Un Marx ingenuo?

Il fatto che Hegel, pur dentro un guscio mistico, abbia potuto scoprire le leggi della dialettica, avrebbe dovuto portare a credere che la tesi marxiana secondo cui “l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini” – come viene detto nella prefazione al Capitale del 1873 -, è una tesi vera solo parzialmente.

Infatti vien da chiedersi come abbia potuto Hegel scoprire le fondamentali leggi della dialettica in una Germania economicamente molto più arretrata di Francia e Inghilterra. Evidentemente egli seppe trasformare una limitatezza materiale in una ricchezza culturale. Ma da dove gli veniva questa capacità intellettuale? Gli poteva venire solo da una cosa, dalla stessa che influenzerà le grandi filosofie di Kant, Fichte, Schelling e dello stesso Marx: il protestantesimo. E’ stata questa religione laicizzata che in Germania aveva liberato il pensiero dalle catene della Scolastica.

In Germania i filosofi potevano permettersi il lusso di fare una rivoluzione del pensiero, senza aver bisogno di passare espressamente al sistema di vita borghese. Non c’è altra spiegazione storica. Anzi, rebus sic stantibus, risulta alquanto limitato sostenere che il capitalismo va visto come “un processo di storia naturale, che non può rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente il prodotto, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”, come viene detto da Marx nella prefazione al Capitale del 1867.

Se ci si può “elevare” al di sopra dei rapporti capitalistici, sottoponendoli addirittura a critica, come ha fatto magistralmente lo stesso Marx, allora non c’è un mero “processo di storia naturale“, ovvero il capitalismo appare come un processo naturale solo fintantoché non emergono forme di consapevolezza che ne chiedono il definitivo superamento, anche in assenza di un suo forte sviluppo, come appunto avverrà nella Russia di Lenin, il quale diceva che il proletariato industriale al massimo arrivava a una coscienza sindacale e che, per questa ragione, se davvero voleva cambiare il sistema, diventando rivoluzionario, doveva accettare una consapevolezza “dall’esterno”, quella degli intellettuali.

L’idea di Marx secondo cui il capitalismo è destinato ad essere superato dal socialismo, è un’idea che induce alla rassegnazione o, al contrario, a un ottimismo ingiustificato, basato su una concezione provvidenzialistica della storia, che nel Capitale ha le sue basi nell’economia (cioè nel nesso tra rapporti e forze produttive), è un’idea che indebolisce la capacità di resistenza della classe operaia. Se ci si può “elevare”, bisogna combattere subito i sistemi disumani e alienanti in cui si è costretti a vivere, usando tutti i mezzi a disposizione, senza aspettare che la loro forza riduca a un nulla le nostre istanze. Le vere differenze stanno semmai nelle forme organizzative della lotta, cioè nella tattica e nella strategia.

Evidentemente a Marx, subito dopo la pubblicazione del primo volume del Capitale, dovevano essere giunte delle critiche sul metodo usato, che somigliava troppo da vicino a quello hegeliano, basato su una dialettica intesa come successione necessaria di fasi, ognuna delle quali va considerata anticipatrice della futura sintesi.

A differenza di Hegel, Marx poteva anche dire di essere esplicitamente ateo, poteva anche dire d’essere partito dall’economia politica e non da una filosofia astratta, poteva anche voler trasformare e non soltanto interpretare il mondo, ma la categoria della necessità veniva usata nella stessa identica maniera. Lo dimostra anche il fatto che nelle sue prefazioni al Capitale egli prevede un futuro capitalistico per tutte le nazioni europee, anzi per il mondo intero. Non ritiene possibile giungere al socialismo saltando la fase del capitalismo. Questo voleva dire usare la categoria della necessità in maniera giustificazionista.

A questo punto l’unica vera differenza tra lui e il suo maestro Hegel stava unicamente nel fatto che questi, in veste di accademico, l’aveva usata per legittimare uno Stato reazionario come quello prussiano, mentre lui, da ebreo errante e apolide, non poteva pensare che a una società utopica.

Forse più che “maestro del sospetto” avrebbe dovuto essere definito “campione di ingenuità”, nel senso che se c’è una cosa che non avviene in maniera necessaria è proprio una transizione progressiva da una formazione sociale all’altra. Non solo perché gli uomini arrivano ad un certo punto ad abituarsi così tanto alle contraddizioni antagonistiche che quasi più non le riconoscono, accettandole come una loro “seconda natura”, cioè un semplice dato di fatto, sperando, nel migliore dei casi, in un decisivo “aiuto esterno”, un aiuto anche “barbaro” contro una presunta civiltà, come appunto avvenne alla fine dell’impero romano.

Ma anche quando avvengono queste tragiche transizioni, in genere non si conserva nulla della precedente civiltà, in quanto si vuole ricominciare tutto da capo, proprio perché ci si accorge abbastanza facilmente che, in presenza di una nuova concezione di vita, determinate strutture economiche e materiali non servono a nulla e devono essere abbandonate o riciclate per usi del tutto diversi.

Metà della sua vita Marx la spese per studiare un sistema che non è destinato a crollare automaticamente e che quando verrà distrutto da qualche forza, interna o esterna, non conserverà nulla di utile per creare una vera alternativa.

La natura e il suo becchino

Il fatto che l’essere umano sia l’unico ente di natura in grado di dominare la stessa natura è poco spiegabile. Sarebbe come se gli uomini creassero delle macchine che, ad un certo punto, per qualche motivo, si rifiutassero di eseguire i loro ordini. Giusto nei film di fantascienza. Se ciò nella realtà fosse possibile, saremmo rimasti alla zappa e alla vanga: non ci piace davvero perdere tempo e tanto meno avere spiacevoli sorprese dalle nostre fatiche, anche se, quando capitano, facciamo di tutto per farle pagare agli altri. O forse avremmo smesso di creare macchine perché queste stesse, giunte a un grado pericolosissimo di sofisticazione, ci avrebbero fatti fuori, com’è successo a Chernobyl, a Fukushima e in tanti altri posti ancora.

Certo una macchina si può guastare, ma pensiamo che possa sempre essere riparata (anche se oggi cominciamo a nutrire dei dubbi col nucleare di mezzo), e quando viene definitivamente dismessa, è perché è stata sostituita da un’altra, ancora più funzionale e sicura. Almeno così crediamo. In un primo momento infatti siamo convinti che i pro siano di molto superiori ai contro. Da tempo sappiamo che ogni macchina ha effetti positivi e negativi, ma di quelli veramente negativi ci accorgiamo sempre troppo tardi. Questo perché viviamo nel mondo dei sogni, nell’illusione di poter dominare la natura in ogni suo aspetto, senza controindicazioni rilevanti.

Chi ha la mia età si ricorda benissimo quando si scriveva con la cannetta e l’inchiostro o con la stilografica. Ci si sporcava, si aveva bisogno della carta assorbente o bisognava aspettare che le parole si asciugassero, magari aiutate dal nostro alito, ma il vantaggio era che il tutto costava molto poco, non solo per le boccette d’inchiostro ma soprattutto perché le penne erano ricaricabili. Poi venne la comodità della biro di plastica, che però non è ricaricabile, non è biodegradabile, non è riciclabile e per la natura fu un inferno.

Dunque la natura avrebbe creato un soggetto che le può sfuggire di mano in qualunque momento, e che anzi le può fare dei danni addirittura irreparabili (come p.es. le desertificazioni o le contaminazioni radioattive, ma anche talune forme d’inquinamento fisico-chimico).

Diciamo che questo potere devastante l’uomo l’ha manifestato soprattutto negli ultimi due secoli, cioè da quando la rivoluzione industriale, grazie al capitalismo (ma il socialismo reale non ha fatto certo di meglio), s’è imposta, in maniera diretta o indiretta, su quasi tutto il pianeta.

Ora, come si spiega che la natura sia stata così ingenua da creare il proprio becchino? Qui delle due l’una: o la natura possiede meccanismi di autodifesa che noi non conosciamo, oppure l’essere umano ha un’origine che non è semplicemente “naturale” o “terrena”.

Indubbiamente noi siamo nati su questa Terra dopo che la natura s’era formata, la quale quindi, per esistere, non aveva alcun bisogno di noi. Eppure da quando noi esistiamo, la Terra ha subìto sconvolgimenti epocali, molti dei quali del tutto irreversibili. Lo spazio vitale in cui poter vivere in tranquillità si sta riducendo drasticamente.

Cosa voglia dire questo, in prospettiva, resta un mistero. Certamente noi non possiamo andare avanti con questi ritmi di devastazione ambientale. Abbiamo creduto per troppo tempo che non vi fosse alcun limite al saccheggio o all’uso indiscriminato delle risorse naturali.

Il problema è che l’essere umano non può vivere senza natura. Nel passato non esisteva neppure il rischio di una scomparsa del genere umano per motivi ambientali, anche se indubbiamente i deserti che abbiamo creato con le nostre deforestazioni, da un pezzo ci fanno capire quanto siamo scriteriati.

Oggi questo rischio è sempre più prossimo. Quanto più distruggiamo la natura, tanto più ammaliamo noi stessi, minacciamo la nostra esistenza, mortifichiamo le nostre identità. E al momento non si può certo dire che siamo pronti per trasferirci su altri pianeti.

Se l’economia non si sottomette all’ecologia, per noi è finita. Se i nostri criteri produttivi non si sottomettono a quelli riproduttivi della natura, finiremo con l’autodistruggerci. Non possiamo porre la natura nelle condizioni di sperare che il genere umano scompaia dalla faccia della Terra. Dobbiamo elaborare quanto meno delle leggi in cui venga dichiarato che un crimine contro la natura è un crimine contro l’umanità, per il quale si deve scontare la pena finché non si è risarcito il danno.

Il futuro sta nella scienza o nella coscienza?

Sul nostro pianeta il genere umano dovrebbe sviluppare anzitutto la coscienza, e solo in secondo luogo la scienza. L’unica scienza che dovrebbe sviluppare è quella contestuale allo spazio-tempo che gli è appunto dato da vivere su questo pianeta: uno spazio-tempo determinato dalle condizioni di sussistenza della natura, basate su precise esigenze riproduttive.

Un qualunque sviluppo scientifico che non tenesse conto di queste esigenze sarebbe inutile o nocivo, anzitutto per la natura, ma poi anche per l’uomo. Infatti una scienza senza coscienza può far solo del male: nel migliore dei casi non serve a nulla. Noi non ci accorgiamo subito dei guasti che procuriamo alla natura né del male che facciamo a noi stessi semplicemente perché nel primo caso la natura ci appare sconfinata e nel secondo perché appunto scarichiamo su di essa tutti i nostri problemi.

Questa falsa percezione delle cose appartiene però solo ai paesi che vogliono “dominare” l’intero pianeta, i quali pensano che lo sfruttamento delle risorse naturali sia illimitato in profondità e in estensione e non si preoccupano affatto di quali conseguenze ciò possa avere sulla natura stessa, sui paesi sottomessi e persino su loro stessi: questo perché chi vive sfruttando le risorse altrui, pensa unicamente al suo interesse immediato.

I prodotti della scienza dipendono esclusivamente dalla ragione, ma se questa ragione è influenzata da interessi economici o politici o, peggio ancora, militari, non ci sarà neanche un suo risultato, grande o piccolo che sia, che servirà davvero a far progredire l’umanità. Ed è fuor di dubbio che la scienza affermatasi a partire dall’epoca moderna è altamente nociva, sotto tutti gli aspetti, sia per gli uomini che per la natura. Non perché sia scienza in sé, ma proprio perché non lo è, in quanto risponde a necessità o motivazioni che non sono naturali e quindi neppure scientifiche.

Infatti, in epoca moderna prevalgono nettamente le necessità di una determinata classe sociale, che si chiama “borghesia”, affermatasi in contrapposizione a un’altra classe sociale esistita nel Medioevo: l’aristocrazia. Là dove esistono società divise in classi sociali, un qualunque sviluppo scientifico fa gli interessi della classe dominante, che se ne serve per restare al potere.

Ogniqualvolta si gioisce per un risultato straordinario della scienza, si cade vittima di un’illusione, paragonabile a quelle che si alimentavano quando dominava la religione. Allora erano illusioni basate sulla fede, oggi sono basate sulla ragione. La scienza è la religione dell’uomo moderno: i miracoli si fanno con la matematica, la fisica, la tecnologia ecc. E che questi miracoli producano risultati opposti a quelli voluti o immaginati dipende appunto dal fatto che le motivazioni sottese al progresso scientifico sono viziate in partenza da interessi contrari alle esigenze umane e naturali.

In una situazione del genere andare avanti può soltanto voler dire “tornare indietro”. Noi, per poter davvero “progredire”, dobbiamo tornare a quel periodo della storia in cui gli esseri umani non avevano bisogno di alcuna illusione per vivere. E questo periodo può essere soltanto quello in cui non esistevano conflitti di ceti o di classi sociali, in cui non esisteva proprietà privata dei mezzi produttivi, in cui l’individuo si sentiva parte integrante di un collettivo, in cui la vita sociale era compatibile con quella naturale. Questo periodo gli storici lo chiamano, con molta supponenza, in quanto lo ritengono definitivamente superato, col nome di preistoria.

Siamo così prevenuti nei confronti di questo periodo che abbiamo sempre fatto di tutto per dimostrare che da esso bisognava necessariamente uscire, proprio perché per noi non esiste “progresso” e neppure, se vogliamo, la “storia” se anzitutto non si esce dalla preistoria.

Ecco, forse è giunto il momento di squarciare il nuovo velo che abbiamo messo nel nuovo tempio dedicato alla scienza, e dire: “Da quando siamo usciti dalla preistoria è iniziato il regresso dell’umanità”. L’unico modo per invertire la rotta è rinunciare a tutto quanto di scientifico e di tecnologico risulti dannoso per la natura, e puntare diritto verso lo sviluppo della coscienza umana.

Tornare alla preistoria

Il concetto di “lavoro”, inteso come mansione ripetitiva, rispetto degli orari, di determinati obblighi, ovvero l’impegno quotidiano imposto da circostanze esterne, è un concetto innaturale, che può essere nato soltanto in un sistema di vita già segnato dai conflitti di ceto o di classe. Un lavoro del genere è determinato in realtà dal concetto di “forza”, in quanto è appunto un “lavoro forzato”.

Per l’uomo preistorico lavorare significava andare alla ricerca di cibo per sfamarsi o di oggetti utili per costruirsi armi per la caccia o per la raccolta di frutti, bacche, radici… Anche quando non c’era di mezzo l’esigenza di alimentarsi, vi erano comunque altre esigenze naturali da soddisfare, come p. es. quella di ripararsi dalle intemperie o da altri animali affamati o pericolosi o fastidiosi.

Sia come sia, egli non aveva mai l’impressione che qualcuno volesse “obbligarlo” a fare qualcosa: si trattava soltanto di trovare una soluzione a esigenze del tutto naturali, che sorgevano spontaneamente dalla sua persona o dalla vita di gruppo. Era impossibile parlare di “alienazione”. La natura non era mai vista come una “nemica”, ma anzi come la fondamentale risorsa per soddisfare le proprie esigenze.

Là dove s’è imposto il concetto di “forza”, lì s’è affermata la “proprietà privata”, e quindi l’obbligo, da parte dei più deboli, di lavorare per i più forti. Oggi questo obbligo s’è esteso in tutto il pianeta, tanto che s’è ridotta a un nulla la possibilità di esistere ricavando liberamente dalla natura ciò che occorre alla propria sopravvivenza. Tutta la natura è dominata dalla forza dell’uomo, la quale domina anche quelle popolazioni che considerano la natura più importante dell’uomo.

L’alienazione si è dunque sviluppata in due direzioni parallele: quella del rapporto tra debole e forte e quella del rapporto tra uomo e natura. quanto più il forte vuole imporsi sul debole, tanto più l’uomo (debole e forte insieme) vuole imporsi sulla natura.

Il forte costringe il debole ad avere un rapporto alienato non solo nei confronti dell’oggetto del proprio lavoro, in quanto deve produrre cose che non gli appartengono e la cui quantità è di molto superiore al suo fabbisogno quotidiano, ma anche nei confronti della stessa natura, poiché è proprio dallo sfruttamento indiscriminato delle sue risorse che egli viene messo in condizione di condurre un “lavoro forzato”.

La storia non è stata altro che un tentativo di trasferire a livelli sempre più elevati, in estensione e profondità, lo sfruttamento della natura, con cui poter rispondere all’istanza, avanzata dai più deboli, di porre fine al loro sfruttamento da parte dei più forti. Cioè la mancata soluzione al problema dello sfruttamento umano ha comportato un’accentuazione sempre più esasperata del saccheggio delle risorse naturali. E poiché questo saccheggio oggi avviene a livello planetario, è evidente che anche lo sfruttamento degli uomini deve sottostare a una regolamentazione di tipo planetario.

Oggi esistono organismi preposti allo sfruttamento planetario degli esseri umani e della natura, gestiti dalle nazioni economicamente, militarmente e politicamente più potenti. Questi organismi sono la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e, per molti aspetti, le stesse Nazioni Unite. Oltre a queste organizzazioni, che sono le principali, ne esistono molte altre di carattere regionale o con scopi più specifici, come p. es. l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, la Nato ecc.

Una lotta mondiale contro questi organismi, che vanno assolutamente ripensati nelle loro fondamenta, in quanto tendono a schiavizzare il mondo intero, non potrà prescindere dall’idea secondo cui l’unico modo di salvaguardare la natura e superare ogni forma di alienazione è quello di far tornare l’uomo alla preistoria, cioè a quel periodo in cui non esisteva la proprietà privata dei mezzi produttivi e il rapporto con la natura era vincolato all’esigenza di rispettarne tutti i cicli riproduttivi.

La perfezione dell’imbroglio

Nelle civiltà antagonistiche, dove l’uomo è il lupo dell’uomo, e sicuramente la nostra (di noi occidentali) è una delle più perfette, l’imbroglio non è l’eccezione ma la regola. Se il cosiddetto “socialismo reale” fosse sopravvissuto, avremmo dovuto dire che loro erano più perfetti di noi, in quanto gestivano l’imbroglio sottomettendo l’economia alla politica. Ma in Russia sono stati poco furbi, soprattutto perché troppo autoritari, troppo ideologici. La gente può rassegnarsi a vivere una vita grama, ma non a tenere sempre la bocca chiusa.

Sono stati più astuti i cinesi, che hanno salvaguardato molte cose del vecchio “socialismo reale”, aprendo le porte della società civile (non dello Stato) a dinamiche tipicamente borghesi. In tal modo è come se avessero detto: “politicamente devi continuare a tenere la bocca chiusa, ma economicamente, se ne sei capace, puoi emanciparti notevolmente”.

Quando i cinesi arriveranno a comprendere i meccanismi inerenti alla gestione di un diritto del tutto formale e di una democrazia del tutto fittizia, avranno raggiunto la perfezione dell’imbroglio. Sì, perché, oltre a queste cose, che devono ereditare da noi, loro avranno anche quella capacità autoritaria di farle funzionare che a noi oggi manca del tutto.

La dittatura del capitale dovrà servirsi di elementi che esaltino la democrazia e il socialismo apparenti, e che nella sostanza (quella nascosta) siano caratterizzati da un implacabile autoritarismo, analogo a quello staliniano e maoista, che, quando nacquero, erano avanzatissimi nella gestione dell’imbroglio, pur essendo privi del supporto della borghesia. Entrambi infatti si servirono dei funzionari statali, cioè di una classe sociale apparentemente al di sopra delle parti, fingendo di fare gli interessi, l’uno degli operai, l’altro dei contadini.

Stalinismo e maoismo sono durati molto di più del nazismo e del fascismo non tanto perché la Russia e la Cina non avevano forti tradizioni borghesi o una cultura delle libertà civili e dei diritti umani, quanto perché il nazifascismo era una dittatura priva di una vera idealità politica. Infatti, pur volendo imporre l’idea di Stato a tutta la società, di fatto né Hitler né Mussolini vi sono mai riusciti, in quanto il capitale privato non è mai stato toccato, anzi è stato favorito in tutti i modi, tant’è che proprio sotto di loro nasce il capitalismo monopolistico di stato.

Non solo, ma i partiti totalitari dell’Europa occidentale sono sempre stati caratterizzati da un notevole cesarismo, sicché, alla morte dei loro leader, sarebbe stato impossibile continuare con lo stesso tipo di autoritarismo.

Viceversa sia in Russia che in Cina la dittatura è continuata ben oltre la morte di Stalin e di Mao e, in un certo senso, continua ancora oggi. Con questa differenza, che mentre in Russia il governo ha potuto continuare ad essere autoritario rinunciando anche formalmente alle idee del socialismo, in quanto là ci si può avvalere d’immense risorse energetiche, che danno l’illusione d’una ricchezza illimitata, per cui non si ritiene necessario parlare di “socialismo”; senza poi considerare che la Russia, essendo un paese immenso, è convinta d’essere praticamente non conquistabile da parte di altri paesi (e se certamente non lo è da parte di un paese euroccidentale, non può dire di non esserlo anche da parte di un paese asiatico – Mongolia docet!).

In Cina invece, dove tali risorse sono infinitamente minori, l’autoritarismo ha potuto formalmente continuare in nome degli ideali socialisti, illudendo quell’immenso serbatoio di manodopera a basso costo (nella parte occidentale del paese), sfruttata in maniera molto intensa, che se la situazione dovesse degenerare, si può sempre contare sull’appoggio dello Stato e del partito unico, che han concesso alla società civile d’imborghesirsi in via transitoria, a titolo, per così dire, sperimentale, giusto per evitare un’altra Tien an men.

Gli incredibili successi del positivismo comtiano

Pur cercando per tutta la sua vita un’affermazione personale, Auguste Comte (1798-1857), il teorico del positivismo, riuscì a trovarla solo dopo morto e addirittura nel mondo intero.

Nella seconda metà dell’Ottocento (almeno fino alla I guerra mondiale) il positivismo fu la filosofia più importante del pianeta, infinitamente superiore sia quella del socialismo che a quella del nostro neo-idealismo (Croce e Gentile). Fu l’ideologia che la borghesia volle imporre non solo in Europa e negli Stati Uniti, ma anche in tutte le proprie colonie. Fu la risposta borghese alle teorie del vecchio idealismo religioso e del nuovo socialismo utopistico e scientifico, ma anche a tutti i tentativi di “democratizzare” troppo la società civile.

La borghesia del secondo Ottocento era sì favorevole alla scienza e alla tecnica (applicate all’industria), ma voleva anche pacificazione sociale e sottomissione delle classi lavoratrici (eventualmente alzando i loro salari grazie allo sfruttamento selvaggio delle colonie, di cui in Europa la popolazione non sapeva quasi nulla, e negli Usa ancora meno).

La forza (illusoria) del positivismo stava tutta nel fatto che si poneva come una “religione laica”, disposta a fare della rivoluzione tecnico-scientifica il proprio idolo. Si era assolutamente convinti che gli antagonismi sociali, creati a partire dalla rivoluzione industriale della seconda metà del XVIII sec., e resi ben evidenti dalle condizioni di miseria delle plebi urbane, che fuggivano da una vita rurale il cui autoconsumo era stato rovinato dai mercati, si sarebbero facilmente risolti investendo nell’industria tutto quanto di scientifico e di tecnologico si sarebbe potuto scoprire e inventare.

Si voleva assolutamente essere convinti di questo, poiché si temeva che le forze sociali antiborghesi potessero sfruttare quegli antagonismi al fine di avanzare rivendicazioni non compatibili con le esigenze di profitto.

La borghesia aveva cercato nelle plebi rurali e urbane un potente alleato contro le forze reazionarie della nobiltà (laica e, in Francia, anche ecclesiastica). Ora che aveva ottenuto maggiori spazi di manovra, temeva di dover fare ulteriori concessioni ai propri alleati: di qui i tradimenti politici e i tentativi, appunto “positivistici”, di farsi perdonare, promettendo un benessere generalizzato in virtù di un nuovo dio da adorare: quello del progresso tecnico-scientifico.

La borghesia in effetti fu convincente, poiché nell’ambito del socialismo europeo il riflusso fu notevole. Era molto raro vedere degli intellettuali di sinistra mettere in relazione l’aumentato benessere in Europa e negli Usa col crescente sfruttamento delle loro colonie e della natura in generale, nei cui confronti avere il benché minimo scrupolo sarebbe stato irresponsabile. Neppure oggi d’altra parte esiste una consapevolezza critica di ciò che il capitalismo è in grado di fare quando si pone come “imperialismo”.

La disillusione non venne perché il benessere, dopo una prima euforia, era diminuito, nonostante fossero forti e ripetute le crisi di sovrapproduzione, ma venne perché scoppiò la I guerra mondiale, la quale appunto s’incaricò di dimostrare che il positivismo poteva essere messo al servizio non solo di quelle nazioni che, prima delle altre, avevano compiuto l’unificazione nazionale e, insieme, la rivoluzione industriale, ma anche di quelle che, in queste due direzioni si erano avventurate per ultime e che ora avevano bisogno di recuperare in fretta il tempo perduto, soprattutto là dove, col pretesto della “civilizzazione da esportare”, c’erano da saccheggiare ricchezze favolose a titolo gratuito.

Dunque, il positivismo aveva dimostrato che la pur imponente rivoluzione tecnico-scientifica non era di per sé sufficiente a risolvere gli antagonismi sociali. Ci voleva ben altro, e la soluzione trovata dalla borghesia era perfettamente in linea con la sua filosofia di vita, soprattutto con quella che viene applicata nei momenti difficili: la guerra.

Ci illuderemmo però a pensare che le due guerre mondiali abbiano saputo sferrare un colpo decisivo all’ideologia “magica” del positivismo. La borghesia ha soltanto mutato gli strumenti del proprio dominio: dopo il treno ha creato l’automobile, dopo la macchina da scrivere il computer, dopo il telegrafo e il telefono il cellulare, e così via.

Di scoperta in scoperta, in un susseguirsi d’innovazioni sempre più complesse, siamo arrivati a un punto in cui non si sa più cosa inventare. Sappiamo soltanto che quando le crisi non si risolvono, quando le contraddizioni si acuiscono, la borghesia sa trarre dal suo cilindro sempre il solito coniglio. Il suo motto preferito è: “distruggere tutto per poter ricostruire.

Abbiamo davvero capito Aristotele?

La metafisica di Aristotele si divide in due settori (ontologia e teologia) che potrebbero restare anche separati. Ciò che li lega, in definitiva, è abbastanza irrilevante. Fa anzi specie che un filosofo del suo livello abbia introdotto un discorso su dio ragionando in maniera semplicistica, come fanno gli adolescenti, quando si chiedono, posti di fronte a una causa, quale sia la causa della causa e così via. Qui aveva ragione Marx, quando, nei Manoscritti del 1844, diceva che i credenti vogliono dimostrare l’esistenza di qualcosa partendo dalla sua inesistenza.

In altre parole, quando si osserva un fenomeno e si vuol cercare di capirne le cause, ad un certo punto ci si dovrebbe fermare, non tanto perché non si hanno elementi sufficienti per vincere l’ignoranza, ma, al contrario, proprio perché si è ben consapevoli che, oltre un certo limite, non si può andare. E questa umiltà nei confronti dell’insondabilità delle cose, dovremmo averla non solo nei confronti dei fenomeni umani, ma anche nei confronti di quelli naturali. La pretesa di voler conoscere tutto è semplicemente infantile, che però possiamo giustificare in una filosofia nata 2300 anni fa. Questo perché ogni volta che si vuole approfondire qualcosa, si arriva sempre a un punto – che poi è quello della libertà – in cui fermarsi è d’obbligo, in quanto, se si facesse il passo ulteriore, si direbbero cose facilmente contestabili.

Il fatto che Aristotele accetti l’idea di un qualcosa di “soprasensibile”, di per sé non andava preso come un invito a credere in una qualche “divinità”, anche perché Aristotele era più propenso ad accettare l’eternità dell’universo, escludendo quindi che potesse esistere un “dio creatore”. Dicendo “soprasensibile” egli aveva soltanto in mente qualcosa di diverso da ciò che si può constatare usando il nostro pianeta come osservatorio del cosmo. Sulla Terra infatti tutto sembra avere un inizio e una fine: il “soprasensibile” (quello che non è soggetto a mutamento) doveva per lui trovarsi al di fuori della Terra, cioè appunto nell’universo. E doveva essere qualcosa di diverso dai quattro elementi che compongono il nostro pianeta (terra, aria, acqua e fuoco). Di qui l’ipotesi di una “quinta essenza”, eterna, immutabile, senza peso e trasparente, che lui chiamò etere, in cui continuerà a credere persino il matematico Luca Pacioli, neoplatonico del XVI sec.

Tutto il discorso che Aristotele fa alla fine della sua metafisica, relativamente al cosiddetto “primo motore immobile”, non è decisivo per capire la struttura dell’universo, in quanto sarebbe bastato parlare dei cinque suddetti elementi. Potrebbe benissimo essere stato scritto da qualcuno che ha cercato di conciliare, forzosamente, Aristotele con Platone. Anche perché Aristotele era uno scienziato: più che le cause ultime di tutte le cose, preferiva parlare di cause finali, cioè di “scopo dell’agire”, o di leggi della trasformazione della materia, che da cosa magmatica e informe diventa ben definita e intelligibile (e non solo in astronomia, ma anche in fisica, botanica, zoologia ecc.). Oppure trattava, magistralmente, di argomenti di logica formale, che con la teologia non avevano attinenza.

Aristotele non pensò mai di attribuire all’universo una nascita, né, ovviamente, una fine. E’ vero che per lui l’universo non era, eterno e, insieme, infinito, poiché, come tutti i greci (che in questo caso son appunto come i bambini), preferiva un universo perfetto proprio in quanto finito. L’idea di infinito sconcertava: al massimo veniva ammessa sul piano matematico, come ipotesi astratta, non riguardante la fisica vera e propria.

Oggi invece siamo arrivati alla conclusione che è proprio l’infinità spaziale dell’universo (che corrisponde appunto alla sua eternità temporale) che assicura a noi, come essenza umana, una unicità nell’universo. Il genere umano è universale in quanto l’universo è l’unico luogo adeguato a contenerlo. L’universo dell’essere umano è il suo proprio universo.

Occorre però ribadire che non esiste per Aristotele alcun “dio creatore”; al massimo può esistere un “dio regolatore”, cioè un qualcosa che spieghi il movimento della materia: l’unico vero argomento per lui meritevole d’interesse. D’altra parte nessun greco ha mai pensato a una “creazione dell’universo” da parte di un dio dotato di superpoteri (gli stessi dèi erano sottoposti al fato, cioè a leggi imperscrutabili). Se si può rimproverare qualcosa ai greci non è tanto l’idea di negare che dal nulla possa nascere qualcosa, quanto piuttosto di non aver capito che il non-essere ha un ruolo decisivo per la stessa natura dell’essere, essendo fonte di libertà e di diversità.

La materia, nella sua origine, apparteneva all’ambito del non-essere, che, nelle sue profondità, resta inaccessibile all’essere, come la coscienza possiede elementi inconsci, che restano, in ultima istanza, non chiaramente definibili. D’altra parte la stessa creazione raccontata nel Genesi ebraico sembra più che altro finalizzata a far capire a un essere umano del tutto smarrito quale sia la sua origine nell’universo e quindi il suo significato sulla Terra.

E’ un racconto pedagogico, che serve per spiegare il momento di passaggio da una condizione naturale, quella del comunismo primordiale, a una molto innaturale, quella dello schiavismo. In quella naturale non vi era alcuna vera differenza tra uomo e dio, in quanto entrambi “passeggiavano” nel giardino, cioè l’uomo aveva consapevolezza d’essere padrone della propria vita, mentre in quella innaturale ha piena consapevolezza d’essere schiavo di qualcun altro.

Quando Aristotele delinea una cosmologia così chiusa e perfetta, lo fa dal punto di vista di un osservatore terrestre, usando ragionamenti di tipo deduttivo; ma questa descrizione lasciava, in un certo senso, impregiudicato il significato profondo dell’universo, che va necessariamente al di là di qualunque osservazione.

La sua teoria cosmologica ha avuto così grande successo semplicemente perché, senza strumenti tecnologici avanzati, era la migliore possibile, quella più convincente. Anzi, se nell’universo esiste un finalismo (e il caso spiega soltanto i fenomeni accidentali), noi dovremmo dire che il geocentrismo è una scienza “istintivamente” esatta, in quanto soddisfa le esigenze della coscienza umana. Non perché – come diceva la chiesa – esiste un dio, ma proprio perché non esiste.

Noi siamo al centro dell’universo, proprio perché l’universo è ateo. Gli unici esseri viventi dell’universo sono quelli del pianeta Terra, del nostro presente e anche del nostro passato, poiché tutto, ivi inclusi quindi gli esseri umani, è in perenne trasformazione. Noi non vediamo gli esseri umani che ci hanno preceduto, semplicemente perché li osserviamo dal punto di vista terrestre. Ma il punto di vista che meglio caratterizza gli umani è quello universale, che rispecchia in maniera più adeguata le caratteristiche della loro libertà di coscienza, che è eterna e infinita.

La scienza moderna, quella nata in epoca borghese, ci ha spiegato come funzionano le cose materialmente, ma, tenendo separata la materia dal suo fine, ci ha fatto perdere la visione d’insieme.

Popoli maledetti dalla storia

Può esistere un popolo maledetto dalla storia, odiato da tutti gli altri popoli? Se gli ebrei pensano di esserlo, fanno del vittimismo. Non può esistere alcun popolo odiato in quanto “popolo”. O almeno questa cosa non può durare per secoli e secoli. Prima o poi si arriva a un compromesso, a un’intesa, anche perché chi viene odiato, si difende, rivendica dei diritti, cerca di dimostrare d’essere migliore di come viene dipinto, e spesso i popoli conquistatori diventano culturalmente conquistati, come gli antichi romani da parte dei greci. Persino tra i popoli dominatori, c’è sempre qualcuno che cerca d’essere o di sembrare migliore degli altri, inducendo questi, in qualche modo, ad adeguarvisi.

I bianchi nord-americani hanno odiato i neri sin dal momento in cui hanno iniziato a sfruttarli come schiavi, ma ad un certo punto sono emersi i diritti civili: diritti rivendicati dagli stessi neri, ma anche diritti rivendicati dalle categorie sociali inferiori dei bianchi. Non importa chi rivendica i diritti, ma che vengano estesi a quanta più gente possibile.

I bianchi nord-americani hanno odiato a morte anche gli indiani, sterminandoli quasi tutti e relegando gli ultimi sopravvissuti nelle riserve, ma poi c’è stato il ripensamento degli anni ’70, il rimorso d’aver compiuto un genocidio insensato, benché ancora oggi si attendano riparazioni e scuse ufficiali.

Finita la seconda guerra mondiale, dopo che gli statunitensi avevano rinchiuso tutti i giapponesi di cittadinanza americana in campi di concentramento, ci si chiese se quella fosse stata davvero una scelta indovinata. Cosa sarebbe successo a quei prigionieri se gli Stati Uniti avessero perso la guerra?

Anche gli aristocratici spagnoli hanno odiato a morte agli amerindi del Sudamerica, ma poi, quando quelli sono divenuti cattolici, han dovuto integrarli, pur non avendo ancora oggi il coraggio di dire che “cinquecento anni bastano”.

I greci odiavano a morte i barbari, ma, in nome del cristianesimo, dovettero ripensarci: saranno i rozzi slavi di Mosca a ereditare la caduta di Costantinopoli. E i romani odiavano a morte i germanici, ma alla fine dell’impero, pur di farlo sopravvivere, furono tolleranti e li assoldavano persino nelle legioni.

I turchi hanno odiato a morte gli armeni e ancora oggi detestano i kurdi, ma se lo scordano di poter compiere impunemente altri genocidi: anzi siamo ancora tutti in attesa che ammettano le loro responsabilità.

E i bianchi sudafricani per quanto tempo hanno odiato i neri del loro stesso paese, che pur costituivano la stragrande maggioranza della popolazione? L’hanno fatto finché hanno capito che, se avessero continuato, sarebbe stata la loro fine. Il mondo va avanti: si cerca anche di migliorarsi, di far progredire la coscienza dei valori umani e non ci si fa venire la puzza sotto il naso sapendo che molti di questi mutamenti possono essere determinati da ragionamenti basati sul calcolo o l’interesse. Non si può essere ciechi e ottusi in eterno, votati pervicacemente al male.

Potremmo anche parlare della rigida divisione in caste esistente ancora oggi in India, pur vietata dalla Costituzione? Per quella cosa nacque il buddismo e l’India non poté impedire la massiccia diffusione dell’islam. E perché tacere dell’odio terribile che i cristiani hanno provato per i pagani e i cattolici per gli ortodossi e i cattolici e protestanti reciprocamente? Per queste cose molta gente ha smesso di credere.

Esempi come questi potremmo farne a decine, forse a centinaia, se prendiamo come lasso di tempo gli ultimi seimila anni. Ci sono popolazioni che vengono odiate come tali, salvo eccezioni particolari, come quando qualcuno rivela un particolare talento e lo mette a disposizione del popolo dominatore. Gli afro-americani, andando a morire nelle guerre di secessione e mondiali, hanno potuto riscattarsi agli occhi dei bianchi razzisti. Questo perché ad un certo punto le cose evolvono, si modificano, anche se viene sempre spontaneo chiedersi da dove venga fuori questo odio atavico tra le popolazioni del pianeta.

La risposta però è abbastanza semplice: l’odio nei confronti di un’intera popolazione è sempre un fenomeno culturale creato consapevolmente dagli organi istituzionali per esigenze di dominio o di salvaguardia dei poteri costituiti.

I motivi per cui ci si comporta così sono molteplici. L’odio di tipo etnico-religioso può p. es. servire per espropriare un’intera popolazione di tutti i suoi beni. Questa cosa viene fatta nello stesso luogo e nello stesso momento, in tutta tranquillità e con grande celerità. L’impunibilità è assicurata. Il potere abitua la società a comportarsi, nello stesso tempo, in maniera immorale e legale. Proprio mentre si fanno vessazioni nei confronti dei propri concittadini di religione o etnia diversa, si sa con certezza di restare impuniti.

Il potere abitua così la popolazione a credere nella relatività del diritto e nell’ideologia della forza, e la popolazione che perseguita preferisce non pensare che questo arbitrio potrebbe un giorno il potere usarlo contro essa stessa.

Quando si perseguita impunemente una popolazione si crea uno stato di tensione, che deve portare a credere che nessuno può essere sicuro di nulla. Le dittature amano quest’ansia quotidiana, questo terrore psicologico che penetra nella coscienza dei cittadini. E pur di evitarlo si è disposti a qualunque compromesso, anche i più vergognosi.

Lo stalinismo e il maoismo, ma in parte anche il maccartismo, usavano questo metodo per eliminare gli avversari politici o intere classi sociali. Il bisogno di creare dei nemici, prima interni, poi esterni, è strutturale a tutte le dittature, proprio perché esse sanno di non avere il diritto dalla loro parte. Pol Pot si concentrò soprattutto a sterminare gli intellettuali.

Quando si odiano intere popolazioni o classi sociali, si fa di tutto per metterle in cattiva luce, per screditarle, e quando l’odio diventa un fenomeno collettivo, ci si sente migliori per definizione, cioè solo per il fatto d’essere dall’altra parte della barricata. La dignità umana non esiste più.

Se si guardano gli ebrei di oggi, quelli residenti in Israele, dobbiamo dire che l’odio nei confronti dei palestinesi è così grande che sono stati disposti a edificare un muro per sentirsi anche fisicamente separati da loro. Hanno dovuto sopportare i ghetti per tanti secoli e ora li fanno subire agli altri. Ma la storia insegna qualcosa o non serve a nulla? Gli ebrei spesso si lamentano d’essere discriminati e odiati da millenni. Ma che cosa fanno loro per non esserlo?

Ogni popolo che odia si sente titolato a farlo in quanto “eletto”, amato da dio o scelto dal destino, e trova sempre le giustificazioni o i pretesti per compiere qualunque tipo di delitto, il primo dei quali è sempre quello, anche se non viene detto pubblicamente: “L’han già fatto altri e nessuno ha detto niente”.

Ecco, forse dovremmo chiederci se e in che misura gli organismi internazionali sono davvero utili a risolvere le controversie tra popolazioni prima che queste si trasformino in conflitti armati. Quale Stato è disposto a rinunciare a parte della propria sovranità per permettere a questi organismi di funzionare secondo il diritto internazionale? Ma con quale pretesa tali organi internazionali possono rappresentare la volontà di tutti gli Stati del pianeta, quando il loro controllo è affidato soltanto alle potenze che hanno vinto la seconda guerra mondiale?

Dall’anima immortale alla democrazia diretta

Da tempo sappiamo che tutte le teorie relative all’anima immortale il cristianesimo le ha prese dal paganesimo, sia esso residente nell’Egitto dei faraoni o nelle poleis greche o nell’India dalle mille religioni. L’ebraismo non s’era mai interessato di un argomento così astratto e, certamente, non per mancanza di fantasia.

Gli orfici, Pitagora, Platone lo usavano non solo in chiave etica (bisogna purificarsi per essere moralmente migliori), ma anche in chiave politica (come minaccia per l’aldilà: sapere che le proprie azioni verranno giudicate da qualcuno doveva incutere un certo timore).

Ora, perché questa forma di deterrenza non ha mai prodotto alcun risultato politicamente significativo nei regimi dominati dallo schiavismo? Ovvero, per quale ragione i risultati significativi che tale purificazione morale può aver prodotto a titolo personale, non si sono mai tramutati in una altrettanto significativa esperienza politica? E, più in generale, perché per realizzare la democrazia, come pratica politica, non è sufficiente la virtù, come pratica morale?

Noi sappiamo benissimo che, senza democrazia, la virtù tende a spegnersi e che nelle dittature, politiche o economiche, è facile che prevalga la corruzione. Ma sappiamo anche che se uno si limita a cercare la virtù morale, non riuscirà mai a impedire le degenerazioni della politica e dell’economia.

Lo spauracchio del giudizio cui dovrà sottoporsi l’anima immortale, da tempo non funziona più. Quando papa Wojtyla lo usò contro la mafia siciliana, fu patetico: disse una cosa che avrebbe potuto impressionare la malavita di una Polonia feudale, certamente non quella di un paese che ha fatto nascere la borghesia mille anni fa.

Quando il virtuoso vede che gli sforzi personali su di sé, non ottengono risultati tangibili al di fuori di sé, nelle sfere istituzionali del potere, inevitabilmente tende a corrompersi. Se poi lui stesso entra in Parlamento o nelle gerarchie ecclesiastiche, il processo degenerativo della sua coscienza è quasi immediato. E’ illusorio pensare che l’ambiente non influenzi la coscienza. Nelle acque del Giordano, ai tempi del Battista, si entrava impuri per uscirne purificati; da noi, nel migliore dei casi, è il contrario.

Nei regimi antagonistici i virtuosi sono sempre stati come gli ingenui che permisero, in un lontano passato, la nascita di quegli stessi regimi, nella convinzione che non sarebbero stati così pericolosi. Rousseau ce lo ricordiamo tutti quando scrisse: “Il primo che recintò un pezzo di terra e disse: Questo è mio, e incontrò tanti altri disposti a credergli, fece nascere la proprietà privata”.

Tuttavia è bene che i politici impegnati a realizzare la democrazia, sappiano che, senza la virtù, la democrazia è solo un guscio vuoto, una parola sofistica. Ragionare soltanto in termini politici, senza fare valutazioni di tipo etico, senza preoccuparsi di avere un comportamento morale adeguato, nella convinzione che il possesso teorico di una verità renda moralmente più liberi, è segno di grande immaturità.

Non ha alcun senso pensare di poter dedurre il tasso di moralità di una persona dall’impegno che dimostra nel cercare di realizzare la democrazia politica. Una valutazione del genere potrebbe acquistare un qualche senso se tale democrazia fosse non delegata ma diretta, cioè se i politici fossero tenuti costantemente controllati dalle comunità locali.

Ma in una democrazia parlamentare nazionale, ciò non ha alcun senso. In Parlamento non abbiamo solo persone chiaramente prive di alcun ritegno morale (in quanto penalmente inquisite o colluse con ambienti criminali o con lobby di potere), ma abbiamo anche persone che, solo per lo stile di vita lussuoso consentito dalla stessa vita parlamentare, impensabile per la stragrande maggioranza della popolazione, non possono godere di alcuna credibilità.

Qualunque cosa dica un parlamentare, anche la più democratica di questo mondo, è sempre una falsità. E quando si sente un parlamentare dire che è comunque preferibile ascoltare tante voci piuttosto che una sola, bisognerebbe ricordargli che anche i sacerdoti predicavano il giudizio per l’anima immortale e che, in attesa di quel giorno, sulla terra conducevano una vita da grandi privilegiati.

Per la gente comune avere a che fare con una democrazia formale o una dittatura reale, non fa molta differenza, anche se, già da adesso, purtroppo, possiamo prevedere che, quanti vorranno la dittatura, si illuderanno di poter risolvere i guasti della democrazia. Fascismo e nazismo non sono forse nati così?

Quanto a coloro che credono in un aldilà, bisogna che si convincano che se su questa terra non fanno nulla per impedire ai corrotti di governare, continueranno a subirli anche nel regno dei cieli. Infatti non possono pensare che ci sia qualcuno che obblighi a essere virtuosi o che punisca i reprobi incalliti alle pene eterne dell’inferno, perché anche questa sarebbe una forma di dittatura.

Il principe in televisione

Una qualunque rivoluzione oggi si fa attraverso la televisione. Un qualunque successo elettorale deve necessariamente passare per questo mezzo di diffusione di massa, estremamente facile da utilizzare. Chi usa solo il web si condanna a rivolgersi soltanto alla parte più acculturata delle masse.

Quando si usa la televisione, sarebbe bene averne una in proprio, da poter utilizzare in qualunque maniera e in qualunque momento, ma è sufficiente avere i mezzi con cui acquistare gli spazi necessari in cui essere presenti. Questi mezzi possono essere chiaramente economici, là dove le reti televisive sono solo private, oppure, se pubbliche, possono essere politici (imposti alla tv dal Parlamento, ovvero concordati tra politici e giornalisti).

Bisogna inoltre conoscere perfettamente tutte le tecniche persuasive che si possono utilizzare con questo mezzo. Ottima memoria: in televisione è meglio non leggere, ma guardare verso la telecamera, dando l’impressione di cercare un rapporto diretto col telespettatore. Indicativamente è meglio evitare la lettura del cosiddetto “gobbo”, a meno che non lo si sappia fare in maniera eccellente, cioè fingendo di poterne fare a meno. La tv comunque ha tempi così stringenti ed esigenze tecniche e comunicative così rigorose che è difficile pensare a un politico senza un suggeritore esterno.

Le parole da usare non devono essere difficili da capire, perché l’utente non ha la possibilità di chiedere chiarimenti. Non necessariamente si ottiene consenso perché si dicono cose vere. Spesso è sufficiente dire cose che appaiono soltanto formalmente convincenti. L’utente televisivo, a riguardo, non è una persona particolarmente esigente nel verificare la fondatezza delle affermazioni che ascolta; anzi, non è neppure detto che l’incoerenza tra quanto il politico dice è quanto fa sia di per sé sufficiente a determinare il suo destino: molto dipende da come egli si sa giustificare.

L’atteggiamento di chi parla deve essere sereno, controllato, tranquillo: non deve trasmettere ansia, ma sicurezza. Anche quando si chiedono enormi sacrifici, si deve infondere la convinzione che in virtù di essi, in tempi ragionevoli, si potranno risolvere determinati problemi.

Poiché si vive in un sistema formalmente democratico, chi vuol convincere le masse deve sottoporsi a confronti diretti con gli avversari o almeno coi giornalisti, che rappresentano la pubblica opinione. Non è tanto importante avere subito una risposta pronta ad ogni domanda (ciò infatti potrebbe far pensare a qualcosa di artificioso), quanto piuttosto che non ci si vuole sottrarre ad alcuna domanda, anche a costo di non avere, in quel momento, una risposta esauriente da dare.

In televisione il fatto di apparire deboli, in talune circostanze, può essere usato a proprio vantaggio. Dopo sessant’anni di tv l’utente s’accorge quando qualcuno sta recitando una parte, non tanto perché sa che quello che ascolta è falso, quanto perché sa distinguere le frasi di circostanza (tipiche p. es. dei portavoce dei politici) da quelle emotivamente sentite, che trasmettono empatia.

Anche quando il telespettatore fa finta di non accorgersi che il politico sta recitando, ha comunque bisogno d’essere aiutato in questa finzione, e il modo migliore, per un politico, è quello d’introdurre nel suo comportamento o nei suoi discorsi elementi di spontaneità e naturalezza, che possono andare da un sorriso al vedere un proprio imitatore a una battuta ironica o spiritosa. Un politico troppo serio stanca prima, anche se è onesto ed efficiente.

Poiché inoltre si rischia che una continua presenza in televisione appaia eccessiva, fastidiosa, persino noiosa, è bene non censurare gli aspetti ameni della propria personalità, le vicende buffe, ridicole che sono casualmente capitate nell’esercizio del proprio potere: questo serve a umanizzare il politico, ad attenuare quella inevitabile tensione o fastidio che sorge quando in tv si parla troppo di politica o di argomenti impegnativi o quando il politico è troppo presente. Anzi, di tanto in tanto, egli dovrebbe assentarsi del tutto.

In televisione, generalmente, andrebbe evitato tutto ciò che pone l’utente in condizioni di fruitore meramente passivo di ciò che vede e ascolta, proprio perché è il mezzo comunicativo in sé che già lo mette in questa situazione. La tv non è il web.

Quando un politico o un giornalista sostiene verità che per lui sono indiscutibili, produce questo effetto di passività. Non dobbiamo dimenticare che la tv ha sostituito le adunate oceaniche e assolutamente esaltanti organizzate dalle dittature nazi-fasciste. Oggi la democrazia non ha bisogno di figure così incredibilmente carismatiche, anche se nessun politico può pensare di ottenere un consenso di massa servendosi unicamente del mezzo televisivo o della rete: agli elettori bisogna dare periodicamente la soddisfazione di un contatto diretto.

In particolare la passività si trasforma in assoluto fastidio quando il giornalista non è capace d’impedire ai politici di parlarsi addosso, cioè senza ascoltarsi. Tale incapacità è spesso dovuta al fatto che nella televisione di stato i giornalisti sono tenuti sotto controllo della politica dei partiti, per cui sono facilmente ricattabili.

E’ comunque fuori discussione che se un politico, quando parla, tende a imporsi sul proprio interlocutore, o quando tra due rivali la comunicazione diventa un soliloquio, un dialogo tra sordi, o quando, peggio ancora, si finisce con l’insultarsi o con lo scendere sul personale, nel battibecco da bar o da osteria, e il giornalista non sa svolgere il suo ruolo di moderatore, sia perché non ne ha le capacità, sia perché tende a parteggiare per uno dei due contendenti, il risultato finale, spesso anche solo di una di queste cose, sarà il passaggio ad altro canale televisivo, e in tal caso l’utente non smetterà mai di ringraziare quel genio dell’elettronica che gli ha messo in mano uno strumento abbastanza efficace per prendere una decisione: il telecomando, il cui tasto fondamentale, quando lo zapping ci induce a credere che la democrazia televisiva sia una gigantesca truffa, è a tutti noi ben noto.

Il determinismo della dialettica va superato

Bisogna che il materialismo faccia ammenda di un certo uso della dialettica, perché ancora non l’ha fatto. Non basta condannare il socialismo di stato e gli orrori dello stalinismo: questo è stato fin troppo facile. Anche perché, dopo averlo fatto, si è usata la stessa dialettica per dire che storicamente non esistono ancora i presupposti per passare al socialismo, sconfessando così non solo tutto lo stalinismo ma anche tutto il leninismo e rimandando le previsioni di Marx ed Engels a data da destinarsi.

Marx s’era limitato a usare la dialettica hegeliana rovesciandone semplicemente i presupposti: a capo di tutto non vi era più lo spirito ma la materia, ovvero, tradotto sociologicamente, non il pensiero ma l’essere sociale, storicamente dato.

In tal modo l’umanesimo si era sicuramente liberato dai difetti del misticismo, benché sino a un certo punto. Il misticismo era stato per così dire laicizzato, trasformandolo in un determinismo economicistico. Qui la parola “economicismo” non va intesa come faceva Lenin, cioè quella corrente di pensiero che si limitava a chiedere riforme e che, al massimo, diventava una sorta di sindacalismo. Ma va inteso in senso “storicistico”, quale causa ultima del determinismo, cioè il quid che spiega la transizione da una formazione sociale all’altra.

Infatti la legge fondamentale della dialettica marxista è il rapporto tra forze materiali e rapporti produttivi. Sono le forze che, ad un certo punto, impongono ai rapporti di cambiare in maniera qualitativa. Di qui i passaggi dalla comunità primitiva allo schiavismo, da questo al servaggio, da questo al capitalismo e da questo al socialismo.

Per giustificare l’ultima transizione, Marx Engels Lenin Stalin e tanti altri si sono avvalsi delle stesse leggi hegeliane, tutte basate sulla categoria della necessità. Il passaggio da una formazione all’altra è reso inevitabile dalla contraddizione insanabile tra forze materiali (sempre più potenti) e rapporti produttivi (sempre meno adeguati a gestirle).

Qui non si vuole entrare nel dettaglio delle altre leggi della dialettica, che tutti già conoscono. Si vuol semplicemente sostenere che una dialettica basata sulla categoria della necessità legge la storia solo post factum, cioè giustificando l’unica formazione sociale che si è effettivamente imposta sulla precedente.

Non ci si interessa mai di verificare se e fino a che punto sia davvero indispensabile potenziare le forze produttive o quali debbano essere le condizioni perché ciò possa avvenire: semplicemente si dà per scontato che l’unico problema stia nel mutare i rapporti produttivi con cui gestirle. Non a caso tutti coloro che predicano il determinismo vedono la natura come un mero oggetto da sfruttare da parte delle forze produttive.

Nessun classico del marxismo ha mai pensato che dalla dissoluzione della comunità primitiva non dovesse nascere lo schiavismo. Nessuno ha mai pensato che l’alto medioevo fosse un progresso sociale rispetto all’epoca imperiale romana, pur in presenza di un netto declino delle forze produttive. I marxisti han sempre detestato l’autoconsumo, esattamente come i liberali borghesi.

Quando lo schiavismo romano è collassato ci si è anche chiesti perché non si fosse passati al socialismo. E qual è stata la risposta? Le forze produttive non erano adeguate a far sviluppare una consapevolezza del genere. Per passare al socialismo ci vuole prima il capitalismo.

Come noto, Lenin, in parte, si oppose a questo determinismo assoluto, sostenendo che la Russia feudale poteva passare al socialismo saltando la fase capitalistica. Tuttavia, appena fatta la rivoluzione, nessun marxista sovietico pensò mai di non proseguire la rivoluzione politica senza usare i mezzi della rivoluzione industriale della borghesia.

La categoria hegeliana della “necessità”, applicata meccanicamente alla storia, portò a credere di poter ottenere le stesse conquiste del capitalismo privato dal punto di vista del socialismo di stato. La conseguenza per il mondo rurale e l’ambiente naturalistico fu un’immane tragedia, che purtroppo continua ancora oggi, senza il fardello degli ideali di giustizia e uguaglianza sociale.

Una concezione così meccanicistica della dialettica sconfina inevitabilmente nel cinismo, se non addirittura in un misticismo rovesciato. Pur di realizzarne le leggi, si è disposti a tollerare ingiustificati abusi. Se si fosse evitato di applicare schematicamente una certa ideologia (filosofica e politica) alla realtà sociale, cercando di risolvere i problemi pragmaticamente, di volta in volta, senza forzature, guardando le effettive necessità, smettendola p. es. di privilegiare in maniera indiscriminata l’industria rispetto all’agricoltura, la città rispetto alla campagna, la società rispetto alla natura, si sarebbero sicuramente fatti meno danni e forse oggi si sarebbe evitato di buttar via l’acqua sporca dello stalinismo col bambino socialista dentro.

I peggiori alieni sono tra noi

Chiunque parli di alieni o di extraterrestri si deve rassegnare: non c’è nessun altro essere nell’universo che non sia “umano” o che non abbia “caratteristiche umane”. Tra essere umano e universo non vi è alcuna differenza di sostanza. Siamo tutti fatti di una medesima materia originaria e increata, da cui tutto dipende.

Possiamo considerare l’essere umano come l’autoconsapevolezza della natura, per cui, come non ha senso parlare di uomo senza natura, così non ha senso parlare di natura senza uomo. L’una senza l’altro è vuota, l’uno senza l’altra è cieco.

Qualunque problema noi si abbia, nessun altro può risolverlo se non noi stessi. Chiunque pensi che i nostri problemi siano così grandi da risultare per noi irrisolvibili o risolvibili solo per mezzo di “entità esterne”, s’inganna o è il malafede, sia perché non esiste alcuna “entità esterna” che non sia “umana”, sia perché nessun problema è irrisolvibile, anche perché non è la natura che crea problemi, ma solo l’uomo, usando male la libertà di cui dispone grazie appunto alla natura.

Credere negli alieni, in nome della scienza, è come credere nella divinità in nome della religione. Chiunque parli di alieni più intelligenti dell’essere umano o più pericolosi, lo sta facendo per impedire che i nostri problemi interni vengano risolti da noi stessi.

D’altra parte è da quando sono nate le civiltà che, di fronte ai propri drammatici conflitti sociali, che si acuiscono progressivamente, i poteri costituiti tendono a far dipendere da “motivazioni esterne” le cause di quei conflitti, nella convinzione che si possano più facilmente risolvere costruendosi l’immagine di un “nemico”, sempre molto pericoloso e privo di umanità.

Quando il nazismo dichiarò guerra alla Russia, tutti i tedeschi erano stati da tempo istruiti a credere che gli slavi in generale e i sovietici in particolare andavano sterminati e sottomessi proprio in quanto razza subumana, sottosviluppata, nei cui confronti di ogni atto di pietà o di generosità sarebbe stato interpretato come una forma di codardia, se non di tradimento nei confronti della propria patria.

Ancora oggi, quando assistiamo in televisione ai documentari in cui s’intervistano gli ultimi superstiti tedeschi di Stalingrado, li vediamo commossi per le perdite subite, affranti per non aver potuto salvare i propri compagni, disperati per la cocente sconfitta, al massimo adirati per l’incapacità dello Stato Maggiore di comprendere sino in fondo la gravità di quella situazione, ma non li vediamo mai pentirsi degli orrori compiuti in Russia, o criticare duramente la decisione di aver tentato di occupare quel paese. O comunque chi li intervista non li mette mai in condizione di riflettere sulla natura della guerra in generale e di quella imperialistica in particolare, proprio perché una qualunque nazione dell’Europa occidentale vuole apparire migliore di una qualunque nazione dell’Europa orientale, ne ha addirittura il “diritto”.

Naturalmente il potere non cerca mai di dipingere il nemico come migliore di sé, ma nelle società antagonistiche non si farebbe certo scrupolo di utilizzare per propri fini le convinzioni di quanti la pensano diversamente. Anzi, non è da escludere che sia proprio lo Stato a far credere che esistano forze oscure, misteriose, nei cui confronti bisogna prepararsi o ad accettarle o a combatterle. Le mistificazioni devono essere rapportate sia a un determinato livello di tecnologia che a un certo grado di secolarizzazione dei costumi.

in ogni caso, che questi alieni vengano considerati buoni o cattivi, se la gente pensa di non avere forze sufficienti per risolvere i propri problemi, inevitabilmente finirà col riporre ogni fiducia nei poteri dominanti. Alla fine si ripeterà quanto già visto nel racconto della creazione, in cui Adamo, dopo aver trasgredito l’ordine di non mangiare il frutto dell’albero della scienza, si giustificò dicendo ch’era stata Eva a farlo peccare. Al che Eva rispose: “E’ stato il serpente”.

La prassi e la realtà locale

Non c’è assolutamente modo di stabilire la verità delle cose con un criterio astratto, fissato a priori. Se questo criterio fosse quello della dialettica, cioè della legge che spiega l’attrazione e repulsione dei contrari, l’unità sintetica di tesi e antitesi, allora bisogna dire che questo criterio indica, al massimo, un processo avvenuto (ex-post), ma non offre dei chiarimenti univoci relativi ai singoli momenti in cui il processo avviene (in actu).

Questo perché l’esistenza è in sé irriducibile a qualunque sistema interpretativo, che sarebbe astratto anche se avesse elementi di tipo politico o socioeconomico.

La dialettica può comprendere e descrivere un processo quand’esso è terminato, cioè a posteriori, ma non può spiegarlo nel mentre si svolge, cioè non può dare delle indicazioni di merito per risolvere determinati problemi, proprio perché ciò si configurerebbe come un’operazione meramente intellettuale.

Gli uomini devono restare tali quando affrontano le loro contraddizioni, cioè devono affrontarle come collettivo, ragionando insieme su delle ipotesi praticabili di soluzione. In nessun libro della storia si potrebbe trovare il minimo aiuto per poter risolvere un determinato problema, lì dove esso si pone (hic et nunc).

La prassi è il criterio della verità e quindi ha un primato assoluto sulla teoria, anche se, indubbiamente, essa va aiutata da una teoria intelligente, altrimenti non si troverà alcuna soluzione ad alcun problema, neppure se ci pensassero sopra, contemporaneamente, un milione di persone.

Tuttavia, il fatto che debba esistere una teoria intelligente, non significa che debba essere la prassi a conformarsi meccanicamente ad essa. Una teoria intelligente può soltanto offrire uno spunto, un suggerimento, un’indicazione di massima, ma poi la soluzione va cercata nel confronto tra le diverse opinioni, che si devono poter esprimere liberamente e in maniera esauriente.

Se questo primato ontologico e operativo della prassi ci fosse chiaro, noi saremmo costretti a interessarci soltanto di problemi locali, cioè solo di quei problemi che pensiamo di poter risolvere, sapendo di averne i mezzi sufficienti per farlo.

E se il problema locale fosse per noi il perimetro in cui far agire una prassi decisionale, deliberativa, allora dovremmo far di tutto per impedire che il livello locale subisca dei condizionamenti che gli facciano perdere la piena autonomia. Se il locale è pesantemente condizionato da elementi esterni, esogeni, estranei, la possibilità di risolvere i problemi sarà tanto più debole quanto più forti saranno queste pressioni.

Là dove esiste una centralizzazione statale dei poteri, che ovviamente non può tener conto, nella loro complessità e vastità, delle esigenze delle realtà locali, lì esiste anche un’ideologia politica più o meno ufficiale, una Costituzione più o meno vincolante, una serie di Codici istituzionali di comportamento e soprattutto una serie infinita di leggi scritte.

Lo Stato è quella somma astrazione che ha la pretesa di regolamentare il più piccolo aspetto della concreta vita sociale. Chi non capisce un concetto così semplice, si deve chiedere se egli stesso non stia vivendo una vita del tutto astratta.

I 12 principi fondamentali della Costituzione sono intangibili?

E’ stato detto che i principi fondamentali della nostra Costituzione sono intangibili e che, in 60 anni di vita, nessun governo ha mai pensato di modificarli. Sembrano una sorta di decalogo veterotestamentario, una serie di enunciati assolutamente dogmatici. Vediamo se davvero dobbiamo considerarli così.

Art. 1. La Repubblica è democratica in quanto fondata sul lavoro e non sulla rendita o sullo sfruttamento del lavoro altrui. Questo è vero, ma bisognerebbe specificarlo espressamente, perché il concetto di “lavoro”, in sé, non indica affatto il carattere “democratico” di una repubblica. Nel sistema capitalistico il lavoro è soltanto unamerce, al pari di altre, che si acquista sul mercato, tant’è che si parla di “mercato del lavoro”.

Più che essere “fondata” sul lavoro, la Repubblica italiana dovrebbe essere fondata sulla “proprietà collettiva dei mezzi di lavoro”, quella che permette a tutti di non dover essere sfruttati per poter vivere. Il lavoro può non essere una “merce” soltanto se la proprietà dei fondamentali mezzi produttivi non è privata.

Il lavoro è un diritto-dovere, ma dove esiste proprietà privata dei mezzi produttivi, spesso diventa soltanto una casualità, una fortuna o un ripiego. Se davvero la Repubblica fosse fondata sul lavoro, noi non dovremmo avere disoccupati o inoccupati o sottoccupati o cassintegrati, né lavoratori in nero o clandestini, né quelli che svolgono mansioni che non c’entrano nulla con gli studi fatti, né quelli che, non rassegnandosi a questo trend di sprechi e inefficienze, emigrano dal nostro paese per cercare un’occupazione inerente ai propri studi o comunque un’occupazione che permetta di vivere dignitosamente. Né dovremmo avere quelli che approfittano del bisogno o delle debolezze o della precarietà altrui per estorcere favori di ogni genere, per obbligare a servizi umilianti, per ridurre in stato di schiavitù. Non dovremmo neppure avere tutti quei giochi, sommamente diseducativi, che promettono premi favolosi col miraggio di non lavorare o di lavorare molto meno.

Solo se la Repubblica è fondata sulla proprietà collettiva dei fondamentali mezzi produttivi, si può davvero dire che la “sovranità appartiene al popolo”, come recita la seconda parte di questo articolo. In caso contrario la definizione resta puramente formale. Non è sufficiente essere lavoratori o cittadini per esercitare un’effettiva “sovranità”. La sovranità politica è una diretta conseguenza di quella economicasociale. Là dove manca la proprietà comune dei mezzi produttivi, la sovranità politica si esercita unicamente nel momento della scadenza periodica del voto. In tal modo la vera sovranità politica non viene esercitata dal popolo ma dai suoi delegati parlamentari, i quali tendono a fare gli interessi solo di quella parte di popolazione che dispone di proprietà privata.

Art. 2. Poiché non si è specificato nell’art. 1 che la Repubblica deve essere fondata sulla proprietà comune dei principali mezzi produttivi, accade inevitabilmente, quando si afferma ch’essa “riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”, che all’interno di questi diritti debba essere inteso anche quello alla proprietà privata, come è naturale che sia in tutte le Costituzioni borghesi, dove appunto tra i diritti fondamentali si prevedono sempre quelli alla libertà e alla proprietà, concepiti quasi in maniera interscambiabile.

In realtà il diritto alla proprietà privata può essere tollerato solo quando questa proprietà non è relativa ai mezzi fondamentali di produzione, che sono poi quelli che garantiscono la sopravvivenza di un’intera collettività, ovvero quelli che le permettono di esercitare i diritti irrinunciabili che la caratterizzano o la identificano come tale.

Tutti gli articoli relativi al titolo III della Costituzione: “Rapporti economici” non rendono affatto più chiara l’esigenza di precisare il primato della proprietà comune dei mezzi produttivi rispetto al lavoro.

Art. 3. E’ inutile affermare l’uguaglianza giuridica di tutti i cittadini di fronte alla legge, quando non si precisa a chiare lettere la necessità della loro uguaglianza sociale ed economica di fronte al bisogno. La seconda parte dell’art. 3, in assenza della suddetta precisazione, rischia di restare, sul piano pratico, una pia intenzione, ovvero di tradursi in uno sforzo moralistico o paternalistico di dubbia efficacia.

Infatti, se si fosse puntato più sul bisogno che sulla legge, più sulla concreta proprietà pubblica che non sull’astratta tutela del lavoro, non si sarebbe detto, in questo articolo, che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, ma, al contrario, che i cittadini con più bisogni hanno più diritti davanti alla legge. Hanno più diritti di precedenza e di preferenza, proprio al fine di colmare il loro gap dovuto a motivi fisici, psichici, esistenziali, sociali, geografici, linguistici ecc., rispetto agli altri concittadini.

L’uguaglianza assoluta davanti alla legge può andar bene quando tra cittadini non esistono differenze rilevanti. Tuttavia, se consideriamo che persino la natura pone una certa differenza di genere tra i sessi e pone altre differenze dovute all’età anagrafica, è del tutto inutile auspicare un’uguaglianza assoluta di fronte alla legge.

E’ la legge che deve adeguarsi alla diversità dei bisogni, non sono i bisogni che devono adeguarsi all’uniformità della legge. Ci si adegua all’uniformità imposta dalle circostanze per soddisfare meglio il bene comune. Ma è evidente che le circostanze possono cambiare e, con esse, la regola dell’uniformità.

Una società che per molto tempo si vantasse di avere regole uniformi a livello nazionale, potrebbe dare impressioni del tutto opposte: di grande coerenza democratica, ma anche di grande forza dittatoriale. Non è certo dal contenuto in sé delle leggi che si può valutare il grado di democraticità di una nazione. Bisogna piuttosto esaminare il livello di rispondenza delle leggi ai bisogni collettivi. E, considerando che i bisogni sono per lo più mutevoli, soggetti al continuo modificarsi delle circostanze, può apparire, al limite, del tutto superflua l’esigenza di darsi delle leggi scritte.

Art. 4. Questo articolo è molto importante e la Repubblica dovrebbe essere denunciata quando non assolve il proprio dovere di assicurare a tutti un lavoro. Se il lavoro è un diritto-dovere, allora è compito della Repubblica garantirlo. Non basta dire ch’essa “promuove” le condizioni che rendono effettivo il diritto; le condizioni devono essere “assicurate”, “garantite”, altrimenti non è possibile sostenere che il lavoro è un “dovere” di tutti.

Come noto il lavoro è un diritto che può essere rivendicato, ma se è anche un dovere, il cittadino dovrebbe essere obbligato a lavorare, anche nel caso in cui non volesse farlo.

Finché il cittadino rivendica il lavoro come un diritto, significa che la Repubblica non è in grado di assolvere al proprio dovere di assicurarlo a tutti. E’ dunque giusto affermare che ognuno ha il dovere di lavorare, salvo che qualcosa di oggettivo non gli impedisca di esercitare questo obbligo.

Art. 5. Questo articolo non è mai stato applicato per due semplici ragioni:

  1. esistono nel territorio italiano degli spazi geografici in cui la sovranità dello Stato è insussistente, come p.es. quelli della Città del Vaticano, della Repubblica di S. Marino e delle basi Nato. In queste aree delimitate da precisi confini si esercita il principio della extraterritorialità da parte di uno Stato che inevitabilmente deve essere considerato come “straniero” all’interno della nostra Repubblica;
  2. il nostro Stato, prima monarchico poi repubblicano, è nato e si è sviluppato in maniera centralistica, usando gli Enti Locali Territoriali come propri organi periferici. Sono state piuttosto le autonomie locali a lottare per essere riconosciute come tali dallo Stato.

Nella nostra Repubblica non è lo Stato ad essere a servizio della società civile, ma il contrario. E non è detto che questo rapporto sia destinato a mutare trasformando lo Stato da centralista a federalista.

Art. 6. Questo articolo non è mai stato attuato con coerenza, semplicemente perché uno Stato centralista non può farlo. In particolare il centralismo si è espresso sul versante del confessionalismo, emarginando le minoranze religiose, e sul versante educativo, esercitando il monopolio dell’istruzione pubblica: la scuola “statale”, essendo di estrazione, di formazione, di cultura “borghese”, ha fagocitato la cultura contadina e operaia, ha impedito l’uso dei dialetti, ha distrutto tutto quanto era di tradizione “pre-borghese”. Se le minoranze hanno continuato ad esistere, è stato unicamente per merito loro, per la loro volontà di sopravvivenza.

Art. 7. Questo articolo è la dimostrazione più evidente della debolezza del nostro Stato, costretto a riconoscere, da un lato, la propria limitatezza istituzionale, in quanto il Vaticano agisce in piena autonomia politica ed economica in una determinata porzione di territorio, rivendicando una gestione temporale dei propri beni che lo qualifica come uno Stato a pieno titolo (in grado addirittura di agire indisturbato a livello internazionale); e, dall’altro, il nostro Stato dimostra la propria insufficienza normativa, in quanto il Vaticano gli impedisce di affermare con coerenza i principi della laicità in materia di libertà di coscienza.

Questo articolo andrebbe completamente abolito o riscritto, evidenziando la piena sovranità e laicità dello Stato.

Art. 8. Questo articolo non prevede la libertà di non credere in alcuna religione. La libertà di coscienza viene qui equiparata alla libertà di religione, nel senso che ogni cittadino è libero di credere nella confessione che vuole.

In realtà la libertà di religione è solo un aspetto della libertà di coscienza, la quale appunto prevede anche la libertà di non credere in alcuna confessione.

Art. 9. Questo articolo è troppo generico per essere importante. Per renderlo più significativo si potrebbe aggiungere che la Repubblica tutela solo lo sviluppo di quella cultura orientata a promuovere l’umanizzazione dei rapporti sociali, e solo lo sviluppo di quella ricerca tecnico-scientifica favorevole alle esigenze riproduttive della natura.

Bisogna dettagliare questo per impedire che la prima parte dell’articolo finisca col trovarsi in contrasto con la seconda. Non tutta la cultura, non ogni tipo di ricerca merita d’essere tutelata.

Art. 10. Questo articolo dovrebbe avere un valore sia in tempo di pace che in tempo di guerra, e quindi a prescindere da qualunque contenzioso la nostra Repubblica possa avere con chicchessia.

Inoltre bisognerebbe precisare che la nostra Repubblica si attiene alle norme del diritto internazionale solo quando queste sono conformi ai valori umani universali e alle esigenza di tutela ambientale.

Infine bisognerebbe aggiungere che nelle controversie internazionali o anche solo bilaterali (tra Stato e Stato), la nostra Repubblica si appellerà, se lo riterrà opportuno per risolverle, a organi di carattere internazionale, riconoscendo a questi organi un potere vincolante per le decisioni che prenderanno.

Art. 11. Questo articolo viene costantemente smentito dalle cosiddette “missioni di pace”, che vengono compiute da un personale militarizzato. Bisogna quindi precisare che qualunque intervento armato, non avente scopo meramente difensivo dei nostri confini territoriali, cioè dell’integrità della nostra nazione, va considerato illegale. Dal nostro territorio non dovrebbero uscire forze armate di alcun genere, neppure per fare delle esercitazioni.

Anzi, il nostro Stato dovrebbe operare affinché si riconosca a livello internazionale il divieto, da parte di forze militari nazionali, di occupare spazi di cielo, di terra e di mare che risultano comuni a più nazioni o anche a tutte le nazioni del mondo. Gli spazi internazionali devono essere lasciati liberi da qualunque tipo di arma.

Dovrebbe essere tassativamente vietato che uno Stato possa disporre di proprie basi militari al di fuori dei propri confini.

Sarebbe bene che il nostro Stato s’impegnasse per primo in questa direzione, mostrando agli altri Stati che la sicurezza è maggiormente garantita non in presenza ma in assenza delle armi.

Inoltre nella Costituzione dovrebbe esserci un articolo che prevede la rinuncia definitiva alla produzione, alla vendita, all’uso di qualunque arma di sterminio di massa. Dovrebbe essere proibita in maniera tassativa anche la vendita di qualsivoglia arma all’estero.

Art. 12. Questo articolo è frutto dello Stato centralista. Si può riconoscere allo Stato una determinata bandiera, ma permettendo anche alle Regioni e persino ai Comuni di aggiungere sullo sfondo tricolore gli elementi simbolici che li caratterizzano da secoli.

Contro gli integralisti della fede

Chiunque creda in un dio, s’aspetta che i suoi problemi vengano risolti da qualcun altro, umano o divino che sia, o anche di entrambe le nature, come quando papa Pio XI disse che Mussolini, contro il pericolo del bolscevismo in Italia e l’inettitudine della democrazia liberale, era “l’uomo della provvidenza”.

Cioè il credente è colui che sente di non avere abbastanza forze per risolvere i problemi da solo, o comunque è colui che è abituato ad avere piena fiducia nelle “autorità forti”, quelle che, per chissà quale miracolo divino, vanno esenti dagli effetti negativi del cosiddetto “peccato originale”. Anche Hitler diceva – tutte le volte che gli attentati contro di lui fallivano – che quella era la prova della sua “missione divina”.

Ora, se tale sfiducia in se stessi dipende dalla precarietà di una situazione materiale, chi professa l’ateismo dovrebbe astenersi dal criticare i credenti. E’ evidente, infatti, che fino a quando quella indigenza resterà immutata, la fede continuerà a sopravvivere; anzi, di fronte agli attacchi del laicismo, si rafforzerà ancora di più e andrà persino a cercare forme estreme di resistenza, come p. es. il martirio o l’autoimmolazione.

Di per sé non ha alcun senso lottare per portare i credenti all’ateismo: queste sono forme di violazione della libertà di coscienza. Per un non credente deve risultare sufficiente l’affermazione di una laicità dello Stato, cioè la negazione del confessionalismo da parte delle istituzioni pubbliche.

Un non credente può anche opporsi alle superstizioni religiose, ma solo quando queste vogliono imporsi in maniera clericale, cioè rivendicando un potere politico. In coscienza uno deve restar libero di credere in ciò che vuole. Il modo migliore per cambiare atteggiamento nei confronti della religione, è quello di farlo in piena libertà, senza pressioni o forzature di alcun genere.

Gli atei devono persuadere i credenti a lottare contro le ingiustizie sociali e le violazioni dei diritti umani, e non devono farlo in quanto atei, né devono rivolgersi ai credenti in quanto credenti: entrambi devono convergere su posizioni comuni, su obiettivi condivisi, in quanto appunto cittadini di un medesimo Stato. Se i credenti vedono che oggi i loro problemi economici cominciano a risolversi, saranno meno portati ad attribuire adentità esterne la soluzione dei nuovi problemi che, un domani, dovranno affrontare.

D’altra parte non è neppure escluso che, se i tentativi fatti per risolvere determinati problemi vanno letteralmente in fumo, un ateo non possa diventare credente. Se guardiamo l’evoluzione dal movimento nazareno di Gesù Cristo a quello apostolico di Pietro e Paolo, dobbiamo dire che avvenne proprio così. E che dire di Mussolini, che da ateo professo, quand’era socialista, arrivò, da fascista, a firmare un Concordato col quale concesse alla chiesa romana enormi privilegi rispetto alle altre confessioni religiose, attenuando persino la sovranità dello Stato nazionale?

Detto questo, un ateo farebbe sempre bene a distinguere il credente con scarse possibilità materiali, ed eventualmente con limitata istruzione e cultura, dal credente benestante e intellettuale. Con quest’ultimo il confronto deve essere franco e aperto, proprio perché questa categoria di credenti tende a sfruttare la buona fede degli sprovveduti e approfitta della loro indigenza per arrivare a rivendicare il diritto al clericalismo.

Non si può transigere con chi vuol fare della fede una bandiera politica. L’oscurantismo medievale è finito da un pezzo. Se c’è qualcuno che vuol riportare la storia indietro, e vi riesce, i non credenti farebbero meglio a chiedersi se la responsabilità di ciò non ricada tutto su loro stessi.