Morta Nawal al-Sa’dawi, grande femminista egiziana

Tutte le religioni sono prigioni per le donne”, sosteneva con coraggio e lucidità la scrittrice e intellettuale femminista egiziana Nawal al-Sa’dawi, morta nel 2021 all’età di 90 anni. Suo padre era stato un funzionario governativo del ministero dell’Educazione Nazionale, che aveva preso parte alle lotte contro i britannici nel corso della rivoluzione del 1919.

Scrisse numerosi libri sulla condizione della donna nell’islam, dedicando particolare attenzione alla pratica della mutilazione genitale femminile, ancora presente in alcune parti della società egiziana e che lei stessa aveva subìto in giovane età.

Si laureò in medicina all’Università statale del Cairo nel 1955 e si specializzò in psichiatria. Mentre operava come medico nel suo villaggio natale di Kafr Tahla, denunciò le brutali ineguaglianze sociali cui erano sottoposte le donne in quell’ambiente rurale, e per questo fu richiamata al Cairo.

Divorziò da due mariti che volevano imporle di abbandonare la sua carriera di medico e di scrittrice, poiché consideravano queste attività imbarazzanti e ostacolanti per le proprie carriere rispettivamente di medico e di avvocato.

Divenne Direttrice della Sanità Pubblica e qui incontrò il suo terzo marito, Sherif Hetata, che ricopriva un incarico presso il ministero della Sanità. Hetata era stato prigioniero politico per 13 anni.

La Sa’dawi fu allontanata dal suo incarico presso il ministero della Sanità a causa della sua attività politica. Perse anche il posto di redattore-capo di un giornale sanitario e di Segretario Generale aggiunto dell’Associazione Medica in Egitto. Questo perché era stato ristampato il suo primo libro, Women and Sex, dopo essere stato bandito in Egitto per quasi due decenni.

Poi però dal 1973 al 1976 lavorò come ricercatrice nel campo delle nevrosi nella Facoltà di Medicina dell’Università statale di ‘Ayn Shams, al Cairo. Nel 1979-80 fu consigliera delle Nazioni Unite per il Women’s Programme in Africa e Medio Oriente.

I suoi libri (una cinquantina) sono sempre stati sottoposti a censura: autorità religiose, capi-villaggio e autorità statali l’accusavano di non rispettare i valori tradizionali e d’incitare le donne a ribellarsi contro la Legge e la religione. La sua autobiografia la scrisse in prigione sulla carta igienica con una matita per gli occhi ch’era stata introdotta di nascosto nella sua cella.

Fu incarcerata nel 1981 per crimini contro lo Stato, insieme a circa 1.500 attivisti, che protestavano contro il “Trattato di pace di Gerusalemme” firmato dal Presidente Anwar al-Sadat. Fu rilasciata alla fine dell’anno, un mese dopo l’assassinio di Sadat. Di quella sua esperienza ha scritto: “Il pericolo ha fatto parte della mia vita fin da quando ho impugnato una penna e ho scritto: ‘Niente è più pericoloso della verità in un mondo che mente’”.

Fonda The Arab Women’s Solidarity Association, la prima organizzazione legale indipendente femminista. Ciò le provoca nuove persecuzioni e minacce da parte di gruppi fondamentalisti islamici e la condanna a morte per eresia. Il suo nome era stato incluso in una lista di morte pubblicata in Arabia Saudita.

L’Associazione, dichiarata fuori legge, venne chiusa. Di nuovo Sa’dawi visse l’esperienza del carcere, fin quando, nel 1992, è costretta all’esilio. Si trasferì, insieme al terzo marito, medico e scrittore che curava la traduzione in inglese dall’arabo dei suoi libri, nel North Carolina, presso la Duke University (Asian and African Languages Department).

Nel 1996 tornò in Egitto, ma nel 2002 un avvocato integralista egiziano richiese il divorzio coatto tra lei e il marito, i quali però vinsero la causa grazie a una mobilitazione internazionale.

Continuò nella sua azione attivistica e prese in considerazione la possibilità di presentarsi candidata alle elezioni presidenziali del 2005 contro Mubarak, ma poi decise di boicottarle quando vide che i suoi seguaci erano stati minacciati di morte.

Nel 2007 fu denunciata due volte per apostasia, una volta con la figlia economista Mona Helmy, e la seconda volta per apostasia ed eresia a causa del suo spettacolo teatrale “God Resigns at the Summit Meeting”. Entrambe le cause sono state vinte dalla scrittrice egiziana.

Nel 2008 in Egitto sono state promulgate alcune leggi per le quali lei aveva lungamente combattuto: le donne egiziane hanno conquistato il diritto di registrare i figli nati fuori dal matrimonio con il proprio cognome; l’età minima per il matrimonio è stata alzata a 18 anni; la circoncisione femminile, la clitoridectomia e l’infibulazione sono ora un reato perseguibile e punibile con il carcere o una pena pecuniaria.

Nel 2010 divorziò anche da Hetata, che aveva una relazione con un’altra donna.

L’ultimo suo scontro con le autorità laiche e religiose avvenne nel 2011, all’età di 79 anni, quando si unì ai manifestanti in piazza Tahrir al Cairo per protestare contro il presidente Mubarak, che si dimetterà nello stesso anno.

Conflitto finito tra Gaza e Israele? Per ora

Dopo 11 giorni di guerra i palestinesi morti a Gaza sotto i bombardamenti israeliani sono stati 243, inclusi 66 bambini e 39 donne. I feriti sono 1910. Gli sfollati 60.000. Israele ha avuto 12 morti e centinaia di feriti. Le reazioni dei sionisti sono sempre sproporzionate.

Il cessate il fuoco reciproco e senza condizioni è avvenuto tramite la mediazione di Egitto e ONU. Netanyahu ha ringraziato Biden per l’appoggio dato al diritto di difendersi. Come noto gli USA rifiutano di considerare il partito Hamas un interlocutore.

I razzi lanciati da Gaza contro Israele sono stati 3.440, intercettati al 85-90% dal sistema di protezione Iron Dome: circa 500 sono ricaduti all’interno della stessa Striscia. Sotto i raid aerei sono finiti non solo i tunnel e i bunker di Hamas, ma anche l’unico laboratorio in funzione per l’analisi Covid dei tamponi (il virus ha già ucciso più di 930 persone a Gaza), un orfanotrofio, un liceo femminile, gli uffici del ministero della Salute e la torre che ospitava Al Jazeera, la Associated Press e altri uffici di media internazionali. I soliti effetti collaterali, che Netanyahu giustifica ribadendo che Hamas “piazza deliberatamente obiettivi militari dentro la popolazione civile”.

Nella UE l’unica a non chiedere la fine delle ostilità è stata l’Ungheria di Viktor Orbán.

Intanto sul fronte dell’Autorità Palestinese la leadership del presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che guida il partito di al-Fatah e che è al governo in Cisgiordania dal 2005, si sta sgretolando sempre più, anche a seguito del recente conflitto. Questo per dire che i palestinesi non vogliono sentirsi delle pecore nei confronti di Israele. Non a caso Abu Mazen viene additato di “collaborazionismo” con Israele, anche perché il 29 aprile ha deciso di rinviare a data da destinarsi le elezioni generali per il Parlamento palestinese, il presidente dell’Autorità palestinese e il Parlamento dell’Olp, che si sarebbero dovute tenere in questo mese e a giugno dopo oltre 15 anni. Il presidente aveva giustificato il rinvio, dicendo che “gli israeliani non hanno concesso il permesso di votare nel distretto di Gerusalemme Est”. Ma non è escluso che Abu Mazen tema la fine della sua carriera a tutto vantaggio di Hamas.

Questo per dire che il conflitto non ha favorito gli elementi moderati della politica palestinesi ma quelli radicali, che l’occidente definisce con la parola “estremisti”, se non addirittura “terroristi”, come se la democrazia esistesse solo in Israele, e come se solo Israele abbia il diritto di difendersi, mentre i palestinesi hanno solo il dovere di subire la progressiva espropriazione delle terre da parte dei coloni.

Perché il sistema di difesa israeliano è così forte?

Israele è difeso da una cupola di ferro. Lo spiega bene il sito “Analisi Difesa” www.analisidifesa.it.

Grande protagonista degli scontri di questo mese, come in precedenti occasioni, si è confermato il sistema antibalistico israeliano a breve raggio, chiamato Iron Dome, cioè “cupola di ferro”, realizzato dal colosso dell’industria militare israeliana Rafael, ed entrato in servizio nel 2011. È attualmente efficiente per l’85-90%, cioè da 10 a 15 ordigni nemici ogni 100 presi di mira dal sistema possono raggiungere città e installazioni ebraiche. Senza poi considerare che il sistema prende di mira solo i missili lanciati su obiettivi sensibili ed è posizionato solo per colpire i missili provenienti da Gaza.

Ovviamente Israele non ha solo questo tipo di difesa, anche perché Iron Dome si limita a intercettare oggetti volanti di piccole dimensioni e anche di limitato sviluppo di volo (da un minimo di 4 e un massimo di 70-72 km dalla posizione della batteria). È cioè rivolto a razzi, missili o anche granate di mortaio. Non è in grado d’intercettare ordigni che provengano da una distanza inferiore a 4 km e che abbiano un tempo di volo inferiore a 28 secondi.

Il grosso della sua realizzazione è stato finanziato dal più potente alleato d’Israele, gli Stati Uniti, per un totale calcolato in un miliardo di dollari, secondo dati ufficiali. Tutta la difesa israeliana è finanziata soprattutto dagli USA. Anche perché costa l’ira di Jahvè: ogni missile dell’Iron Dome va dai 40.000 ai 100.000 dollari, laddove il prezzo di ogni razzo sparato dai gruppi palestinesi si aggira sui 1.000-5.000 dollari.

Ma la cosa più curiosa è che gli americani vogliono testare proprio attraverso le guerre d’Israele (che dal 1948 non sono mai finite) l’effettiva efficacia della cupola di ferro, onde verificare se un analogo sistema può funzionare nel proprio territorio, che però ha un’estensione colossale. Ecco perché una prima batteria di Iron Dome è già stata consegnata agli USA e attivata alla base di Fort Bliss alla fine del 2020, e nei prossimi mesi dovrebbe essere consegnata una seconda batteria.

Per combattere i palestinesi Israele non ha altre armi che l’uso delle armi. 4000 anni di cultura ebraica buttati nella Geenna.

La politica genocidaria di Israele dipende da noi occidentali

Perché i politici (che non siano proprio quelli della sinistra radicale) si schierano subito dalla parte di Israele, ogni volta che nella Palestina scoppia un conflitto bellico tra le parti avverse, appartenenti a religioni ufficialmente opposte?

La motivazione va cercata nell’immaginario collettivo, che è più forte di qualunque motivazione reale della guerra in corso.

Quando si parla di terrorismo internazionale, qual è la religione cui l’occidente fa sempre riferimento? L’islam.

Quando si parla di flussi migratori verso l’Unione Europea, qual è la religione prevalente di appartenenza dei migranti? L’islam.

Quando nel Mediterraneo si vedono Paesi con governi autoritari che minacciano la stabilità dei Paesi confinanti, gestiti da governi democratici, a quale religione si attribuisce questa nuova e per noi occidentali fastidiosa proiezione di potenza? L’islam.

Quando mettiamo a confronto un Paese capitalisticamente avanzato come Israele e un altro economicamente piuttosto arretrato come quello palestinese, a quale religione attribuiamo tale arretratezza? L’islam.

Quando sul piano internazionale vediamo che Israele è in grado di muoversi agevolmente con una propria leadership politica e diplomatica, mentre i palestinesi non hanno niente che possa reggere il confronto, a quale religione attribuiamo questo deficit di rappresentanza? L’islam.

Quando l’intero occidente si chiede quale sia una radice culturale che ha determinato la propria civiltà, a quale religione fa riferimento? Ebraico-cristiana.

Quando l’occidente ricorda i tempi del proprio passato colonialismo, ha mai nutrito dubbi sulla necessità di “civilizzare” completamente e radicalmente le popolazioni appartenenti alla religione islamica? Nessun dubbio.

Quando sul piano demografico l’occidente cristiano teme il diffondersi di una religione concorrente, a quale fa subito riferimento? L’islam.

Quando l’occidente pensa all’idea di genocidio, a quale religione associa immediatamente questo crimine? L’ebraismo.

Quando in forza di questo genocidio abbiamo ritenuto che gli ebrei dovessero essere risarciti con un proprio territorio, perché ci è sembrato giusto che dovessero rimetterci i palestinesi? Perché erano islamici.

Dunque, quando Israele si comporta in maniera razzistica, colonialistica, genocidaria nei confronti dei palestinesi, che cos’è che le dà la sicurezza di potersi comportare così in tutta tranquillità? È l’immaginario collettivo che in occidente essa stessa ha contribuito a creare.

Una battaglia mondiale per un chip

Il commissario europeo Thierry Breton responsabile della politica industriale della UE, ha detto al quotidiano economico francese “Les Echos”: “Da diverse settimane si registra una penuria di semiconduttori [minuscoli prodotti di silicio che troviamo ormai ovunque] sul mercato mondiale, e questo ha costretto a interrompere l’attività di alcune fabbriche di automobili [dove i chip sono in media 800!] e perfino impianti per la produzione di tostapane. In questa industria l’Europa si è lasciata distanziare per mancanza d’investimenti. La produzione di semiconduttori di ultima generazione si effettua principalmente in Asia, e in particolare a Taiwan, che non può più venderli alla Cina. Soprattutto l’azienda TSMC detiene un quasi monopolio sui semiconduttori di alta gamma. L’azienda statunitense Intel, dominante fino a 10 anni fa, è stata soppiantata. Oggi TSMC produce l’80% dei semiconduttori più sofisticati e si prepara a commercializzare semiconduttori di 3 se non addirittura 2 nanometri [l’unità di misura del settore che corrisponde allo spessore di un capello]. A parte la Corea del Sud nessuno riesce a tenere il passo, neanche la Cina, che oggi è priva dell’accesso all’industria a causa delle sanzioni americane”.

A dir il vero per quanto riguarda la ricerca e progettazione (che non c’entra niente con la fase della fonderia, dell’assemblaggio e imballaggio) gli USA detengono ancora una leadership mondiale, in virtù della quale possono controllare circa la metà delle vendite globali di semiconduttori, contro il 10% della UE e il 5% della Cina. Ben 8 delle 15 più grandi aziende di semiconduttori nel mondo sono negli USA, con Intel prima per vendite annue.

Un quadro radicalmente opposto si delinea invece per quanto riguarda l’attività di fonderia, dominata effettivamente da Taiwan e dalla Corea del Sud, con rispettivamente il 23% e 26% della capacità produttiva del settore. Complessivamente in Asia orientale è concentrato circa l’80% della produzione mondiale di chip. All’interno di questa quota la Cina ricopre il 12%, con una crescita di 10 punti percentuali negli ultimi 20 anni.

La TSMC ha inoltre investito più di 20 miliardi di dollari per la costruzione, nell’area meridionale di Taiwan, di una nuova fabbrica delle dimensioni di 22 campi da calcio, capace di sviluppare le tecnologie a 3nm e 2nm, rispettivamente previste per il 2022 e il 2024.

Parallelamente, USA e UE hanno invece assistito al crollo, negli ultimi tre decenni, della loro quota nella capacità produttiva globale di semiconduttori, da quasi il 40% a rispettivamente il 12% e il 10% circa.

In particolare la UE ha perso la sfida tecnologica per almeno il prossimo decennio, poiché gli investimenti necessari sono colossali. La sola TSMC si prepara a investire 100 miliardi di dollari nel corso dei prossimi tre anni, mentre l’Europa può mettere sul piatto solo una decina di miliardi, più altrettanti di contributi da parte degli industriali. Troppo pochi.

Trump aveva indotto TSMC a costruire una fabbrica in Arizona, con un investimento di 12 miliardi di dollari, per colpire soprattutto il colosso Huawei, accusato dagli USA di collaborare con le autorità cinesi a fini spionistici. I lavori di costruzione (con 1.600 addetti e migliaia di altri nell’indotto) dovrebbe iniziare nel 2021 e la produzione di 20.000 chip al mese a 5 nanometri dovrebbe essere avviata nel 2024. L’impianto sarà la seconda fabbrica della TSMC negli USA. Nel 2017 un’altra big taiwanese, Foxconn, ha annunciato piani per costruire un impianto nel Wisconsin. Anche Intel ha già annunciato un investimento da 20 miliardi di dollari per la creazione di due nuove fabbriche di semiconduttori in Arizona, che dovrebbero iniziare la produzione nel 2024. L’Arizona dovrebbe inoltre accogliere l’impianto da 17 miliardi di dollari di Samsung Electronics. Tutte cose che nella UE ci sogniamo.

Ora Breton vorrebbe convincere i taiwanesi a investire anche in Europa, ma ha già ricevuto un rifiuto: TSMC vuole mantenere l’essenziale della produzione a Taiwan, che però è un’isola rivendicata da Pechino, e l’industria cinese, dopo l’embargo americano sui dazi, ha assolutamente bisogno di quei semiconduttori, anche perché in questo settore patisce diversi anni di ritardo. Infatti ne ha ammassato le scorte prima del blocco e sta investendo nella propria autosufficienza. Poi è venuta la pandemia che ha provocato un incremento nell’uso di materiale informatico.

Insomma ce n’è abbastanza per far scoppiare una guerra, anche perché questo settore tecnologico vale 440 miliardi di dollari di fatturato annuo, ed è in costante crescita (+7,7% previsto nel 2021). Infatti i semiconduttori sono una componente cruciale per smartphone e computer, che insieme costituiscono i 3/5 degli acquisti globali di chip, ma anche per l’industria automobilistica (10% del mercato). In campo militare, poi, sono assolutamente necessari per modellare le traiettorie di missili e droni da combattimento.

Washington mette in pericolo la sopravvivenza di Huawei, orgoglio dell’economia cinese, numero uno al mondo nei dispositivi telefonici e pioniere nella tecnologia 5G, con un giro d’affari globale di oltre 100 miliardi di euro e circa 200.000 dipendenti. E Huawei, già costretta a vendere il suo marchio di smartphone Honor per evitarne il fallimento, è solo la punta dell’iceberg di quella che è ormai una guerra aperta in campo tecnologico. Ricordiamo che un anno e mezzo fa gli USA han fatto arrestare a Vancouver la direttrice finanziaria di Huawei, nonché figlia del fondatore, con l’accusa d’aver violato le sanzioni contro l’Iran.

Pechino infatti sta già prendendo misure ritorsive: bloccherà o rallenterà le esportazioni di terre rare, la famiglia di 17 minerali usati in settori strategici, a cominciare da quello degli armamenti. Servono 435 grammi di questi minerali per fabbricare un aereo da combattimento statunitense F-35. E si può facilmente prevedere che Pechino troverà il modo per piegare Taiwan alle proprie esigenze, anche perché l’isola non può fare a meno del mercato cinese,

Ricordiamo che nel 2010, durante un periodo di tensioni, la Cina aveva già privato il Giappone delle terre rare. All’epoca ne controllava il 95% del mercato; oggi ne controlla ancora l’80%. Ma questa volta sono gli occidentali che stanno cercando di ridurre la loro dipendenza.

L’apartheid in Israele

Il rapporto dell’ong Human Rights Watch, “A threshold crossed” (Una soglia oltrepassata), uscito il 27 aprile, sostiene che lo Stato israeliano è colpevole di crimini contro l’umanità, nello specifico di crimini di apartheid. Il nuovo studio si aggiunge alla denuncia della più importante organizzazione per i diritti umani israeliana, B’Tselem, che a gennaio ha definito l’occupazione israeliana in questi stessi termini nel suo rapporto.

Human Rights Watch è, insieme ad Amnesty International, la voce più autorevole in campo di diritti umani a livello internazionale. Il suo giudizio legale è stato redatto in un rapporto di 213 pagine, in cui dimostra che “le violazioni dei diritti dei palestinesi nei territori occupati da Israele corrispondono a crimini contro l’umanità di apartheid”.

D’altra parte il concetto di “apartheid” è da tempo slegato dal sistema politico un tempo applicato in Sudafrica. Ai sensi della Convenzione sull’apartheid e dello Statuto di Roma che fonda la Corte Penale Internazionale, l’apartheid costituisce un crimine che comporta atti inumani “nel contesto di un regime istituzionalizzato di oppressione sistematica e di dominazione da parte di un gruppo razziale su altri gruppi razziali, al fine di perpetuare tale regime”.

Tra gli atti disumani identificati nella Convenzione e nello Statuto di Roma sono inclusi il trasferimento forzato, l’espropriazione della proprietà fondiaria, la creazione di riserve e ghetti, la negazione del diritto di partire e di tornare nel proprio Paese e il diritto a una nazionalità.

Uno dei principali elementi legali che crea in Israele le circostanze per un “regime istituzionalizzato di oppressione” è la legge sullo Stato-Nazione del 2018, che definisce Israele come lo “Stato-Nazione del popolo ebraico”, Gerusalemme la sua “capitale unita”, e l’ebraico la sola lingua ufficiale. Nessun riferimento a palestinesi, cristiani o musulmani. Questo costituisce una chiara base giuridica di discriminazione a favore degli ebrei israeliani a scapito dei palestinesi d’Israele, che rappresentano peraltro il 21% della popolazione.

E non si può continuare a sostenere che chiunque faccia delle critiche ai governi israeliani, ha intenzione di mettere in discussione il diritto dello Stato di Israele di esistere come Stato-Nazione del popolo ebraico.

Dall’inizio del Ramadan, a metà aprile, Gerusalemme è sull’orlo dell’esplosione. Durante il mese sacro per l’islam, i palestinesi di Gerusalemme hanno l’abitudine di ritrovarsi la sera nei pressi della porta di Damasco, uno degli accessi alla moschea Al Aqsa, nella città vecchia. Non si fa nulla di eversivo. Eppure le autorità israeliane han chiuso l’area ai palestinesi, senza dare nessuna spiegazione. Ciò ha provocato le loro proteste, represse puntualmente dalla polizia israeliana.

Dopo giorni di tensioni, il 22 aprile un gruppo ebraico di estrema destra, Lehava (La fiamma), che sostiene il divieto di matrimoni misti e vuole “espellere gli arabi della terra santa”, ha organizzato un rastrellamento nella città vecchia di Gerusalemme. Al grido di “morte agli arabi”, circa 300 militanti del gruppo sono andati nei centri commerciali e per strada a caccia di palestinesi. Negli scontri che sono seguiti almeno 110 palestinesi sono stati feriti, mentre oltre 50 persone sono state arrestate.

Le difficoltà di Benjamin Netanyahu a creare una maggioranza di governo stabile l’hanno spinto a reclutare anche le frange più estreme, fasciste e razziste, nonché omofobe. In particolare il kahanismo, l’ideologia ebraica ispirata al rabbino Meir Kahane, che propone il trasferimento di tutti gli arabi nei paesi musulmani o in occidente, sta ottenendo sempre più consensi a livello governativo. I kahanisti hanno ora sei seggi in parlamento. La soluzione dei due Stati non è stata mai così lontana.

Dopo gli accordi di Abramo, che hanno determinato varie intese tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco, i negoziati di pace tra israeliani e palestinesi sono a un punto morto a livello politico. E la comunità internazionale non sembra preoccuparsi minimamente che ogni giorno una persona nasca nella prigione a cielo aperto di Gaza, o senza diritti civili in Cisgiordania, o con uno status inferiore per legge in Israele, o condannato allo status di rifugiato permanente nei Paesi vicini, come i suoi genitori e nonni prima di lui, e questo perché è palestinese e non ebreo.

Prima che la Corte Penale Internazionale entri in possesso del dossier e lanci un’indagine per crimine di apartheid – che significherebbe per molti responsabili israeliani essere indagati e anche arrestati non appena varcano il territorio di uno dei 122 Paesi firmatari dello Statuto di Roma – è nell’interesse di tutti (i 6,8 milioni di israeliani ebrei e i 6,8 milioni di palestinesi che vivono tra Israele, Cisgiordania e Striscia di Gaza) costruire un futuro di diritto. E in questo futuro il nuovo governo americano non sembra avere alcuna parte positiva. Biden, infatti, pur avendo rinnovato i finanziamenti all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (sospesi da Trump), ha chiarito che non intende revocare il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, né il riconoscimento della sovranità israeliana sulle alture del Golan.

Sempre più preoccupante la destra fanatica in Israele

Nell’arco di sette anni vi sono state cinque elezioni della Knesset israeliana, quattro delle quali in meno di due anni. Le ultime del 23 marzo con un’affluenza del 67%, la più bassa dal 2009. Sono 13 i partiti a dividersi i 120 seggi.

Il Likud ha ottenuto 52 seggi, ma doveva arrivare a 61 per poter governare. E sappiamo bene che Netanyahu è pronto a tutto pur di non affrontare le pesanti accuse di corruzione, frode e abuso di potere, mossegli dal 2019. In questo momento sta chiedendo che si proceda con l’elezione diretta del primo ministro, per prevenire il rischio di una nuova tornata elettorale inconcludente. Ma non è escluso, conoscendo il soggetto, privo di scrupoli, ch’egli preferisca le situazioni in cui nessuno può formare un governo, così lui continua a fare il primo ministro ad interim.

In ogni caso la novità maggiore alle ultime elezioni è stata l’affermazione di partiti di estrema destra e ultrareligiosi, e persino l’ingresso di nuovi partiti di quest’area in parlamento. Tra Sionismo religioso, Potere ebraico e Noam, un miscuglio di xenofobia, omofobia e nazionalismo, uniti a fondamentalismo religioso e violenza, fanno a gara a chi sia più fascista. Queste persone rappresentano un Israele violento, arrogante e isolato che ignora il resto del mondo. Alla faccia della recente Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo.

Per es. il partito Sionista Religioso (alleanza di partiti guidata da Bezalel Smotrich) in passato aveva proposto di segregare i reparti di maternità, in modo che le donne ebree non dovessero partorire vicino a donne arabe. Smotrich si è definito un “fiero omofobo” (nell’alleanza vi è anche il partito Noam, apertamente anti-LGBT). E ha detto che è disposto a fare un governo col Likud solo se Netanyahu rinuncia all’impegno preso con la risoluzione ONU 1325, in base alla quale gli Stati sono obbligati a includere le donne nei corpi decisionali, in particolare quelli che si occupano di pace e sicurezza, a proteggere le donne dalla violenza e a tutelarle nei loro diritti umani.

Un altro partito dell’alleanza Potere Ebraico, guidato da Itamar Ben Gvir. Quest’ultimo si ispira al rabbino estremista Meir Kahane, ucciso negli Stati Uniti nel 1990. Kahane aveva affermato che ebrei e arabi non possono coesistere e che l’unica soluzione è espellerli da Israele. Ben Gvir, che vive in uno degli insediamenti più violenti e provocatori della Cisgiordania occupata, è stato definito l’equivalente israeliano di un leader del Ku Klux Klan ed è già stato condannato per istigazione alla violenza.

Difficile che Netanyahu possa formare un governo con partiti che vogliono annettere la Cisgiordania in modo unilaterale; separare Gaza al fine di mantenere una maggioranza ebraica nello Stato unitario e non ammettere i rifugiati palestinesi. La destra radicale vuole uno Stato unico, non-divisibile, in cui i palestinesi o accettano di definirsi cittadini israeliani o restano rinchiusi a Gaza. Parlare di due Stati, come fa la sinistra, per loro non ha senso.

La Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo

La recente Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo è uno strumento per cercare di capire come si manifesta l’antisemitismo nei vari Paesi del mondo.

È stata realizzata da un gruppo di studiosi nei campi della storia dell’olocausto, degli studi ebraici e degli studi sul Medio Oriente, ed è stata sottoscritta da 200 firmatari.

Si sono ispirati alla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, alla Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale del 1969, alla Dichiarazione del forum internazionale di Stoccolma sull’olocausto del 2000 e alla Risoluzione delle Nazioni Unite sulla giornata della memoria del 2005.

Ritengono che la lotta contro l’antisemitismo sia inseparabile dalla lotta globale contro tutte le forme di discriminazione razziale, etnica, culturale, religiosa e di genere.

Hanno preteso di dare una definizione di base, più generale, dell’antisemitismo, da declinare nelle varie situazioni, in alternativa alla Definizione IHRA, il documento adottato nel 2016 dall’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, che sicuramente cercava di proteggere Israele dalla responsabilità nei confronti del diritto internazionale e di proteggere il sionismo da critiche razionali ed etiche.

Ora, con questa nuova Dichiarazione, si è cercato di ammettere che l’ostilità verso Israele potrebbe essere non solo un’espressione di ostilità antisemitica, ma anche una reazione alla violazione dei diritti umani, o il sentimento che una persona palestinese prova a causa dell’esperienza fatta trovandosi nelle mani di quello Stato. Detto altrimenti, se l’antisemitismo è sempre una forma di razzismo, l’antisionismo invece può essere considerato legittimo.

Ma procediamo con ordine. In generale – sostiene la Dichiarazione – è una forma di razzismo considerare un tratto caratteriale come innato o fare generalizzazioni negative indiscriminate su una data popolazione, quindi è razzistico anche l’antisemitismo.

Non si può infatti sostenere, come già si faceva nel passato, l’idea di una “cospirazione ebraica”, nella quale gli ebrei in quanto tali possiedono un potere nascosto che usano a spese di altri popoli. Il che oggi vorrebbe dire che sarebbero in grado di controllare i governi o i media o le banche di qualunque Stato, come se fossero “uno Stato nello Stato”.

Esempi di antisemitismo a parole includono affermazioni del tipo: gli ebrei sono ricchi, intrinsecamente avari o antipatriottici; i Rothschild controllano il mondo, ecc. Ma è antisemitico anche negare o minimizzare l’olocausto, sostenendo che il deliberato genocidio nazista degli ebrei non ebbe luogo, o che non c’erano campi di sterminio o camere a gas, o che il numero delle vittime fu una piccola parte del totale reale.

Fin qui nulla da eccepire. I problemi però sorgono quando si scende nella questione spinosa dei rapporti tra Israele e Palestina.

Stando alla suddetta Dichiarazione sarebbe antisemitico ritenere gli ebrei collettivamente responsabili per la condotta di Israele o trattare gli ebrei, semplicemente perché ebrei, come agenti di Israele. Ma anche richiedere alle persone, perché ebree, di condannare pubblicamente Israele o il sionismo. Oppure presumere che gli ebrei non israeliani, semplicemente perché ebrei, siano necessariamente più fedeli a Israele che non al proprio Paese.

Naturalmente la Dichiarazione è costretta ad ammettere che non può essere considerato antisemitico il fatto di sostenere la richiesta di giustizia e di piena concessione dei diritti politici, nazionali, civili e umani da parte dei Palestinesi. E neppure opporsi al sionismo come forma di nazionalismo.

Però poi fa capire, velatamente, che schierarsi contro un qualunque tipo di accordo costituzionale tra ebrei e palestinesi nell’area tra il fiume Giordano e il Mediterraneo, sia che questo accordo avvenga con due Stati, con uno Stato binazionale, con uno Stato democratico unitario, con uno Stato federale o in qualsiasi altra forma, può diventare un atteggiamento antisemitico.

Infatti, secondo la Dichiarazione, se è legittimo paragonare Israele ad altri esempi storici di colonialismo d’insediamento o di apartheid, non è legittimo, proprio perché rischia di diventare antisemitico, negare il diritto agli ebrei dello Stato d’Israele di esistere e prosperare come ebrei.

In ogni caso il vero problema è che c’è molta differenza tra le diverse tipologie di rapporto statuale tra Israele e la Palestina. E sulla scelta politica di quale deve essere l’attuale tipologia o di quale sarà quella definitiva, i palestinesi non hanno e non sono destinati ad avere alcuna voce in capitolo.

Il nucleare in Iran, l’embargo e gli attacchi d’Israele

È incredibile come al giorno d’oggi, in cui continuamente parliamo di diritti umani, nessuno dica niente su come Israele, che è una potenza nucleare, impedisca all’Iran di diventarlo. Cosa direbbero a noi se di tanto in tanto andassimo a bombardare la Francia solo perché nel 1987 abbiamo rinunciato con un referendum al nucleare?

Sembra addirittura che il sabotaggio israeliano dell’importante impianto nucleare di Natanz (a 300 km a sud di Teheran) stia avendo delle conseguenze sulla politica interna dell’Iran, già in fermento a causa della crisi economica provocata dalle 1.500 sanzioni internazionali volute dagli USA (un numero enorme, senza precedenti, che sta portando al collasso l’economia del Paese).

Lo scontro tra ultraconservatori, guidati da Ali Khamenei (la principale figura politica e religiosa del Paese, ritenuta più potente dello stesso parlamento), e moderati, il cui leader è il presidente Hassan Rouhani, è diventato più acuto. Anche perché i primi non vorrebbero nessun accordo con gli americani. Esattamente come gli israeliani, che, per motivi opposti, han sempre detto di non fidarsi dell’Iran.

Abituati come siamo a ragionare in termini di buoni e cattivi, ci sembra che gli iraniani siano più cattivi degli israeliani, per cui ci fa piacere quando, in un modo o nell’altro, quel regime teocratico mostra vistose crepe. E così non ci rendiamo conto che le istituzioni iraniane sono gestite, non meno di quelle israeliane, da politici orgogliosi del proprio fondamentalismo, disposti a difenderlo in qualunque maniera.

A giugno in Iran si terranno le elezioni presidenziali, ma sin da adesso possiamo scommettere che vinceranno gli ultraconservatori, cioè quelli che sanno meglio sfruttare politicamente l’embargo economico dell’occidente e gli attacchi militari d’Israele. Basti pensare che è il Consiglio dei Guardiani, controllato dai radicali, a fare una preselezione dei candidati ammessi alle elezioni. E poi il presidente Rouhani non potrà candidarsi per un terzo mandato, essendo al potere dal 2013.

In ogni caso il sistema non è ancora crollato: né per le sanzioni, né per le grosse proteste antigovernative degli ultimi due anni, né per le tensioni nel Golfo Persico, né dopo l’uccisione del potente generale Qassem Suleimani, considerato uno degli esponenti più influenti dell’intero regime.

I colloqui relativi al nucleare iraniano in corso a Vienna non porteranno a niente. Infatti Joe Biden vuole sì tornare agli accordi del 2015, interrotti da Trump nel 2018, ma vuole anche che l’Iran non punti i suoi missili balistici a lungo raggio contro Israele o verso l’Oceano Indiano. Non solo, ma Teheran, prima di riportare l’arricchimento dell’uranio nei limiti previsti dall’intesa (un ridicolo 4%), pretende che gli USA ritirino subito la maggior parte delle sanzioni economiche. Sarà un dialogo tra sordi e se l’Iran deciderà di avvalersi dell’appoggio cinese, pur di non darla vinta all’occidente, la situazione in Medio Oriente diverrà esplosiva. Già oggi si ritiene che l’Iran abbia superato il suddetto limite di almeno 5 volte. E con la Cina è stato firmato un accordo di cooperazione strategica globale di 25 anni. Cina, Iran e Russia hanno anche condotto esercitazioni militari congiunte senza precedenti nel Golfo di Oman e nell’Oceano Indiano alla fine del 2019.

Il declino democratico della Tanzania

Alle recenti elezioni in Tanzania ha vinto il presidente uscente John Magufuli, che cercava il secondo mandato. Il suo Partito della Rivoluzione, che governa il Paese dal 1977, ha ottenuto 12,5 milioni di voti (76%), mentre il suo principale sfidante, Tundu Lissu, del partito Chadema, solo 1,9 milioni (13%). Nel 2015 il rapporto tra i due partiti era di 58% a 40%.

Le opposizioni han parlato di brogli (anche nel 2015 l’avevano fatto) e Lissu ha detto di non accettare il risultato delle elezioni. Lissu è rientrato nel Paese a luglio dopo tre anni di esilio. Nel 2017 era fuggito dopo un tentato assassinio che l’aveva ridotto in fin di vita con una decina di pallottole nel corpo.

Magufuli ha 61 anni ed è presidente dal 2015. È conosciuto col soprannome “Bulldozer” per la sua passione per i grandi lavori pubblici e per la sua capacità di ottenere sempre quello che vuole.

Egli consolida un processo già da tempo in corso: il progressivo allontanamento della Tanzania dagli ideali democratici con cui si era liberata all’inizio degli anni ’60 del colonialismo inglese, e il suo avvicinamento a modelli autoritari (p.es. quello dello Zimbabwe).

Durante i suoi anni di presidenza Magufuli è riuscito a far crescere l’economia del Paese, avviare importanti progetti infrastrutturali, tagliare gli sprechi nella spesa pubblica e rendere gratuita l’istruzione per tutte le scuole statali.

Ha vietato il fumo dell’hashish, l’esportazione di minerali non lavorati, l’uso del suo Paese come bandiera di comodo su navi mercantili straniere che trasportano droghe e armi.

Con uno dei tassi di crescita economica più elevati del continente (circa il 6%), il governo ha favorito particolarmente il settore ferroviario. Il piccolo porto peschereccio di Bagamoyo, per il quale sono stati stanziati 10 miliardi di dollari di investimenti, dovrebbe diventare il più grande porto dell’Africa entro il 2030.

Ha promosso inoltre una legislazione che elimina il diritto delle società minerarie di ricorrere all’arbitrato internazionale. Il contenzioso fiscale con Acacia Mining, accusata di aver sottovalutato per anni la sua produzione di oro, ha portato a un accordo secondo cui la Tanzania ottiene il 16% delle quote delle miniere detenute dalla multinazionale.

È stato però anche accusato di avere aumentato la repressione, arrestato gli oppositori e approvato misure per limitare la libertà di stampa e l’attività dei gruppi che si occupano di difesa dei diritti umani. Una legge del 2018 impone ai blog e ad altri fornitori di news online di detenere licenze governative con limitazioni sui contenuti.

Chi contesta le statistiche ufficiali e soprattutto i numeri del PIL rischia tre anni di galera. La Banca mondiale ha pronosticato solo il 2,5% per l’anno in corso.

Ha favorito la discriminazione per motivi legati al genere e all’orientamento sessuale. Le persone condannate per relazioni omosessuali possono essere incarcerate fino a 30 anni. Ha vietato tutti i progetti di sensibilizzazione sull’HIV e AIDS. Ha minacciato di arrestare e deportare chiunque faccia una campagna per i diritti dei gay, rendendo difficile trovare un avvocato che difenda i casi di violenza contro le persone LGBTQ. Se c’è un omosessuale che ha un account Facebook o Instagram, tutti coloro che lo seguono sono colpevoli come lui.

Da buon cattolico devoto è contrario a contraccezione e aborto.

Si rifiuta di dare dati statistici sulla questione del coronavirus.

Già a partire da gennaio aveva ordinato la sospensione delle attività di sei media tanzaniani, per un periodo fino a undici mesi. Ha obbligato le emittenti di radio e tv a chiedere l’autorizzazione alle autorità per usare qualsiasi tipo di materiale prodotto dai media stranieri. Ha negato a molte testate straniere i permessi per andare nel paese e seguire le elezioni, e ha imposto a quelle accettate la presenza costante di un funzionario del governo.

Queste news ci possono servire non solo per conoscere i Paesi africani, oggetto di una sempre più marcata migrazione verso la UE, ma anche per capire quanto può essere relativa una democrazia col 76% dei consensi. All’inizio ti presenti come progressista, poi, ottenuto il consenso, fai il contrario. Tutto il mondo è paese.

La retromarcia di Macron

Preso dal panico, perché ha capito che dopo le sue farneticanti dichiarazioni di guerra culturale anti-islamica metteva a rischio l’incolumità di tutti i francesi sparsi nel mondo, il presidente Emmanuel Macron ha concesso un’intervista rivolta al mondo arabo, registrata dalla tv Al Jazeera. Pur condannando ovviamente e risolutamente ogni “violenza”, ha finalmente ammesso di “comprendere lo shock provocato dalle caricature di Maometto da parte di Charlie Hebdo”.

Come se quelle vignette non costituissero alcuna forma di violenza! Come se la violenza potesse essere solo fisica e non anche verbale o mediatica o morale!

Va bene che sei cresciuto in una famiglia non religiosa, però tu stesso a 12 anni hai chiesto d’essere battezzato come cattolico romano. E poi hai frequentato il lycée de la Providence di Amiens, gestito dai gesuiti, dove tra l’altro hai conosciuto la professoressa Brigitte Trogneux, coniugata con figli, di cui ti eri follemente innamorato e con la quale, pur essendoci 24 anni di differenza, avevi stabilito una relazione sentimentale, poi addirittura approdata in un matrimonio.

Quindi un minimo di “istruzione religiosa” dovresti averla, anche se ti vanti d’essere un campione della laicità. E allora medita su quanto disse Gesù Cristo ai propri discepoli: “Non sono le cose che entrano dentro che fanno male, perché quelle finiscono nella latrina. Sono le cose che escono dal cuore che feriscono”.

Non ci vuol molto a capire che il cuore può servirsi anche di una matita.

E poi, per favore, non insultare l’intelligenza degli islamici dicendo che le vignette incriminate non sono state prodotte dal governo, quando fino a ieri le hai difese strenuamente.

La libertà d’espressione senza rispetto delle opinioni altrui l’hai fatta diventare un’aberrazione del laicismo. Anzi del “tuo” laicismo, che pur viene osannato da altri politici e statisti irresponsabili come te.

Il delirio di mons Viganò

La lettera aperta del 30 ottobre che mons Carlo Maria Viganò ha rivolto al presidente Donald Trump, contiene aspetti allucinanti, apprezzati però dal generale Jack Flynn, braccio destro di Trump.

Secondo lui esisterebbe “una cospirazione globale contro Dio e contro l’umanità”. Da parte di chi? In questione sarebbero le “forze del Male in una battaglia senza quartiere contro le forze del Bene; forze del Male che sembrano potenti e organizzate dinanzi ai figli della Luce, disorientati e disorganizzati, abbandonati dai loro capi temporali e spirituali”.

Sta delirando o si riferisce a qualcuno in particolare? Lui dice che è qualcuno che “vuole demolire le basi stesse della società: la famiglia naturale, il rispetto per la vita umana, l’amore per la Patria, la libertà di educazione e di impresa”.

Cioè in pratica qualcuno che vuole legittimare coppie gay, che è favorevole a leggi abortiste, che è contrario al nazionalismo (quindi non è razzista), che ostacola il liberismo economico e che non sopporta le scuole private.

Ma questo strano nemico, non ancora ben identificato, è solo uno o sono tanti? Ecco la risposta del prelato, famoso per altre sue lettere aperte: “Vediamo i capi delle Nazioni e i leader religiosi assecondare questo suicidio della cultura occidentale e della sua anima cristiana, mentre ai cittadini e ai credenti sono negati i diritti fondamentali, in nome di un’emergenza sanitaria che sempre più si rivela come strumentale all’instaurazione di una disumana tirannide senza volto”.

Di chi sta parlando? Sembrano affermazioni deliranti. Finalmente si apre uno spiraglio che fa capire qualcosa. “Un piano globale, denominato Great Reset, è in via di realizzazione. Ne è artefice un’élite che vuole sottomettere l’umanità intera, imponendo misure coercitive con cui limitare drasticamente le libertà delle persone e dei popoli. In alcune nazioni questo progetto è già stato approvato e finanziato; in altre è ancora in uno stadio iniziale. Dietro i leader mondiali, complici ed esecutori di questo progetto infernale, si celano personaggi senza scrupoli che finanziano il World Economic Forum e l’Event 201, promuovendone l’agenda”.

Il Grande Riassetto Mondiale? E chi lo dirige? Il Maestro di tutti gli Ordini, vissuto e cresciuto a pane e svastica, Klaus Schwab, 82 anni, impregnato fin da bambino di una certa cultura nazista. Schwab è il presidente esecutivo del World Economic Forum.

Ma che progetto avrebbe il Great Reset, gruppo paramassonico, fondato nel 1954 da un colonnello delle SS a riposo? Lo spiega l’arcivescovo: “è l’imposizione di una dittatura sanitaria finalizzata all’imposizione di misure liberticide, nascoste dietro allettanti promesse di assicurare un reddito universale e di cancellare il debito dei singoli. Prezzo di queste concessioni del Fondo Monetario Internazionale dovrebbe essere la rinuncia alla proprietà privata e l’adesione a un programma di vaccinazione Covid-19 e Covid-21 promosso da Bill Gates con la collaborazione dei principali gruppi farmaceutici. Al di là degli enormi interessi economici che muovono i promotori del Great Reset, l’imposizione della vaccinazione si accompagnerà all’obbligo di un passaporto sanitario e di un ID digitale, con il conseguente tracciamento dei contatti di tutta la popolazione mondiale. Chi non accetterà di sottoporsi a queste misure verrà confinato in campi di detenzione o agli arresti domiciliari, e gli verranno confiscati tutti i beni”.

In effetti il cinquantunesimo summit annuale del World Economic Forum si svolgerà a Davos a giugno 2021, con partecipazione delle star mondiali di politica, finanza, economia, e una rete di 400 città in collegamento internazionale.

Ma è possibile che un forum del genere riesca a stabilire regole così mostruose? Mons Viganò è preoccupatissimo: “in alcuni Paesi il Great Reset dovrebbe essere attivato tra la fine di quest’anno e il primo trimestre del 2021. A tal scopo, sono previsti ulteriori lockdown, ufficialmente giustificati da una presunta seconda e terza ondata della pandemia”.

Ma a che servirebbero tutti questi lockdown? In pratica il virus servirebbe per “seminare il panico e legittimare draconiane limitazioni delle libertà individuali, provocando ad arte una crisi economica mondiale. Questa crisi serve per rendere irreversibile, nelle intenzioni dei suoi artefici, il ricorso degli Stati al Great Reset, dando il colpo di grazia a un mondo di cui si vuole cancellare completamente l’esistenza e lo stesso ricordo”.

Terribile. Davvero esistono gruppi di persone in grado di avere poteri così forti? E se sì, ha senso rivolgersi a quello squilibrato di Trump per porre un argine a un pericolo del genere? Lui che proprio ieri ha accusato i medici di gonfiare i numeri dei morti per coronavirus solo per fare soldi!

Viganò sta forse parlando a nuora per rivolgersi a suocera? E chi sarebbe questa suocera? Da non crederci: è l’attuale governo Conte. Il Vaticano non vuole un secondo lockdown ed è pronto a mettersi con chi manifesta in piazza. Motivo? Eccolo: “Nessuno, fino allo scorso febbraio, avrebbe mai pensato che si sarebbe giunti, in tutte le nostre città, ad arrestare i cittadini per il solo fatto di voler camminare per strada, di respirare, di voler tenere aperto il proprio negozio, di andare a Messa la domenica. Eppure avviene in tutto il mondo, anche in quell’Italia da cartolina che molti Americani considerano come un piccolo paese incantato, coi suoi antichi monumenti, le sue chiese, le sue incantevoli città, i suoi caratteristici villaggi. E mentre i politici se ne stanno asserragliati nei loro palazzi a promulgare decreti come dei satrapi persiani, le attività falliscono, chiudono i negozi, si impedisce alla popolazione di vivere, di muoversi, di lavorare, di pregare. Le disastrose conseguenze psicologiche di questa operazione si stanno già vedendo, ad iniziare dai suicidi di imprenditori disperati, e dai nostri figli, segregati dagli amici e dai compagni per seguire le lezioni davanti a un computer”.

Ecco il vero obiettivo della lettera: colpire il governo Conte e condannare tutte le sue restrizioni, giudicate assurde, mostrando che Trump agisce molto diversamente nei confronti di questo virus. Lui è più libero, non ha paura di ammalarsi e difende strenuamente i valori religiosi ed economici dell’Occidente.

Ma Viganò non se la prende solo con Conte. Ha di mira persino l’attuale pontefice, come già fatto in altre occasioni pubbliche. Questo perché “colui che occupa la Sede di Pietro fin dall’inizio ha tradito il proprio ruolo, per difendere e promuovere l’ideologia globalista, assecondando l’agenda della deep church, che lo ha scelto dal suo grembo”.

Immagino che soprattutto il mons non abbia digerito il patto di collaborazione che Bergoglio ha fatto di recente col governo cinese. I cattolici integralisti infatti l’hanno interpretato come una forma di punizione dei martiri della Chiesa cattolica clandestina, e di sottomissione della libertà religiosa e dell’autonomia della Chiesa di Roma ai desiderata dell’ideologia del Partito Comunista Cinese.

Ecco quindi il nuovo messia che deve combattere i figli delle tenebre: “Lei ha chiaramente affermato di voler difendere la Nazione, One Nation under God, le libertà fondamentali, i valori non negoziabili oggi negati e combattuti. È Lei, caro Presidente, colui che si oppone al deep state, all’assalto finale dei figli delle tenebre”. Trump sarebbe

“l’ultimo presidio contro la dittatura mondiale”. Come se lui potesse essere la persona più indicata per difendere i valori della cristianità contro “il Nemico del genere umano”.

E di sicuro Biden non è “un personaggio manovrato dal deep state, gravemente compromesso in scandali e corruzione, che farà agli Stati Uniti ciò che Jorge Mario Bergoglio sta facendo alla Chiesa, il Primo Ministro Conte all’Italia, il Presidente Macron alla Francia, il Primo Ministro Sanchez alla Spagna, e via dicendo. La ricattabilità di Joe Biden – al pari di quella dei Prelati del “cerchio magico” vaticano – consentirà di usarlo spregiudicatamente, consentendo a poteri illegittimi di interferire nella politica interna e negli equilibri internazionali. È evidente che chi lo manovra ha già pronto uno peggiore di lui con cui sostituirlo non appena se ne presenterà l’occasione”.

Incredibile che un arcivescovo usi espressioni così farneticanti, che potrebbero trovarsi nel diario di uno psicopatico.

La Cina erediterà il capitalismo occidentale?

Il governo cinese respinge il “decoupling” con gli Usa e punta sempre di più sulla “autosufficienza tecnologica”.

Che significa “decoupling”? È il disaccoppiamento tra le due maggiori economie del mondo. Già adesso le imprese statunitensi stanno pensando di rilocalizzare la produzione strategica verso altri Paesi. L’esempio più noto è quello della produzione dei prossimi iPhone spostata in India, ma sono molte le liste che includono più di 50 grandi aziende americane che hanno avviato un processo di trasloco.

Gli USA han paura della capacità economica della Cina e non hanno più intenzione di trasferire le loro attività in questo paese che pur offre grandi vantaggi sul costo del lavoro. Ora temono di perdere la guerra commerciale.

Di qui la decisione del governo cinese di sganciarsi dalla tecnologia americana. Si punta soprattutto su Hong Kong, per farla diventare un centro internazionale di innovazione e tecnologia, che dovrà servire anche per la Nuova via della seta.

Ecco cosa significa “socialismo con caratteristiche cinesi”, cioè capitalismo sul piano sociale, sempre più autonomo sul piano tecnologico, e dittatura su quello politico, ove il premier è un presidente a vita e otto partiti politici legalmente riconosciuti seguono la direzione del Partito Comunista Cinese. Sembra che l’unico problema rimasto insoluto in Cina sia il divario enorme tra le ricche città costiere e le sottosviluppate aree interne.

Intanto questo è stato l’unico Paese al mondo ad aver risentito pochissimo – o addirittura ad avere tratto beneficio – della tragedia del Covid.

Il Pil sfiora il 5% e la disoccupazione è in forte calo.

Il tasso zero dell’etica liberistica

Scrive Luca Bottura il 30 ottobre su Repubblica.it: “La diffusa opinione che le vignette di Charlie Hebdo rappresenterebbero un brodo di coltura per il terrorismo somiglia a quella di chi pensa che la minigonna faciliti lo stupro. Tra i valori non negoziabili che la Francia ha insegnato all’Occidente c’è quello della laicità, più che del laicismo, e tutti poggiano sull’architrave della libertà di espressione. Dire che Macron se l’è cercata, con la sua difesa del foglio satirico parigino, rappresenta un grave equivoco e un ribaltamento plateale del rapporto di causa-effetto. Nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, è il paravento per una torsione democratica che non solo non dobbiamo permettere, ma non dobbiamo concedere agli estremisti islamici.

Le copertine di Charlie su Maometto erano orribili? Certo. Specie se sei musulmano. Quelle sull’Italia dopo il terremoto, col sangue dei morti paragonato al sugo, irricevibili? Ovviamente. Specie se sei italiano. I motteggi contro il Papa, le suore, altre religioni assortite, potevano risultare disturbanti? Se sei cattolico, di più. Perché di qualunque evenienza satirica è difficile dire che “non fa ridere”. Spesso fa ridere alcuni, non altri. Dipende da quanto ti tocca.

Ma c’è una differenza ancora più decisiva. Che dopo la pubblicazione, nessun italiano è mai entrato nella sede del giornale che le ha stampate per giustiziarne gli autori. E che nessun cattolico si è messo a sgozzare innocenti per lavare una presunta onta scritta con l’inchiostro.

Delle due, dunque, l’una: l’emancipazione non tanto culturale, ma esperienziale, di chi con la democrazia ha una consuetudine più lunga, va onorata continuando a difendere i valori che da noi sono ben riposti nella Costituzione all’altezza dell’articolo 21.

Oppure, mettiamo un tetto. Fissiamo delle regole di buon gusto, non foss’altro che per paura, a quel che si può dire. Sostituiamo l’opportunità al codice penale, che al momento stabilisce i limiti di ciò che è pronunciabile e cosa no.

A quel punto però si pone la domande delle domande: chi decide questi limiti? Chi decide dove sia la decenza? Chi mette il punto di non ritorno oltre il quale devono valere la censura o l’autocensura? Perché mica ce n’è una sola, di soglia da superare. Che tu sia cattolico, islamico, italiano, sammarinese, persino tifoso del Bologna, la tua percezione del sacro non è la stessa di quello che ti sta accanto. Figurarsi del legislatore. O del giudice.

Ma poi: ne basterebbe uno? Chi dovrebbe stilare il codice di auto-condotta?”.

Poi va avanti con altre amenità, quelle tipiche di chi ama l’individualismo delle nostre società liberistiche. Infatti arriva a dire “non riesco a immaginare nulla di più sottomesso che intimare a qualcuno di nascondere i propri disegni perché qualcuno se ne fa schermo per uccidere”.

Perché questi ragionamenti hanno un valore etico prossimo allo zero? Il motivo è molto semplice e lo diceva già Paolo di Tarso duemila anni fa: “Non possiamo fare della nostra libertà un motivo per scandalizzare gli altri”. Cioè in sostanza non basta affermare la laicità dei valori. Occorre anche che i valori siano umani e se sono umani non possono certamente essere imposti. Vogliamo che lo Stato imponga la laicità per tutti? Bene, ma laicità vuol dire rispetto delle idee umane e democratiche. Charlie Hebdo rispetta con le sue vignette indecenti la sensibilità, i valori, la fede religiosa degli altri? No, non lo fa. E allora lo si chiuda. Non è utile a nessuno. Non favorisce la convivenza civile. È antipedagogico per definizione. È una minaccia alla stabilità di un paese, anche perché può essere facilmente strumentalizzato da un governo con ambizioni autoritarie. Come appunto quello di Macron.

Stiamo tirando troppo la corda

Ecco un elenco dei messaggi di cordoglio che avrebbero meritato delle precisazioni. Ci si riferisce alle tre persone uccise da un tunisino nella cattedrale di Notre Dame, nel centro di Nizza.

Il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin ha riportato le parole del papa: “assicura la sua vicinanza alla Comunità cattolica di Francia e a tutto il popolo francese che chiama all’unità”.

La vicinanza deve assicurarla anche alla comunità islamica di Francia, in quanto milioni di credenti non hanno nulla a che fare con questi atti terroristici, anzi loro stessi ne sono vittime, rischiando facilmente di diventare il bersaglio di chi compie indebite generalizzazioni. Come quella p.es. di chi parla di “terrorismo islamico”, come se chi appartiene a questa religione potesse più facilmente diventare un terrorista.

I cattolici francesi devono in realtà sentirsi uniti agli islamici francesi nella lotta contro ogni forma di estremismo giustizialista in nome della religione.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio inviato al Presidente della Repubblica Francese, Emmanuel Macron: “Nel condannare quest’ulteriore, deplorevole gesto di violenza, manteniamo ferma la determinazione nel contrastare il fanatismo di qualsivoglia matrice, a difesa di quei principi di tolleranza che costituiscono il tessuto connettivo delle nostre società democratiche”.

Ottimo. Avrei solo aggiunto, dopo le parole “qualsivoglia matrice”, laica o religiosa che sia. Questo perché non siamo così ingenui da pensare che solo un credente possa diventare un fanatico. Non ha senso credere che un laico o un ateo, solo perché tale, abbia la patente della persona tollerante. Il criterio della verità è la pratica.

“Il vile attacco che si è consumato a Nizza non scalfisce il fronte comune a difesa dei valori di libertà e pace. Le nostre certezze sono più forti di fanatismo, odio e terrore. Ci stringiamo ai familiari delle vittime e ai nostri fratelli francesi. Nous Sommes Unis!”. Lo scrive il premier Giuseppe Conte.

Non ho capito: siamo già uniti contro qualcuno? Dobbiamo considerare i nostri “fratelli francesi”, quelli laici o cattolici, migliori degli islamici presenti in Francia? Non sono forse anche quelli nostri “fratelli”? Sono cittadini francesi, anzi europei, pagano le tasse come noi, obbediscono alle leggi come noi. Con chi dobbiamo fare “fronte comune” per combattere “fanatismo, odio e terrore”? Con una parte della società contro l’altra? Rischiando così di far scoppiare dei pogrom razzistici? O delle guerre di religione?

“L’Italia ripudia ogni estremismo e resta al fianco della Francia nella lotta contro il terrorismo e ogni radicalismo violento”. Lo scrive il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

Giusto. E l’Italia soprattutto teme l’istigazione alla violenza, per cui raccomanda prudenza, tatto, diplomazia quando si difendono le ragioni di qualcuno senza considerare le ragioni di chi la pensa diversamente. Non si può dire infatti che le recenti dichiarazioni di Macron, che hanno fatto infuriare due miliardi di musulmani, sia andate in questa direzione.

“Contro il terrorismo dobbiamo essere capaci di unirci come comunità, rispondendo con fermezza e affermando i nostri valori”. Lo scrive il presidente della Camera, Roberto Fico.

Quali “nostri valori”? Quelli cattolici? La Francia è la patria del laicismo. Quelli laici? La Francia cade spesso nella tentazione di trasformare il laicismo in una nuova religione, da contrapporre in questo caso all’Islam. Forse i valori occidentali? Ma anche gli immigrati francesi, dopo un po’ che vivono da noi, e soprattutto se decidono di non tornare ai loro paesi d’origine, dobbiamo considerarli occidentali come noi. Non possiamo ghettizzarli, anche perché nella UE sono decine di milioni di persone. Dunque non restano che i valori umani. E noi non possiamo certo dire che gli islamici ne siano privi. Li ha riconosciuti persino il papa nella sua ultima enciclica.

La cancelliera tedesca Angela Merkel ha scritto in un messaggio pubblicato dal suo portavoce, Steffen Seibert: “La Germania è con la Francia in questo momento difficile”. Anche il primo ministro britannico Boris Johnson ha scritto: “Il Regno Unito è al fianco della Francia nella lotta al terrore e all’intolleranza”.

Cioè si fa fronte comune tra due Stati contro chi? Anche gli immigrati islamici residenti in Francia sono cittadini francesi. Se dovesse scoppiare una guerra, quanti cittadini islamici francesi contribuirebbero a difendere la loro nazione? È naturale che sia così. Che senso ha che uno Stato dichiari la propria solidarietà a un altro Stato quando non è in corso alcuna guerra contro un terzo Stato? Queste espressioni nazionalistiche non fanno bene alla pace nel mondo.