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La pandemia e il 2020 hanno cambiato in modo profondo, forse definitivo, alcune idee di un certo liberismo economico, che è stato dominante nei passati quattro decenni.

Per far fronte all’emergenza, si è dovuto mettere da parte l’approccio del rigore a tutti i costi e dell’austerità come toccasana dei bilanci. Si è riscoperto, invece, il ruolo centrale e fondante dell’economia reale e del credito produttivo, quale motore di sviluppo, di avanzamento tecnologico e anche di ampliamento dell’occupazione.

Molte annose questioni, come quella riguardante il debito pubblico degli Stati, dovranno, quindi, essere rivisitate e affrontate con metodologie e programmi diversi. Ciò dovrebbe essere ovvio per tutti. Particolarmente dopo che nel 2020 l’emergenza sanitaria, economica e finanziaria ha dettato l’agenda ai governi costringendoli a mettere in campo aiuti e stimoli fiscali per 12.000 miliardi di dollari. E le stesse banche centrali sono state costrette a creare almeno 8.000 miliardi di nuova liquidità. Ovviamente, sono tutte risorse create contraendo nuovi debiti.

Secondo l’Istituto di finanza internazionale di Washington, il debito aggregato, pubblico e privato, che era già tre volte il Pil mondiale, nel 2021 dovrebbe mediamente aumentare del 20% nelle cosiddette economie avanzate e in quelle di altri Paesi emergenti.

Mario Draghi, sorprendendo molti, in verità anche noi, è stato forse l’economista che, avendo avuto ruoli istituzionali assai rilevanti a livello mondiale, per primo ha riconosciuto il cambiamento di paradigma.

Al Meeting di Rimini, tenutosi il 18 agosto dello scorso anno, in merito al debito disse: ”La ricostruzione, in cui gli obiettivi di lungo periodo sono intimamente connessi con quelli di breve, è essenziale per ridare certezza a famiglie e imprese, ma sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo. Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi, ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè debito buono. La sua sostenibilità verrà meno se, invece, verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato debito cattivo.”

A dire il vero, Draghi su questo tema era già intervenuto all’inizio del lockdown. Nella sua lettera, pubblicata il 25 marzo dal Financial Times, affermava: “I diversi paesi europei hanno strutture finanziarie e industriali diverse, l’unico modo efficace per rispondere immediatamente a un crack dell’economia è quello di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici I livelli del debito pubblico saranno aumentati. Ma l’alternativa – una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia ed eventualmente per il credito pubblico.

Giustamente, egli ha sollecitato un modo differente di pensare e di intervenire. “Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempo di guerra”, ha affermato, aggiungendo che “ci deve essere di ispirazione l’esempio di coloro che ricostruirono il mondo, l’Europa, l’Italia dopo la seconda guerra mondiale. Si pensi ai leader che, ispirati da J.M. Keynes, si riunirono a Bretton Woods nel 1944 per la creazione del Fondo Monetario Internazionale”.

Questa è la ragione e l’ineludibile necessità di riflettere in modo nuovo e innovativo anche sulla gestione e su una possibile riduzione, se non cancellazione, di almeno parte del debito pubblico. Nei mesi scorsi, in verità, ci sono state delle proposte rilevanti.

Recentemente oltre 100 economisti, soprattutto francesi, italiani e spagnoli, hanno scritto un manifesto in cui si sostiene che “Il debito detenuto dalla Bce si può e si deve annullare”. Il 25% del debito pubblico europeo è detenuto dalla Banca centrale europea, cioè una quota di debiti pari a circa 2.500 miliardi di euro, che i cittadini europei devono a loro stessi.

Nella storia, la cancellazione del debito non è sempre stata un tabù: alla Conferenza di Londra del 1953, per esempio, i partecipanti, guidati dagli Stati Uniti, decisero la cancellazione di due terzi del debito pubblico della Germania, che iniziò così il suo percorso di ripresa e di prosperità.

La loro proposta è chiara. I paesi europei e la Bce siglano un accordo in cui quest’ultima si impegna a cancellare il debito pubblico che detiene (o a trasformarlo in debito perpetuo senza interessi), mentre gli Stati si dovrebbero impegnare a investire lo stesso importo nella ricostruzione ambientale e sociale. Ricetta semplice, impegnativa ed efficace.

Vi sono anche altre proposte simili, come quella che prevede che i debiti accesi per far fronte alla crisi attuale siano nella forma di titoli irredimibili, senza scadenza e senza interessi, garantiti dalla Bce.

Del resto, anche un grande paese come il Giappone ha dovuto e deve fare i conti con la sua situazione debitoria. Pur essendo un paese avanzato e tecnologizzato forse più dell’Europa, ha il più grosso debito pubblico al mondo, pari a 252% del suo Pil. Nel 2020 ha aumentato il suo bilancio del 20% attraverso l’emissione di nuovi titoli di Stato. Ma in Giappone oltre il 40% di tutto il debito pubblico è in mano alla Banca centrale e il resto, in maggioranza, è posseduto dalle banche e dalle famiglie giapponesi. Non è in una situazione idilliaca, ma controllando il suo debito, il Giappone non è soggetto a pressioni esterne o a speculazioni da parte dei mercati internazionali.

In conclusione, la cosa decisiva è che il “debito buono” venga utilizzato per la crescita economica. In tal modo aumentando il denominatore, il tasso debito/Pil inevitabilmente si abbassa. Ma non è la frazione matematica che interessa. Con la ripresa economica si possono finalmente affrontare i problemi reali delle famiglie e delle imprese.

Il fatto che Draghi, nel frattempo, sia diventato capo del governo del nostro paese, ci fa ben sperare. Certo, anche noi, come cittadini e come singoli, dovremmo modificare i nostri comportamenti, ispirandoli al rispetto delle leggi e dei valori costituzionali.

*già sottosegretario all’Economia  **economista

 

 

 

 

 

 

L’importanza del coordinamento internazionale contro la corruzione

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Prima di fine anno l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha organizzato l’International Anti-Corruption Day per mettere la lotta contro la corruzione al centro delle varie iniziative dei governi. E’un problema spinoso e importante. E’una delle grandi priorità, perché la corruzione per tutti i Paesi rappresenta una delle maggiori minacce alla crescita economica, mina i valori della democrazia, ed è una delle cause non secondarie delle disuguaglianze sociali.

Il tutto è stato oggetto della conferenza internazionale organizzata online dal Global Forum on Trasparency and Exchange of Information for Tax Purposes, durante la quale è stato presentato il rapporto 2020 pubblicato dal Forum. Si ricordi che il Forum Globale sulla trasparenza e lo scambio di informazioni a fini fiscali fu creato dall’Ocse nel 2000 e successivamente ripreso e promosso dal G20 nel 2009, quando affermò “la fine dell’era del segreto bancario”. Oggi esso coinvolge ben 161 giurisdizioni statali, tra membri dell’Ocse e altri partecipanti.

Anche la pandemia del Covid-19 ha fatto emergere l’urgenza di affrontare la “piaga globale” della corruzione. Al riguardo è partito un nuovo programma di lavori mirato a fronteggiare le situazioni di crisi e di emergenze, chiamato “Global Law Enforcement Response to Corruption in Crisis Situation”. Contemporaneamente l’Ocse interviene a sostegno delle attività dei governi con delle Raccomandazioni per l’Integrità Pubblica, con lo scopo di trasformare eventuali azioni isolate in una strategia globale. E’ certamente positivo che il Forum abbia realizzato un training specializzato sulla materia per parecchie migliaia di dirigenti pubblici. 

In verità, l’Ocse è sempre stata in prima fila in questa battaglia, fin dal 1999, quando diede inizio alla Anti-Bribery Convention, cioè al lavoro congiunto contro le frodi. Un lavoro importante, anche se, bisogna ammetterlo, ancora troppo lento: 615 individui e 203 entità legali sono stati finora scoperti e condannati per frode. Attualmente sono in corso 528 indagini in 28 Paesi.

Uno degli interventi di crescente importanza mira a disciplinare le attività di lobbying e promuoverne la trasparenza e la correttezza. Negli anni recenti le lobby hanno assunto un potere enorme. Operano con grandi mezzi finanziari, e anche con grandi competenze, per conto di interessi privati, spesso in contrapposizione con l’interesse pubblico degli Stati e delle comunità. Già prima della Grande Crisi si stimava che per ogni membro del Congresso americano vi fossero almeno tre agguerriti, e spesso molto preparati, lobbysti che lavoravano per far approvare progetti, programmi e riforme legislative fortemente desiderati dal mondo bancario, assicurativo e in generale dalla finanza. E non solo.

Più recentemente l’Ocse ha opportunamente elaborato delle linee guida per aiutare i governi nella lotta contro la corruzione che, non lo si dimentichi, da tempo sta penetrando le imprese controllate dallo Stato. I danni e i rischi sono enormi quando la corruzione e il crimine cercano di penetrare e controllare persino certe strutture pubbliche. Si metterebbe in discussione il concetto stesso di Stato e di autorità pubblica.

L’Ocse, per fortuna, è diventata particolarmente attiva anche nella lotta contro i crimini di carattere fiscale. Secondo il Global Forum report, 100 giurisdizioni statali nel 2019 si sono scambiate in modo automatico informazioni relative a 84 milioni di conti finanziari che rappresentavano asset per circa 10.000 miliardi di euro. Questo impegno dell’Ocse e del Global Forum, nel periodo 2009 -2020, ha reso possibile la “raccolta aggiuntiva” di oltre 107 miliardi di euro per il fisco, attraverso programmi di emersione volontaria, di indagini sui centri offshore e altre misure. Si noti che, di tale cifra, 29 miliardi sono stati raccolti nei Paesi in via di sviluppo.

L’Ocse ha favorito la creazione dell’Anti Corruption Working Group all’interno del G20 per promuovere la convergenza d’azione tra gli Stati membri e per sostenere l’applicazione di standard di comportamento e d’intervento. E’ un fatto importante. Lo è ancor di più perché nel 2021 la presidenza italiana del G20 intenderebbe porre come priorità la lotta internazionale contro la corruzione.

L’impegno del Global Forum e dell’Ocse per il 2021è di mantenere alto e puntuale lo scambio di informazioni tra i Paesi partecipanti, nonostante le restrizioni imposte dalla crisi sanitaria globale. Saranno apportati aggiustamenti se la pandemia dovesse creare delle situazioni difficili, perché la cooperazione internazionale nel campo fiscale non subisca rallentamenti. Allo scopo si è decisa la costituzione di una nuova Task Force on Risk per identificare preventivamente l’insorgere di rischi rispetto all’attuazione e al rispetto degli standard relativi agli scambi di informazioni.

Tutti provvedimenti opportuni che vanno nella giusta direzione. Tuttavia non si può dimenticare che la lotta alla corruzione potrà avere successo soltanto se la reputazione delle aziende, degli amministratori delegati, dei manager, dei governati pubblici sarà davvero elevata.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Problemi e speranze per il dopo Covid

Problemi e speranze per il dopo Covid

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’Economic Outlook sullo stato dell’economia mondiale, recentemente pubblicato dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), traccia una situazione veramente molto preoccupante. E, siccome si basa su dati precedenti alla seconda ondata della pandemia, le prospettive per l’anno 2021, purtroppo, sono peggiori di quanto analizzato. Ciò a prescindere dall’arrivo e dall’utilizzo del vaccino anti Covid.

Il Pil mondiale dovrebbe ridursi del 4,25% nel 2020 e dovrebbe ricuperare tale percentuale nel 2021. Le perdite maggiori nell’economia americana e in quella della zona euro, stimata intorno al 7,5%, sarebbero parzialmente compensate dalla crescita cinese del 3,5% di quest’anno. Mediamente, i Paesi cosiddetti avanzati e quelli emergenti alla fine del 2022 potrebbero aver perso l’equivalente di 4-5 anni di crescita attesa per il reddito procapite reale.

Secondo l’Ocse i dati sono ben più seri se si osservano i settori legati all’economia reale. La produzione industriale globale perde oltre il 10% rispetto al 2019 e in molti Paesi, anche alla fine del 2022, rimarrebbe sotto del 5% rispetto al livello pre-Covid.

Come nella Grande Crisi del 2007-8, anche il commercio mondiale ha subito una riduzione eccezionale: nei primi sei mesi del 2019 lo scambio di merci si è ridotto del 16%! Alla fine dell’anno tale perdita potrebbe ridursi grazie alla parziale ripresa economica della Cina e di altri Paesi asiatici.

Nonostante gli aiuti e il sostegno ai salari messi in atto dai vari governi per evitare licenziamenti di massa, il tasso di disoccupazione nei Paesi Ocse è salito al 7,25%. In Italia si stima che nel 2019 si siano persi 700.000 posti di lavoro!

L’Ocse teme fortemente quanto potrebbe succedere nel 2021, quando i sostegni alla cassa integrazione potrebbero diminuire nel contesto di una prevedibile ripartenza incerta dell’economia. Una cosa è certa: per parecchio tempo l’occupazione rimarrà sotto i livelli pre-Covid, contribuendo a far lievitare per diversi anni i costi della pandemia e a mettere sotto pressione i salari, i redditi e i consumi.

Inevitabilmente gli investimenti si sono fermati. Nella prima metà dell’anno, nonostante gli effetti negativi sui redditi delle famiglie, i loro risparmi sono addirittura aumentati tra il 10 e il 20%. Probabilmente impaurite dalle oscure prospettive future. Insieme ai vari lockdown, ciò ha provocato un effetto valanga nei settori del turismo, del retail, della ristorazione e di altri servizi. Anche per il 2021 ci si aspetta una crescita del risparmio di circa il 2%. Ovviamente non è un bene.

Realisticamente, uno scenario dell’Ocse per il 2021, rispetto al periodo pre pandemia, prevede una diminuzione del 7% del commercio mondiale, una diminuzione del 12% degli investimenti, un aumento della disoccupazione di 1,7% e una forte deflazione con un’inflazione negativa di almeno 1,25% sui prezzi al consumo. Mediamente, nei paesi avanzati il rapporto debito pubblico/pil dovrebbe crescere del 7,5% entro il 2022.

I mercati finanziari e le borse dovranno, di conseguenza, essere gli osservati speciali. Il citato rapporto prevede che gli choc della pandemia possano determinare una riduzione dell’1% del capitale investito nel business entro la metà del 2021. L’aumento del debito, in particolare quello corporate, potrebbe far salire di almeno 50 punti base, lo 0,5%, il costo del premio al rischio. Globalmente, nel 2021 si stima anche una diminuzione del 10% del prezzo delle azioni e del 15% di quello delle commodity non alimentari. Tendenze negative che, ci si augura, potrebbero essere superate durante il 2022.

Anche i sistemi bancari dovranno affrontare una serie di problematiche, a partire ovviamente dalla crescita dei cosiddetti non performing loans, dei crediti inesigibili. E’ ovvio che le perdite di reddito, di produzioni e di entrate che tutti i settori produttivi stanno subendo, creeranno enormi difficoltà alle famiglie e alle imprese per far fronte ai vecchi e agli eventuali nuovi debiti con le banche.

La situazione tracciata è molto difficile. Ma non è la fine del mondo. Nella storia umana, anche nel secolo da poco terminato, si è stati in grado di rispondere in modo efficace e virtuoso alle catastrofi delle guerre, dei terremoti e di altre pandemie.

Perciò è fondamentale non perdere l’occasione per realizzare le riforme globali necessarie e giuste. Cosa che, invece, i governi non hanno fatto dopo la Grande Crisi del 2008.

Guardando al mondo di oggi e alla necessità di renderlo più equilibrato e integrato, nello spirito della lontana Bretton Woods è opportuno e inderogabile affrontare le sfide del futuro all’interno di una nuova architettura globale da definire insieme, e non solo per tutti i settori dell’economia. In particolare, nel mondo della finanza si dovrà realizzare un moderno sistema del credito produttivo, contrapposto alla devastante deregulation inanziaria e bancaria, che ha creato le ben note bolle speculative di ogni tipo.

Nuovi accordi, secondo noi, sono inevitabili nel commercio mondiale, nel sistema monetario internazionale, nella politica degli investimenti e delle produzioni, definendo le effettive priorità nel campo della ricerca, della sanità, della cultura, dell’ambiente e dell’educazione.

Il Covid, nella sua brutalità, ha dimostrato come la globalizzazione sia una realtà oggettiva e non un progetto geopolitico di qualcuno. Ha costretto i governi e i popoli a cercare forme di collaborazione. Ha provato, in modo drammatico, che siamo effettivamente tutti sulla stessa barca, in un villaggio comune, dove povertà e sottosviluppo non dovrebbero più avere posto.

*già sottosegretario all’Economia **economista