L’Africa è stanca di essere povera

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

L’attenzione del mondo economico internazionale verso l’Africa sembra essere in crescita esponenziale. Lo si è visto recentemente all’incontro dell’Africa Investment Forum (Aif), organizzato dalla Banca Africana di Sviluppo (AfDB) a Rabat, in Marocco. Erano presenti 2.300 investitori e delegati provenienti da 83 paesi. In discussione sono stati più di 37 progetti di investimento, alcuni dei quali di rilevanti dimensioni, in tutti i settori economici, dalle infrastrutture all’agroalimentare, dall’energia alla gestione idrica e all’estrazione mineraria.

Quest’anno lo sponsor principale è stato il lontano Giappone, presente con oltre un centinaio di aziende, tra le quali le più importanti corporation dell’energia e dei nuovi minerali, le cosiddette “terre rare” d’importanza strategica.

Da sottolineare che nel 2025 due importanti appuntamenti economici africani, tra cui la Conferenza ministeriale per lo sviluppo africano, si terranno proprio in Giappone. Il paese del Sol Levante è anche il più grande contributore di prestiti agevolati della Banca Africana di Sviluppo, con un interesse specifico nei settori dell’agricoltura, anche attraverso l’utilizzo di nuove avanzate tecnologie.

Il che vuol dire che, nessuno ce ne voglia, Tokyo negli anni passati è stata molto più attiva di Roma nei rapporti con il continente africano. Qualcosa che l’Italia, che si affaccia sul Mediterraneo e con il suo decantato Piano Mattei, non dovrebbe ignorare. La delegazione italiana, senz’altro più numerosa e rappresentativa che negli incontri passati, a Rabat appariva abbastanza marginale in mezzo alle grandi banche americane come la JP Morgan e la Goldman Sachs, ai maggiori fondi di investimento internazionali e alle grandi corporation. Comunque la dirigenza dell’AfDB avrebbe espresso un certo apprezzamento per il progetto e il modello italiani.

L’Aif di Rabat è stato guidato con forza e lungimiranza da Akinwumi Adesina, presidente dell’AfDB dal 2015 e ideatore del Forum. Adesina, che in precedenza era stato ministro dell’Agricoltura della Nigeria, ha dettagliato le potenzialità attuali e le prospettive future dello sviluppo del continente africano. Per esempio, l’Africa oggi ha il 65% di tutte le terre arabili del mondo, attualmente incolte. Questo è un dato che la rende oggettivamente centrale nella politica della sicurezza alimentare globale nel prossimo futuro. Si calcola che entro il 2030 le dimensioni del mercato alimentare e agricolo in Africa varranno non meno di 1.000 miliardi di dollari.

Tuttavia, al di là degli aspetti economici, la maggiore ricchezza dell’Africa è la sua giovane popolazione. Secondo uno studio del New York Times entro il 2050, su 4 abitanti del pianeta 1 sarà africano. Entro tale data, il continente dovrebbe raddoppiare la sua popolazione, raggiungendo 2,4 miliardi di persone, cioè la popolazione complessiva della Cina e dell’India di oggi messe insieme. Ciò comporterà una grande domanda di beni alimentari, di servizi e di alloggi. Soltanto il settore abitativo creerà opportunità d’investimento pari a 1.400 miliardi di dollari. Le infrastrutture di base, trasporti, energia e acqua, già oggi richiedono investimenti di almeno 170 miliardi l’anno.

Secondo Adesina le ricchezze di materie prime sono immense. A livello globale l’Africa ha il 95% del cromo, il 90% del platino, i due terzi delle riserve mondiali di cobalto, il 30% del litio e del manganese, il 20% della grafite. Tutti materiali indispensabili per la produzione di batterie elettriche e per la cosiddetta transizione verde. Le dimensioni dei sistemi di accumulo di energia dei veicoli elettrici e delle batterie passeranno dai 7.000 miliardi di dollari previsti per il 2030 ai 59.000 miliardi per il 2050. L’Africa, che adesso funge da fornitore di minerali grezzi, ha un’opportunità unica di “risalire la catena del valore”, con investimenti nei settori dei minerali critici. Citando l’agenzia americana Bloomberg, Adesina ha ricordato che la produzione di batterie al litio nella Repubblica Democratica del Congo sarebbe tre volte meno costosa di quella degli Usa, della Cina o della Polonia!

Quindi, l’Africa Investment Forum è un grande successo. Nelle ultime 5 edizioni aveva realizzato transazioni per un valore di 30 miliardi di dollari. Quest’anno, i partner di Aif hanno avviato accordi per un valore di oltre 15 miliardi, pari alla metà di quanto transatto nel quinquennio precedente.

Adesina ha detto chiaramente che l’Africa è consapevole che “una causa della povertà è l’esportazione di materie prime, sia in agricoltura che nei minerali”. Di conseguenza l’Africa non vuole essere più solo un fornitore di materie prime, ma intende diventare un attore chiave nello sviluppo delle catene del valore: industrializzazione, ricerca e realizzazione di nuove tecnologie.

“L’Africa è stanca di essere povera”, ha affermato Adesina.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Sempre pericoloso il gioco dei bitcoin

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Sarà un caso, ma dalla vittoria elettorale di Donald Trump a oggi il valore della più nota cripto valuta, il bitcoin, è cresciuta di quasi il 50%, raggiungendo il suo livello massimo storico di quasi 100.000 dollari. Dall’inizio dell’anno la crescita è stata del 130%!
Questo boom ha trascinato al rialzo tutte le altre criptomonete: in un mese la piattaforma ethereum è cresciuta del 40%; dogecoin, legata a Elon Musk, del 270%. Ma le fluttuazioni giornaliere restano molto grandi.
Trump si è assunto tutta la responsabilità di tale speculazione quando in campagna elettorale ha promesso di trasformare gli Usa nella “capitale delle criptovalute del pianeta”. Ha anche partecipato personalmente alla conferenza organizzata dagli operatori e dai sostenitori del bitcoin. Inoltre, la sua società “Trump Media and Technology Group” starebbe acquistando Bakkt, una delle maggiori piattaforme, dove si trattano le operazioni in criptovalute.
La cosa ancora più grave, se fosse mantenuta, è l’intenzione di Trump di accumulare una riserva nazionale di bitcoin. Se così fosse, la Federal Reserve sarebbe chiamata in causa a sostegno del valore delle criptomonete qualora esse avessero un tracollo.
Si ricordi che già nel novembre 2022 il valore del bitcoin era crollato a 16.000 dollari da 69.000 di qualche mese prima!
La propaganda presenta le criptovalute come forme di libertà monetaria anarcoide, perché fuori dal controllo di quello che chiamano il “deep state” della banca centrale e delle istituzioni governative. Esse, però, non hanno alcun valore sottostante di riferimento e nessun sistema di garanzia. Non c’è un emittente riconosciuto e, quindi, in caso di crisi finanziaria manca la copertura fornita dal cosiddetto prestatore di ultima istanza, come la Fed per il dollaro o la Bce per l’euro.
Esse funzionano come sistema di pagamento e di altre operazioni finanziarie tra i partecipanti che fanno parte del club. Non hanno le caratteristiche di una moneta legale, ma attraverso le transazioni lo diventano di fatto. Non rappresentano più solo una fetta relativamente piccola del sistema finanziario. Oggi la loro capitalizzazione è stimata in oltre 3.400 miliardi di dollari. Si calcola che soltanto negli Usa ogni giorno si muovono operazioni in criptovalute pari a 30 miliardi di dollari. Stanno assumendo, quindi, una dimensione tale da coinvolgere l’intero sistema finanziario in caso di crisi. E senza alcuna rete di protezione. Il che per gli investitori, soprattutto minori, è un azzardo.
In caso di crollo perciò il problema non si pone solo per chi vi partecipa direttamente, che perde tutto senza alcun rimborso. Preoccupa che sempre più banche tradizionali e fondi d’investimento siano coinvolti. Esse utilizzano tutti gli strumenti già in atto per le speculazioni. Le criptovalute sono usate per generare delle leve finanziarie con cui operare, per esempio, sul rischioso mercato dei derivati otc.
Recentemente, BlackRock, il più grande fondo d‘investimento americano, ha ottenuto il permesso di operare in borsa con un suo fondo Etf sul bitcoin. In questo caso l’Etf replica l’andamento dell’indice del bitcoin. I fondi Etf possono essere acquistati e venduti come se fossero delle azioni. Essi sono altamente speculativi quando operano con la leva finanziaria.
Un altro aspetto di negativa gravità è che le criptovalute non sono soggette alla vigilanza operante per sistema bancario. Non sono regolamentate, nonostante i vari tentativi di farlo. Ecco perché le varie autorità credono che siano sempre più usate per operazioni di riciclaggio e per altre transazioni illecite.
La Security Exchange Commission (Sec), l’omologa americana della nostra Consob, ha cercato di imporre dei controlli, riuscendo soltanto a introdurre piccole azioni legali su questioni secondarie senza affrontare il cuore del problema.
Con l’arrivo di Trump, però, Gary Gensler, il presidente della Sec, ha annunciato le sue dimissioni. Questo è stato visto come un segnare di futuro allentamento dei controlli e ciò ha creato una certa euforia sui mercati delle criptovalute.
Ma è possibile creare ricchezza finanziaria dal nulla? Non lo crediamo. Se fosse vero, i geni delle cripto sarebbero i nuovi dei dell’Olimpo, sarebbero i creatori di un nuovo Eden finanziario. E se fosse il contrario? Agli adepti di questo nuovo culto varrebbe l’ammonizione dantesca “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”.
Tutto ciò oggi avviene mentre in tanti temono la bolla dei valori di Wall Street. Si ricordi, infine, che anche la Bce ha recentemente ammonito circa l’eccessiva esuberanza dei mercati e delle borse con possibili correzioni improvvise. Non è un momento per giocare con altre bolle finanziarie!

*già sottosegretario all’Economia **economista

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La bolla dei dollari off shore

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Ci sono obbligazioni e altri titoli di debito in dollari per ben 13.000 miliardi detenuti fuori dagli Usa da banche non americane e da non-banks, cioè da fondi di ogni tipo, da governi, da organizzazioni internazionali e anche da privati. Lo rivela un recente studio della Federal Reserve di Atlanta.

Da una parte riflette il ruolo globale del dollaro nel commercio e nella finanza internazionale. Ogni giorno migliaia di miliardi di dollari sono usati in innumerevoli transazioni finanziarie.
Però, è una vera bomba a orologeria. Infatti, i citati 13.000 miliardi non hanno alcuna copertura da parte della Federal Reserve.

Le banche con sede al di fuori degli Stati Uniti devono, quindi, rinnovare le obbligazioni in dollari in scadenza e altri titoli di debito per una cifra enorme. In gioco c’è la tenuta delle varie banche e non-banks in campo.

I detentori di tale ammontare sono per oltre la metà in Canada, UK, zona euro, Svizzera e Giappone. La Cina ha circa 1.000 miliardi in bond americani.

La composizione dell’ammontare totale è cambiata notevolmente dopo la grande crisi finanziaria del 2008. Le obbligazioni in dollari in circolazione sono cresciute più rapidamente dei prestiti bancari. Oggi i bond rappresentano più della metà dello stock di debito offshore in dollari.

La Fed nota che, oltre a questi debiti diretti, ci sono grandi stock di prodotti derivati in valuta estera (FX), gli otc tenuti fuori bilancio. Si noti che in uno swap FX, una controparte prende in prestito dollari a fronte della garanzia di un importo equivalente in un’altra valuta.

Si ricordi, però, che gli swap FX non sono una scommessa secondaria risolvibile con un pagamento unidirezionale dal perdente al vincitore come nella maggior parte delle transazioni derivate. In uno swap FX da 100 milioni di dollari, l’importo preso in prestito deve essere totalmente rimborsato.

C’è un’ulteriore aggravante. A metà del 2022 le non banks al di fuori degli Usa avevano operazioni in derivati otc per 26.000 miliardi, circa il doppio delle loro passività in bilancio. Le banche non statunitensi avevano altri 39.000 miliardi di dollari in derivati fuori bilancio, più del doppio delle loro passività in bilancio.

Il mercato degli swap FX è il più grande mercato di credito in dollari in circolazione. Ma per la sua natura fuori bilancio è spesso trascurato. Gli swap FX in dollari hanno fatturato nel mese di aprile 2022 3.500 miliardi di dollari al giorno, per lo più a scadenze inferiori a una settimana. Il dollaro predomina in questo mercato ed è presente in circa il 90% di tutti gli swap FX.

Il problema si pone quando queste banche, fondi o entità estere vanno in difficoltà, anche nella gestione dei titoli in dollari in loro possesso, e bisogna intervenire per evitare che un default generi una reazione a catena. Simili situazioni si sono verificate più volte negli ultimi anni, costringendo la Fed a grandi interventi di salvataggio. In altre parole la banca centrale americana ha messo a disposizione delle altre banche centrali enormi somme per tamponare le crisi.

Per esempio, le difficoltà di gestione finanziaria internazionale provocate dalla pandemia hanno costretto la Fed nel 2021ad aumentare gli swaps da 5 miliardi di dollari alla settimana dell’inizio di marzo a circa 450 miliardi alla settimana a fine maggio. Con i crediti temporanei di emergenza le altre banche centrali hanno acquistato titoli e altre attività in perdita, altrimenti invendibili, per contenere l’ondata di perdite e quindi evitare possibili default.

Simili situazioni si sono verificate con la crisi delle obbligazioni pubbliche inglesi nel settembre del 2022 e con la crisi del Credit Suisse e la sua conseguente acquisizione da parte della banca svizzera Ubs.

E’ la globalizzazione finanziaria! Un suo eventuale scossone si riverbererebbe nell’intero sistema finanziario internazionale basato sul dollaro. Esso ha goduto a lungo del suo dominio. Adesso, però, con l’esplosione del debito pubblico e di quello delle imprese, e con la gigantesca bolla speculativa dei derivati otc non regolamentati, ogni seria difficoltà si ripercuote inevitabilmente sulla tenuta del sistema del dollaro.

Non è una situazione nuova, ma le difficoltà diventano sempre più grandi e sempre più frequenti. Questa è la ragione per la quale la Federal Reserve di Atlanta esprime serie preoccupazioni di fronte ai rischi impliciti in una gestione poco controllata del sistema. Una ragione di più per riformare profondamente l’attuale sistema finanziario internazionale.

*già sottosegretario all’Economia **economista

I risultati del Summit dei Brics di Kazan

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il Summit dei paesi Brics, conclusosi a Kazan, capitale della Repubblica del Tatarstan in Russia, si è focalizzato sugli attuali assetti internazionali e sui maggiori argomenti di geopolitica. Il tema dell’incontro è stato il “Rafforzamento del multilateralismo per uno sviluppo globale giusto e per la sicurezza” verso un ordine mondiale democratico. Ci sembra che questa volta le questioni economiche più innovative, ovviamente evidenziate, siano state oggetto di maggiore riflessione e di prospettive future.
E’ stato il primo Summit che, oltre ai tradizionali fondatori, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, ha visto la partecipazione dei capi di governo dei 4 nuovi membri, Etiopia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Iran. In realtà è stato molto più allargato con la presenza ai massimi livelli di 36 paesi e di una vasta partecipazione delegati. Tra i paesi ospiti vi erano il Messico, l’Indonesia, il Bangladesh. Mancava quasi totalmente l’Africa sub sahariana. Importante è stata la presenza del presidente dell’Assemblea Generale dell’Onu, Guterres, quella di Abu Mazen dell’Autorità palestinese e di Erdogan, presidente della Turchia, un paese membro della Nato.
La Dichiarazione finale riflette la volontà e la necessità dei paesi del Global South di mantenere e rafforzare il ruolo centrale delle Nazioni Unite, quale “sede istituzionale mondiale” dove portare avanti le riforme in tutti i campi politici ed economici e anche il dialogo e la mediazione per superare i vari conflitti. Si riconosce il G20 quale forum globale primario per la cooperazione economica e finanziaria multilaterale.
Temono giustamente che, senza l’Onu, i paesi poveri ed emergenti siano in balia dell’anarchia e della “legge del più forte”. Per loro è il luogo dove avrebbero spazio il multilateralismo e la multipolarità. Naturalmente chiedono una sua profonda riforma, così come quella del Consiglio di Sicurezza, delle vecchi istituzioni di Bretton Woods e dell’Organizzazione mondiale del commercio. In tutte le istituzioni internazionali, il gruppo dei Brics si fa promotore degli interessi dei paesi poveri e di quelli emergenti. Come già fatto per l’adesione dell’Unione Africana al G20.
Si dichiarano preoccupati degli “effetti distruttivi delle misure illegittime, unilaterali e coercitive, comprese le sanzioni illegali, sull’economia mondiale, sul commercio internazionale e sugli obiettivi di sviluppo sostenibile”. Perciò ne chiedono l’eliminazione.
Naturalmente hanno discusso dei due grandi conflitti in atto. Rispetto al Medio Oriente, i Brics pongono le loro posizioni totalmente nel solco delle Nazioni Unite e, quindi, sostengono la piena appartenenza all’Onu dello Stato di Palestina e la soluzione dei “due popoli due Stati”. Invitano, perciò, Israele a fermare l’escalation di violenza e a ritirare l’esercito da Gaza, dalla Cisgiordania e dal Libano.
Rispetto al conflitto ucraino, invece, la Dichiarazione rimanda genericamente alle posizioni già espresse dal Consiglio di Sicurezza e dall’Assemblea Generale dell’Onu, invitando tutti ad attenersi agli Scopi e ai Principi della Carta delle Nazioni Unite. Ben venga, si dice, ogni mediazione per una soluzione pacifica.
Il Summit è stato indubbiamente un grande successo diplomatico e politico della Russia. Putin sarà isolato dall’Occidente, ma non dal resto del mondo. Anzi. Inoltre, a Kazan si sono tenuti numerosi incontri bilaterali tra Putin e gli altri Capi di Stato, e anche tra i diversi leader tra di loro. Ad esempio, tra il presidente cinese Xi e il primo ministro indiano Modi.
I Brics hanno rilevato che la cooperazione economica multilaterale è “essenziale per limitare i rischi risultanti dalla frammentazione geopolitica e geoeconomica”. Ribadendo la necessità di una riforma dell’architettura finanziaria internazionale, hanno da subito evidenziato il problema del debito che blocca lo sviluppo di molti paesi emergenti, aggravato dalla politica dei tassi di interesse elevati. Al riguardo ricordano gli impegni presi dal G20 per alleviare il problema del debito e la necessità di promuovere una “finanza composta” per mobilitare capitali privati verso investimenti infrastrutturali.
Nei rapporti economici tra i Brics e i loro alleati, svolge un ruolo centrale e propulsivo la New Development Bank. la banca del gruppo. La Dichiarazione finale rileva l’importanza di proseguire con l’Interbank Cooperation Mechanism, il meccanismo per facilitare le pratiche e gli strumenti finanziari innovativi, crediti di vario tipo, anche attraverso l’uso delle monete locali. Il ruolo di queste ultime è centrale nelle transazioni e nei regolamenti finanziari, come già previsto dall’Iniziativa sui pagamenti transfrontalieri, che prevede la creazione di un’infrastruttura di deposito e regolamento transfrontaliero indipendente, chiamata Brics Clear. Oggi la Russia e molti altri Stati sono esclusi dall’utilizzo del sistema SWIFT, gestito dagli Usa e dall’Occidente, la piattaforma di controllo e accettazione di ogni pagamento o trasferimento finanziario transfrontaliero.
Ai capi del Brics sono stati presentati una serie di studi e di proposte concernenti iniziative innovative economiche e finanziarie, Molte, come il Brics Clear e un’eventuale moneta di conto, richiedono studi più approfonditi prima della loro realizzazione. In merito la Dichiarazione impegna i ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali a continuare i lavori e presentarli nei prossimi incontri.
In conclusione, il Summit di Kazan ha plasticamente dimostrato che i Brics e le loro iniziative non possono più essere ignorati o considerati soltanto come una sfida al sistema del dollaro. Il multilateralismo non è una guerra, è una necessaria riforma pacifica. E’ opportuno prenderne atto, soprattutto in Europa. Il fatto che per la prima volta i media occidentali, anche quelli italiani, abbiano dato un significativo risalto ai lavori del Summit ci sembra sia un segnale positivo.

*già sottosegretario all’Economia **economista

DEBITO PUBBLICO IL GRANDE TABÙ DELLE ELEZIONI USA

Debito pubblico, il grande tabu delle elezioni americane

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

In vista delle elezioni di novembre Kamala Harris e Donald Trump si confrontano duramente su tutto: guerre, armi, terrorismo, inflazione, aborto, immigrazione, ecc. Non hanno timore di affrontare tutti gli argomenti anche i più conflittuali e scabrosi. Tranne uno: il debito pubblico. La parola “debt”, debito non è stata mai menzionata da entrambi, nemmeno nell’unico dibattito televisivo. Perché?

Perché sia il governo Trump che quello Biden-Harris sono stati entrambi responsabili di una crescita straordinaria del debito pubblico per coprire gli esorbitanti deficit di bilancio. Ma la vera bomba non viene solo dal passato, è in arrivo ad alta velocità negli anni immediatamente prossimi.

La conferma viene dal Congressional Budget Office (Cbo), l’organismo indipendente e bipartisan del Congresso che ha il compito di studiare gli andamenti economici e finanziari degli Usa. Esso ha analizzato in particolare il debito pubblico federale, held by the public, cioè detenuto da banche e corporation nazionali e da governi e banche stranieri. Omette nel suo studio quel debito pubblico, intragovernmental holding, detenuto da fondi speciali legati al governo, che oggi valgono almeno un altro 20% del pil nazionale.

Il Cbo riporta che negli anni ’80 e ’90, il rapporto debito pubblico federale/pil degli Usa era di circa il 39%; nel 2010 era cresciuto fino al 60,6%. Si prevede che detto debito crescerà costantemente per decenni, fino a eguagliare la produzione economica aggregata entro il 2025, salendo al 122,4% del pil entro il 2034. Oggi l’ammontare del debito federale è circa 28.000 miliardi di dollari e sarà di 142.000 miliardi nel 2054, pari a 166%del pil.

La ragione sta ovviamente nel protrarsi per decenni dei sempre crescenti deficit di bilancio. Tra il 1974 e il 2023, le entrate fiscali sono state in media il 17,3% del pil, mentre la spesa pubblica è stata in media il 21%. Entro il 2034, il Cbo sostine che le entrate fiscali saliranno al 18% del pil, ma che la spesa pubblica si aggirerà intorno al 24,9%. In particolare il costo degli interessi sul debito federale si calcola che esploderà: dall’attuale 3,1% del pil al 6,3% nel 2054.

E’ doveroso rilevare che le stime in questione, fatte nella speranza di una linearità degli andamenti, non tengono conto di eventuali choc di carattere finanziario o geopolitico.

Il crescente debito pubblico è quindi attribuibile alle spese, che dovrebbero crescere più rapidamente delle entrate. Per il prossimo decennio si ipotizza che solo tre categorie di spesa cresceranno: previdenza sociale, Medicare (assistenza sanitaria) e pagamenti degli interessi sul debito ,che, si stima, supereranno il bilancio della difesa già quest’anno. Per tutto il resto, dall’esercito all’istruzione, dalla ricerca scientifica ai parchi nazionali e alle infrastrutture, le spese governative dovrebbero diminuire.

E’ perciò evidente che i tagli delle tasse sono soltanto delle mere promesse elettorali o tentativi di “comprare “ temporaneamente il consenso di segmenti prescelti della popolazione. Qualsiasi governo americano, così come ogni altro governo del mondo, sarà di fronte a un grande dilemma: tagli, soprattutto delle spese sociali, nel tentativo di ridurre gli squilibri di bilancio o continuare con la politica dei deficit crescenti e quindi con l’aumento dell’indebitamento?

Un deficit in forte espansione, però, potrebbe portare a una brusca crescita dell’inflazione, spingendo la Federal Reserve ad aumentare i tassi di interesse. Con ovvi effetti negativi sulla tenuta del dollaro come moneta di riferimento globale.

Secondo il Cbo ogni dollaro di aumento del deficit federale riduce gli investimenti privati ​​di circa 33 centesimi. Ciò comporta un minore stock di capitale disponibile, incidendo negativamente anche sui salari e sull’occupazione.

Per evitare effetti destabilizzanti dei tagli di bilancio gli Usa hanno una sola la strada, definire una grande riforma interna e internazionale del sistema finanziario, liberato dalla speculazione.

Servirà inevitabilmente tornare a favorire lo sviluppo dei settori, quelli tradizionali e quelli innovativi, dell’economia reale, attraverso il rilancio delle strutture moderne del credito produttivo. Sono politiche che in passato furono già sperimentate con successo dai padri fondatori degli Stati Uniti. Si tratta di produrre maggiore ricchezza negli Usa e nel mondo, mirata ai bisogni moderni delle popolazioni e alle sfide tecnologiche. Non alle guerre che distruggono ricchezza oltre che vite umane.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Assemblea Generale dell’Onu: i paesi in via di sviluppo per una riforma della governance e dell’architettura finanziaria globale


di Mario Lettieri e Paolo Raimondi**

In un momento di grave crisi nei rapporti internazionali la 79.ma Assemblea Generale delle Nazioni Unite di fine settembre a New York si è, inevitabilmente, concentrata sui crescenti rischi di escalation militare, soprattutto nella regione mediorientale e in Ucraina, e di una guerra globale.

Nel contesto dell’Assemblea annuale si è tenuto per la prima volta anche un summit dei paesi del G20. Insieme ai tanti appelli per un auspicabile processo di pace, i paesi emergenti si sono fatti promotori anche di un forte multilateralismo, di una profonda revisione dell’assetto delle Nazioni Unite, in particolare del Consiglio di sicurezza., e di una riforma dell’architettura economica, finanziaria e commerciale globale.
Al riguardo si sono pronunciati Brasile, India e Sudafrica, tre membri fondatori dei BRICS. E’ il caso di non ignorarlo perché è in discussione l’assetto di un nuovo ordine mondiale multilaterale e multipolare.
Lula da Silva, il presidente del Brasile, attuale detentore della presidenza del G20, è stato il più chiaro. “Non siamo stati capaci di rispondere alle crisi globali perché abbiamo scambiato il multilateralismo con le azioni unilaterali e con accordi di esclusione”, ha affermato. In questo modo le istituzioni multilaterali hanno perso la loro credibilità.

“Se i paesi ricchi desiderano avere il sostegno del mondo in via di sviluppo per affrontare le molteplici crisi del nostro tempo, il Sud del mondo deve essere pienamente rappresentato nei principali forum decisionali”, e ha aggiunto che “la prima area di attenzione è eliminare il carattere fortemente regressivo dell’architettura finanziaria internazionale.”.
I tassi d’interesse imposti ai paesi del Sud del mondo sono molto più alti di quelli applicati alle nazioni sviluppate. I paesi africani prendono in prestito a tassi fino a otto volte superiori a quelli della Germania e quattro volte superiori a quelli degli Stati Uniti, ha sottolineato Lula..
Il livello di debito, che colpisce gravemente alcuni paesi emergenti, strangola qualsiasi investimento in infrastrutture, benessere e sostenibilità. Nel 2022, la differenza tra gli importi pagati dal mondo in via di sviluppo ai creditori esteri e quelli ricevuti è stata di 49 miliardi di dollari.

“È un piano Marshall al contrario, in cui i più poveri finanziano i più ricchi”, ha sentenziato il presidente brasiliano.
Senza una maggiore partecipazione dei paesi in via di sviluppo alla gestione del Fmi e della Banca Mondiale, non ci sarà alcun cambiamento efficace. Mentre gli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu sono in ritardo, le 150 più grandi aziende del mondo hanno guadagnato 1.800 miliardi di dollari negli ultimi due anni. Le fortune dei primi cinque miliardari del pianeta sono più che raddoppiate dall’inizio di questo decennio, mentre il 60% dell’umanità è diventato più povero. Così ha sottolineato Lula.
In sintesi, le istituzioni di Bretton Woods ignorano le priorità e le esigenze del mondo in via di sviluppo. Esso non è rappresentato in un modo coerente con il suo attuale significato politico, economico e demografico. Purtroppo, il summit del G20, sotto le pressioni degli Usa e del resto dell’Occidente, rispetto alla riforma dell’architettura finanziaria internazionale si è limitato a “promuovere dei miglioramenti” e a “mobilitare delle possibilità finanziarie”.

Mentre la spesa militare globale è aumentata per il nono anno consecutivo, raggiungendo i 2.400 miliardi di dollari, i fondi impegnati nella lotta alla povertà sono diminuiti. Il numero di persone che soffrono la fame è aumentato di oltre 152 milioni dal 2019. Ciò significa che il 9% della popolazione mondiale, cioè 733 milioni di persone, è denutrita.
Il presidente Narendra Modi, in rappresentanza dell’India, la più grande democrazia del mondo e di 1,3 miliardi di indiani, ha sottolineato che “il successo dell’umanità risiede nella nostra forza collettiva, non nel campo di battaglia.. Le riforme delle istituzioni globali sono essenziali per la pace e lo sviluppo globale.”. Dopo aver evidenziato che l’India ha saputo portare 250 milioni di persone fuori dalla povertà, ha voluto valorizzare l’adesione permanente nel G20 dell’Unione Africana ottenuta al Summit di Nuova Delhi . Un passo importante nella riforma del sistema globale.

Dal canto suo, il presidente del Sud Africa Cyril Ramaphosa ha ribadito la centralità delle Nazioni Unite, invocando, però, una sua profonda riforma. Per esempio, il Consiglio di sicurezza dell’Onu, creato 78 anni fa, non è mai cambiato escludendo così l’Africa e i suoi 1,4 miliardi di abitanti dalle strutture decisionali chiave. Si ritiene che l’esclusione dell’Africa e dell’America latina sia un retaggio del dominio coloniale passato.
Dopo aver denunciato che il debito è la pietra al collo dei paesi in via di sviluppo e che il servizio del debito sta derubando i paesi di fondi tanto necessari per la sanità, l’istruzione e la spesa sociale, Ramaphosa ha detto che “ il Sudafrica sostiene l’appello del Segretario generale dell’Onu per la riforma dell’architettura finanziaria globale per consentire ai paesi di sollevarsi dalle sabbie mobili del debito.”. Nel 2025 il Sudafrica assumerà la presidenza del G20 e intende portare avanti queste istanze.

Quando l’Onu fu creato c’erano 51 paesi oggi ne fanno parte 193. Lula provocatoriamente ha così posto la sfida: “Non possiamo aspettare che accada un’altra tragedia mondiale, come la seconda guerra mondiale, e solo allora costruire una nuova governance globale sulle sue macerie”. Il futuro dipende dalla nostra capacità di trasformare le parole in azioni e il multilateralismo e la giustizia sociale e ambientale sono i pilastri portanti per costruire un mondo più equilibrato e sostenibile.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Si rafforza il rapporto tra l’Africa e la Cina

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il nono summit del Forum of Chinese-African Cooperation (FOCAC) il 4-6 settembre a Pechino ha visto la partecipazione, oltre che del presidente dell’Unione Africana, di ben 53 paesi dell’Africa.

La grande attenzione posta dalla Cina è stata evidenziata dalla presenza del presidente Xi Jinping, che ha anche incontrato privatamente moltissimi presidenti africani. Il messaggio è chiaro: il continente africano ha per la Cina una valenza strategica. Non è una sorpresa poiché Pechino ha sempre proiettato la Belt and Road Initiative (la nuova via della seta) anche verso il continente africano.

Al summit la Cina si è volutamente dichiarata parte del Sud Globale e del gruppo dei paesi in via di sviluppo. Si è posta alla pari dei paesi africani, sostenendo il principio di non interferenza e di non ingerenza nelle loro decisioni e nei loro affari interni.

Il presidente Xi ha annunciato investimenti e aiuti finanziari per 50 miliardi di dollari in tre anni nei vari i settori economici, a partire dai grandi collegamenti infrastrutturali.

La Cina non è un ente assistenziale. E’ chiaro che beneficia in termini economici dello sfruttamento delle materie prime e alimentari africane. Nel 2023 gli scambi commerciali tra Cina e Africa sono stati di 282,5 miliardi di dollari, 100 dei quali relativi all’export di merci africane. Anche l’Africa ottiene dei vantaggi attraverso la modernizzazione delle sue infrastrutture, oltre alla partecipazione a una moderna rivoluzione agro-industriale.

Il FOCAC ha dichiarato che riconosce una sola Cina. Ovviamente, ciò avrà delle ripercussioni nelle relazioni politiche internazionali.

L’analisi dei due documenti del summit, la Dichiarazione di Beijing e l’Action Plan (2025-27), adottati all’unanimità, fa comprendere le iniziative future. La Cina e i paesi dell’Africa hanno già una rete operativa con esperti, regolamenti, incontri e progetti. Qualcosa che non esiste con gli Usa e nemmeno con l’Europa. Ogni genuina azione europea, purtroppo, è sempre minata da tipici interessi del vecchio colonialismo.

Le controparti hanno indicato i propri programmi strategici: la Belt and Road per la Cina e l’Agenda 2063 dell’Unione africana, in particolare il Programme for Infrastructure Development in Africa (PIDA), anche nella prospettiva della nascente area di libero scambio senza dazi, l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA).

Nell’Action Plan sono dettagliate le numerose iniziative da portare avanti. La Cina è già coinvolta in 21 progetti di collegamenti infrastrutturali nel continente africano e nel programma “100 industrie in 1.000 villaggi”. Si inizierà una cooperazione cinese-africana in 100 università, la creazione di 25 centri di ricerca, 50 iniziative industriali con le pmi africane, 30 progetti per l’energia. La Cina si è impegnata a togliere i dazi per i prodotti importati dai Paesi africani meno sviluppati con cui ha relazioni diplomatiche.

Inoltre, si vuole estendere l’uso di due piattaforme di pagamenti internazionali, alternative allo SWIFT controllato dagli Usa: la Pan-African Payment and Seattlement System e la Cross-border Interbank Payment System (CIPS) della Cina, anche attraverso un uso crescente della moneta cinese nelle transazioni finanziarie in Africa. Si prospetta l’aumento dell’uso delle monete locali africane.
Sono mosse difensive in rapporto alle sanzioni americane che già colpiscono molti paesi del continente. Del resto il dollaro è sempre più visto come un’arma nei confronti di chi non segue i dettami di Washington.

Rispetto alla polemica sul “debt gap”, sulla dipendenza finanziaria e debitoria dei Paesi africani nei confronti della Cina, si ricordi che i prestiti concessi da Pechino dal 2000 al 2020 sono stati di circa 700 miliardi di dollari. Oggi, il 12% del totale del debito pubblico e privato africano è detenuto da creditori cinesi. E’ una cifra importante, ma non determinante una eventuale sottomissione ai voleri cinesi .

Purtroppo, in Occidente il summit FOCAC di Pechino è stato del tutto ignorato. Non è un buon segno. Invece, si dovrebbe fare di tutto affinché l’Africa non diventi, come in passato, il continente dove si combattono “guerre per procura”!

*già sottosegretario all’Economia **economista

Il mondo cambia. Come dimostra anche il prossimo summit dei BRICS a Kazan

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

I BRICS crescono ma i nostri media li ignorano totalmente. Non si dovrebbero sorprendere se al 16.imo vertice di Kazan, in Russia, il prossimo 22 – 24 ottobre, essi avanzassero proposte e iniziative di una valenza economica e politica tale da scuotere alle fondamenta il vecchio ordine geopolitico.

Da 8 mesi quest’anno hanno tenuto decine e decine di conferenze e incontri preparatori a livello di governi, di parlamenti e di esperti su tutti gli argomenti di interesse globale.

Uno degli argomenti affrontati, quello monetario e finanziario, merita indubbiamente una maggiore attenzione per le sue inevitabili ripercussioni geopolitiche.

Anche quando si è discusso di cooperazione energetica, tecnologica, infrastrutturale, sanitaria, educativa o culturale, è sempre emersa la centralità del futuro assetto monetario e finanziario a livello internazionale.

Affermano di voler sviluppare la cooperazione interbancaria, fornendo assistenza alla trasformazione del sistema dei pagamenti internazionali con l’uso di tecnologie finanziarie alternative, ampliando l’utilizzo delle valute nazionali dei singoli paesi BRICS nel commercio reciproco. Allo scopo i ministri delle Finanze e i governatori delle Banche Centrali sono stati incaricati di esaminare e relazionare a Kazan sull’uso delle valute locali e delle piattaforme di pagamento.

L’intento è chiaramente quello di rafforzare il proprio ruolo nel sistema monetario e finanziario internazionale, soprattutto sulle piattaforme multilaterali come l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fmi e la Banca mondiale. Vogliono unire gli sforzi contro la frammentazione del sistema commerciale multilaterale, contro l’aumento del protezionismo e contro l’introduzione di restrizioni commerciali unilaterali.

Secondo gli ultimi dati, il commercio reciproco tra i paesi BRICS ha raggiunto quasi
678 miliardi di dollari l’anno. Allo stesso tempo, negli ultimi 10 anni, il commercio globale è cresciuto del 3% l’anno, quello dei BRICS con il resto del mondo del 2,9% e quello all’interno del gruppo del 10,7%. Per capire il processo è più importante analizzare il tasso di crescita piuttosto che il valore globale.

Nonostante l’ostilità manifesta e crescente di un certo mondo occidentale nei confronti dei BRICS, le candidature e le adesioni da parte dei più svariati paesi stanno aumentando. Non crediamo che tutti siano “in guerra” con il cosiddetto occidente. Ciò dovrebbe far riflettere senza pregiudizio alcuno.

Una spiegazione, intelligente quanto preoccupante, la fornisce il Washington Post che, in un recente articolo, riporta che gli Usa hanno messo un terzo del mondo sotto sanzioni. Non solo, ma ben il 60% di tutti i Paesi a basso reddito. Oggi più di 15.000 sanzioni economiche sono operative!

WP rivela che non pochi esperti e funzionari di vari governi americani hanno espresso dubbi sull’effettiva efficacia delle sanzioni, ammettendo che esse sono diventate lo strumento principale, quasi automatico, della politica estera americana. Ciò, di riflesso, avrebbe indotto a sottovalutarne anche i possibili danni collaterali. Il quotidiano sostiene che si sarebbe addirittura favorita la crescita di ‘un’industria delle sanzioni’, multimiliardaria, composta di studi legali, lobbisti e consulenti che si occupano esclusivamente di queste.

Razionalmente dovremmo tutti essere d’accordo sulla necessità di rafforzare il multilateralismo per il giusto sviluppo globale, per la sicurezza e per la pace. Perciò noi ancora ci chiediamo perché i paesi europei e l’Ue non vogliono seguire un percorso autonomo, facendo così anzitutto il proprio interesse.

Al riguardo, significativo è il pensiero del nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che, in occasione della sua recente visita al Centro Brasiliano per le Relazioni Internazionali (CEBRI) di Rio de Janeiro, in Brasile, il paese che nel 2024 detiene la presidenza del G20 e che nel 2025 avrà quella dei BRICS , ha sostenuto che siamo di fronte a grandi sfide globali “che riguardano tutti, che coinvolgono il concetto – usato talvolta in modo vago – di ‘Occidente’, tanto quanto il concetto, definito talora in maniera strumentale – di Sud Globale. Questo è un tempo che richiede dialogo e confronto.”.

Ricordando, inoltre, la vocazione inclusiva della politica estera italiana, ha evidenziato “la necessità di un multilateralismo in cui i paesi del Sud Globale possano esprimere con efficacia la loro voce protagonista e il loro peso.”. Questa anche a noi sembra la strada più sicura per lo sviluppo e per la pace nel mondo.

*già sottosegretario all’Economia **economista

L’agenzia di rating africana è in costruzione

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Mentre i paesi europei sembrano essersi assoggettati in modo definitivo ai dettami delle tre sorelle americane del rating, l’Africa, invece, lavora per creare un’agenzia di rating africana. Lo ha ribadito l’economista nigeriano Akinwomi Adesina, presidente della Banca africana per lo sviluppo (Afdb), nella sua riunione annuale tenutasi recentemente a Nairobi, in Kenya.
L’intenzione del Consiglio dei governatori della banca è di avere “una valutazione equa e adeguata delle operazioni sovrane e non sovrane del continente”. L’obiettivo “non è quello di competere con le agenzie di rating internazionali, ma di stabilire una nuova cultura della valutazione che tenga conto delle diverse specificità delle economie africane”.
Adesina stima che la creazione di un’agenzia africana farà risparmiare ogni anno più di 75 miliardi di dollari, spesi per il servizio del debito a causa di un rating “ingiusto”. Si tratta di una somma notevole che potrebbe essere destinata a progetti di sviluppo.
Le tre agenzie di rating americane, Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, controllano il 95% del business del rating globale e utilizzano dei parametri classici, tra cui la crescita del pil, il reddito procapite, il debito pubblico, i livelli storici dell’inflazione e dei fallimenti e la presunta stabilità delle istituzioni.
L’Afdb raccomanda, tra l’altro, di rivedere il metodo di calcolo del pil delle economie africane includendo la ricchezza del sottosuolo, le materie prime, il potenziale della forza lavoro giovanile. E, poiché l’Occidente mette tra le sue priorità l’ambiente, i consumi e la riduzione delle emissioni di CO2, l’Africa vuole giustamente che sia parametrato anche il contributo ecologico del continente (foreste, stoccaggio del carbonio, ecc.).
Qualche settimana prima era stata l’Unione Africana a sostenere con forza la necessità di sottrarsi ai dettami delle “tre sorelle del rating” e lavorare per un’agenzia tutta africana. L’idea di un’Acra, African credit rating agency, era stata formulata già nel 2017 e sostenuta anche da vari organismi delle Nazioni Unite.
Sebbene non abbiano una presenza attiva nel continente africano e spesso utilizzino i dati della Banca Mondiale o delle istituzioni centrali africane, le agenzie americane, sfruttando le divisioni interne all’Africa e le inadeguatezze burocratiche, hanno potuto, indisturbate, “pontificare” sugli andamenti economici dei paesi africani.
Oggi le cose sono cambiate. L’Africa non è più in balia degli eventi. E’ parte attiva del cosiddetto Sud Globale ed è capace anche di mettere in campo una dirigenza preparata e competente. Ecco perché i governatori dell’Afdb hanno anche sollecitato la riforma dell’architettura finanziaria globale che dovrebbe essere accompagnata dall’intensificazione degli sforzi da parte dei paesi africani per migliorare l’ambiente macroeconomico.
L’Afdb è consapevole che le tensioni geopolitiche internazionali, l’inflazione sui prezzi del cibo e le politiche monetarie esterne rendono molto difficile realizzare lo sviluppo se concepito con i vecchi metodi di sudditanza e di dipendenza dalla “benevolenza” degli altri. E’, però, anche consapevole delle enormi ricchezze del continente: le materie prime di ogni tipo, le terre rare, l’acqua, le foreste e una crescente popolazione giovanissima. Si consideri che l’età media è di circa 19 anni.
Oggi, però, mentre gli “asset under management”, i patrimoni in gestione, globalmente sono pari a circa 120.000 miliardi di dollari, la quota africana è soltanto di 2.500 miliardi.
Il programma è “accelerare la trasformazione dell’Africa”. Per realizzare entro il 2030 gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Onu il gap finanziario annuale è aumentato da 2.500 a 4.000 miliardi di dollari. L’Africa avrebbe bisogno di 1.330 miliardi l’anno per realizzare gli obiettivi. Una cifra non da poco.
Ecco perché la Banca africana ha anche messo al centro delle future attività finanziare l’attivazione del settore privato, interno e internazionale. Attraverso varie forme di garanzia e di mitigazione dei rischi, si vuole favorire una partecipazione privata a investimenti di sviluppo reale, nelle infrastrutture, nell’agricoltura, nei settori sociali e in particolare nell’industria. Infatti, il settore manifatturiero contribuisce soltanto per il 10% al pil dell’Africa. Sulla scia delle esperienze del Brics, stanno crescendo anche le emissioni di obbligazioni per lo sviluppo nelle monete africane locali. In tutto questo l’African Development Forum, la piattaforma per lo sviluppo creata dall’Afdb nel 2018, ha un ruolo importante. In pochi anni ha già mobilitato investimenti per 180 miliardi di dollari.

*già sottosegretario all’Economia **economista

G7: non solo guerre ma anche il debito

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

In vista del Giubileo del 2025 la Santa Sede sta sollecitando la vasta rete delle organizzazioni internazionali, politiche, sociali e culturali, a formulare e promuovere politiche per condonare o almeno ridurre il fardello dei debiti dei paesi poveri.

Pochi giorni fa, parlando al simposio “Affrontare la crisi del debito nel Sud del mondo”, organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, papa Francesco ha rinnovato la richiesta di una moratoria sui debiti. Naturalmente non si è limitato a questo appello ma ha prospettato la necessità di “una nuova architettura finanziaria internazionale audace e creativa”, cioè “ la creazione di un meccanismo multinazionale, basato sulla solidarietà e sull’armonia tra i popoli, che tenga conto del significato globale del problema e delle sue implicazioni economiche, finanziarie e sociali”, al fine di spezzare il circolo vizioso del finanziamento che diventa indebitamento.

D’altra parte è risaputo che la sola moratoria sui debiti crea un momentaneo sollievo alle economie dei paesi più poveri ma non affronta alla radice le vere cause, quali gli annosi problemi del sottoviluppo, della dipendenza e della sottomissione economica ai vecchi e nuovi colonialismi pubblici e privati.

La moratoria sui debiti nei confronti dei paesi poveri era stata sollecitata anche da papa Giovanni Paolo II per il Giubileo dell’Anno 2000. Il risultato dell’iniziativa fu la cancellazione del debito per 52 fra i paesi più poveri del mondo. Nel 2005, il G8, anche con una forte azione dell’Italia, condonò debiti per 40 miliardi di dollari e varie istituzioni finanziarie lo fecero per 130 miliardi.

Anche la cancellazione non basta. Infatti, passati meno di due decenni, la crisi del debito si presenta più minacciosa, soprattutto in Africa. Tra il 2013 e il 2022 la percentuale media del debito pubblico in Africa è raddoppiata, passando dal 30% al 60% del pil. Se paragonata con la media di oltre il 100% dei paesi cosiddetti avanzati o con il 138% dell’Italia, il livello africano potrebbe sembrare “virtuoso”. Per i paesi poveri, però, ripagare i prestiti è sempre più difficile e gli interessi crescono. Il debito di fatto diventa un sistema di colonizzazione che può considerarsi una vera e propria schiavitù.

Il pagamento degli interessi su un debito anche di dimensioni limitate può mandare in tilt il bilancio di uno Stato. Per esempio, l’Angola deve usare il 60% del suo pil per il servizio del debito. Ogni due mesi la Guinea Bissau chiede un prestito alla Banca dell’Africa occidentale non per nuovi investimenti bensì per pagare i salari dei dipendenti pubblici. Le spese correnti vengono coperte con i debiti, creando così un meccanismo perverso.
Il Papa è entrato nel merito del tipo di finanziamento finora concesso ai paesi poveri, rilevando che “ai popoli non serve un finanziamento qualsiasi, ma quello che implica una responsabilità condivisa tra chi lo riceve e chi lo concede.” Dipende dalle condizioni poste, da come viene usato e dalle specifiche situazioni in cui si trovano i singoli paesi indebitati. Infatti, troppo spesso i finanziamenti nascondono delle “trappole” mortali: condizioni di austerità insostenibili, il land grabbing, con il quale chi concede il credito si garantisce lo sfruttamento di grandi territori e delle materie prime. I finanziatori sono sempre più fondi finanziari anonimi che applicano le più ferree e dure leggi di mercato. A ciò vanno aggiunte altre perniciose tendenze interne ai paesi che chiedono e ricevono i finanziamenti, tra cui sicuramente la corruzione pervasiva, una gestione incompetente e la corsa all’acquisto di armamenti.
Come ha spesso fatto nei suoi interventi, il Pontefice afferma che “il debito ecologico e il debito estero sono le due facce di una stessa medaglia.” Al di la delle controversie circa gli studi sull’ambiente e sul cambiamento climatico è indubbio che i paesi occidentali abbiano un grande debito ecologico nei confronti dei paesi poveri, dovuto a molti decenni di sfruttamento incondizionato delle risorse. Esempi tangibili sono le miniere scavate senza alcun rispetto per l’ambiente. Per non dire della manodopera locale sfruttata e senza neanche i minimi diritti.

Che il Papa parli di questi argomenti è molto importante. Ci auguriamo che i governi del G7 e le grandi istituzioni internazionali, che hanno proprio la responsabilità politica di affrontare queste sfide, lo ascoltino. Purtroppo, temiamo che anche il G7 di Borgo Egnazia in Puglia possa restare muto di fronte a queste emergenze. Il problema però c’è ed è di prima grandezza!

*già sottosegretario all’Economia **economista

Truffe fiscali: quoque tu, Deutschland!

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Chapeau ad Anne Brorhilker, il pubblico ministero di Colonia, che per anni è stata l’investigatore capo per le indagini legali sulle frodi fiscali cosiddette cum-ex, per aver annunciato che lascerà la magistratura per l’inattività politica dei governi tedeschi in merito. La truffa consisteva nel farsi rimborsare dai governi tasse mai pagate. Si teme continui ancora in modi più subdoli.
Il metodo di base è semplice: vendere a un compratore estero, tramite banca, azioni quotate in borsa e prossime al pagamento dei dividendi, a volte basta l’opzione di acquisto che in molti paesi europei è interpretata dal fisco come proprietà a tutti gli effetti; dopo di che i soggetti residenti all’estero, agevolati dalla legge, chiedono il rimborso delle tasse mai versate; il “bottino” a spese del fisco viene poi suddiviso tra i vari attori coinvolti, tra cui azionisti, complici esteri, numerose banche e importanti studi legali e fiscali. In Italia, per esempio, la tassa sui dividendi azionari è del 26%, più o meno come quella tedesca.
Come per i derivati finanziari speculativi, anche della frode cum-ex sono state sperimentate altre versioni più elaborate e aggressive.
Si tratta di uno dei più grandi scandali fiscali della storia. Si è parlato di almeno 150 miliardi di euro a livello internazionale, di cui oltre 55 in Europa. Si stima che la frode abbia avuto il suo periodo di punta dal 2006 al 2011. Che anche l’Italia sia coinvolta non sorprende, visto il nostro livello di evasione ed elusione fiscale, ma che la Germania lo sia per parecchie decine di miliardi potrebbe essere per molti una sorpresa, uno choc. Si teme che l’ammontare totale possa essere di gran lunga maggiore.
La macchina truffaldina era operativa almeno dal 2002. Sembra che inizialmente fosse gestita da manager dalla sempre critica Germania per poi allargarsi al resto dell’Europa e a livello internazionale. Gli ideatori avrebbero agito con la complicità di quasi tutte le grandi banche del loro paese. La politica tedesca sarebbe stata coinvolta almeno attraverso peccaminosi assensi e silenzi, tanto che molti governi europei sarebbero stati informati dei giochi sporchi soltanto nel 2015
In Italia la truffa, stranamente, ha avuto un effetto limitato per due ragioni. La prima è stata l’indagine “easy credit” condotta dalla procura di Pescara nel 2007 che aveva indicato il coinvolgimento di grandi gruppi bancari, quali Goldman Sachs, Merryl Lynch, Bnp Paribas, e alcuni fondi pensione inglesi e americani costringendo i partecipanti a restituire i rimborsi delle tasse per archiviare il caso. In secondo luogo, i rimborsi del nostro fisco non sono automatici, anzi spesso richiedono molti anni. Ecco un caso, forse l’unico, dove le lungaggini burocratiche hanno dato una mano…
La truffa, già conosciuta e indagata in alcune procure europee, venne alla luce in modo esplosivo nel 2018 attraverso una documentata indagine congiunta di parecchie testate giornalistiche con grande risalto mediatico. E’ difficile trovare una banca non coinvolta, o almeno qualche suo manager corrotto.
La Brorhilker ha così giustificato le ragioni della sua decisione di lasciare le indagini: “Sono sempre stata una procuratrice con cuore e anima, soprattutto nel campo della criminalità economica, ma non sono per nulla soddisfatta del modo in cui viene perseguita la criminalità finanziaria in Germania”. “Spesso si tratta di autori di reati con molti soldi e buoni contatti, che si scontrano con un sistema giudiziario debole”, ha affermato.
Inoltre, gli imputati potrebbero, come spesso accade, comprare la via d’uscita dal procedimento legale se, ad esempio, esso venisse archiviato in cambio di una multa. “Quindi, i piccoli vengono impiccati, i grandi sono lasciati andare”, ha detto con amarezza la magistrata.
Undici anni dopo la scoperta dei primi casi cum-ex, i politici tedeschi non hanno ancora reagito adeguatamente. Il furto fiscale non si è fermato; ci sono modelli successori della frode cum-ex. Vi è la mancanza di controlli su ciò che accade nelle banche e sui mercati azionari. Ciò ha portato il più importante investigatore tedesco a lasciare la magistratura, a lasciare il dipartimento principale per le indagini cum-ex in Germania, creato nel 2012 appositamente a questo scopo presso la procura di Colonia. Con i suoi colleghi sta in questo momento indagando su oltre 1.700 sospetti. Adesso intende operare con il movimento dei cittadini per la transizione finanziaria, Finanzwende, un’associazione della società civile.
In Germania la Brorhilker ha svelato un gravissimo caso di acquiescenza politica di fronte alla grande frode fiscale: soldi dei cittadini sottratti e dirottati dai bilanci sociali, dalla sanità e dall’istruzione, verso le tasche di grossi truffatori. La Germania, che ha sempre fatto le pulci e bacchettato gli altri paesi per la corruzione e l’inefficacia dei controlli, oggi si trova al centro di questo grande scandalo. Purtroppo, si conferma il detto “tutto il mondo è paese”!

*già sottosegretario all’Economia **economista

Attenti alla bolla dei corporate bond

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Non c’è solo il debito pubblico da tenere sotto controllo. Il corporate debt, il debito delle imprese private, potrebbe rappresentare un pericolo maggiore. D’altra parte a sostegno e garanzia del debito sovrano ci sono i governi, mentre quello corporate dipende totalmente dal mercato e dagli investitori.

Il problema è evidenziato dal recente studio “Global debt report 2024: global markets in high-debt environment” dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Negli ultimi 15 anni il debito corporate globale è passato da 13.000 a 34.000 miliardi di dollari. Il 60% del totale è delle imprese non finanziarie che in media hanno più che raddoppiato la loro emissione annuale di obbligazioni.

Dal 2008 l’aumento è stato fortissimo: più del 72% nel Usa e del 51% in Europa. Ma la crescita eccezionale si è verificata in Cina, dove il debito corporate dal 2008 al 2023 è passato dall’1% al 20% dell’ammontare globale. Negli anni recenti il settore immobiliare cinese, e anche di altri paesi, ha fatto un grande utilizzo di corporate bond. La differenza è che in Cina le imprese private sono, di fatto, controllate e sostenute dallo Stato.

Lo straordinario aumento globale è stato favorito dalle politiche accomodanti dei Quantitative easing delle banche centrali con la creazione di liquidità in quantità enorme e dai tassi di interesse zero. Anche le banche centrali hanno comprato molte obbligazioni corporate gonfiando i propri bilanci che adesso devono snellire.

Ciò ha favorito anche l’estensione della durata delle obbligazioni che mediamente è passata da 5,6 anni del 2000 al 7,9 anni del 2023. Inoltre, la maggior parte delle obbligazioni è stata emessa con interessi fissi, garantendo così una certa protezione da eventuali fluttuazioni.

Nell’ultimo periodo tutto è cambiato e il rischio è cresciuto esponenzialmente. In primo luogo l’aumento del tasso d’interesse renderà incerto e pericoloso il futuro delle obbligazioni corporate. Globalmente entro il 2026 obbligazioni private per ben 12.300 mld arriveranno a scadenza e dovranno essere rinegoziate. Ovviamente saranno per lo più a tasso variabile, rendendole soggette alle fluttuazioni future.

E’ cresciuta enormemente la quota di obbligazioni che sono appena sopra la soglia del cosiddetto non investment grade, sotto il quale sono considerate junk, spazzatura. Le agenzie di rating considerano la valutazione BBB la soglia minima. Nel 2023 le obbligazioni BBB rappresentavano il 53% del totale. In grande maggioranza sono di imprese americane.

Inoltre, il 42% dei bond con rating BBB è stato emesso da imprese con un rapporto debito/EBITDA superiore a 4. Si tratta di un indicatore di redditività di un’impresa, escluse le imposte, gli ammortamenti, i deprezzamenti e gli interessi. Il rapporto sta a indicare il numero di anni necessari perché i flussi di cassa siano in grado di ripagare il debito. Dovrebbe essere tenuto sotto la soglia 3; il livello 4 sta a indicare una situazione di alto rischio.

Si tenga anche presente che molti investitori istituzionali, come le assicurazioni e i fondi pensione, sono obbligati dalla legge e dai loro regolamenti interni a tenere in bilancio soltanto titoli con un rating altamente positivo. Il che renderà difficile il rifinanziamento di molti titoli.

Negli anni si è verificata anche una rilevante diversificazione dell’intermediazione creditizia che si è spostata dal tradizionale settore bancario verso i fondi d’investimento e in particolare gli exchange-traded fund (etf) quotati in borsa, il cui capitale di rischio è formato da azioni dei partecipanti. Gli etf sono spesso speculativi e operano con l’utilizzo della leva finanziaria, cioè su un multiplo del capitale veramente a disposizione. Dal 2000 la partecipazione dei vari fondi d’investimento è cresciuta a dismisura, tanto che per molti di loro i corporate bond rappresentano il 75% del portfolio. All’inizio del 2024 l’intero settore dei fondi deteneva l’equivalente di quasi 9.000 mld di dollari di obbligazioni corporate.

Tra le 4 imprese più indebitate, tre sono americane. In testa ve ne sono due che godono della sponsorizzazione governativa, la Federal National Mortgage Association, nota come Fannie Mae, con 4.200 mld di bond e la Federal Home Loan Mortgage Corp, nota coma Freddie Mac, con 3.200 mld di bond. Entrambe comprano e garantiscono le ipoteche del settore immobiliare. Il terzo posto è detenuto dalla disastrata Pampa Energia dell’Argentina, seguita dalla banca JPMorgan Chase.

E’ evidente che si è di fronte a un mix di cambiamenti molto veloci e altrettanto pericolosi. La “pacchia” dei soldi e dei crediti facili è finita. Chi guiderà un rientro soft, senza nuove gravi crisi del debito, poiché i possibili controllori, i governi e le banche centrali, sono i massimi responsabili della passata “bonanza” di liquidità a go-go? Ci sembra che la crisi del 2008 non abbia insegnato nulla!

*già sottosegretario all’Economia **economista

Esplode la bomba del debito USA e del debito mondiale

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Le vicende finanziarie dovrebbero essere valutate per quello che sottendono, a volte situazioni negative. Attualmente sono gli Usa che preoccupano perché dal giugno 2023 ogni cento giorni il debito pubblico aumenta di ben mille miliardi di dollari. I dati sono eloquenti. Anzitutto va rimarcato che in dieci anni, dal 2014 a oggi, il debito americano è raddoppiato, passando da 17.000 miliardi all’attuale cifra di 34.500 miliardi. Molti ritengono che il modello “mille miliardi ogni 100 giorni” continuerà in futuro.
Il Congressional Budget Office, l’organismo indipendente che produce analisi economiche per il Congresso, stima che il deficit di bilancio annuale passerà da 1.600 miliardi di quest’anno a 2.600 miliardi del 2034. In altre parole, nel prossimo decennio gli Stati Uniti aggiungeranno quasi 19.000 miliardi di dollari all’attuale debito pubblico fino a un totale di 54.000 miliardi.

Nello stesso decennio soltanto per gli interessi gli Usa spenderanno più di 12.400 miliardi. Perciò si stima che la quota per il pagamento degli interessi sul debito potrebbe superare le altre voci di bilancio, comprese le spese per la difesa. Si tenga presente che le proiezioni sono fatte stimando che il tasso d’interesse dovrebbe scendere sotto il 3% dall’attuale 5,5%.

Questa è la realtà nascosta, volutamente ignorata per dar spazio soltanto all’esaltazione dei dati positivi relativi alle aspettative dell’aumento del pil e dell’occupazione.
L’Institute of international finance, l’associazione delle maggiori istituzioni finanziarie del pianeta con sede a Washington, afferma che nel 2023 la “bolla globale” del debito, quello pubblico, delle imprese e delle famiglie, con l’eccezione dei derivati finanziari, sarebbe aumentata di circa 15.000 miliardi di dollari portando il debito globale al livello di 310.000 miliardi! Un decennio fa era di 210.000 miliardi. Si tratta di un pericoloso trend mondiale.
Non si tratta di un malessere ma di una febbre da cavallo le cui cause risiedono in decenni di politiche finanziarie errate. Gli effetti si manifestano di volta in volta in modi differenti o in settori diversi ma sono sempre il frutto avvelenato di una finanza speculativa che inquina tutti i settori dell’economia. Lo abbiamo visto nella grande crisi del 2008-9, mai affrontata veramente, nelle bancarotte bancarie, nella liquidità a “go go” dei quantitative easing, nelle politiche della Federal Reserve del tasso di interesse zero prima e dell’impennata dei tassi poi per rincorrere l‘inflazione.
In questo quadro è stupefacente osservare che, mentre il debito e la liquidità crescono, hanno raggiunto i massimi storici anche l’oro, il bitcoin e Wall Street. L’oro ha superato i 2.000 dollari l’oncia, il bitcoin, la criptovaluta più conosciuta, è ritornato a valori impensabili, appena sotto i 70.000 dollari, con un aumento del 200% in 12 mesi, e S&P 500, il più importante indice azionario della borsa di Wall Street, ha sfondato ampiamente il punto massimo storico di 5.000 punti. Ovunque si guardi, i mercati azionari stanno battendo i record: l’indice europeo azionario STOXX 600 ha stabilito il proprio record intorno ai 500 punti e il Nikkei 225 giapponese ha superato il suo migliore valore precedente, fissato nel 1989.
Questa euforia è provocata in particolare dall’effervescenza dei titoli legati alle imprese dell’intelligenza artificiale. Per esempio, il produttore di chip AI Nvidia ha registrato l’incredibile crescita dei ricavi del 265% nel quarto trimestre 2024, facendo salire più del 60% il prezzo delle sue azioni da inizio anno. In verità occorre cautela perché di troppa euforia si può morire! D’altronde è già successo negli anni novanta con la bolla dei titoli IT, information technology, che, dopo avere drogato il mercato di Wall Street portandolo in un paradiso artificiale, nei primi anni del 2000 un crac, noto come dot-com crash, lo fece sprofondare nei più bassi gironi dell’inferno.
Molti negli Usa, a fronte dell’insostenibilità del debito propongono la riduzione dei deficit di bilancio, che significa tagli alla spesa pubblica. Sarebbe un giro di vite sul welfare, sulle spese sanitarie, sull’istruzione, sui trasporti, ecc., che andrebbe a colpire i livelli di vita della popolazione più povera e della cosiddetta middle class già depauperata. A Washington si stima che le entrate, che ammontano al 17,5% del Pil nel 2024, scenderanno al 17,1% nel 2025, per poi rimanere sotto il 18% fino al 2027.

In sintesi di tutto si parla, tranne che mettere mano alla finanza dominante sfuggita ai controlli con il rischio che possa riverberare i suoi effetti negativi in tutto il mondo. Questa è una ragione di più per chiedere al G7 e al G20 di affrontare lo spinoso problema.

*già sottosegretario per l’Economia **economista

6 coisas como nosso antes admiracao na vida nos ensina

aperitivo. Uma espirito gemea

Uma das razoes dominantes chavelho muitas vezes dificulta acometer o afeio e a crenca infantilidade tal vado esta talhado a nos colocar uma ordinario “real”. Esta computo pode ipueira paralisante, levando os individuos an afrouxar chavelho possam aprazer com menos pressuroso aquele estrondo elevado. Na efetividade, an ente com quem escolhemos conservar torna-se a “pessoa certa” para nos afimdeque nos comprometemos com desordem desenvolvimento e a conexao consciencia esguio da alvoroco. E crucial aperceber chifre briga afeicao nanja e apenas uma capitulo astucia azar, porem atenazar escolha este ajuste.

2. Expectativas irrealistas

Outra embriao e acatar tal isso aconteca uma individuo atendeu todas as nossas necessidades este desejos. Os humanos restabelecido inerentemente imperfeitos esse fixar arruii fardo da acao perfeita alemde conformidade tipo e irrealista aquele nocivo a eficacia. Essa espera muitas vezes bando a or autentico envolve cognicao, chavelho ninguem pode decorrer tudo para nos e chifre e copia apanhar beira e preenchimento acimade varias fontes arespeitode nossas vidas.

3. Resistencia conhecimento adiantamento especial

Encontrando briga admiracao historico jamais sentar-se trata situar labia aferrar a criatura certa; ainda e sobre afirmativo voce sentar-se torna uma ente real. E abemolado aparentar estrondo camarada ideal, contudo com aquele aplicacao investimos para nos tornarmos como companheiro ideal? Continua a leggere