Il senso della democrazia diretta (in rapporto al federalismo)

Nella storia le tragedie avvengono soprattutto non quando si ha torto (come nelle dittature), ma quando si ha ragione e si pretende di averla (come nelle dittature che sostituiscono altre dittature). Cioè quando le proprie ragioni, che possono essere anche migliori di quelle altrui o di quelle precedenti temporalmente alle nostre, vengono imposte con la forza.

E’ sotto questo aspetto singolare che chi ha ragione e pretende di averla, non s’accorge che se c’è una cosa che contraddice la verità è proprio l’uso della forza.

C’è solo un caso in cui la forza smette d’essere tale e diventa diritto: quando è la forza della stragrande maggioranza di una popolazione (o di un intero paese). In questo caso si è soliti dire che vi sono più probabilità che la ragione stia dalla parte della grande maggioranza, ammesso (e non concesso) che sia possibile stabilire effettivamente la volontà di questa maggioranza. Il “non concesso” è d’obbligo là dove si pensa di stabilire tale volontà limitandosi a quella parodia di democrazia che è l’elezione dei parlamentari.

Quando la popolazione avverte l’esigenza di esercitare la forza come un proprio diritto, significa che non si sente rappresentata da chi la governa, ovvero che al governo si sta usando la forza contro gli interessi della grande maggioranza della popolazione, si sta usando la forza per violare dei diritti generali, che a tutti bisognerebbe riconoscere.

E’ a quel punto e solo a quel punto che alla forza di una risicata minoranza detentrice del potere, bisogna opporre la forza della grande maggioranza che lo subisce. Solo a quel punto la forza diventa violenza rivoluzionaria, avente cioè lo scopo di abbattere il governo in carica con una insurrezione popolare.

Tuttavia la storia ci dice che le tragedie avvengono proprio quando si è abbattuto il governo autoritario in carica. Infatti succede sempre che i trionfatori credono d’essere autorizzati a servirsi delle loro ragioni come occasione per imporre una nuova forza.

Col pretesto di dover abbattere tutti i nemici che ancora cercano di opporsi al nuovo governo, si impongono nuove servitù, nuove costrizioni, spesso peggiori delle precedenti. E il popolo, abituato a obbedire, ingenuamente le subisce, le accetta passivamente per il bene comune, pensando a una qualche “ragion di stato”.

Tutte le rivoluzioni sono fallite proprio perché i vincitori finivano col comportarsi come i vinti. Persino quando le ragioni sono state di tipo “socialista”, si è verificato questo fenomeno.

Bisogna dunque trovare il modo per scongiurare un’involuzione della democrazia. E l’unico non può essere che quello di affidare allo stesso popolo le sorti del proprio destino. Chi lo avrà guidato alla vittoria, dovrà riconoscergli la capacità di autogestirsi e di difendersi da solo contro eventuali nemici.

Il popolo deve sperimentare il significato della democrazia diretta, autonoma, localmente gestita, dove l’esigenza di affermare una qualche forma di centralismo può essere determinata solo da un consenso preventivo, concordato e motivato da parte delle realtà locali, che possono stabilire un patto tra loro al fine di realizzare un obiettivo specifico.

La democrazia o è diretta, locale, autogestita, o non è. La democrazia delegata, centralizzata, nazionale o sovranazionale ha senso solo se è temporanea e solo se le prerogative sono ben definite dalle realtà locali territoriali.

Se si escludono i momenti particolari delle guerre contro un nemico comune, occorre affermare il principio che vi è tanta meno democrazia quanto più chi la gestisce è lontano dalle realtà locali.

Ecco in tal senso è possibile usare l’idea di “federalismo” per spingere la democrazia verso obiettivi più significativi di quelli attuali, che non possono certo essere quelli di rendere il capitalismo più efficiente, né quelli di scegliere, come contromisura al rischio di una disgregazione sociale, di aumentare i poteri dell’esecutivo (che alcuni vorrebbero trasformare in “presidenzialismo”).

Per conservare l’unità nazionale non c’è bisogno di alcun presidenzialismo. Se le realtà locali (federate tra loro) sono democratiche, è la democrazia stessa, è la sua intrinseca forza etica e politica, a tenere unita la collettività nazionale e internazionale.

Ma perché questa democrazia non sia una mera formalità della politica, occorre che da essa si passi al “socialismo”, cioè alla gestione comune delle risorse vitali, alla socializzazione dei mezzi produttivi, in cui il primato economico passi dal valore di scambio al valore d’uso.

Dalle religioni primitive al socialismo

Il fatto che i cristiani dicessero, già nei vangeli, che nessuno può dirsi dio se non Gesù Cristo, è stata, nei confronti del mondo romano, una forma di ateismo. Ma come mai questa forma di ateismo si sviluppò, mentre quella ebraica, che diceva le stesse cose e che costituì indubbiamente un passo avanti rispetto alle civiltà egizia e mesopotamica, non ebbe questa fortuna?

In altre parole, per quale ragione diciamo che il cristianesimo è una forma di ulteriore ateismo rispetto all’ebraismo? Il motivo sta nel fatto che nel cristianesimo dio non resta invisibile ma si può conoscere e si può farlo attraverso un uomo che pretende di dirsi suo figlio unigenito. Il dio dei cristiani non è il “totalmente altro”, ma è prossimo all’uomo, è talmente umanizzato che ha accettato di mostrarsi in tutta la sua debolezza, ha persino accettato, senza reagire, di lasciarsi crocifiggere.

Il cristianesimo è riuscito a tradire il Cristo, che di religioso non aveva nulla, umanizzando i contenuti religiosi dell’ebraismo, che vedeva dio come un’entità assolutamente “altra” rispetto all’essere umano.

Tuttavia, per gli ebrei, di allora e di oggi, il dio assoluto non doveva soltanto restare inaccessibile, doveva anche garantire sulla terra un luogo ove sperimentare il valore degli ideali religiosi. Per i cristiani invece – come noto – questo luogo può essere solo ultraterreno. Dunque com’è stato possibile superare l’ebraismo?

Ai Romani l’ebraismo faceva paura proprio per la pretesa che aveva di unire la religione alla politica, ma dopo la distruzione di Gerusalemme cominciò a far paura il cristianesimo, proprio per la pretesa che aveva di tenere separata la religione dalla politica. Infatti quando un imperatore chiedeva d’essere considerato una sorta di divinità e voleva avere una religione che ci credesse, non poteva certo aver fiducia nel cristianesimo e tanto meno nell’ebraismo.

Ma per quale motivo il cristianesimo faceva più paura? La ragione era una sola: “cristiani” si poteva “diventare”, “ebrei” si poteva solo “nascere”. L’ebraismo era una religione aristocratica e nazionalistica; il cristianesimo invece era democratico e universalistico.

Eppure noi oggi diciamo che gli ebrei avevano tutte le ragioni di desiderare un luogo in cui realizzare concretamente i loro ideali religiosi: non volevano dare per scontato che in questo mondo non fosse possibile alcuna vera forma di liberazione. Quindi sotto questo aspetto li consideriamo migliori dei cristiani, che rimandano tutto all’aldilà.

Il cristianesimo può dunque essere interpretato come una forma di ateismo nei confronti della teocrazia ebraica, per la quale non si può fare distinzione tra politica e religione; nel contempo però esso rappresenta, sul piano politico, un’involuzione rispetto all’ebraismo, proprio perché non crede possibile una liberazione terrena. Il cristianesimo ha potuto trionfare ideologicamente sull’ebraismo proprio nel momento in cui questo era uscito politicamente sconfitto nello scontro con l’impero romano.

Tuttavia gli imperatori, distruggendo militarmente Gerusalemme, si portarono per così dire il nemico in casa. Quando i Romani usavano la religione come strumento della politica, temevano chi voleva fare della politica uno strumento della religione, per questo vollero assolutamente far fuori l’ebraismo. Ma appena l’ebbero fatto, cominciarono a temere chi non era disposto a considerare la religione uno strumento della loro politica, e si trovarono a perseguitare, inutilmente, i cristiani per tre secoli, finché alla fine si arresero, e quando lo fecero, pensarono subito di usare il cristianesimo come prima facevano col paganesimo, con la differenza che dovettero rinunciare alla loro divinizzazione, al loro ruolo sacerdotale.

Il cristianesimo impose all’impero romano una separazione politicamente formale di chiesa e stato, benché nella sostanza ideologica fossero entrambi cristiani e intenzionati a reprimere chiunque non lo fosse.

Ma in origine come si poneva il cristianesimo nei confronti del paganesimo? Essendo di origine ebraica, il cristianesimo aveva già superato il concetto di politeismo. Al massimo possiamo dire che il cristianesimo sia una forma di “triteismo”, in quanto, nell’ambito della “sacra famiglia” (padre, figlio e spirito) vi è unità di sostanza nella diversità delle persone.

Tuttavia il superamento non è affatto avvenuto nel passaggio dal politeismo al triteismo. Già gli ebrei avevano capito che gli dèi pagani altro non erano che l’immagine riflessa dei vizi e delle virtù degli uomini. Gli ebrei preferivano un dio unico, invisibile, onnipotente, onnisciente, superiore al destino, capace di misericordia e di perdono, assolutamente virtuoso, proprio per impedire agli uomini di avere con questo dio un rapporto arbitrario, del tutto soggettivo. Jahvé pretendeva il rispetto dei patti, della legge scritta, altrimenti toglieva la sua protezione e lasciava il popolo in balìa dei suoi nemici.

Per i pagani gli dèi non avevano pretese così elevate: bastava il sovrano deificato ad averle nei confronti di se stesso. Le divinità pagane erano una forma di consolazione dalle frustrazioni quotidiane causate da una società schiavistica, erano un gioco intellettuale per chi scriveva commedie e tragedie, erano un modo che ogni città o classe sociale aveva di distinguersi dagli altri, erano una rappresentazione simbolica di forze naturali. I Romani non si servivano delle loro divinità per muovere guerra contro i loro nemici, anche perché, quando vincevano, rispettavano le divinità straniere, anzi spesso le adottavano, aggiungendole alle proprie.

La religione, per i Romani, era come una sostanza oppiacea, assolutamente innocua sul piano politico (semmai poteva dar fastidio a livello sociale, come quando, con i baccanali, si univa religione a lussuria). Nessun credente pagano, in nome del proprio dio, s’è mai opposto politicamente alle istituzioni dell’impero. Nessun pagano ha mai messo in discussione la divinizzazione dell’imperatore (al massimo l’obbligo di prestare sacrifici alla statua del sovrano lo riteneva del tutto formale).

Il paganesimo è sicuramente una religione più intellettualistica e alienata dell’animismo, del totemismo ecc., ma resta sempre una religione ingenua, primitiva, in fondo non violenta e anzi molto tollerante di altri culti e rispettosa dei cicli della natura.

Viceversa, il cristianesimo, proprio come l’ebraismo che l’ha preceduto e l’islam che gli è succeduto, è una religione politicizzata, che vuole imporsi nel nome del proprio dio, anche se non lo fa da sé, ma per mezzo di un proprio braccio secolare.

Dove sta dunque il vero motivo di superamento del paganesimo da parte del cristianesimo, quello che gli ha permesso d’essere considerato una religione non acquiescente ma contestativa? Sta anzitutto nel fatto che il cristianesimo ha inventato la separazione di chiesa e stato, che per un pagano sarebbe stata impensabile (e che invece anche un ebreo avrebbe accettato, benché soltanto al di fuori della propria nazione).

La suddetta separazione è una forma di protesta politica, è la sconfessione della pretesa che i sovrani hanno di deificarsi, di rappresentare la divinità in maniera istituzionale. Non a caso i cristiani venivano definiti “atei” dai pagani.

I cristiani si sono “paganizzati” quando hanno tolto alla loro religione qualunque connotato di protesta sociale (quando p.es. sotto Costantino e Teodosio hanno smesso di parlare di uguaglianza sociale e di libertà di coscienza), e si sono “ebraicizzati” quando, col papato medievale, hanno sottomesso la politica alla religione.

Le due cose, in un certo senso, hanno marciato in parallelo, soprattutto in Europa occidentale: quanto più la chiesa pretendeva di porsi come Stato, tanto più la religione diventava una forma di evasione, perdeva il suo contenuto eversivo, anzi veniva usata per avvalorare le pretese integralistiche della teocrazia. Di qui lo sviluppo impetuoso dei movimenti ereticali, che volevano far recuperare al cristianesimo il carattere contestativo che aveva avuto all’inizio.

Quando, in epoca moderna, il cristianesimo s’è trasformato in socialismo, ha compiuto due operazioni simultanee: ha fatto di ogni uomo il dio di se stesso (umanesimo laico) e ha chiesto all’uomo di realizzare su questa terra la propria liberazione (socialismo democratico, egualitario).

Quindi in un certo senso ha ripristinato il valore politico dell’ebraismo e in un altro senso ha conservato l’universalismo del cristianesimo, togliendo però ad entrambi qualunque connotato religioso.

Ora non gli resta che recuperare del paganesimo ciò che questo aveva ereditato dalle religioni primitive: il rispetto della natura. Il socialismo democratico in occidente s’è sviluppato in senso “scientifico”, senza mettere in discussione lo sviluppo tecnologico e industriale della borghesia. S’è limitato a contestare l’appropriazione privata del profitto e l’assenza di una socializzazione dei mezzi produttivi.

Oggi invece il socialismo deve riscoprire il valore della terra, del rapporto naturale dell’uomo con le risorse del pianeta. Il socialismo deve diventare ecologista, mettendo al primo posto l’importanza dell’autoconsumo e del valore d’uso delle cose che produce.

Le radici delnociane di Comunione e Liberazione

Sia da destra che da sinistra Augusto Del Noce fu sempre considerato un filosofo “inattuale”, almeno finché le sue idee non vennero messe in pratica da Comunione e liberazione, grazie all’intermediazione del suo discepolo prediletto, Rocco Buttiglione.

Il motivo stava nel fatto ch’egli criticava sia il socialismo che il capitalismo, prospettando una terza via di tipo cattolico-integralista, simile a quella di Rosmini e Gioberti. Aveva una posizione a dir poco ottocentesca (da Concilio Vaticano I), per la quale la teologia andava strettamente unita alla politica e in maniera tale che questa, come una sorta di braccio secolare, si dovesse porre al servizio di quella.

Neppure la destra post-unitaria, neppure quella fascista avrebbero mai potuto riconoscersi in una posizione del genere, proprio perché esse volevano una chiesa al servizio dello Stato e non il contrario.

La tragedia – secondo Del Noce, che morì nel 1989 – stava proprio nel fatto che tutta la filosofia risorgimentale, avendo conservato, nel migliore dei casi, il principio di trascendenza soltanto in maniera formale, come un guscio vuoto, era destinata inevitabilmente al nichilismo, come già aveva dimostrato il fascismo e come – a suo parere – avrebbero presto dimostrato sia il consumismo americanista che il comunismo sovietico.

Dentro il concetto negativo di “immanenza” Del Noce metteva tutto quanto non fosse “sacro”, per cui ad es. non riusciva a vedere alcuna vera opposizione di Gramsci a Croce e Gentile: erano soltanto facce della stessa medaglia. Al massimo pensava, vedendo il crocianesimo come una forma di opposizione morale al fascismo, di poter far incontrare Croce con Rosmini.

Tutte le contraddizioni sociali del capitalismo le riassumeva nel conflitto ideologico di fede e ateismo, senza riuscire in alcun modo a intravedere né i limiti storici del nesso fede e politica, che in Europa avevano procurato immani disastri (corruzione a tutti i livelli, inquisizione, caccia alle streghe, crociate, guerre infinite di religione…), né i limiti oggettivi di un tale nesso, dovuti al fatto che nelle questioni di coscienza uno dev’essere lasciato libero di credere quel che vuole, senza forzature istituzionali di sorta.

Del Noce, nonostante la sua straordinaria cultura, non riuscì neppure a vedere il cattolicesimo come una forma di eresia rispetto alla chiesa indivisa dei primi sette secoli.

Aveva soltanto capito che Gentile era nettamente superiore a Croce, in quanto al principio di immanenza anticomunista aveva saputo dare una veste politica ben definita: lo Stato fascista, e tuttavia rifiutava Gentile proprio a motivo della pratica strumentale che quello Stato aveva nei confronti della chiesa.

Del Noce però ha sempre evitato di chiedersi che cosa sarebbe successo all’Italia (e alle proprie tesi integralistiche) se il fascismo avesse vinto la II guerra mondiale. Probabilmente un cattolico vetero-feudale come lui avrebbe accettato l’idea che uno Stato trionfatore del comunismo e una chiesa sottomessa per ragioni belliche avrebbero potuto trovare, in tempo di pace, una felice intesa attorno all’obiettivo comune dell’anticomunismo, così come oggi C.L. ha potuto fare con la destra berlusconiana e leghista, che di religioso han meno di un guscio vuoto.

Pur di non vedere l’ateismo comunista al potere, uno come Del Noce non avrebbe avuto scrupoli nell’allacciare un rapporto organico con un fascismo vincente, anche perché un fascismo del genere – come esattamente avvenne col franchismo – avrebbe sicuramente concesso alla chiesa molti più spazi di manovra.

Del Noce va dunque visto come uno degli anelli più recenti di quella lunga catena di fanatismo clericale che, partendo dalla teocrazia di papa Gregorio VII, è passata per tutta la fase controriformistica e anti-unitaria (a livello nazionale), trovando nel pontificato di Wojtyla-Ratzinger e in C.L. le sue conclusioni più retrive.

E con questo non si vuol affatto sostenere che l’ateismo debba avere l’avvallo di un qualsivoglia Stato politico (ché, in tal caso, si creerebbe un integralismo rovesciato), ma semplicemente che il cattolicesimo politico non è assolutamente in grado di garantire alcuna libertà di coscienza, né ai credenti non cattolici né ai non credenti.

Il rapporto tra follia e religione

La religione cristiana può costituire un motivo di follia perché non è una semplice credenza mitologica. Per gli antichi i riti dedicati alle divinità erano più che altro formali, un modo per mostrare che si rispettavano le leggi e si apparteneva a una comunità divisa in classi sociali tra loro opposte.

Il vero culto era semmai rivolto ai propri parenti defunti, in mezzo a tante superstizioni. E poi naturalmente vi erano quei culti eversivi (il primo dei quali era a Dioniso) in cui si concentravano le insofferenze degli strati popolari nei confronti dello schiavismo. In tali culti la trasgressione si riduceva all’uso di sostanze inebrianti e a una sessualità senza freni.

Difficilmente però si diventava “folli” per motivi religiosi; semmai si appariva folli in occasione di qualche rito o particolare festività, dopodiché si tornava alla normalità. Nell’antichità si aveva un rapporto più docile nei confronti della natura e ci si rassegnava abbastanza facilmente alla condizione sociale che il destino riservava. Soltanto quando le condizioni dello schiavismo risultavano insopportabili, ci potevano essere sommosse o tentativi di non resistenza al nemico che attaccava la comunità dall’esterno.

Nelle grandi tragedie greche la follia è più che altro connessa a una rappresentazione intellettualistica del fato, che sembra divertirsi a creare situazioni a dir poco incredibili o inspiegabili. L’eroe è indotto a compiere qualcosa che non avrebbe voluto fare. Alcune volte la cosa appare soltanto come una prova da superare (tipico in Ulisse), altre volte invece si soccombe (come in Edipo re).

Con la religione cristiana invece il credente sembra aver acquisito più padronanza di sé, maggiore disincanto, minore ingenuità. Egli infatti ha sempre davanti a sé un modello ben preciso da imitare: Gesù Cristo, che la chiesa impone di considerare come “vero uomo e vero dio”.

L’identificazione con questo soggetto, abilmente costruito da redattori cristiani di origine ebraica, può portare alla follia, proprio perché qui viene richiesta una partecipazione attiva, con tanto di spirito missionario: il cristiano è il credente che deve dimostrare qualcosa all’umanità. Il cristiano non può essere un buddista rassegnato o un induista che relativa la propria fede in mezzo a mille fedi.

Il cristianesimo ha voluto dare all’umanità la coscienza personale del peccato, nel senso che, a partire da esso, la responsabilità della propria condizione umana (schiavile o servile) non può più essere attribuita al caso, al destino, ma deve essere attribuita a se stessi. Gli uomini sono la causa della loro stessa infelicità. Questa infelicità, che impedisce di compiere il bene pur volendolo, ha origini remote, che la Bibbia fa risalire alla creazione di Adamo ed Eva.

Per i cristiani non c’è modo di uscire da questa condanna che affidandosi alla chiesa. Ma è proprio a questo punto che le strade si divergono. Infatti nell’ambito della chiesa ortodossa si è preferito assumere una posizione di rassegnazione buddista, confidando in una liberazione esclusivamente ultraterrena.

Nell’ambito della chiesa romana si è invece pensato di risolvere già su questa terra una parte della propria sofferenza, semplicemente facendola scontare ai più deboli: detta chiesa è infatti, per eccellenza, la chiesa del potere politico, quella che vuole dominare su tutti.

Viceversa, nell’ambito della chiesa protestante, persa la dimensione comunitaria (feudale) della fede (e quindi il rispetto della gerarchia, della tradizione ecc.), il credente si affida alla violenza dello Stato, che impone se stesso su quella parte di mondo meno attrezzata. Il protestantesimo non è che un cattolicesimo laicizzato dalla borghesia.

La follia, a sfondo mistico, di famosi artisti e intellettuali della storia, come Nietzsche, Kierkegaard, Van Gogh, E. A. Poe ecc., è tutta interna al protestantesimo. E’ una follia individualistica, mentre quella cattolica non potrebbe essere che collettivistica (ben visibile p.es. nell’idea di “crociata”).

Nella nostra epoca, quando un paese come gli Stati Uniti, lancia l’idea di “crociata” (nascosta sotto l’idea di democrazia o di diritti umani), contro taluni paesi islamici, lo fa appunto in quanto “Stato protestante”. Lo stesso fecero i nazisti quando attaccarono il mondo slavo (da civilizzare). Le varie congreghe protestanti in genere si adeguano supinamente a questa volontà. Nei paesi cattolici invece accade il contrario: è lo Stato che si deve adeguare alla chiesa, poiché questa pretende di porsi politicamente come l’espressione più adeguata del valore umano. In tal senso il fascismo fu, per l’Italia, un’esperienza a sfondo più protestantico che cattolico.

Ma perché la follia mistica, individualistica, è un fenomeno tipico dei paesi protestanti? Il motivo sta appunto nel fatto che qui il cristianesimo è rimasto come un contenitore vuoto. Tutti vedono questa enorme scatola nera, mostrandole ancora un certo rispetto formale, ma chi vuole entrarci, per verificarne il contenuto, non sa come aprire la porta, anzi, ha addirittura il timore che, se anche riuscisse ad entrarvi, la troverebbe completamente vuota.

La follia subentra proprio in questa discrepanza tra angoscia della colpa e incapacità di liberarsene. L’individuo singolo si sente impotente e preferisce ridurre al minimo i propri sensi di colpa (sotto il nazismo Hitler non appariva forse come una sorta di Gesù Cristo cui prestare assoluta obbedienza?).

L’obbedienza cieca nel compiere i delitti più orrendi (che troviamo non solo nei lager ma anche nelle due bombe su Hiroshima e Nagasaki) viene percepita come rimedio alla propria impotenza. Si scaricano su altri le proprie tensioni irrisolte.

Chi rifiuta questa obbedienza ai propri superiori e vuole conservare la propria coscienza di colpa, inevitabilmente diventa folle, poiché antepone a una necessità ritenuta ineluttabile, indipendente da qualunque volontà, le proprie lacerazioni interiori. Preferisce diventare folle accusando il sistema d’essere il suo carnefice, piuttosto che diventarlo come cittadino organico a questo sistema.

Il folle ritrova il proprio appagamento attribuendo ad altri le cause della propria sconfitta, la quale però viene trasformata in vittoria proprio nel momento magico e insieme tragico della morte, che generalmente si pone come suicidio. Sotto questo aspetto non fa alcuna differenza che il folle si dichiari ateo come Nietzsche o credente come Kierkegaard. Fa invece differenza il diverso modo di vivere la follia: tra i propri incubi o come pedina di una superiore volontà.

L’identità di sé e la torre di Babele

L’identità sembra esserci data, ma di sicuro non sappiamo quale sia. Le nostre sembianze mutano di continuo, e spesso anche le idee, i comportamenti, i gusti… Se guardiamo le foto di quando avevamo pochi anni, ci riconosciamo solo perché siamo abituati a guardarle, ma chi ci rivede a distanza di tanti anni, stenta a credere che siamo proprio noi. Cos’è dunque che fa la nostra identità? Che cosa ci caratterizza in modo permanente? Che cosa, propriamente parlando, permette quel “riconoscimento” che non dipende da luoghi e circostanze?
Ogni volta che ci guardiamo allo specchio, vediamo qualcosa di diverso: aumentano le rughe, i capelli bianchi, gli occhi si appesantiscono… La “persona” è la stessa, diciamo, ma cosa vuol dire “persona”? Il cristianesimo dice che la l’identità è personale, ma se le fattezze cambiano di continuo, che cosa rende uguali a se stessi? che cosa ci fa unici e irripetibili? Davvero c’è qualcosa di immutevole in noi? Oppure siamo destinati a subire eterni cambiamenti? “Eterni” davvero o è soltanto un modo di dire? Noi p.es. avvertiamo con disagio la vecchiaia, la debolezza che ne consegue, la lentezza dei movimenti, l’incertezza o la fatica con cui facciamo le cose.
Nel corpo umano deve esistere un momento in cui lo sviluppo è massimo, dopodiché inizia il declino. Perché non riusciamo a fermarci in quel preciso punto? Se esiste una prosecuzione di questa vita terrena, chi non desidererebbe poter tornare ad essere com’era da giovane? Chi non vorrebbe avere la maturità di un adulto, come solo l’esperienza può dare, con la forza e la bellezza della gioventù, come solo la natura può permettere? E chi non vorrebbe poter modificare (in meglio ovviamente) ciò che anche da giovane non gli soddisfaceva?
Non potrebbe essere che l’identità sia soltanto il frutto di vari desideri che maturano col tempo? Ma se è così, cioè se, in definitiva, i desideri hanno un’importanza fondamentale per la realizzazione di sé, allora dovrebbero averla anche per il nostro aspetto fisico, per le sembianze carnali che noi vogliamo ci caratterizzino (se io sono nato cieco non voglio soltanto avere la vista, ma anche nuovi occhi, p.es. scuri come quelli di un bambino africano, e voglio che tu sia messo in grado di riconoscermi con questi nuovi occhi).
Tutti noi sappiamo che la realizzazione dei desideri incide molto sulla nostra psicologia, sul modo che abbiamo di esprimerci, di relazionarci… Qualcuno potrebbe anche desiderare d’essere più diplomatico, meno diretto, proprio perché, per quanti sforzi faccia, su questa terra non vi riesce, se non in minima parte. Ma per quale ragione dovremmo rinunciare alla materialità della vita fisica nella definizione della nostra futura identità? L’invecchiamento dovrebbe essere soltanto una cosa dello spirito, non del corpo. Se uno si sente giovane e ha ancora voglia di vivere, di lavorare, di produrre, di riprodursi… perché deve invecchiare nel fisico? La vecchiaia dovrebbe soltanto essere la conseguenza del rifiuto dei nostri migliori desideri, quelli conformi a natura.
Probabilmente l’origine di tutte queste domande dipende dal fatto di non rendersi conto di quanto sia sbagliata la parola “identità”, che di per sé, purtroppo, tende a escludere la “diversità”. La persona è fatta di desideri e di libertà; la libertà è il modo e lo strumento per realizzarli, nella consapevolezza che le cose col tempo possono cambiare e che quanto si realizza non può essere ottenuto a scapito dei desideri altrui.
“Essere se stessi” in fondo non vuol dire nulla, se non si è capaci di essere “altro da sé”, o quanto meno se non si è capaci di cogliere l’altro come “diversità”. Siamo identici e diversi, siamo e non-siamo, siamo essere e siamo nulla, o meglio siamo soltanto qualcosa, poiché nulla è creato e nulla distrutto, ma tutto trasformato.
E’ l’aut-aut che va abolito. La libertà, coi suoi desideri, non può accettare l’identità senza la diversità. Gli omosessuali spesso accusano gli eterosessuali di non accettare la diversità; eppure, se ci pensiamo, l’omosessualità appare come un rifiuto istituzionalizzato della diversità di genere nel rapporto di coppia. Il concetto di “diversità” o di “alterità” non può mai essere ipostatizzato.
Ognuno di noi è nello stesso tempo “sé” e “altro”. Definire una volta per tutte chi è “emittente” e chi “ricevente” significa impoverire al massimo la dialettica nel rapporto umano. Noi siamo fatti anzitutto e soprattutto di libertà, la quale rende possibile ogni cosa.
La libertà deve soltanto capire quando i desideri sono umani e naturali. Noi dunque siamo una tabula rasa che viene modificata dall’esperienza, e la natura ci permette di capire quali di queste esperienze possono davvero giovarci e quali no. Solo che per poterlo capire occorre che i desideri siano sani e che la libertà venga usata nel migliore dei modi: cosa che non può certo essere definita a priori e tanto meno una volta per tutte.
Per poter capire al meglio il significato di tutto ciò, occorre vivere un’esperienza sociale in cui i desideri e la libertà di un individuo non siano antitetici (almeno non in maniera irreparabile) a quelli di un altro, cioè non siano così contraddittori da determinare, ad un certo punto, la rottura del collettivo, la crisi traumatica dei suoi interessi generali.
L’identità ci è data, ma a condizione di viverla in un’esperienza i cui valori siano condivisi, altrimenti è solo un’astrazione. Tutti parlano di identità, ma riferendosi a cose completamente diverse, come se vivessimo sulla torre di Babele.

I giganti e gli esseri umani (favola per i figli senza dio)

Ci fu un tempo in cui un popolo (quello ebraico) scrisse che l’uomo e la donna erano stati fatti a immagine e somiglianza dei loro creatori.
In quel “facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” non c’era nulla di extraterreno, nulla di magico o di individuale. L’essere umano, maschile e femminile, era stato creato da altri esseri umani come loro, i cui poteri di creazione e di generazione, di produzione e di riproduzione volevano mettere a disposizione dei loro figli.
Gli antichi ebrei, dopo aver perduto l’esatta memoria di questi progenitori della specie umana, li chiamarono “giganti”.
I giganti non morivano come noi oggi, e neppure gli esseri umani creati da loro, ma dopo la colpa d’origine, che distrusse l’innocenza primordiale, subentrò la morte. Gli uomini non potevano più guardare in faccia chi li aveva generati. I figli si vergognavano di guardare in faccia i loro padri e le loro madri. E, per poterli rivedere, dovevano prima morire.
Per poter capire quel che erano stati, gli uomini dovevano smettere di essere quel che non erano. Solo così potevano ridiventare se stessi. La morte non fu soltanto la punizione per una grave colpa commessa, fu anche il solo modo per avere la possibilità di pentirsi e di tornare ad essere quel che si era: felici e immortali.
Poi fu la dimenticanza a portare a credere che esistesse un creatore così potente d’aver creato l’intero universo e che questo creatore si chiamasse “dio”, dotato di superpoteri, sconosciuti agli uomini.
E non solo la dimenticanza portò a esagerare, ma anche la convinzione d’aver perduto in maniera irreparabile qualcosa di fondamentale per la propria esistenza. La nostalgia del passato e l’orgoglio del presente ci fecero come impazzire.
Ma all’inizio non fu così. Gli stessi ebrei antichi ricordavano che il creatore e la sua donna creatrice passeggiavano nel giardino insieme agli uomini e alle donne che avevano generato. E anche questi si riproducevano, ben prima della colpa che spezzò l’unione primordiale.
Fu un errore pensare che l’innocenza degli uomini primitivi voleva dire guardarsi come i bambini. L’innocenza non era tanto una questione del corpo, ma una questione della mente, una forma d’interiorità spirituale: vivere la propria libertà nel rispetto di quella altrui.
L’uomo poteva guardare in faccia chi l’aveva generato perché tra i due non vi era molta differenza. Solo una pura e semplice questione di tempo, come esiste sempre un prima e un dopo. E forse neppure questa, poiché nell’universo l’infinito e l’eterno coincidono.
L’idea di “dio” è stata inventata dagli uomini quando si è perso il ricordo del familiare rapporto dei figli coi loro padri.
Gli esseri umani non provengono dagli animali. Sono gli animali che provengono dall’essere umano universale, da quei “giganti primordiali” che la fantasia umana ha creduto di poter scorgere, nascosti, dietro quel “facciamo”. Ogni animale ha una caratteristica umana accentuata. L’animale ha un particolare che ha preso il sopravvento sugli altri: i felini, p. es., han trasformato le nostre torce in occhi per la caccia notturna, i nostri coltelli in unghie affilate per catturare le prede.
Quando i “giganti” si sono stancati di “giocare” con gli animali, creandone di specie infinite, hanno generato gli esseri umani, con cui non potevano semplicemente giocare, poiché l’uomo e la donna furono dotati di una caratteristica sconosciuta agli animali, la stessa che avevano i “giganti”: la libertà di scelta, cioè il fatto di poter dire di no a una cosa giusta, a una decisione d’importanza vitale.
Coloro che ci hanno messo al mondo sono uomini e donne come noi, che avrebbero voluto renderci partecipi dei loro poteri se non avessimo rotto i rapporti con loro.
I poteri dovevano servirci per rendere l’universo bello come la Terra, che doveva fungere da modello per tutti gli altri pianeti. Un compito di una grandezza immensa, com’è immenso l’universo.
Ora non ci resta che imparare dai nostri stessi errori, pagando di persona e come specie. L’obiettivo è lo stesso, ma lo dovremo raggiungere seguendo un percorso accidentato, molto più difficile e col rischio di smarrire la “diritta via”.
Il modello umano da diffondere nel cosmo è quello dell’uomo primitivo, non “civilizzato”: l’opposto di quello che la storia vede a partire dalle civiltà schiavistiche. L’uomo preistorico è stato quello che ha vissuto più di ogni altro essere umano, quello che ha meglio rispettato la natura, quello che viveva in maniera più sana, più giusta, più libera, quello che non divideva la società in liberi e schiavi, in forti e deboli, in superiori e inferiori…
Noi dobbiamo tornare ad essere primitivi, per uscire definitivamente dalla “civiltà”. Solo così potremo ritrovare chi ci ha creati e riprendere il cammino là dove si era interrotto.

Dalla Repubblica all’Impero: una transizione ancora possibile?

Con questo governo di centro-destra vien spontaneo chiedersi se stiamo assistendo agli ultimi colpi di coda della prima Repubblica o se invece non si stia formando un nuovo modo di fare politica.
In che cosa consisterebbe questo modo nuovo? Anzitutto nel fatto che il premier, una volta eletto dai cittadini, vuole considerarsi al di sopra delle istituzioni. Esattamente come gli imperatori romani, che non tenevano in alcuna considerazione le tradizionali istituzioni statali, preferendo puntare sull’esercito, su propri funzionari di fiducia, sul consenso demagogico delle masse e, indirettamente, su quello dei grandi proprietari terrieri, per i quali decisivo era il fatto che nessuna istituzione politica minacciasse il loro enorme potere economico (gli imperatori infatti si limitarono a togliere loro soltanto il potere politico).
L’esercito dava al principe la sicurezza relativa alla propria incolumità, alla società la difesa dell’ordine pubblico e all’impero quella dei confini. I funzionari, nominati personalmente dal sovrano, garantivano da possibili tendenze autonomistiche, specie nelle lontane province. Il populismo serviva invece per contrastare i reiterati tentativi, da parte delle istituzioni formalmente democratiche (la maggiore delle quali era il senato), di riprendersi il potere politico perduto o almeno di ridurre in maniera significativa quello dell’imperatore.
Il marcato individualismo degli imperatori si traduceva in un inevitabile culto della personalità, che non raramente sfiorava l’idolatria.
A quel tempo i mezzi e i modi per garantirsi il consenso delle masse erano la costruzione di imponenti edifici pubblici, la cui realizzazione richiedeva ingente manodopera, la possibilità di fare carriera politica, militare, amministrativa in maniera molto rapida, ma anche di poter frequentare luoghi di ozi e di divertimento che prima erano appannaggio di pochi, e così via. La ricchezza doveva essere, apparentemente, alla portata di tutti e nessuno doveva avere l’impressione che l’impero fosse terribilmente in crisi. Cosa che invece fu chiarissima a partire dal III secolo.
L’esigenza di una leadership imperiale assunse particolare consistenza proprio quando terminarono le imponenti rivolte schiavistiche. L’ultima significativa fu quella di Spartaco, mentre tutte quelle che avvennero nella fase imperiale, non riguardarono l’Italia, ma le province, cioè le colonie, dove il motivo prevalente era l’esosità fiscale dello Stato, che gli imperatori cercheranno di mistificare concedendo ai “provinciali” diritti pari a quelli dei “cittadini romani”.
Al tempo di Diocleziano l’esercito raggiungeva le 600.000 unità e il potere politico aveva quattro corti da mantenere (tetrarchia). Per difendere i confini dell’impero si era ripristinata la leva obbligatoria, pur senza rinunciare a un esercito di professionisti. Questo perché da tempo i ribelli interni all’impero si trovavano sempre più spesso a fare combutta coi barbari che vi premevano dall’esterno. Persino gli imperatori, piuttosto che cimentarsi in dispendiose guerre di frontiera, preferivano chiedere ai barbari di entrare nelle file dell’esercito romano, difendendo, contro altri barbari, gli stessi confini che prima cercavano di valicare.
La figura “magica” dell’imperatore non nasce per reprimere la resistenza degli schiavi, ma perché la gestione statale del senato stava mandando in rovina gli stessi cittadini romani, appartenenti a classi meno abbienti di quelle latifondistiche e imprenditoriali. Il senato non era minimamente in grado di difendere le categorie più deboli dalle vessazioni di quelle più forti, sicché, per cercare di risolvere questo problema (che fece scoppiare non poche guerre civili), invece di puntare sulla vera democrazia si preferì un’aperta dittatura.
Sotto questo aspetto le dittature fasciste che l’Europa ha sperimentato nel corso del XX sec., esprimono una sorta di “neo-imperialismo” in stile romano. Probabilmente se il nazifascismo non avesse perduto la guerra contro l’Urss, in Europa non avremmo avuto soltanto un quarantennale franchismo.
La differenza fra le dittature nazifasciste e quella che si sta profilando adesso è che le prime erano anzitutto un’espressione di forza militare, che doveva rimediare agli effetti disastrosi della I guerra mondiale e al tentativo di rovesciare il sistema borghese con una rivoluzione comunista (come già era avvenuto in Russia); la seconda invece si serve prevalentemente di strumenti mediatici, non avendo un forte nemico “in casa” con cui fare i conti. Entrambe comunque si ergono ufficialmente a difesa del popolo oppresso, frustrato nelle proprie aspettative e, ufficiosamente, a tutela del grande capitale: le prime soprattutto industriale e agrario, la seconda soprattutto bancario e finanziario.
E’ singolare tuttavia che l’imperialismo romano sia nato da esigenze tutte interne al sistema, la prima delle quali consisteva nel fatto che la riduzione notevole delle terre da conquistare (a causa dell’opposizione germanica, sarmatica, persiana ecc.), acuiva inevitabilmente i conflitti sociali interni, che non riguardavano soltanto quelli tra liberi e schiavi, ma anche e soprattutto, nella fase imperiale, quelli tra deboli e forti, all’interno della categoria dei cittadini “liberi”.
Gli imperatori non nascono perché i barbari premevano ai confini, né per le ribellioni schiavili e neppure per la resistenza dei cristiani. L’impero nasce perché il senato non era più in grado di controllare i conflitti sociali, cioè d’impedire che andasse in miseria una grande fetta della popolazione giuridicamente “libera”, vessata dai grandi proprietari terrieri, dai funzionari corrotti, dagli speculatori, dagli usurai e dal fiscalismo statale. E’ proprio questa popolazione che, mentre fino a qualche tempo prima era disposta a combattere contro schiavi, barbari e cristiani, ad un certo punto si trova a simpatizzare per costoro.
Avendo dalla loro parte gli eserciti (oggi diremmo i mass-media), gli imperatori pensavano di avere un potere illimitato e facevano di tutto per ostacolare le vecchie istituzioni di potere, che contro l’autoritarismo dei singoli sovrani opponevano quello delle vecchie classi sociali. Quanto più s’afferma l’idea di “dominatus”, tanto più la tradizionale classe dirigente cerca di liberarsene.
Gli imperatori erano apprezzati per le loro doti militari ma non erano amati dai senatori come leader politici, anche perché non avevano fatto alcuna carriera politica, spesso anzi provenivano da ceti molto umili, erano di origine non italica, tendevano – come facilmente fanno i militari – a semplificare le cose, a uniformarle, fidando nel fatto che le classi sociali alla base della loro popolarità non amavano le complicazioni della politica.
Erano uomini d’azione, che mostravano sui campi di battaglia il loro valore, sicché mentre sul piano politico preferivano applicare il principio dell’adozione nella loro successione, piuttosto che quello dinastico-ereditario, su quello amministrativo preferivano il principio della nomina personale di funzionari strettamente legati alla loro volontà.
Quello del senato e degli imperatori era lo scontro tra un arbitrio contro un altro arbitrio, e se nell’area occidentale ciò avrà effetti catastrofici per le sorti dell’impero, nell’area orientale invece la cosa si risolverà, per altri mille anni, facendo in modo che la chiesa cristiana svolgesse un ruolo di mediazione tra le istanze imperiali e la popolazione, senza che essa arrivasse a pretendere alcun ruolo politico. Cosa che nella realtà occidentale non riuscirà ad avvenire, in quanto la chiesa romana si sentirà sempre in opposizione alle istanze governative civili.
Gli imperatori furono una soluzione sbagliata a un problema mal posto. Fingendo di stare dalla parte del popolo oppresso, dapprima opponendosi ai senatori, in seguito sfruttando l’idea di una cristianità universale, essi usarono l’impero come una mucca da mungere, promettendo cose irrealizzabili e restando impotenti nei confronti della corruzione dilagante, delle tendenze centrifughe molto forti nelle province e soprattutto nei confronti della sfiducia verso le istituzioni.
Sarà proprio questo atteggiamento arrogante, assolutamente refrattario a riconoscere le cause della crisi sistemica, che indurrà le popolazioni locali a fidarsi solo di se stesse, ad abituarsi a vedere il “nemico” nella propria stessa patria e a rinchiudersi in un sistema sociale dove l’autogoverno e l’autoconsumo iniziarono a giocare un ruolo di rilievo.

Il senso della felicità

Nella figura della parabola c’è un punto oltre il quale il declino può anche essere inesorabile, irreversibile. Questa è la morte. E in un certo senso la si desidera, proprio per liberarsi di quella ineluttabilità.

La morte è il desiderio di liberarsi di ciò che è insopportabile, e bene facevano gli antichi cristiani, ma anche gli antichi sumeri, egizi ecc., a vedere la morte come strettamente connessa a una rinascita. Per i cristiani il battesimo era insieme un’esperienza di morte (si veniva immersi nelle acque nere dell’inferno, del proprio passato, delle proprie colpe) e di rinascita (nello splendore del sole).

Si muore a una condizione di vita per poter rinascere a un’altra. Esattamente come il neonato, che per nascere deve prima morire alla sua condizione di feto. Basterebbe questo per capire che la vita è eterna e che non abbiamo bisogno di alcuna religione per crederci. Tanto meno oggi, dove le religioni più fanatiche o fanno della vita biologica un valore assoluto da difendere anche contro la naturalità della morte, oppure fanno della morte violenta (contro se stessi o contro il prossimo) l’unico vero significato di vita.

Si deve in realtà uscire da una forma di vita per entrare in un’altra, rispettando le regole del gioco. Questo processo infinito è determinato dalla dialettica di tesi-antitesi-sintesi. Dio non c’entra nulla, poiché il processo appartiene all’universo, all’essenze delle cose, alla loro logica interna.

Qualunque cosa si sottragga a questa legge è inesistente, è frutto di una fantasia malata, perversa. Pensare a qualcosa di perfetto solo perché statico, fisso, non soggetto al mutamento della dialettica, significa essere in malafede, ciechi per scelta, oppure terribilmente ingenui, come tutti i filosofi pre-cristiani.

Se esiste un dio, non può essere diverso dall’uomo, cioè deve per forza essere soggetto alle medesime leggi che ci caratterizzano, altrimenti per noi non avrebbe alcun senso, non riusciremmo minimamente a riconoscerci. Anche i robot sono statici e non a caso non pensiamo che siano umani, e quando vogliamo far credere che lo pensiamo è perché stiamo facendo fantasy o fantascienza. Oppure stiamo facendo degli esperimenti così banali – come p.es. quello di Turing -, che praticamente la nostra intelligenza è ridotta al minimo.

Anche quando il più grande scacchista del mondo gioca col computer più potente del mondo, si rende facilmente conto che le mosse del computer non sono mai geniali, ma sempre frutto di una memoria straordinaria, in grado di attingere, in breve tempo, a milioni di partite già giocate in precedenza dagli esseri umani. Se attingesse a partite giocate da esso stesso, perderebbe immediatamente. Invece così ha forse qualche possibilità di vincere. Non a caso Garry Kasparov arrivò a sospettare che la macchina Deep Blue avesse avuto un “aiuto” umano durante le partite e quando chiese la rivincita, l’IBM rifiutò.

E comunque l’essenza umana non è data dalla capacità di elaborare in un tempo ridottissimo una quantità enorme di dati. Questo potrebbe portare, sul piano umano, a conseguenze del tutto sbagliate, proprio perché nessun computer è in grado di tener conto dell’imponderabilità della libertà umana. Quando c’è di mezzo questa libertà, nulla è davvero prevedibile. Ed è bene che sia così.

Fa un po’ sorridere, in tal senso, la decisione della Cina di offrire mille euro in premio a chi le segnala dei siti porno onde impedirne la visione nel proprio paese. Non è forse questo un modo per sostituirsi, come governo, alla libertà di coscienza dei propri cittadini? Si può davvero garantire la libertà impedendone con la forza il cattivo uso? “Sorvegliare e punire”: non era forse questo il motto con cui si sono fatte nascere le moderne prigioni? E’ questo il metodo pedagogico per assicurare la vivibilità del bene sociale?

Per vincere il computer più intelligente del mondo è sufficiente ingannarlo, come fecero i Greci coi Troiani, come fece Sessa Ebu Daher che si arricchì semplicemente chiedendo al sovrano persiano, come ricompensa dell’invenzione del gioco degli scacchi, di avere un chicco di grano per il primo riquadro della scacchiera, due per il secondo, quattro per il terzo, otto per il quarto e così via per tutti i 64 riquadri. Gli esseri umani sono maestri nel mettere trappole.

E’ sufficiente andare oltre il fatto che il computer ragiona sempre in termini di prevedibilità, a prescindere dalla quantità di istruzioni che gli si mettono nella memoria di massa. Senza poi considerare che quanti più dati deve elaborare tanto più tempo gli occorre, mentre in certe particolari situazioni l’uomo può scegliere la cosa giusta in tempi brevissimi, fidandosi esclusivamente del proprio intuito, che si basa su un pregresso di esperienze in cui la libertà di coscienza, propria e altrui, ha giocato un ruolo enorme.

L’informatica è in fondo l’applicazione della matematica, che a sua volta è frutto di un lavoro dell’intelletto. La ragione – direbbe Hegel – è tutt’un’altra cosa, proprio perché deve tener conto dei movimenti della dialettica. S’è mai visto un politico dare piena ragione a un economista? E chi mai si fida ciecamente delle previsioni scientifiche del meteo, basate su precisi calcoli algoritmici?

Ecco perché dobbiamo uscire dall’illusione di credere che con l’informatizzazione dei dati si possa rendere la vita più umana. Quando pensiamo che il miglioramento della qualità della vita possa dipendere dal controllo delle informazioni su di essa, stiamo assistendo a un puro e semplice miraggio, che è quell’effetto ottico che inganna soprattutto i giornalisti e quanti pensano che la garanzia della democrazia dipenda dall’informazione.

Sotto questo aspetto non si può certo dire che fossero più sprovveduti gli antichi che si affidavano ai responsi di maghi e indovini. Mettiamoci per un attimo nei panni di uno di loro e vediamo se c’è qualcuno in grado di smentirci. Presto avremo a che fare coi grandi paesi asiatici che, prendendo a pretesto il fatto che nei paesi occidentali l’affermazione di un valore umano resta sempre puramente teorica, imporranno al mondo intero l’idea che, piuttosto di accettare questa contraddizione, è meglio fare in modo che i valori umani affermati in sede teorica siano pochissimi, ma coerentemente applicati in virtù di un’istanza superiore, che può essere p.es. un governo autoritario. Non dimentichiamo che nel mondo romano gli imperatori assolutistici riuscirono a imporsi sui senatori democratici semplicemente dicendo che volevano fare gli interessi delle plebi e le plebi gli credettero.

Contro questo pericolo autoritario come potremo difenderci? Rivendicando in astratto i diritti umani? L’unico vero diritto che potremo rivendicare sarà quello alla “felicità”. Quanto tutti i diritti saranno negati non resterà, paradossalmente, che questo. Ovviamente non nel senso dei costituzionalisti americani, per i quali “felicità” e “proprietà privata” erano sinonimi.

Sieyès si chiedeva agli albori della rivoluzione francese che cosa fosse il Terzo Stato: oggi invece dobbiamo iniziare a chiederci che cosa sia la “felicità”. Una definizione possibile, contro ogni forma di dittatura, politica o economica, può essere questa: felicità vuol dire ricevere da qualcuno della comunità qualcosa che in fondo avrebbe potuto darsi anche colui che l’ha ricevuta, proprio perché non era da quella cosa che dipendeva la sua vita. Detto altrimenti: felicità vuol dire che quando si riceve qualcosa da qualcuno della comunità, non si ha l’impressione che il donatore lo voglia fare per pretendere un dominio personale.

Felicità insomma vuol dire, comunque la si metta, “senso dell’autonomia”, ovvero “libertà personale”: vivere la libertà dentro una comunità, una comunità di cui ci si fida, proprio perché si è consapevoli che la divisione del lavoro viene usata non per sottomettere chi non sa fare determinate cose, ma per agevolare l’autonomia di tutti.

Qualunque specializzazione del lavoro, che comporti delle conoscenze esclusive, va contro gli interessi dell’autonomia, sempre che queste conoscenze vengano usate per beni che riguardano gli aspetti essenziali di una comunità, quelli appunto che ne garantiscono la sopravvivenza, la riproduzione.

Infatti, se vogliamo garantirci la “felicità” dobbiamo preventivamente sostenere che una qualunque specializzazione del lavoro ha senso solo a due condizioni: che resti patrimonio di tutti, che non riguardi gli aspetti essenziali di una comunità. Non ci si può fidare di chi ha troppe conoscenze e non le mette immediatamente a disposizione di tutti, a meno che non le usi per il proprio tempo libero.

Che cos’è la libertà di coscienza?

Qualunque siano le condizioni di spazio-tempo in cui deve essere vissuta, non cambia nulla. La libertà di coscienza va comunque salvaguardata. E’ un elemento imprescindibile, perché costitutivo, dell’universo. Possono cambiare le forme, le circostanze in cui viverla, ma resta sempre una legge dell’universo. Come la gravitazione universale. Non si può violarla impunemente e rimanere se stessi, umani. Va rispettata come elemento fondamentale del sé.
Certo, ci sarà sempre qualcuno che cercherà di non rispettarla, proprio perché sarebbe una contraddizione in termini cercare di imporla. Una cosa tuttavia è sintomatica: noi su questa terra violentiamo di continuo la libertà di coscienza e, nello stesso tempo, pretendiamo di non tener conto della gravitazione universale. Sin dai tempi dei Sumeri, che con le loro altissime ziqqurat.
A cosa è servita questa duplice violazione che ci portiamo dietro dai tempi della nascita delle civiltà? A nulla di positivo. Violando la coscienza aumentano le dittature e violando la gravitazione aumenta la possibilità dell’autodistruzione, poiché oggi abbiamo riempito lo spazio (aereo, cosmico, sottomarino) di armi distruttive di massa (contro cui al momento non v’è difesa) inquinando in maniera irreparabile l’ambiente, per non parlare del fatto che impieghiamo infinite risorse, umane e materiali, che potrebbero servire per risolvere i grandi problemi dell’umanità.
Noi non sappiamo star dentro i limiti che l’universo ci dà. Ma la cosa più grave è che la resistenza al male non è proporzionata alla gravità del problema. Noi lasciamo che la coscienza venga impunemente violata e lasciamo che si spendano ingenti risorse per uscire dal nostro pianeta, quando il vero problema da risolvere è come starci nel migliore dei modi, il primo dei quali è appunto quello di rispettare la libertà di coscienza e, contemporaneamente, quello di rispettare le esigenze riproduttive della natura. Le due cose s’influenzano reciprocamente.
Tutto quello che non serve a rispettare l’essere umano e la natura va abbandonato, non solo perché inutile ma proprio perché dannoso. Quindi se non ci dovrebbe essere nessuno che possa imporre di vivere la libertà di coscienza, non ci dovrebbe neppure essere qualcuno che possa imporre di non viverla. Tutta la questione dei diritti umani si riduce a questo semplice impegno che dobbiamo prendere con noi stessi.
Noi abbiamo una percezione falsata di cosa sia davvero utile allo sviluppo della libertà di coscienza. Siamo abituati a far coincidere il livello di cultura, tecnologia, scienza, diritto, politica, economia ecc. coll’indice di sviluppo dell’umanizzazione delle relazioni sociali. Abbiamo persino inventato, in statistica, l’Indice di Sviluppo Umano perché quello quantitativo del prodotto interno lordo ci sembrava troppo limitativo. Ma che cosa abbiamo messo nell’ISU? I medici, i posti-letto, gli alfabetizzati, i telefoni, i cellulari, gli host internet per mille abitanti, e così via. Sempre indici quantitativi. Vogliamo essere più obiettivi, esaminando da vicino le condizioni di vivibilità di un’intera società, ma, ancora una volta, facciamo i calcoli sui beni che possediamo.
Siamo abituati a pensare che la vera umanizzazione dei nostri rapporti dipenda dalle forme materiali che ci diamo, per cui tendiamo a considerare primitive quelle popolazioni o civiltà che non hanno le nostre stesse forme o non le hanno ai nostri stessi livelli. Essere “civile” per noi vuol dire disporre di certe forme materiali dell’esistenza: un’abitazione, un mezzo di trasporto, un lavoro che permetta di riprodurci e, se li abbiamo, di mantenere i nostri figli, una certa padronanza dei vari linguaggi ecc. Tutti gli altri esseri umani sono rozzi barbari incivili: hanno diritto a meno diritti, in quanto minus habens.
Ciò che fa sentire gli uomini uguali non è l’essenza di umanità che alberga in ognuno di loro, ma il fatto che qualcuno si adegua a ciò che qualcun’altro è, il cui essere è determinato dall’avere. E’ chi detiene il potere (politico, economico, culturale) che detta i modelli di comportamento e di pensiero.
Ora, è proprio in nome della libertà di coscienza che noi dobbiamo uscire da questa condizione di schiavitù. La libertà di coscienza può essere garantita solo dall’autodeterminazione dell’essere umano, che si organizza in forme sociali basate sull’autoconsumo. Qualunque ente esterno, laico o religioso, pretenda di garantirla, di fatto, cioè automaticamente, a prescindere da tutto il resto, la nega. Finché permane anche solo un’istituzione statale, che impone la delega della responsabilità personale, la libertà di coscienza non sarà mai un diritto pienamente acquisito.
Che cos’è dunque la libertà di coscienza? E’ la facoltà di scegliere o di decidere autonomamente il proprio destino, il proprio modo di essere.
Bisogna dunque trovare il modo di decentrare al massimo i luoghi dell’autodecisione popolare, che non possono riguardare soltanto la sfera della politica (vedi p.es. la polemica tra “centralisti” e “federalisti”), ma devono riguardare anche quella dell’economia. Se è giusto non illudersi che una semplice scelta federalista possa superare i limiti dello Stato centralista, ancora più giusto è chiedere al socialismo democratico di rivedere profondamente i propri presupposti.
Una qualunque realizzazione del socialismo a prescindere dall’autoconsumo, è destinata a trasformarsi in una dittatura. Esattamente come una qualunque realizzazione del federalismo che non metta in discussione le leggi del capitalismo, non servirà a nulla per la democrazia.

Le cose essenziali per vivere e riprodursi

Val davvero la pena conoscere la storia delle civiltà che hanno distrutto la natura e altre civiltà (umane e disumane)? Davvero pensiamo che lo studio di aspetti negativi della storia possa servirci per non ripeterli? E allora perché ancora oggi presentiamo l’epoca cosiddetta “preistorica” come una fase da cui era necessario uscire per creare le civiltà? Perché vediamo gli uomini primitivi non in funzione di quello che erano ma di quello che dovevano diventare?
Oggi forse, considerando i disastri delle ultime due civiltà (quella capitalistica e questa socialista di stato, cui si sta aggiungendo quella socialista di mercato, stando almeno all’esperienza cinese), sarebbe meglio conoscere, della storia, solo quelle cose che ci possono aiutare a uscire dalle civiltà cosiddette “antagonistiche”, quelle che si sono venute formando a partire dagli Egizi e dai Sumeri.
Noi oggi studiamo le civiltà cercando di scorgere in esse le radici della nostra. Siccome ci sentiamo autoreferenziali e ai vertici del progresso mondiale, quando studiamo il passato, noi in realtà studiamo sempre noi stessi, il nostro passato di occidentali, borghesi, mercanti, affaristi, il nostro passato di tecnici, ingegneri, architetti o di scienziati, militari, dirigenti di qualcosa di produttivo, dominatori di qualcosa d’importante, propagatori di idee assolute e universali…
Noi studiamo la nostra infanzia, la nostra adolescenza, per compiacerci di quello che siamo oggi. Cerchiamo nel passato solo delle conferme per il nostro presente. Facciamo questo perché siamo convinti che non ci possa essere un futuro diverso dal nostro presente; siamo convinti che al nostro sistema di vita non ci possa essere alternativa, sia perché – consciamente o inconsciamente – lo riteniamo il migliore, sia perché, in ogni caso, lo riteniamo invincibile, indistruttibile, almeno se messo a confronto con altre civiltà antagonistiche contemporanee.
Siamo troppo forti economicamente, troppo potenti militarmente perché qualcuno possa credere di abbatterci. Chiunque pensi di farlo, non farà che rafforzarci, perché offrirà soltanto pretesti alle nostre continue esigenze di imporre le nostre ragioni con l’uso della forza (ammantata, naturalmente, con le vesti del diritto).
Siamo una civiltà violenta per definizione e se qualcuno cerca di difendersi da noi, noi diciamo che si sta violando la pace, la democrazia, il diritto internazionale. Chi cerca di modificare lo status quo, in cui noi abbiamo un ruolo privilegiato, si mette dalla parte del torto. Noi siamo come i Greci e i Romani, che consideravano “barbari” tutti quelli che non erano come loro.
Chiunque voglia distruggerci usando la forza, perirà miserabilmente. Quante volte abbiamo detto, nei conflitti regionali da noi stessi fatti scoppiare: “Abbiamo armi sufficienti per farvi tornare all’età della pietra”? Che poi questa frase piace di più ai militari che non agli affaristi, che preferiscono invece l’altra: “Non vi preoccupate delle distruzioni; abbiamo mezzi per ricostruire tutto: basta che paghiate”.
Solo una civiltà più forte della nostra potrebbe impensierirci, ma in questo momento dov’è? Neppure se tutti i musulmani del mondo si alleassero, sarebbero più forti di noi. Forse se lo facessero Cina, Russia e India (che insieme, quanto a risorse umane e materiali, fanno quasi la metà dell’umanità), ma per una cosa del genere ci vorrebbero dei secoli.
Noi siamo omogenei, loro no. Noi siamo gerarchici, loro no. Da noi tutto l’occidente è sotto la tutela militare ed economica degli Usa. L’India potrebbe mai esserlo della Cina? o la Cina della Russia? Prima che esista un’alternativa all’occidente, occorre che in oriente la Cina (che in questo momento, dei tre suddetti colossi è la più forte, anche se le maggiori risorse energetiche sono della Russia) s’imponga con la forza sugli Stati limitrofi, ma anche per questo ci vorranno dei secoli.
E in ogni caso, quando arriverà quel momento, noi avremo soltanto ottenuto la sostituzione di una civiltà con un’altra. Non avremo fatto neanche un passo avanti in direzione dell’umanizzazione dei nostri rapporti sociali. Ecco perché dobbiamo studiare sin da adesso il modo di uscire non solo dall’occidente, ma anche dallo stesso concetto di “civiltà”. Noi dobbiamo studiare tutto quanto ci serve per non apparire “civili”, tutto quanto ci serve per diventare “barbari” e “selvaggi”.
Dovremmo anzitutto chiederci quali sono le cose assolutamente essenziali che ci permettono di sopravvivere e a cui non potremmo rinunciare per alcuna ragione. Vediamole: aria pulita, acqua pulita, una fonte di calore, una fonte di luce, un mezzo ecocompatibile per muoverci, uno spazio in cui vivere, un rapporto equilibrato con la natura e con gli animali, un’occupazione utile alla collettività, degli abiti con cui vestirci, la possibilità di riprodurci.
E poi cosa? Cosa di veramente essenziale oltre a questo? La possibilità di prendere decisioni comuni, la necessità di rispettare l’altro per quello che è e di ricondurre ogni azione alla valorizzazione dell’umano che è in noi.
E poi cosa? Cosa di veramente irrinunciabile oltre a questo? Avere dei libri da leggere? una musica da ascoltare? un film da vedere? la possibilità di coltivare l’arte, la cultura, lo svago, il tempo libero, il divertimento…? Pensiamoci bene, perché su questo ci divideremo. Bisognerà essere ben consapevoli che non si possono pretendere cose che altri non possono avere, né, tanto meno, si può pretendere il surplus quando a tutti non viene garantito neppure l’essenziale.
Dovremmo fare un discorso serio, impegnato, collettivo, su ciò che è veramente essenziale per riprodursi e ciò che invece è futile, facoltativo, secondario… Se partissimo dall’idea di consumare ciò che produciamo, ridurremmo al minimo le spese, gli sprechi, il superfluo. Se ci chiedessimo, ad ogni nostra azione, in quale altra maniera meno dispendiosa avremmo potuto farla (meno impattante sull’ambiente), avremmo sicuramente molto più rispetto della natura.
La parola “sviluppo” va bandìta dal vocabolario ecologista, poiché essa si riferisce unicamente a parametri quantitativi, che sono i primi a negare uno sviluppo qualitativo della coscienza, della dignità umana. La qualità della vita non può sottostare agli indici quantitativi del prodotto interno lordo, anche perché è immorale vedere che un alto indice di produttività può essere compatibile con un alto indice di disoccupazione o che, in ogni caso, la piena occupazione resta un miraggio a prescindere da qualunque indice di produttività.
Se vivessimo non al di sopra delle nostre possibilità, senza sognare che vi sia sempre qualcuno che risolverà i nostri problemi, evitando con cura di scaricare sulle generazioni future il compito di sanare i nostri disastri, noi capiremmo meglio il concetto di responsabilità. Noi, in questa civiltà, siamo abituati a rifiutare la responsabilità personale delle nostre azioni e a delegarla sempre allo Stato, al sistema, alle istituzioni…
Noi non potremmo permetterci neanche lontanamente il benessere che abbiamo, se sotto di noi non vi fosse l’80% di umanità da sfruttare. Sono 500 anni che andiamo avanti con questo sentimento di dominio internazionale (e per altri 500, nel basso Medioevo, l’abbiamo preteso a livello di Mediterraneo, per non parlare degli altri 500 della Roma imperiale). E pretendiamo ancora oggi di porci come modello per gli altri, quando, se davvero gli altri si comportassero come noi, noi saremmo in una condizione di guerra permanente.
Che poi, in un certo senso, lo siamo lo stesso, con la differenza che i conflitti regionali non sono a casa nostra (se non indirettamente, quando ammazzano i nostri militari o quando ci ritornano indietro devastati nella loro psiche) e se ce li fanno vedere troppo alla televisione, ce ne stanchiamo abbastanza in fretta.

Libertà di coscienza e autoconsumo

Se rimane qualcosa d’irrisolto nella nostra coscienza, siamo perduti. Se non ci viene data la possibilità di chiarirci, di giustificarci, di pentirci del male che abbiamo provocato, direttamente o indirettamente, personalmente o per interposta persona, noi non avremo mai pace e non potremo fare alcun vero progresso.
I veri progressi possono esserci soltanto quando viene ricostruito il senso di umanità che alberga in noi. Rifatto alle radici. In caso contrario qualunque passo in avanti sarà in una direzione sbagliata. Non farà che peggiorare la situazione, aggiungendo problemi a problemi, il primo dei quali sarà quello d’illudersi d’aver trovato adeguate soluzioni. Come quando i Romani pensarono d’aver trovato negli imperatori la soluzione ai mali della Repubblica.
Infatti, nel cieco fanatismo dell’illusione si è incapaci di ascoltare gli altri, si procede a testa bassa, nella convinzione d’avere tutte le ragioni di questo mondo. Bisogna fare attenzione al sentimento dell’illusione, poiché se la gente ha subìto dei torti in un passato non così lontano da essere scordato, e troverà qualcuno che predicherà il riscatto sociale, vi crederà con tanta più forza quanto più si prometterà il riscatto in tempi brevi. Si finirà col vedere quel che non c’è e quel che c’è si farà finta di non vederlo, come si fece coi blitzkrieg e i lager.
Sfruttando le nefaste conseguenze del Trattato di Versailles sull’indipendenza della Germania, Hitler illuse milioni di tedeschi che sarebbero potuti diventare, accettando sacrifici enormi, i dominatori del mondo nell’arco di una sola generazione.
Tuttavia, se il problema stesse solo a questi livelli morali, forse non sarebbe così gravoso. Non è possibile infatti che uno, in tutta la sua vita, non abbia mai commesso un errore di cui pentirsi, e se si è pentito una volta, può farlo anche una seconda.
Il punto è un altro. Nessuno, da solo, è in grado di sapere fin dove è arrivato il torto compiuto, neppure se lo guardasse a distanza di molti anni. Nessuno, individualmente, può avere una chiara consapevolezza di tutte le conseguenze causate dai suoi errori. Nessuno può sapere fino a che punto è necessario chiedere perdono. Se in una società lo stupro è contro la morale e non contro la persona (come finalmente lo è diventato in Italia a partire dal 1996), il pentimento sarà più o meno profondo? Se in una società è prevista la pena di morte per un omicidio (e in Vaticano è rimasta giuridicamente sino al 1969), a che serve pentirsi?
Noi abbiamo bisogno di un collettivo che ci dia una visione generale delle cose, poiché a volte pensiamo di aver fatto del male e invece le conseguenze sono state positive per chi l’ha subìto (perché ad es. lo ha indotto a reagire, ad assumersi delle responsabilità, ad affrettare il momento di compiere una scelta che aveva già in mente).
Altre volte invece pensiamo di fare del bene, offrendo p.es. aiuti al Terzo mondo, e non ci rendiamo conto che proprio in questa maniera perpetuiamo i meccanismi di sfruttamento neocoloniale che inducono quelle popolazioni a chiederci assistenza.
Noi non siamo dei Robinson che viviamo in un’isola deserta. Qualunque cosa facciamo ha conseguenze che non riusciamo neppure a immaginare. Siamo così reciprocamente legati che anche quando non facciamo niente, facciamo qualcosa. La coscienza è davvero un abisso senza fondo, un buco nero che inghiotte tutte le interpretazioni univoche. Omnis determinatio est negatio. Non ci si perde nell’abisso solo prendendo la via negativa.
Dobbiamo essere addestrati a guardare le cose nella loro globalità. Ogni nostra azione negativa non è che una goccia che, sommata alle altre, alla fine fa traboccare il vaso. Tutti sanno benissimo che il rischio c’è, però siccome non si può stabilire quando il disastro avverrà, si spera che eventi imprevisti, a noi favorevoli, o il buon senso di chi ci governa, scongiurino il peggio. Ci comportiamo come incoscienti e ostentiamo ottimismo sugli effetti finali del nostro comportamento, salvo poi meravigliarci che le cose siano andate diversamente.
Non siamo abituati a guardare le cose nella loro interezza, proprio perché nella nostra civiltà domina l’individualismo, cioè la ragione del più forte. E’ lui che detta le regole del gioco, di cui la prima è quella di non avere regole, ovvero quella di darsele solo in maniera formale, sulla carta, per accontentare i moralisti, quelli che dicono di “avere coscienza”.
Prendiamo p.es. i vecchi film americani dedicati agli indiani. La morale apparteneva naturalmente solo ai bianchi, anche se fra questi vi erano buoni e cattivi; alla fine vincevano sempre i buoni, che magari si sacrificavano per il bene della loro collettività. Con la vittoria dei buoni, anche la condizione degli indiani migliorava e, se non migliorava, la colpa era degli stessi indiani, che non avevano capito la bontà dei bianchi, per cui questi erano stati costretti a sterminarli. In quei film i registi non riuscivano a distinguere la consapevolezza soggettiva di certi comportamenti (per gli indiani i bianchi “buoni” potevano anche apparire migliori dei bianchi “cattivi”) da quella oggettiva (per gli indiani era la stessa cosa avere a che fare con bianchi “buoni” o “cattivi”, essendo la civiltà di costoro basata sul business). Oggi hanno smesso di fare quei film non perché abbiano smesso di credere nel dio quattrino, ma perché se continuassero a sostenere che la civiltà fondata sul business è in tutto e per tutto migliore di quella indiana, si coprirebbero di ridicolo. Gli americani hanno placato i loro sensi di colpa semplicemente mostrando in alcuni film che in fondo gli indiani non erano così cattivi come venivano dipinti e che avevano indubbiamente ragione a difendere la loro terra. Detto questo possono continuare a restare nelle loro riserve e nei loro musei. Gli americani sono lontani anni luce dal capire che l’unica vera alternativa al loro devastante stile di vita stava e ancora oggi sta proprio nella civiltà che hanno distrutto.
Quando si dice che l’inferno è lastricato di buone intenzioni, non s’intende forse dire che in una civiltà antagonistica l’innocenza non esiste a nessun livello e che la corruzione è generalizzata? Qualunque azione si compia va sempre esaminata obiettivamente. E l’oggettività in questione è quella che risponde alla domanda se una determinata azione ha contribuito in maniera significativa al superamento della mentalità anti-umanistica della nostra civiltà.
Madre Teresa di Calcutta può aver salvato, nel corso della sua vita, migliaia di persone dalla malattia, dalla fame, dalla disperazione, ma se queste sue iniziative non hanno portato a ripensare concretamente, sostanzialmente, i motivi per cui in India vi siano milioni di malati ed affamati, alla fine quel suo operato farà inevitabilmente gli interessi del sistema, che potrà sempre dire di non stare con le mani in mano di fronte a quelle tragedie.
Questo non vuol dire che, prima di partire, uno dovrebbe sapere in anticipo quali effetti sul sistema avrà il proprio impegno. Vuol semplicemente dire che mentre uno lavora per il bene dell’umanità, non può trascurare le cause oggettive che la rendono schiava di poche forze senza scrupoli. E’ stato un gravissimo errore degli scienziati non essersi chiesti a tempo debito quali avrebbero potuto essere le conseguenze della scissione dell’atomo.
La morale è una cosa, la politica un’altra, non nel senso che noi occidentali abbiamo dato a questa distinzione, secondo cui una buona politica difficilmente si basa su una buona morale, ma nel senso che la politica è quella scienza che permette di andare oltre le questioni meramente soggettive (il proprio impegno personale, la propria dedizione all’altrui bisogno ecc.).
Bisogna saper guardare le cose oggettivamente (che non vuol affatto dire “con distacco” o “freddezza” o “cinismo”), per cercare di commettere meno errori possibile, e anche per evitare d’illudersi sull’efficacia delle proprie iniziative personali, ovvero per evitare di accusare le istituzioni quando, secondo noi, mostrano di non capirci. Spesso si recrimina fino al punto in cui, per ripicca, si smette di compiere qualunque opera di bene.
Più che alle istituzioni, che rappresentano il potere che va combattuto, bisogna rivolgersi alle masse, alle classi, agli strati sociali, portandoli, con l’esempio di una pratica differente del bene, a un punto di rottura col sistema. Dal sistema, così com’è, bisogna soltanto cercare di uscire: è illusorio pensare di riformarlo. Questo ovviamente non deve impedirci di non fare distinzioni tra chi, all’interno del sistema, vuole conservare l’esistente così com’è, anche quando dice di volerlo riformare, e chi pratica o almeno sostiene teoricamente una politica più vicina agli ideali dell’umanesimo laico e del socialismo democratico.
Noi dobbiamo porre le basi di un sistema di vita i cui valori fondanti siano totalmente alternativi a quelli che reggono l’attuale sistema. E i due principali valori sono la libertà di coscienza e l’autoconsumo. L’uno viene garantito dall’altro, reciprocamente. Entrambi prevedono la scomparsa dello Stato. Infatti uno Stato che si fa garante della libertà di coscienza, eo ipso la viola, e uno Stato non può garantire l’autoconsumo, visto che la sua nascita è strettamente collegata a quella del mercato. La libertà di coscienza può essere solo autogarantita da un collettivo indipendente sul piano materiale.

Utopia e libertà di coscienza. Sette spunti per un film di fantascienza

Una società utopica o extraterrestre deve necessariamente essere una società in cui tempo e spazio sono assolutamente relativi, nel senso che la loro dimensione dev’essere relativa al desiderio dell’essere umano di poter rivivere o quanto meno di rivedere qualunque passato e di essere presente in qualunque luogo.

L’unica cosa impossibile, in quanto illecita, è quella che nega la libertà di coscienza, e cioè la previsione del futuro. Il futuro non è prevedibile, se non nel senso generico che se non si rispettano determinate condizioni fondamentali per la libertà di coscienza, si formeranno situazioni favorevoli alla alienazione della persona.

Deve dunque esistere una sorta di macchina del tempo, che permetta di vedere il passato per quello che è stato. E deve esistere una macchina, nel presente, la cui velocità sia pari al desiderio della coscienza di poter essere in ogni luogo e di incontrarsi con chiunque e di utilizzare qualunque mezzo utile alla comunicazione.

Se non vengono soddisfatte queste due condizioni, non ha senso parlare di società “utopica”, cioè posta fuori dalle condizioni terrestri.

Non va tuttavia negata solo la previsione del futuro, ma anche la pretesa di un rapporto unilaterale con qualcuno. L’incontro deve essere fondato sul desiderio reciproco, altrimenti viene di nuovo violata la libertà di coscienza.

Poste queste due condizioni, la società utopica deve prevederne altre due. La prima riguarda il fatto che noi, essendo prodotti di natura, non possiamo fare a meno di questa e con questa dobbiamo avere un rapporto naturale. Umanità e Naturalità devono andare di pari passo, valorizzandosi a vicenda.

Scienza e tecnica devono basarsi sulle esigenze riproduttive della natura, che sono poi quelle che permettono un’adeguata riproduzione umana.

La seconda condizione (che è poi la quarta) è che in una società utopica si deve avere la possibilità di riprendere in qualche modo il cammino che la morte terrena aveva interrotto. Il modo in cui il cammino va ripreso è in rapporto alla realizzazione di sé, alla comprensione della verità delle cose, che è insieme verità soggettiva e oggettiva, relativa e assoluta.

Se si è iniziato un percorso, la società utopica deve indicare le condizioni in cui poterlo proseguire in maniera conforme alle esigenze di Umanità e Naturalità. Ma per far questo, occorre la possibilità in tempo reale di verificare l’attendibilità delle proprie ricerche, cioè una compatibilità tra teoria e prassi, adeguata alle esigenze umane e naturali: un adeguamento della prassi proporzionato alle aspettative, alle pretese della teoria, al proprio desiderio di essere.

Ecco queste quattro condizioni sono quanto di meglio si possa desiderare in una società utopica. Sono condizioni preliminari, non le uniche possibili, ma certamente quelle che rendono possibili tutte le altre.

La quinta condizione da rispettare è l’espressività riproduttiva, per la realizzazione di sé. L’arte di fare le cose è una forma progressiva di apprendimento, in cui ognuno si misura con quel che è, in previsione di quel che può diventare.

La sesta condizione riguarda inevitabilmente la riproduzione dell’essere umano stesso, strettamente connessa alla differenza di genere, che è universale, e che è connessa anche alla trasformazione perenne della materia, non meno universale.

Poiché in origine non esiste l’uno che si compiace di sé, assolutamente autosufficiente, ma esiste l’uno che si sdoppia in elementi che insieme sono opposti e complementari, la riproduzione umana non può restare che patrimonio della coppia.

La settima e ultima condizione è relativa al modo di gestire tutte le altre. La migliore gestione dell’Umanità e Naturalità della società utopica è l’autogestione. La consapevolezza che la gestione delle cose appartiene a se stessi è la migliore garanzia di democraticità.

Per autogestione s’intende quella delle cose che permettono la propria esistenza in vita, che è produzione di espressività e riproduzione di sé.

Umanesimo integrale (II)

Una cultura è tanto più profonda quanto più riflette dei valori umani universali. Un qualunque altro approfondimento specialistico è rischioso, poiché può diventare artificioso e quindi inutile alla sopravvivenza della specie umana, anzi pericoloso quando viene associato a modelli di comportamenti basati sul primato dell’individuo. Esiste sempre un limite al di là del quale è bene non andare.

Per avere la sicurezza di un rispecchiamento del genere, occorre che il soggetto viva questi valori. La sicurezza può essere solo il frutto di un convincimento interiore prodotto dalla constatazione dei fatti. La scienza può essere solo questa. Si constatano fatti trasmessi di generazione in generazione e ci si convince del loro valore.

Un socialista non può parlare di queste cose senza viverle nello stesso tempo. Anche la scrittura va rivoluzionata. Si deve scrivere solo ciò che può essere usato creativamente. Lenin, in questo senso, è stato un grande maestro. Il suo realismo, il suo senso della concretezza erano assolutamente eccezionali. Ciò che gli difettava era soltanto la capacità di tradurre i valori umani in valori politici, fino al punto da considerare questi subordinati a quelli. Lenin cioè aveva una visione prevalentemente politica della realtà; invece bisogna averla prevalentemente umana.

Lenin ha indubbiamente superato Marx sul piano politico e, con l’analisi dell’imperialismo, anche su quello economico (e l’ultimo Lenin ha aperto la strada al gramscismo, riconoscendo che la rivoluzione poteva essere fatta anche partendo non dalla politica ma dalla cultura: l’importante era realizzare un medesimo obiettivo). Ora però bisogna superare anche Lenin, edificando sulle fondamenta del socialismo democratico (inaugurato dalla perestrojka gorbacioviana) l’esperienza dell’umanesimo integrale (che ovviamente non ha nulla a che vedere con quello delineato da J. Maritain).

Non è dunque più possibile soffermarsi troppo sull’analisi: se la politica è una sintesi dell’economia, l’uomo è una sintesi di tutto. Non ci può più essere analisi senza una proposta risolutiva del problema. La sintesi dev’essere “chiusa” quanto ai presupposti scelti, la cui importanza non può essere relativizzata (p.es. non si può prescindere dalla socializzazione dei mezzi produttivi), ma deve essere “aperta” in rapporto alle soluzioni operative da ricercare. Non esiste mai un unico modo di affrontare al meglio determinati problemi.

Una sintesi “chiusa” deve impedire che uno stesso fenomeno possa essere letto in modi assolutamente opposti (può esistere p.es. una proprietà personale degli strumenti del lavoro, ma non può esistere quella privata, che escluda la proprietà altrui, altrimenti non è neanche il caso di parlare di “socialismo”).

Se e quando si verificano interpretazioni opposte di un medesimo fenomeno, che risulta fondamentale ai fini della sopravvivenza di un collettivo, inevitabilmente le proposte risolutive di determinati problemi non verranno mai prese con la dovuta serietà. Se c’è il relativismo nelle premesse, ci sarà anche nelle conclusioni. E questo tornerà soltanto comodo a chi ha un interesse di parte da far valere contro quelli collettivi.

Ci possono essere proposte diverse sul modo di affrontare uno stesso problema, ma non devono esserci due modi totalmente opposti. I modi possono essere equivalenti, convergenti, paralleli ma non opposti. Quando sono opposti è perché in realtà esistono dei conflitti di classe, degli antagonismi irriducibili, degli interessi antitetici. Magari in forma latente, ma pronti a esplodere.

Naturalmente nessuno potrà impedire che si formi un’opposizione insanabile, ma non si potrà neppure impedire che, nei limiti della democrazia, le si dia aperta battaglia. E’ giusto permettere agli uomini una scelta di campo, ma sarebbe profondamente ingiusto illuderli che la loro libertà consista solo in tale scelta. La libertà va costruita sulla scelta fatta. E chi non la condivide o accetta di stare in minoranza o se ne deve andare altrove.

In questo senso è bene chiarire che un problema non va mai affrontato né prima che si ponga né dopo che si è posto, ma nel mentre si pone. Prima è troppo presto, dopo è troppo tardi. L’uomo deve vivere nel presente. Deve svegliare il passato, che tende ad assopirsi, e deve frenare il futuro, che tende a correre.

Ma allora qual è il senso umano della storia? Ricondurre tutto a unità, perché dall’unità frantumata è nata la divisione e dalla divisione la specializzazione, la quale dell’unità non ha più alcun ricordo.
Dalla divisione sono nate le religioni. Ora, si possono ricondurre a unità le religioni? Dal punto di vista religioso no, ma da quello umanistico sì. Una religione non può essere superata (definitivamente) da un’altra religione, così come un’alienazione non può risolvere un’altra alienazione.

Una religione può essere superata solo se il credente ritrova in essa le origini umanistiche ch’erano state negate agli albori delle civiltà, ma un credente che riesce a trovare nella propria religione le tracce umanistiche da cui essa, stravolgendone il contenuto, è nata, non può che smettere d’essere credente. Può passare da una religione all’altra, ma, alla fine del suo processo evolutivo, dovrà inevitabilmente diventare ateo, poiché l’ateismo è un’espressione naturale dell’umanesimo integrale.

Si badi, qui non si vuole sostenere che la conoscenza sia inutile ai fini del benessere vitale. Per non essere “felici” come gli animali o come i pazzi, occorre sviluppare anche il lato della conoscenza. Il problema semplicemente è: fino a che punto occorre svilupparlo? Quali sono i limiti epistemologici oltre i quali è bene non andare? Esistono delle priorità da salvaguardare per la riproduzione della specie umana?

Da un lato ha torto Qoelet quando dice che la conoscenza non fa che aumentare il dolore; dall’altro però ho torto Ulisse quando vuole oltrepassare le colonne d’Ercole. La conoscenza non può essere fine a se stessa, altrimenti Qoelet ha ragione. E non si può neppure impedire con la forza ch’essa resti legata a un’esperienza in cui non si crede più, altrimenti ha ragione Ulisse. Il fatto che l’unità sia migliore della divisione non implica ch’essa debba essere imposta, altrimenti la divisione sarà sempre legittima. Il primo valore fondamentale da tutelare è la libertà di coscienza.

Umanesimo integrale (I)

Se si vuole conservare la percezione dell’unitarietà dell’esistenza umana, che è poi la risultante della capacità di saper fare, in autonomia, quanto basta per sopravvivere; se si vuole avere uno sguardo d’insieme sulla gestione della vita, mettendo in relazione causale i fenomeni tra loro, cercando soprattutto di avvertire la propria esistenza in sintonia con le esigenze riproduttive della natura e cose simili, non ci può essere un’eccessiva specializzazione della cultura.

La vera cultura sta nel conservare la globalità, l’insieme dei processi vitali del proprio essere, che è sempre un’esperienza collettiva, la quale, a sua volta, non è la somma di esperienze individuali, ma la portante di ognuna di esse. Senza collettivo il singolo è un’astrazione.

E il collettivo non può certo essere lo Stato, come voleva Hegel, che ne aveva fatto una sorta di dio in terra. Il collettivo è tale soltanto in un contesto locale, tale per cui al singolo venga assicurata la percezione della globalità della vita.

La cultura più profonda non è necessariamente legata alla scienza, alla tecnica, alla specializzazione intellettuale, ma, senza escludere aprioristicamente queste cose, anzitutto ai sentimenti umani positivi.

La miglior cultura è quella che educa al miglior comportamento, individuale e sociale. Non ha senso avere una grande cultura intellettuale senza avere una grande pratica esistenziale.

Quando l’approfondimento della conoscenza riflette una condizione di vita alienata, divisa in se stessa, e non riesce a risolvere tale alienazione, significa ch’esso è inutile, anzi nocivo, poiché distrae dal vero bisogno, illude che si possa fare a meno di risolverlo.

Certo, non ha meno senso tentare di abolire ope legis la cultura astratta, però bisognerebbe cercare di non favorirla, promuovendo soltanto quella cultura che serve per soddisfare dei bisogni esistenziali. E quando tali bisogni vengono soddisfatti all’interno di un collettivo, fare una buona cultura potrebbe voler dire aiutare altri collettivi a comportarsi in maniera analoga. A livello mondiale avremmo così tante cose da fare che non ci sarebbe neanche un minuto di tempo per interessarsi di viaggi interplanetari.

Per il bene dell’intera umanità oggi dovremmo chiederci: è forse servito ad aumentare il benessere vitale del genere umano l’aver diviso la conoscenza in tante discipline specialistiche? Se si può ammettere un certo benessere per l’occidente industrializzato, lo si può ammettere anche per il Terzo mondo sfruttato da questo stesso occidente? Si può accettare che una certa cultura rechi beneficio solo a una piccola parte dell’umanità e non serva assolutamente a nulla alla parte restante? Con la cultura specialistica il divario tra Nord e Sud invece di diminuire si è ampliato, facendo aumentare la dipendenza neocoloniale. In questo momento la malnutrizione riguarda oltre due miliardi di persone. Un miliardo di persone non ha neppure da bere acqua potabile. A cosa è servita la nostra cultura specialistica in quest’ultimo secolo?

Ma c’è di peggio. Il benessere che l’occidente ha maturato non s’è realizzato senza effetti collaterali sullo stesso occidente e, di conseguenza, sul mondo intero. Si pensi solo ai sempre più gravi fenomeni d’inquinamento ambientale, all’esaurimento di quelle risorse non rinnovabili su cui s’è voluto concentrare l’utilizzo principale dell’energia, all’alienazione conseguente all’eccessiva urbanizzazione, alle crisi periodiche di sovrapproduzione tipiche del capitalismo, alle speculazioni finanziarie dovute agli eccessi di liquidità sui mercati, alle impennate improvvise della disoccupazione causate dalle crisi economiche e finanziarie, all’esigenza periodica di far scoppiare delle guerre locali per smaltire la produzione di armi e per accaparrarsi, se possibile, le ultime risorse energetiche del pianeta, e così via.

Abbiamo preteso un benessere meramente economico, frutto di ampie conoscenze tecno-scientifiche, senza badare alle sue conseguenze sociali, ambientali e soprattutto umane. Il vero benessere non può essere determinato in alcun modo dal prodotto interno lordo, che è un indicatore quantitativo che in realtà non dice nulla su come gli effetti di questo prodotto vengono redistribuiti alla collettività, per non parlare delle conseguenze non economiche ch’esso ha generato sulle persone e sugli ambienti in cui vivono. Che senso ha essere ricchi di beni materiali (mal distribuiti, per giunta) e poveri di tutto il resto?

La nostra cultura occidentale ha questo fondamentale limite: è umanamente astratta, cioè non è in grado di risolvere i problemi concreti di un’intera popolazione locale senza far leva su risorse che non le appartengono. Noi occidentali ci muoviamo a livello nazionale sfruttando le risorse di popolazioni locali che vivono nel Terzo mondo.

Questa cosa non passa nei mass-media perché non ci torna comodo.
Eppure di esempi se ne potrebbero fare tanti. Prendiamo quello della cioccolata. I nostri paesi l’amano moltissimo. Essa viene prodotta, come materia prima, da singole comunità di villaggio africane e sudamericane, costrette, dai passati rapporti coloniali, a produrre solo questa merce, che viene venduta sui nostri mercati, ai prezzi decisi da noi, e se vogliono anche loro mangiare il cioccolato che producono devono acquistare da noi il manufatto industriale, che ovviamente ha un valore aggiunto di molto superiore. Conclusione? Più loro producono per noi e più s’indebitano. Al danno poi si aggiunge anche la beffa, poiché quando noi decidiamo di usare surrogati chimici per esigenze speculative, quelle comunità, che già avevano perduto la loro autonomia al tempo del colonialismo, si trovano letteralmente alla fame.

In Europa occidentale, al tempo della prima rivoluzione industriale, chi si arricchiva di più: il paese esportatore di lana greggia o quello importatore che la trasformava in tessuto? E quando i coloni americani volevano produrre le stesse cose degli inglesi, essendo della loro stessa nazionalità, con le loro stesse capacità e conoscenze, gli inglesi glielo permisero? Piuttosto che permettergli una cosa del genere furono disposti a perdere tutte le colonie americane. In una situazione del genere un qualunque aumento di “aiuti” alle popolazioni terzomondiali non farebbe che peggiorare la loro situazione.

La nostra cultura risolve problemi fittizi a una ristretta categoria di persone, che non ha problemi urgenti da risolvere. Per il resto essa non fa che illudere che per suo mezzo si possano risolvere i problemi concreti di tutti o che si possa comunque vivere dignitosamente nonostante questi problemi. E’ una cultura “drogata”, che propina miraggi quotidiani.

Non si può superare il limite di questa cultura semplicemente proponendone un’altra. Non ci si può limitare a fare della critica intellettuale. Perché si sviluppi una cultura effettivamente alternativa occorre un’altra esperienza di vita, in cui siano vissuti valori alternativi.

In questo il socialismo utopistico ha fallito e il leninismo ha ritenuto impossibile vivere socialmente e culturalmente dei valori alternativi se prima non si faceva la rivoluzione politico-istituzionale. In mezzo a queste due soluzioni vi è quella di Marx ed Engels, che si sono limitati a compiere un’analisi critica della struttura del sistema e quella di Gramsci, che ha compiuto un’analisi critica della sovrastruttura.

La vera cultura è solo quella che riflette valori autentici, perché realmente vissuti. E’ rischioso fare una rivoluzione politica se essa non nasce da un’esperienza che almeno in nuce già si presenti come prototipo della futura società. E’ più facile dimostrare politicamente la giustezza di determinati valori che non farlo sul piano sociale. Solo alla fine della sua vita Lenin aveva capito che non poteva trattare i contadini come una classe sottosviluppata. Il socialismo, in occidente, è nato come ideologia di intellettuali radicali borghesi, il cui elemento popolare era la classe operaia e si è sviluppato come politica riformistica (di aggiustamento delle contraddizioni del capitalismo) il cui elemento popolare sono diventati i ceti medi. Là dove il socialismo è andato al potere non ha rappresentato fino ad oggi un’autentica alternativa al capitalismo.

Non è possibile infatti creare alcuna alternativa vera al capitalismo se si prescinde dalla terra, cioè da un’esperienza in cui la terra permetta l’autoconsumo, che è la forma opposta dell’economia basata sul mercato e quindi sul valore di scambio.

Ma perché un’esperienza di socialismo agrario sia davvero politicamente “produttiva”, occorre che venga creata con l’intenzione di svilupparla come modello, di estenderla geograficamente, realizzando una rete che si ponga l’obiettivo di modificare radicalmente il sistema.

Una cultura alternativa deve essere anche politicamente rivoluzionaria, basata su un’esperienza sociale concreta, praticabile. La domanda in sostanza è: si può recuperare l’esperienza del socialismo utopistico in una direzione analoga a quella dell’autoconsumo pre-borghese (ovviamente senza alcuna forma di servaggio) all’interno di una società come quella capitalistica? In che misura questa esperienza può porsi in maniera alternativa al sistema borghese? Quali possono essere le sue condizioni di sopravvivenza?

A quali condizioni è possibile un ritorno al comunismo primitivo? (X)

Chiusa la parentesi sul cristianesimo in epoca romana, qui si può concludere il discorso sullo schiavismo dicendo che le popolazioni cosiddette “barbariche”, quando entrarono nell’impero, non fecero altro che mettere in pratica un disegno di umanizzazione risalente alle loro origini clanico-tribali. Un disegno che per realizzarsi, senza l’apporto del cristianesimo, avrebbe sicuramente richiesto tempi molto più lunghi.

“In nome di Cristo morto e risorto – diceva Paolo – non c’è più né schiavo né libero”. Tutti i cristiani sono moralmente liberi di fronte a dio, anche se nella vita reale permangono le differenze di classe. Un discorso del genere, una volta che il cristianesimo avesse dimostrato socialmente la propria superiorità sulle religioni pagane, non avrebbe potuto non influenzare i rapporti produttivi.

L’incontro coi barbari fu, da questo punto di vista, una vera fortuna per il cristianesimo, poiché gli avrebbe permesso di trovare più facilmente un appoggio non solo di tipo politico-istituzionale (che già aveva ottenuto con Teodosio), ma anche sociale, in quanto i barbari non avevano mai usato lo schiavismo come organizzazione produttiva dell’intera società. Il cristianesimo poteva continuare a esistere ancora per molti secoli, pur avendo ingannato gli schiavi con la dottrina della liberazione ultraterrena.

Dal canto loro i barbari, pur essendo di religione pagana, non ebbero alcuna difficoltà ad accettare una religione che assicurava loro la pace sociale. All’inizio fecero solo differenza tra arianesimo (in cui lo Stato sottomette a sé la chiesa) e ortodossia (in cui vige la diarchia dei poteri); successivamente, nella parte occidentale dell’impero, si trovarono costretti a scegliere tra Stato confessionale e teocrazia pontificia.

Insomma, una cosa è sfruttare qualcuno in nome della forza militare (schiavismo); un’altra è sfruttarlo col placet della fede religiosa (servaggio); un’altra ancora è farlo sotto il pretesto del diritto borghese (lavoro salariato); l’ultima che conosciamo, infine, è quella di chi usa un ideale socialista gestito in maniera esclusiva dallo Stato (cosa che trasforma la sudditanza in una questione anche di coscienza).

Quale marxista arriverebbe mai ad ammettere che in Russia il socialismo statale è crollato proprio a motivo delle tradizioni cristiane, le quali hanno potuto dimostrare che il loro ideale religioso era superiore a quello laico dello stalinismo? E chi arriverebbe ad ammettere che la stessa cosa non è potuta accadere in Cina proprio perché qui le suddette tradizioni non hanno mai messo solide radici? Quando tradizioni più che millenarie considerano l’essere umano un mero prodotto di natura, per quale motivo dovrebbero perorare con forza la causa della democrazia per rimediare ai guasti del socialismo di stato? Non è forse sufficiente che la dittatura politica aumenti gli spazi di manovra della libertà meramente economica?