Arte e cinematografia

In un film americano, essendo improntato al calvinismo, il bene non può realizzarsi col pentimento del criminale. Se il criminale si pente, sicuramente muore, come se non si pentisse. Deve infatti morire perché è stato criminale: o per espiare una colpa, oppure per non ricadervi. La morte è vista o come punizione giuridica o come riscatto morale.

D’altra parte è l’esigenza dello stesso mezzo comunicativo che lo impone. Il film, di qualsivoglia genere sia, è sempre una forma d’intrattenimento destinata a durare, al massimo, un paio d’ore. Deve per forza esserci un inizio e una fine. Generalmente il regista dedica poco tempo sia a motivare l’insorgere di una situazione criminale che a concluderla. Tra l’inizio e la fine di una storia criminale vi sono solo incidenti di percorso, diversivi, colpi di scena che, in ultima analisi, non possono modificare un finale scontato, che è appunto quello della morte come punizione giuridica o come riscatto morale.

La società non può tollerare che il finale si concluda col trionfo del male, anche perché i film servono per illudere, per far sognare, non per intristire, altrimenti non andrebbe nessuno a vederli. Se un film è troppo identico alla realtà, diventa sufficiente guardare la realtà: è anche più “realistica”.

I film americani sono un’enorme semplificazione della realtà, proprio perché non vogliono essere dei documentari, ma appunto dei film in cui l’avventura gioca un ruolo decisivo, avente un inizio e una fine ben determinati, come un fumetto per bambini. Non devono aiutare a “capire” la realtà, a come migliorarla, ma semplicemente a evaderla, a sognarne una che abbia un lieto fine, nella maniera più astratta possibile (astratta non nel senso di “intellettualistico”, ma nel senso che non si vuole offrire una capacità di coinvolgimento che vada al di là della mera emozione).

Un film americano non offre mai i mezzi per realizzare i sogni di cui si viene fatti oggetto. Sotto questo aspetto esso è come una droga: solo nel momento in cui lo si visiona, produce effetti allucinogeni, di estraniamento. Subito dopo averlo visto si è infatti consapevoli che tutto è rimasto come prima.

Per avere una valenza un minimo educativa, un film dovrebbe essere presentato e discusso. Ai partecipanti bisognerebbe distribuire una scheda con delle domande cui rispondere alla fine del film (se non addirittura nell’intervallo tra un tempo e l’altro, proprio per predisporre a una certa visione del secondo tempo, ipotizzando vari svolgimenti della trama, finali di diverso tipo).

Agli spettatori bisognerebbe distribuire all’ingresso una scheda con delle domande cui rispondere già durante l’intervallo: in questo modo verrebbero abituati a guardare le cose con impegno, senza distrazioni. L’ideale sarebbe che alla fine del film si potesse discutere con qualcuno che l’ha realizzato, oppure con un esperto di cinematografia, in grado di mettere in rilievo tutti gli aspetti di un film, da quelli tecnici a quelli di contenuto.

Teoricamente un film dovrebbe essere considerato un’opera d’arte e non solo di artigianato, sia perché vi concorrono molte professioni: regia, sceneggiatura, recitazione, fotografia, trucco, effetti speciali ecc., sia perché si trasmettono contenuti significativi, coinvolgenti. E, come tutte le opere d’arte, andrebbe presentato da un esperto in modo tale che gli spettatori diventino un “pubblico intenditore”.

La gente comune sa apprezzare un buon film ma mai sino in fondo, se non viene addestrata a farlo. Sarebbe incredibilmente istruttivo se, oltre a discutere sul valore di un film, lo spettatore potesse anche apprendere delle nozioni specifiche di cinematografia (p.es. su come realizzare una certa inquadratura per ottenere un particolare effetto).

Di fronte a uno schermo non si può mai restare passivi, anche perché su quello schermo bianco è possibile proiettare qualunque cosa, soprattutto oggi, caratterizzati come siamo dall’uso delle manipolazioni digitali. Chiunque veda qualcosa sullo schermo, deve essere messo in grado di capire come poterla riprodurre.

Il backstage è fondamentale per capire un film. Non ci si può limitare a osservare una mummia senza sapere nulla di mummificazione. Non aiuta a sviluppare la scienza limitarsi a dire “che bello” o “interessante”. Che democrazia può esserci in una società se non si sviluppa il giudizio critico? Non si può offrire qualcosa a qualcuno se questo qualcuno non è in grado di apprezzarne sino in fondo il valore.

I film devono uscire dal puro e semplice circuito commerciale delle merci che si vendono e si comprano. Chi fa arte, non dovrebbe farla per realizzare semplicemente un guadagno. L’arte è un prodotto di cultura e, come tale, dovrebbe essere fruita liberamente da chiunque, e apprezzata fin nei suoi dettagli. Anzi, dovrebbe essere considerato un grave crimine introdurre elementi di pubblicità all’interno di un film.

L’arte va insegnata, in tutti i suoi aspetti, a quanta più gente possibile. L’intera vita dovrebbe diventare un’opera d’arte.

Umano e Politico, tra Camus e Sartre

La famosa querelle tra Camus e Sartre (1), di quasi sessant’anni fa, riproposta in circa 40 pagine dalla rivista “Il piede e l’orma”, alla fine del 2010, in un numero monografico quasi interamente dedicato a Camus, ridiventa incredibilmente attuale ogni volta che qualche area del pianeta vuole liberarsi dal fardello dell’imperialismo borghese. Quella volta era l’Algeria a volerlo fare nei confronti della Francia.

Ora, siccome la tentazione è quella di mettersi dalla parte di una posizione come quella di Camus, vivendo noi oggi un periodo in cui si tende a far prevalere l’umano sul politico, condizionati, in questo, dalla sconfitta del socialismo reale, che, come noto, faceva il contrario, cerchiamo di capire se davvero una posizione opposta, che quella volta s’incarnò nella figura di Sartre, sia destinata ad avere tutti i torti o se invece possa offrire ancora oggi un valido contributo per affrontare al meglio le contraddizioni del nostro tempo.

Perché qui, in fondo, si tratta di fare una scelta di campo, cioè si tratta di capire se è necessario azzerare tutti i tentativi rivoluzionari che nel passato hanno posto la politica al di sopra della morale, oppure se conservarli, previo debito filtraggio, nella convinzione che in essi vi sia un fondo di verità, utile ancora per il presente. In soldoni si tratta di capire se nei confronti delle contraddizioni del sistema borghese sia più efficace, nel lungo periodo, un atteggiamento di resistenza non-violenta, ispirato a Gandhi e fatto proprio da Camus, o se sia ancora da preferire, nonostante gli esiti catastrofici dello stalinismo, l’idea leninista di organizzare una strategia rivoluzionaria (che ad un certo punto dovrebbe diventare armata) per la conquista del potere.

Parteggiare per Camus, considerando che la posizione di Sartre è stata sconfitta dalla storia, è un’operazione troppo semplice per essere vera. D’altra parte è impossibile parteggiare per Sartre senza tener conto degli enormi progressi che, proprio intorno alla sconfitta “politica” del socialismo reale, si sono fatti in direzione dell’approfondimento dei valori umani.

Tuttavia si può qui far notare una cosa, che forse può servire per cercare una terza soluzione tra le due in campo. Tutti gli approfondimenti più significativi in direzione dell’umanesimo etico (si pensi solo ai documenti di Charta 77) non sono venuti fuori dalla cultura borghese, ma proprio da parte di chi, vivendo nel socialismo reale, lo contestava democraticamente. Un regime, quest’ultimo, che da quando è crollato sembra aver tolto alla cultura borghese il desiderio di approfondire proprio i valori della democrazia e dell’umanesimo laico, sembra aver indotto questa cultura a illudersi di possedere la quintessenza dei valori umani. Il che lascia pensare che l’uso da parte della borghesia di teorie etiche e democratiche, con cui s’appoggiava la resistenza al regime comunista, sia stata soltanto una forma strumentale all’apologia del proprio potere.

Fino a quando l’opposizione umanistica al socialismo reale non s’è imposta con l’evidenza delle sue argomentazioni, era comunque difficile contestare il valore delle accuse politiche che quel regime rivolgeva alle democrazie borghesi, secondo cui l’affermazione teorica della democrazia era del tutto contraddetta dalla dittatura del capitale. Non dimentichiamo infatti che se oggi in occidente esistono gli “Stati sociali” e, nelle nostre Costituzioni, le sezioni riguardanti i “diritti sociali ed economici”, lo si deve proprio all’ideologia socialista e non certo a quella liberale, che portò invece alle due guerre mondiali.

Ora però ci chiediamo: possiamo con sicurezza dire che dai tempi di Gandhi ad oggi l’India abbia fatto dei progressi significativi in direzione dell’acquisizione dei diritti sociali ed economici? O li abbia fatti il Sudafrica grazie a uno dei discepoli gandhiani, Nelson Mandela? Fino a che punto, in nome della sola etica, si può arrivare a trasformare una società nei suoi livelli concreti dell’economia?

La politica di Gandhi e di Mandela è sempre stata subordinata al principio della non-violenza, ma possiamo dire con certezza ch’essa abbia risolto il problema fondamentale dell’antagonismo tra capitale e lavoro? La resistenza umana contro lo stalinismo, che ha portato al crollo del socialismo reale nel 1991, ha forse fatto nascere un socialismo davvero democratico?

Queste semplici domande sono sufficienti per capire che l’etica da sola non basta, ci vuole anche la politica rivoluzionaria. Gli uomini e le donne che soffrono ingiustizie sono inevitabilmente tentati dal pensare che il loro sacrificio sia sufficiente per cambiare radicalmente le cose, ma non è così. Quando la resistenza umana è di massa, si può anche arrivare ad abbattere una dittatura (lo vediamo anche oggi in Egitto, Tunisia ecc.), ma se non si risolve la questione fondamentale della proprietà dei mezzi produttivi (vero nodo cruciale di qualunque democrazia), la situazione, presto o tardi, tornerà come prima, inevitabilmente; anzi, potrà anche peggiorare, in quanto i poteri forti sapranno prendere contromisure per non farsi abbattere come i precedenti, e useranno proprio le idee dei “riformatori morali” per sostenere che la “rivoluzione” è già stata fatta.

Chi lavora solo sul piano etico o umanistico, senza pensare a darsi delle strategie politiche rivoluzionarie, che intervengano direttamente sull’economia, s’illude che sia sufficiente il proprio esempio perché le cose s’aggiustino da sole, grazie a nuovi politici illuminati, che si pensa non avranno il coraggio di tradire chi, col proprio sacrificio e perfino col proprio martirio, li ha mandati al potere per rinnovare le cose. Ma questi politici, immancabilmente, tradiranno, perché sarà il sistema stesso, con le sue contraddizioni irrisolte di fondo, che li spingerà a farlo.

Ecco perché mettersi dalla parte della sola etica o della sola politica oggi non ha più senso. Camus avrà sempre una ragione in più contro Sartre, ma anche Sartre ne avrà una in più contro Camus. Bisogna uscire da questo circolo vizioso, chiedendosi cos’è che c’impedisce di non ripetere gli errori del passato, di non ricadere in quelle situazioni in cui si ha l’impressione, ad un certo punto, che tutti i sacrifici siano stati vani.

Per poter uscire da questo meccanismo perverso della storia, che ci induce periodicamente, a prezzo di grandi spargimenti di sangue, a ricominciare tutto da capo, occorre solo una cosa, che gli esseri umani siano davvero in grado di gestire autonomamente le risorse del territorio in cui vivono. Solo in questa maniera potranno addebitare a se stessi il fallimento della loro etica e della loro politica.

Finché non si affermerà l’autogestione delle proprie risorse territoriali all’interno di comunità in cui sia possibile la democrazia diretta, saremo continuamente indotti ad attribuire alle istituzioni statali la causa dei tradimenti dei nostri valori e dei nostri sacrifici.

Ma per affermare questa autogestione occorre non solo eliminare la proprietà privata di quei fondamentali mezzi produttivi che possono far sussistere una comunità locale; occorre anche eliminare qualunque forma di dipendenza organica dai mercati e dalle borse finanziarie: occorre affermare l’autoconsumo. Ci vogliono comunità locali che siano padrone dei loro mezzi produttivi, in grado di autogestire le risorse dei loro propri territori, capaci di democrazia diretta (e non solo delegata), in cui valori come uguaglianza sociale e libertà di coscienza non possano essere concepiti in alternativa tra loro.

Quando si vogliono realizzare cose del genere e si è disposti a difenderle, anche con le armi, diventa inutile porsi il problema se sono più importanti i valori etici o quelli politici: gli uni senza gli altri, separatamente, non resisteranno alla controffensiva del nemico.

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(1) La querelle scoppiò nel 1952, quando la rivista “Les Temps modernes”, fondata da Sartre, pubblicò una recensione molto critica, firmata da F. Jeanson, sul libro di Camus, L’uomo in rivolta. Camus rispose, con non meno durezza, direttamente a Sartre, che ovviamente replicò sulla stessa rivista. I rapporti tra i due cessarono improvvisamente.
Nel suo romanzo, dell’anno prima, Camus aveva infatti sanzionato definitivamente il suo distacco dalle teorie del comunismo politico, inaugurato coi romanzi Lo straniero e Mito di Sisifo, entrambi del 1942.
Il suo ideale di vita erano diventati i paesi scandinavi, che avevano raggiunto una certa democraticità senza alcuna violenza rivoluzionaria. E, per quanto riguardava l’Algeria colonizzata (sua patria d’origine), egli aveva in mente una soluzione collaborativa con la Francia, antitetica quindi a quella del Fronte di Liberazione Nazionale, che lottava per la piena indipendenza.
L’uomo doveva essere sì in “rivolta” – secondo Camus -, ma senza centralismi di sorta, senza intruppamenti partitici, che sempre fagocitano le libertà individuali. Ed egli prendeva come esempio Gandhi, ch’era riuscito a vincere il più grande impero coloniale del mondo con la sola non-violenza.
Camus aveva aderito al Partito comunista d’Algeria nel 1934, ma già nel 1937 ne era uscito, con la convinzione che i metodi della lotta di classe non servissero a risolvere i problemi ma ad acuirli. Politicamente preferiva gli anarchici, anche se ideologicamente si mantenne sempre vicino alle posizioni del materialismo ateo.
La rottura del 1937 non ebbe però particolari ripercussioni sulla sua vita e sui suoi rapporti con la sinistra semplicemente perché, con l’inizio della guerra mondiale, egli s’era trovato comunque coinvolto attivamente nella Resistenza francese (collaborava come partigiano col gruppo “Combat”). Sarà solo dopo la fine della guerra e in riferimento soprattutto alla situazione algerina che il suo interesse per i conflitti interiori, esistenziali, assumerà chiaramente un risvolto anticomunista.
Camus in sostanza s’era persuaso, osservando anche la degenerazione dello stalinismo, che, senza umanesimo, il comunismo rivoluzionario era destinato a trasformarsi in una dittatura: la giustezza degli ideali politici non era di per sé sufficiente a garantire la democrazia. Anche Sartre arriverà alle stesse conclusioni, ma vent’anni dopo.

Macchinismo, natura e guerre

Se ci sono soltanto macchine avanzate che possono sostituirsi agli operai, che possono cioè fare a meno di molti operai manuali, pur non potendo fare a meno di operai intellettuali, in grado di far lavorare queste macchine attraverso un computer, il capitalismo non funziona. Un capitalismo del genere produce merci che costano di più rispetto a quel capitalismo che ha macchine meno avanzate ma più operai da sfruttare.

Marx aveva già individuato che esiste una caduta tendenziale del saggio di profitto dovuta al rinnovo periodico del capitale fisso. L’impresa guadagna all’inizio, appena ha introdotto le nuove macchine, e a condizione di poter vendere in maniera costante, ma poi le macchine vengono acquisite da altre aziende concorrenti e le stesse macchine diventano col tempo obsolete, proprio perché la produzione ha ritmi frenetici nel sistema capitalistico.

Gli investimenti per ristrutturare (resi sempre più necessari dalla competizione globale) non sortiscono gli effetti sperati, anche perché: 1. gli operai dei paesi occidentali non possono essere pagati come quelli dei paesi che iniziano adesso a industrializzarsi; 2. se, in forza dell’innovazione tecnologica, vi sono meno operai che producono e che quindi acquistano meno merci, queste rischiano di restare invendute.

La conseguenza inevitabile è, paradossalmente, che quanto più si rinnova il capitale fisso, tanto più si rischia la sovrapproduzione. Alla faccia della cosiddetta “qualità totale”. Se non fosse crollato il socialismo reale, sarebbe crollato il capitalismo, ovvero sarebbe scoppiata una nuova guerra mondiale per ripristinare le regole dell’imperialismo delle due guerre precedenti.

Tuttavia è impossibile, in presenza di una competizione mondiale, non innovare il macchinario. Se il capitale non si autovalorizza costantemente, s’impoverisce: non riesce a rimanere invariato, proprio perché esiste competizione. L’alternativa, se non si vuole delocalizzare l’impresa, è quella di chiuderla, investendo finanziariamente i propri capitali.

Volendo crescere a tutti i costi, il capitale preferisce il settore finanziario, che è meno esposto ai rischi della competizione, meno stressato dall’esigenze di rinnovare gli impianti e di collocare le merci, di contrattare con la forza-lavoro. Nei paesi avanzati la ricchezza tende a smaterializzarsi completamente.

I paesi che una volta definivamo del “Terzo Mondo” ci stanno facendo capire, a nostre spese, che, sotto il capitalismo, la capacità di fare profitto non dipende affatto dal grado di perfezione delle macchine. Quando gli imprenditori occidentali dicono che, per competere sulla scena mondiale, dobbiamo produrre cose di più alta qualità, lo dicono solo perché in questa maniera possono ricattare i loro lavoratori, ma essi sanno bene che lo sviluppo ineguale del capitalismo permette loro di ottenere più alti profitti anche con macchinari obsoleti, a condizione che la manodopera sia molto meno costosa.

Al capitale interessa vendere, non tanto produrre cose di alta qualità, e per vendere ci vogliono ampi mercati. Quelli occidentali sono mercati saturi, anche se con la pubblicità si fa di tutto per indurre l’acquirente a cambiare elettrodomestici, mezzi di trasporto e mezzi di comunicazione con molta frequenza.

Quando si delocalizza in un paese che fino a ieri era povero perché colonizzato o perché comunista, dove i salari mensili sono, rispetto ai nostri, incredibilmente bassi, non ha senso produrre cose di alta qualità, che nessuno, peraltro, sarebbe in grado di acquistare. E’ sufficiente produrre cose di media qualità, alla portata di un mercato significativo, che escluda soprattutto il rischio della sovrapproduzione, vera bestia nera del capitale.

E’ noto che l’imprenditore usa la macchina contro l’operaio, per poter avere meno operai possibili, ma poi la macchina si rivolta contro lo stesso imprenditore, poiché lo obbliga a vendere più di quanto vendeva prima. Per poter sopravvivere sfruttandola al massimo, il capitalista deve porre condizioni ricattatorie ai propri operai o minacciare di delocalizzare gli impianti in aree geografiche dove sicuramente non avrebbe problemi sindacali con la manodopera, anzi, avrebbe incentivi fiscali da parte degli Stati che vogliono modernizzarsi in senso borghese.

In occidente il capitalismo è destinato a morire, a meno che i lavoratori non vengano ridotti in schiavitù (pur conservando le formali libertà giuridiche), non venga smantellato lo Stato sociale (e quindi privatizzata la scuola, la sanità, la previdenza ecc.) e non vi sia concorrenza tra imprenditori. Tutte condizioni che non hanno senso sotto il capitalismo cosiddetto “avanzato”, che è quello delle società uscite dalla seconda guerra mondiale.

Condizioni del genere potrebbero verificarsi se invece di società “democratiche” avessimo società “autoritarie”, dittatoriali, che facessero esclusivamente gli interessi degli imprenditori, i quali non avrebbero bisogno di competere tra loro, in quanto sarebbero protetti dalle istituzioni. Ma uno Stato del genere non può esistere in un paese occidentale (Europa, Usa, Canada…), dove una qualunque istituzione viene sempre vista in funzione dell’interesse privato dell’imprenditore.

Da noi gli Stati sono in funzione dei singoli imprenditori privati, materialmente (nel senso che ricevono benefit da parte degli Stati) e anche come logica di sistema (nel senso che lo Stato, pur vigendo l’idea formale dell’equidistanza delle istituzioni rispetto agli interessi in gioco, non si pone mai contro gli imprenditori). Sono semmai i lavoratori che cercano di strappare diritti sia allo Stato che all’imprenditoria privata.

Il capitalismo euroamericano deve per forza lasciare il testimone ad altre nazioni, dove la politica abbia un peso maggiore rispetto a quello che ha da noi, e dove l’economia produttiva abbia la sua ragion d’essere e la ricchezza non sia solo finanziaria.

I grandi Stati in grado di ereditare il testimone sono la Russia, per l’enorme quantità delle sue risorse, la Cina e l’India, per l’enorme quantità di manodopera disponibile a basso costo. Di questi Stati l’unico in grado di ereditare velocemente la formale democrazia borghese è la Russia, che ha radici cristiane e che già nel passato si lasciava influenzare dalla cultura europea.

Il problema è che la Russia ha un territorio assolutamente sproporzionato rispetto all’entità della propria popolazione. Quindi inevitabilmente il futuro, nell’ambito del capitalismo, non è russo ma cinese: sarà la Cina ad appropriarsi delle immense ricchezze della Siberia. Solo che la Cina deve ancora imparare l’abc della democrazia formale borghese. Anzi, sotto questo aspetto, tra i paesi asiatici è molto più avanti l’India, che però ancora non ha risolto il problema delle caste e che resta ancora troppo “religiosa” per poter diventare pienamente “borghese”.

Il capitalismo, così com’è, può solo peggiorare, può soltanto trasformarsi in una dittatura poliziesca, in cui il ruolo di un partito di governo molto disciplinato, di uno Stato centralizzato, di un numero spropositato di militari, di un vasto consenso sociale faccia la differenza tra un vecchio Stato capitalista e uno nuovo. Difficile pensare che un ruolo del genere possa essere giocato, nei secoli a venire, dall’Europa, dalla Russia o dagli Stati Uniti. Nessuno di loro possiede tutte queste cose messe insieme.

L’alternativa a tutto ciò è la costruzione di una nuova civiltà, che potrebbe mettere radici adesso, ipotizzando il proprio sviluppo nell’arco dei prossimi cinquecento anni. Una civiltà che anzitutto deve superare il concetto di “macchinismo”. L’uomo infatti nasce “artigiano” non “operaio”, anche perché se la macchina lavora per lui, lui perde interesse al lavoro, anche nel caso in cui la macchina sia di sua proprietà.

L’operaio non è “alienato” solo perché il suo lavoro è “separato” dai suoi mezzi di produzione e quindi dai beni che produce, che giuridicamente non gli appartengono, ma è “alienato” anche perché ha a che fare con una macchina che lo disumanizza, che rende il lavoro monotono e ripetitivo.

Un qualunque oggetto prodotto deve poter essere ristrutturato per scopi diversi. Oggi questo è impossibile. Gli oggetti sono così complessi che per essere riutilizzati vanno prima completamente smontati, dopodiché si riutilizzano pochissimi singoli pezzi per lo stesso scopo per cui erano nati. Di un’auto si fa un cubo pressato: non la si manda neppure in fonderia per recuperare il metallo usato. Spesso non conviene neppure disassemblare, in quanto il costo del lavoro è superiore al valore dei pezzi da riciclare.

Oggi, quando un oggetto non serve più (si pensi p.es. a una semplice penna a sfera), perché usato da molto tempo, perché ha finito il suo ciclo produttivo, perché superato dal progresso, perché non più funzionante come all’inizio, ecc., noi non cerchiamo di ripararlo, di sostituire quel pezzo che gli permette ancora all’oggetto di funzionare, ma semplicemente lo buttiamo, inquinando irreparabilmente l’ambiente. Così ci è stato insegnato: noi anzitutto dobbiamo essere “consumatori”. Un qualunque elettrodomestico non può durare più di dieci anni: lo sappiamo sin dal momento in cui lo acquistiamo.

La nostra civiltà della produzione illimitata di oggetti tecnologici sta diventando un’enorme civiltà di rifiuti, i cui costi di smaltimento o di riciclaggio sono superiori al loro stesso valore.

Ecco perché una civiltà davvero democratica dovrà limitarsi a produrre soltanto quegli oggetti che abbiamo un impatto minimo, irrisorio, sulla natura. La trasformazione delle risorse naturali ha un limite oltre il quale non è possibile andare, ed è appunto quello della riproducibilità della stessa natura, che va garantita sopra ogni cosa.

Senza inversione di rotta ci attende solo la desertificazione, anche in assenza di guerre mondiali. E in ogni caso le guerre diventano inevitabili quando nei periodi di pace non s’intravvedono i modi per risolvere i problemi sociali e ambientali. Le guerre vengono fatte proprio quando si pensa ch’esse possano costituire una soluzione estrema.

Che cos’è il benessere?

Noi non riusciamo a capire (perché condizionati da una cultura che va in direzione opposta) che il “benessere” non sta tanto nelle comodità in cui e con cui si fanno le cose, ma nella soddisfazione che si ottiene facendole.

Quando un’azione è troppo determinata dalla tecnologia, il cui uso sfugge a un nostro vero controllo (basta vedere come ci troviamo di fronte a dei guasti che, sulla base delle nostre conoscenze personali, giudichiamo irreparabili), si perde interesse a cercare soluzioni alla nostra portata.

Noi abbiamo continuamente a che fare con una tecnologia frutto di anni di studi e di applicazioni specialistiche. Ma noi, avendo soltanto una cultura generale, non siamo in grado di capire l’esatto funzionamento di ciò che usiamo.

La conoscenza specialistica ci schiaccia, vuole imporsi alla nostra creatività, ci offre l’illusione di poter quasi fare a meno di noi stessi. Pur essendo frutto di un’alta specializzazione scientifica, la moderna tecnologia sembra fatta apposta per ridurre al minimo le capacità di astrazione di chi la usa.

Diventiamo soltanto dei fruitori passivi di mezzi artificiali, e perdiamo il gusto della vita, il senso della creatività, la soddisfazione di poter risolvere problemi alla nostra portata. Proprio ciò che è nato dalla pretesa di voler diventare padroni della terra, ci sta inducendo sentimenti d’impotenza.

La tecnologia sofisticata sta riducendo la nostra capacità di pensare. E’ incredibile come non ci si sia ancora accorti di questo pericolo. Anzi, al contrario, siamo continuamente alla ricerca di mezzi sempre più perfezionati, anche a costo di sostituire quelli ancora sufficientemente funzionanti.

Questa rincorsa spasmodica agli oggetti di ultima generazione è diventata come una droga e non conosce flessioni commerciali, neppure nei periodi di crisi economica generale.

Le relazioni umane reali vengono sempre più sostituite da quelle virtuali che la moderna tecnologia è in grado di offrire. La nostra civiltà è malata. Spendiamo moltissime risorse, umane e materiali, in prodotti che invece di migliorare la nostra vita la peggiorano.

Paghiamo profumatamente gli ideatori e i creatori di tecnologia affinché si possa stare umanamente peggio. Questa è pura follia. E non siamo solo noi umani che ne paghiamo il prezzo, ma anche la natura, che non è in grado di smaltire in tempo utile dei prodotti così complessi, né noi pensiamo di riciclarli se ciò non ci conviene economicamente.

Noi pratichiamo il riutilizzo delle cose non per un sentimento ecologista, ma perché siamo costretti dalle circostanze; solo che invece di chiederci se possano esservi stili di vita alternativi, preferiamo aumentare gli oneri per lo smaltimento dei rifiuti.

Preferiamo far finta che il problema non sia grave, preferiamo pensare che una soluzione, grazie proprio alla tecnologia, in qualche modo si troverà o la troveranno le generazioni future.

Noi produciamo cose che peseranno sui destini dei nostri figli e non li lasceremo liberi di scegliere come vivere la loro vita.

In attesa del 2012. Intervista crepuscolare

- Che cosa vorresti che ti dicessero per ricominciare?
– Mi basterebbero due cose: se abbiamo davvero un’altra possibilità per rimediare ai nostri errori.
– Questo è scontato, altrimenti a che pro ricominciare?
– Il fatto è che anche sulla terra di tanto in tanto dobbiamo ricominciare, ma lo facciamo per ripetere sempre gli stessi errori del passato, magari in forme diverse.
– Sta tranquillo, la possibilità di avere una consapevolezza matura vi permetterà di fare scelte più ponderate. Ma qual è la seconda cosa?
– E’ appunto questo, che ognuno possa rendersi conto da sé, autonomamente, dei limiti insuperabili non solo della propria civiltà di appartenenza, ma anche di quelli delle civiltà che lo hanno preceduto o che sono venute dopo.
– La memoria che avrete sarà di lunghissima durata. Potrete rivedere, come su uno schermo, tutto quanto è accaduto prima e dopo la vostra civiltà, potrete fare tutti i confronti che vorrete.
– Ti dico questo perché la cosa che più m’interessa è quella di essere messo in grado di distinguere quando una civiltà è conforme ai valori umani e quando non lo è.
– Che cosa intendi di preciso per “conformità ai valori umani”? Mi pare una richiesta ovvia.
– Lo sarà per te. Io invece devo ricostruirmi come “persona umana”. Di ogni cosa per esempio ho bisogno di sapere quale possa essere l’impatto ambientale.
– Cioè vorresti far dipendere l’umanità dalla naturalità?
– Esattamente. Vorrei sapere se avrò la possibilità di stabilire un criterio generale che mi permetta di scegliere la soluzione migliore; anzi vorrei che questo criterio mi venisse offerto dalla stessa natura. E’ possibile?
– Far dipendere l’umanità dal rispetto della natura a molti può apparire limitativo.
– Mi rendo conto, ma noi dobbiamo stabilire quale civiltà, di tutte quelle storiche che si sono succedute, merita d’essere riprodotta nell’universo. Non possiamo compiere errori di cui ci pentiremmo amaramente. Abbiamo già sofferto abbastanza sul nostro pianeta.
– Non è facile poter trovare dei criteri obiettivi. Si rischia sempre la demagogia, il fanatismo.
– Allora diciamo questo: la cartina di tornasole che attesta uno squilibrio nei rapporti tra uomo e natura è offerta dal formarsi di una disuguaglianza di genere sempre più marcata. La donna viene discriminata dall’uomo, ovvero viene accettata solo se assume i criteri del maschilismo. Là dove si usa la differenza per affermare un arbitrio, una superiorità ipostatizzata di qualsivoglia natura, lì si compie una violazione non solo dell’umanità ma anche della naturalità dell’essere umano.
– E come pensi che la gente possa capire queste cose?
– Sviluppando dei princìpi naturali, il primo e più importante dei quali è la libertà di coscienza, che è la vera legge che regola l’intero universo.
– E come farai ad affermare un principio del genere quando le modalità con cui s’è cercato di viverlo sulla terra sono state diversissime?
– Secondo me c’è solo un modo: offrire la possibilità di ricostruire un ambiente analogo a quello in cui la libertà di coscienza è stata vissuta al meglio, con minori condizionamenti.
– Cioè vuoi dire che il futuro nell’universo non sarà altro che la realizzazione, su scala infinita, del meglio già ottenuto sulla terra e che col tempo s’era dimenticato o addirittura rimosso? Nel senso che se non si ricostruisce quello stesso ambiente, sarà impossibile provare di nuovo le stesse sensazioni emozioni impressioni percezioni?
– Sì, praticamente sì. I credenti parlano di “giudizio universale”, come se ci fosse qualcuno che dall’alto o dall’esterno fosse preposto a giudicare tutte le loro azioni. Invece dovrebbe esserci soltanto la possibilità di un obiettivo confronto di civiltà.
– Ho capito. E quindi da questo confronto si dovrebbe poi arrivare a compiere una scelta in tutta libertà.
– Proprio così. La libertà di coscienza dovrebbe essere considerata la prima cosa da rispettare. Nessuno può essere costretto a fare cose contro la propria volontà. Non deve scomparire il problema da risolvere, ma la percezione che non possa essere risolto a causa della volontà di qualcuno.

Per una transizione ad altro

Perché uno diventa “borghese”? Perché si dà così tanta importanza al denaro? Sembra una domanda banale, eppure se consideriamo che le antiche civiltà mediterranee, prima di entrare nella fase medievale, erano state caratterizzate per almeno duemila anni da una forte presenza di scambi commerciali, si rimane stupefatti al vedere che le tribù cosiddette “barbariche”, provenienti da est, non proseguirono affatto questo stile di vita, se non dopo altri cinquecento anni di contatto con ciò ch’era rimasto di quelle civiltà.

Soltanto verso il Mille gli ex-barbari, ora perfettamente latinizzati e cattolicizzati, cominciarono a diventare mercanti. E ci son voluti altri cinquecento anni prima che i commerci potessero diventare un sistema capitalistico vero e proprio, che viene fatto iniziare appunto nel XVI secolo. E ci sono voluti altri cinquecento anni prima che questo sistema s’imponesse in tutto il mondo, senza incontrare ostacoli insormontabili. Infatti tutti i tentativi compiuti per arginare questo fiume in piena sono clamorosamente falliti. Migliaia e migliaia di anni ci sono quindi voluti per rendere naturale una figura sociale che di naturale non ha nulla: il borghese.

Una figura che ha creato imponenti apparati statali, burocratici, giudiziari, parlamentari, polizieschi e militari per difendere il proprio esclusivo interesse, fatto passare per un “bene comune”. Una figura che ha saputo sostituire qualunque valore umano e religioso con un valore materiale avente funzione di equivalente universale: il denaro. Una figura che è stata capace di far passare per “democratico” uno stile di vita basato sullo sfruttamento del lavoro altrui.

Com’è stato possibile che una figura del genere, che ha letteralmente sconvolto i rapporti umani e naturali, trasformando ogni cosa in una sorta di compravendita, non abbia incontrato, sul suo cammino, un’opposizione che la obbligasse a invertire la marcia? Che cosa ha reso gli uomini così ciechi da non far accorgere loro che anche il più piccolo cedimento nei confronti di questa mentalità avrebbe avuto conseguenze letali per la loro stessa sopravvivenza?

Lo schiavismo romano venne abbattuto da forze che provenivano, seppur in forma disgregata, da ambienti clanico-tribali. Ma dov’è oggi la forza in grado di abbattere lo schiavismo salariato? La mentalità borghese ha fatto così breccia nell’umanità che persino l’ideologia che per prima chiese l’abolizione della proprietà privata, e cioè il socialismo, non è riuscita a restare coerente con se stessa. Per quale motivo qualunque azione venga compiuta contro il capitale finisce col tradire i presupposti di partenza?

Qui le ragioni sono due:

– la prima è che manca ancora una vera alternativa laica e umanistica al cristianesimo;
– la seconda è che manca ancora una definizione autenticamente “democratica” del socialismo.

L’affronto di questi due aspetti o procede in maniera parallela, oppure rischia di non approdare a nulla di davvero significativo per una transizione ad altro. Ma se è così, le premesse per affrontarli non possono che essere due:

– sviluppare al massimo la libertà di coscienza;
– garantire al massimo la gestione collettiva delle risorse di un determinato territorio.

Se non si è padroni del proprio territorio, non si è padroni della propria coscienza. Se non si usa la propria coscienza per impadronirsi del proprio territorio, non si è padroni di nulla.

Memoria e Natura

La memoria di cui abbiamo veramente bisogno non può riguardare solo la nostra attuale dimensione terrena. Noi siamo figli dell’universo e dobbiamo avere una “memoria universale”, che ci permetta di vivere umanamente in ogni luogo dell’universo.

In tal senso la memoria deve per forza andare al di là delle sue forme storiche, perché tutta la storia del genere umano possa ricordare quel che ha perduto e perché possa desiderare di ritrovarlo.

Il punto è: ci potrà ancora essere “storia”, cioè “movimento”, quando avremo ritrovato quel che si è perduto? Oppure il cammino, per poterlo ritrovare, non avrà mai fine?

Noi non abbiamo bisogno di distruggere per esistere, non abbiamo bisogno di odiarci per poter essere. Però abbiamo bisogno di problemi da risolvere, di contraddizioni da superare. La frustrazione ci è cara, anche se le comodità che andiamo a ricercare ci tolgono il gusto della vittoria, la soddisfazione personale di aver trovato una soluzione al problema.

Oggi per noi storia vuol dire “non aver pace”. I problemi ci angosciano, temiamo di perdere il benessere raggiunto, desideriamo averlo a tutti i costi per non essere schiacciati dall’egoismo altrui. Noi siamo costantemente insoddisfatti di quel che non siamo, perché quel che siamo ci appare come il “non essere”.

Dal non essere dobbiamo, anzi vogliamo passare all’essere, senza però sapere quale sia. Dovremmo farlo rispettando le libertà altrui, senza violare l’essere altrui, ma questo, nelle società e civiltà antagonistiche, non è mai stato fatto. La ricerca dell’identità è sempre avvenuta schiacciando le identità altrui.

Sappiamo solo una cosa, che il tempo è illimitato e che la materia è soggetta a continua trasformazione. Siamo terreni ma destinati all’universo. La memoria delle cose terrene deve diventare “memoria universale”, cioè ricordo dell’intero genere umano, che vuole essere se stesso.

Quindi di tutta la memoria storica sarà meglio per noi conservare quello che serve al nostro essere. Su questa terra dobbiamo scoprire qual è la memoria da ricordare, il desiderio da desiderare, l’esperienza da vivere nell’infinità del tempo.

Noi dobbiamo diventare quel che siamo veramente, perché abbiamo smesso di esserlo, e nonostante gli altissimi prezzi che di volta in volta abbiamo pagato, la nostra dimenticanza va aumentando. Noi non siamo più capaci di tornare ad essere noi stessi con le sole nostre forze.

Questo perché non lasciamo che sia la natura, con le sue leggi, a determinarci. Per noi la natura è solo una risorsa da sfruttare il più possibile, senz’altra preoccupazione.

La natura ha una memoria superiore alla nostra, ha delle leggi non scritte che risalgono alla nascita dell’universo o, quanto meno, del nostro sistema solare. Queste leggi si sono tramandate senza il concorso dell’uomo.

Il conflitto tra le nostre leggi e quelle della natura è inconciliabile. Se la natura vuole sopravvivere, non avrà molta scelta: dovrà liberarsi di noi, anche a costo di rendere se stessa invivibile, come nei deserti o nei ghiacciai.

Noi dobbiamo valorizzare gli esseri umani naturali, quelli che si oppongono al concetto di “civiltà” e che, allo stesso tempo, non fanno della natura un nuovo dio da adorare.

La felicità yankee

Si ha diritto alla felicità? Chi può averne diritto? Perché oggi la felicità rientra nelle utopie irrealizzabili? Che cos’è la felicità?

Il diritto alla felicità venne messo nella Costituzione dagli americani che, ribellandosi alla madrepatria inglese, costruirono gli Stati Uniti. Mentre rivendicavano quel sacrosanto diritto, lo negavano agli indiani, sottoposti a genocidio, e agli schiavi africani, che nelle terre dei farmers coltivavano tabacco e cotone da esportare in Europa.

E’ bello avere “diritto alla felicità” (gli yankee, per realizzarlo, ci hanno edificato sopra quella fabbrica di sogni chiamata Hollywood), ma se alla seconda domanda non si risponde “tutti”, quel diritto diventa una farsa.

Per gli americani il diritto alla felicità era il diritto di farsi da sé (self-made man), calvinisticamente parlando, cioè senza tanti scrupoli, sulla base dell’assunto che senza soldi non c’è nessun diritto e quindi nessuna felicità. Sono i dollari che fanno felici, perché senza quelli non si può comprare nulla, non si può esistere, specie in un paese conflittuale e competitivo come quello. In America si è nella misura in cui si ha.

Questo principio è così forte che gli americani non amano risparmiare ma investire, e lo fanno anche quando non hanno sufficienti capitali. S’indebitano nella convinzione assoluta si riuscire a realizzare i loro sogni. Vivono al di sopra delle loro possibilità, perché sin da bambini hanno appreso la lezione dai loro maestri e dai loro genitori, continuamente confermata da psicologi filosofi politici economisti, persino dai dirigenti sportivi: “devi aver fiducia nelle tue capacità e nella grandezza e potenza della tua nazione, che è la più importante del mondo”.

Chi ha voluto speculare su questa cieca fiducia nel progresso, su questa autoipnosi collettiva (banche, istituti finanziari, assicurazioni…), ha fatto indebitare gli americani fino al collo, mettendoli sul lastrico. I grandi colossi dell’economia e della finanza non hanno mantenuto le loro promesse di felicità: hanno delocalizzato le imprese là dove il costo del lavoro è molto più basso che in patria, hanno speculato in borsa facendo pagare i crack finanziari agli investitori, hanno emesso dei titoli finanziari che non valevano nulla perché basati sul debito altrui, hanno falsamente garantito, pur di attirare capitali stranieri, alti tassi di rendimento sui prestiti finanziari…

Oggi gli Usa sono il paese più indebitato del mondo e se non avessero un altro paese, chiamato Cina (fino a ieri odiatissimo), che sostiene il loro debito pubblico, a quest’ora avrebbero già dichiarato bancarotta, trascinando nel loro vortice di debiti mezzo mondo, con conseguenze a dir poco catastrofiche, anche perché gli americani non sopportano che qualcuno faccia loro aprire gli occhi.

Già oggi, per colpa dei loro sogni fanciulleschi, l’economia del pianeta vacilla paurosamente, e tutti vengono costretti a contribuire a non far esplodere questa bolla di sapone, che si libra nell’aria, riflettendo i colori del sole, e che ci piace guardare con gli occhi spalancati di un bambino.

Debellare un virus mortale

Quando si parla di “comunismo superiore” – come fa p.es. la rivista “n+1″ nei numeri 27 e 28/2010), sarebbe meglio rinunciare all’idea che la “superiorità”, rispetto al “comunismo primitivo”, stia nella nostra scienza e tecnica.

Quando si affermerà il futuro comunismo, non avrà nulla dell’attuale sistema capitalistico, proprio perché di questo sistema non vi è nulla di umano e di naturale. La “superiorità” sarà solo a livello di coscienza, in quanto gli uomini saranno del tutto consapevoli dei limiti delle civiltà antagonistiche precedenti.

Quanto alle forme, esse non saranno molto diverse da quelle del comunismo primitivo, proprio perché solo quest’ultimo ha saputo rispettare integralmente la natura.

Perché una società possa dirsi davvero democratica, occorre che la sua scomparsa non lasci alcuna traccia a livello ambientale. L’uomo è ospite della natura, non è il suo padrone, non può fare quello che vuole in casa altrui. Meno fa e più rispetta le regole dell’ospitalità.

I doni che la natura offre all’uomo non devono farci pensare che siano dovuti. Sono doni offerti gratuitamente: si tratta soltanto di gestirli con parsimonia e oculatezza.

La natura non è un magazzino di risorse pienamente disponibili in forme illimitate, la cui porta può essere aperta e chiusa a nostra discrezione. La natura non è un oggetto di cui si può fare quel che si vuole. E’ un organismo vivente, che produce esseri viventi, tra cui noi stessi.

L’unica differenza tra gli esseri viventi è che l’uomo è in grado di influire così tanto sui processi naturali da rendere impossibile la loro riproduzione. Non c’è nessun animale e neppure alcun fenomeno naturale (glaciazione, eruzione vulcanica, terremoto…) che abbia la capacità di questa irreversibilità.

L’uomo delle civiltà artificiali è un virus che distrugge il sistema, è l’unico elemento patogeno che alla fine arriva a distruggere persino se stesso. Non è solo un parassita che sfrutta risorse altrui, come può essere una zecca o un tafano, ma è come un’anofele, che mentre succhia sangue, uccide di malaria. Quando ha finito di uccidere tutti in un determinato luogo, si sposta in un altro, nella convinzione che le risorse siano infinite.

Un mostro di questo genere non può essere fermato con le buone parole, anche se possiamo usare lo strumento del linguaggio per ingannarlo. Occorre la violenza organizzata dei sopravvissuti.

La resistenza armata deve essere collettiva, perché solo in questa maniera si potrà rinunciare alla violenza quando l’obiettivo sarà stato raggiunto.

Bisogna creare le condizioni – e questo è ancora più difficile che debellare il virus – perché, nel corso della lotta armata, non nascano pretesti per inoculare nuovi virus nella popolazione. Che è appunto quel che venne fatto nel passaggio dal leninismo allo stalinismo.

Quale dopo Berlusconi? Scenari ipotetici

Berlusconi ha forse inaugurato un modo nuovo di fare politica? No, perché pur provenendo dal mondo imprenditoriale, non ha dimostrato di essere migliore dei politici di professione. Lui è frutto di una politica corrotta (quella social-democristiana) e in questi suoi anni di governo non ha fatto altro che ampliare la corruzione a tutti i livelli.

Ha cercato anzitutto di svuotare di significato le istituzioni repubblicane (proseguendo sulla scia presidenzialista inaugurata da Cossiga e sposando un tema federalista caro alla Lega), ovvero ha cercato d’imporre uno stile autoritario di governo (che la Lega ha accettato solo perché le permetteva di andare al potere, pensando in tal modo di realizzare meglio l’obiettivo del federalismo).

Grazie al suo carisma personale ha potuto far passare questo stile come un’alternativa necessaria all’incapacità che ha il parlamento di risolvere i problemi della gente comune. Ha concentrato su di sé non solo il consenso delle generazioni che, pur essendo cresciute sotto il fascismo, ne sentono ancora la mancanza, ma anche i favori di quei ceti sociali antistatalisti che vogliono evadere il fisco, raggirare le leggi, eliminare lo Stato sociale (oppure servirsene a proprio esclusivo vantaggio).

Ha inoltre ottenuto il plauso di quegli ingenui che pensano di poter diventare come lui partendo dal nulla, nonché l’appoggio di quei politici e cittadini triviali, che fanno dell’egoismo, del razzismo, del maschilismo e della volgarità il loro modus vivendi.

Può un uomo così avere dei seguaci, degli imitatori, dei successori? No, non può, perché è difficile avere il suo carisma. Quest’uomo sa parlare benissimo alle masse, ha una memoria eccezionale, è spiritoso, sa essere autoritario senza trascendere, non si fa impressionare dalle minacce, anzi sfrutta gli attentati come forma di propaganda, non si vergogna mai di nulla, è in grado di ribaltare la frittata come e quando vuole, facendo sembrare, come i gesuiti, bianco il nero e viceversa, venderebbe ghiaccio agli esquimesi, si vanta di essere un playboy anche di fronte ai cattolici, ha protestantizzato la politica stessa dei cattolici, sdogandola da riserve di tipo etico (tant’è che Cielle stravede per lui). Ha capito per la prima volta in assoluto che la politica non si fa in parlamento e, in un certo senso, neppure sulle piazze, se non c’è la televisione che lo riprende da vicino, e ha soprattutto convinto gli italiani che se avesse avuto più poteri avrebbe potuto fare cose straordinarie.

Un uomo così, che il mondo industrializzato comincia già a considerare come un modello da imitare, che tipo di eredità può lasciare al nostro paese? Considerando cioè che il governo che gli subentrerà non potrà impedire né il dissesto economico che incombe sul nostro paese (in quanto se Tremonti ha voluto salvare le sole banche, queste non stanno salvando le nostre aziende), né quindi l’acuirsi delle tensioni sociali, a causa della crescente disoccupazione e dell’immane precariato, così tipico del nostro paese, a causa soprattutto del fatto che tantissime aziende sono in bilico se chiudere o lasciarsi inglobare dalle più grosse, le quali peraltro sono sempre lì lì per delocalizzare, considerando dunque tutto questo, che tipo di governo ci vorrà per affrontare la prossima, inevitabile, drammatica situazione, che nel nostro paese avremmo avuto anche a prescindere dal crollo americano?

Qui gli scenari possibili sono solo tre.

Scenario n. 1: la Lega vuole il federalismo a tutti i costi. Pur di averlo, indurrà il centro-nord a staccarsi dal centro-sud, e qui è facile pensare che avremo un replay o della situazione jugoslava (molto dolorosa) o di quella cecoslovacca (molto pacifica). In una soluzione del genere il Sud, paradossalmente e inaspettatamente, potrebbe approfittarne per staccarsi dal fardello del Nord, che gli impedisce di svilupparsi.

Scenario n. 2: per ottenere un federalismo senza minare l’unità nazionale, si realizzerà un forte presidenzialismo all’americana, con aspirazioni di tipo militaristico. In questa soluzione chi ci rimetterà sarà soprattutto il Mezzogiorno e, in genere, tutti i cittadini nazionali, che si troveranno a pagare le tasse due volte: per il centro e per la periferia. Saranno però favoriti i ceti imprenditoriali più significativi (specie quelli bancari e le grandi imprese), del Nord e del Sud, ivi inclusa la criminalità organizzata.

Scenario n. 3: la sinistra si convince che l’esigenza del federalismo è giusta. E’ disposta a diminuire progressivamente i poteri delle istituzioni centrali e, per far fronte al dissesto economico-finanziario che incombe, favorisce in tutti i modi la lotta contro la dipendenza dai mercati e dalle borse mondiali, promuove cioè tutte quelle realtà locali capaci di valorizzare le risorse del territorio.

La storia, che è maestra di vita, in quanto le cose si ripetono, ovviamente in forme e modi diversi, non prevede altri scenari. E’ troppo presto infatti per ipotizzare una situazione in cui l’Unione Europea fa scomparire il concetto di “nazione”, abolisce i parlamenti nazionali e impone un governo di tipo “continentale”. Prima che si possa realizzare questo, bisogna che il federalismo abbia radicato l’illusione di un’effettiva autonomia locale.

In ogni caso è auspicabile che, qualunque sia lo scenario, gli italiani comincino a sostituire il culto della famiglia e del clan con quello della società civile.

Qual è il vero significato del lavoro?

Cosa vuol dire “lavorare”? Un commerciante che acquista un prodotto da un agricoltore e lo rivende sul mercato, è un “lavoratore”? Se l’acquirente andasse direttamente dal produttore, sentiremmo la mancanza di un “rivenditore”?

Nel Medioevo consideravano i mercanti degli imbroglioni, di cui sicuramente era meglio non fidarsi: si sapeva infatti che speculavano di molto su quanto vendevano, approfittando del fatto che l’acquirente non poteva conoscere il prezzo d’origine della merce, quello che lo stesso mercante, andando in oriente, aveva pagato per ottenerla.

Lavorare infatti non può significare “rivendere”, a meno che chi compra non ne abbia una necessità vitale. Non a caso nel Medioevo vigeva il baratto: lo scambio delle cose presupponeva che entrambe le parti conoscessero il tempo e i mezzi impiegati per produrle, la fatica occorsa ecc. Si barattavano cose reciprocamente prodotte o trasformate. La moneta, negli scambi, veniva usata dalle persone facoltose e solo per merci rare e preziose.

Il mercante ovviamente si giustificava dicendo che il suo era un “lavoro” importante, in quanto doveva viaggiare molto, avere molte conoscenze, rischiare beni personali ecc.

Tuttavia era anche una sua scelta: nessuno ve lo obbligava. In campagna le unità produttive erano del tutto autosufficienti, e chiunque avrebbe potuto pensare che quando un contadino si trasformava in mercante, lo faceva perché detestava il servaggio o perché voleva arricchirsi a spese altrui.

Nel Medioevo i lavori fondamentali erano quelli agricoli e artigianali; persino la caccia e la pesca e la raccolta di radici bacche erbe miele selvatico, ch’era il lavoro fondamentale nel Paleolitico, venivano praticate nei tempi morti dell’agricoltura o, la sola caccia, dai “signori” come passatempo.

Nel Medioevo il lavoro era contrapposto all’ozio dei possidenti terrieri, come il servaggio alla rendita. Gli agrari vivevano approfittando del fatto che i loro avi, in un lontano passato, avevano usato la forza militare per impadronirsi di determinati territori: era la terra il simbolo della ricchezza. Soltanto dopo aver conquistato questi territori, costruirono le mitologie delle ascendenze aristocratiche, elaborarono la legge del maggiorasco ecc., proprio allo scopo d’impedire che i patrimoni si frantumassero o finissero in mani sbagliate.

La borghesia mercantile nacque per reagire proprio a una situazione bloccata, in cui era praticamente impossibile arricchirsi seguendo le vie legali. O si restava servi della gleba tutta la vita o si doveva cercare fortuna in maniera non convenzionale (a meno che uno non accettasse la carriera ecclesiastica). E quando la fortuna, coi commerci, veniva fatta, il borghese doveva poi convincere il contadino a lavorare per lui, non come contadino, ovviamente, ma come artigiano, o meglio, come operaio salariato. E a quel tempo il modo più veloce d’arricchirsi, con un’impresa produttiva, era quello di dedicarsi al tessile.

Quando il contadino scinde il suo lavoro in due mansioni diverse, agricola e artigianale, può anche nascere la città: qui infatti possono trasferirsi gli operai che servono alla borghesia per arricchirsi (possono abbandonare il feudo e respirare l’aria “libera” della città).

Gli stessi artigiani possono diventare imprenditori di loro stessi, con alle dipendenze molti garzoni o apprendisti o lavoranti che non hanno mezzi sufficienti per mettersi in proprio. Gli artigiani fanno presto ad arricchirsi e a diventare una casta, specie quando il frutto del lavoro dipende da conoscenze specializzate, che pochi possono avere.

L’edificazione di una città non comportava la libertà per tutti ma solo l’illusione d’averla: di fatto era libero solo chi disponeva già di capitali e voleva aumentarli, oppure disponeva di terre i cui prodotti voleva cominciare a vendere proprio per soddisfare una domanda proveniente dalle città (p.es. la lana, che comportò la trasformazione di molti agricoltori in pochi e semplici pastori).

Naturalmente non mancava chi andava in città sperando di emanciparsi dalla condizione servile del passato, propria o dei propri parenti. E per riuscirvi aveva bisogno di dar fondo a tutte le proprie risorse, intellettuali, comportamentali, comunicative, psicologiche… Si trattava soprattutto di modificare la propria passata mentalità.

Il borghese infatti rappresenta la persona astuta, senza tanti scrupoli, in grado facilmente di simulare e dissimulare, sostanzialmente atea, anche se formalmente religiosa, attaccatissima al denaro e disposta a vendere l’anima pur di accumularne il più possibile. Non si diventa borghesi accontentandosi del poco o restando sottomessi, né affidandosi al caso o alla fortuna, né sperando nella benevolenza dei potenti.

Il borghese è un individualista per definizione, che si vanta d’essersi fatto da solo, e non accumula solo per avere il potere economico, ma anche per quello politico.

Il borghese deve arrivare alla convinzione che la ricchezza è unicamente dipesa dalle proprie capacità e deve trasmettere questa convinzione al pubblico, illudendolo che la ricchezza in generale è alla portata di chiunque.

Esiste solo uno stile di vita peggiore di quello borghese, e ne abbiamo avuto un assaggio con lo stalinismo. E’ lo stile di vita dell’intellettuale di partito e del funzionario di Stato, che si costituisce come casta privilegiata, sfruttando il lavoro di tutti. Attraverso lo strumento dell’ideologia e dello Stato (e quindi non del vile denaro), il partito diventa una sorta di sfruttatore collettivo.

Oggi, in forza di queste sconfitte storiche del capitalismo e del socialismo amministrato, possiamo dire che il lavoro può acquisire un carattere democratico solo se chi lo compie ha la percezione della sua utilità sociale e la convinzione che questa utilità gli viene riconosciuta e la certezza di non essere soggetto ad alcuna forma di sfruttamento.

L’ideologia borghese del lavoro

Nata col sorgere dei Comuni italiani e sviluppatasi con la Riforma protestante e con la rivoluzione industriale, l’ideologia borghese del lavoro è servita sostanzialmente a due cose:

  1. a togliere al passato pre-borghese qualunque giustificazione, qualunque pretesa, nel senso che il passato merita d’essere ricordato solo nella misura in cui si pone come nostra prefigurazione. Anche quando s’incontrano, in talune civiltà, manufatti altamente sofisticati, prodotti in condizioni di lavoro assolutamente imparagonabili rispetto alle nostre, nessun borghese si sogna di ritenere che noi non si sappia riprodurre quegli stessi manufatti, e di farli anzi anche meglio. Noi possediamo una scienza e una tecnica con cui pensiamo di poter fare ciò che vogliamo;
  2. a considerare priva di significato una qualunque operazione mentale non strettamente inerente a un processo produttivo. Cioè una qualunque attività politica o culturale che non possa in qualche modo rivelarsi utile all’incremento della produzione e quindi del profitto, viene semplicemente equiparata a una perdita di tempo.

Il materialismo economico, per quanto mistificato possa essere dall’ideologia dei diritti umani (ivi inclusi i valori religiosi) e da quella, ad essa correlata, della democrazia parlamentare, resta il criterio fondamentale della prassi borghese. Storicamente la borghesia è riuscita a fare del lavoro un idolo, soltanto per superare le posizioni di rendita delle classi nobiliari, ma, poiché il lavoro che propagandava era soltanto il diritto di sfruttare il lavoro altrui, la borghesia non ha fatto altro che usare il lavoro come strumento ideologico per sostituire il dio cristiano con un nuovo idolo: il capitale, che si autoincrementa grazie al profitto (mentre nel Medioevo la credenza nel dio cattolico veniva incrementata da scomuniche, crociate e persecuzioni d’ogni genere).

Il materialismo economico borghese è dunque una forma di ateismo volgare, che di “scientifico” non ha e non può avere nulla, avendo la borghesia bisogno anche della religione per imbonire le masse superstiziose e clericali.

Qualunque interpretazione si voglia dare al concetto di lavoro, non si deve mai mettere in discussione – di questo sistema – la necessità dello sfruttamento. Dunque non il proprio lavoro ma il lavoro altrui serve per arricchirsi. Il lavoro non è anzitutto il modo per sostenersi e riprodursi, ma è lo strumento per esercitare in forma arbitraria il proprio individualismo.

Prima della società borghese, per poter vivere di rendita, bastava essere proprietari di terre, aver avuto dei trascorsi militari, con cui s’era riusciti a strappare delle proprietà immobiliari al “nemico” di turno.

Viceversa, vivere di rendita, con la nascita della società borghese, poteva voler dire soltanto una cosa: utilizzare i capitali ottenuti dal commercio allestendo delle imprese produttive, in cui la proprietà dei mezzi lavorativi fosse tenuta rigorosamente separata dall’uso della forza-lavoro degli operai salariati.

Oggi vivere di rendita vuol dire offrire credito finanziario a quelle imprese che in taluni paesi del Terzo Mondo, cercano di arrivare ai nostri stessi livelli, sfruttando enormemente il lavoro dei propri operai e devastando i propri ambienti naturali. Cosa che però, se si escludono pochi casi, sembra non avere molto successo, proprio perché il capitalismo non è solo una tecnica produttiva disumana, ma anche una forma mentis del tutto innaturale, che distrugge le relazioni sociali, per l’acquisizione della quale occorre il suo tempo.

Nella propria ideologia del lavoro, la borghesia non ha mai preso le difese né dei contadini, che anzi ha voluto trasformare in “schiavi salariati”, né degli artigiani, le cui corporazioni ha voluto far chiudere in nome della libertà d’impresa e d’iniziativa individuale. Eppure contadini e artigiani erano la stragrande maggioranza dei lavoratori durante il Medioevo.

In nome del lavoro la borghesia non ha mai chiesto di democratizzare i rapporti di sfruttamento rurali e, quando lo ha chiesto, è stato solo per far diventare “borghesi” gli stessi contadini o agrari che ne avessero avuto mezzi e capacità.

La borghesia è riuscita a convincere il mondo intero ch’essa era l’unica classe veramente produttiva, quando in realtà il suo unico scopo era quello di potersi sostituire all’aristocrazia partendo da una condizione svantaggiata, quella di chi non possiede la proprietà della terra.

Sicché oggi è divenuta dominante una concezione di “lavoro” che di “umano” non ha assolutamente nulla, proprio perché le fondamenta su cui poggia sono le stesse di quelle dell’aristocrazia di ieri, e cioè lo sfruttamento di chi non ha altri mezzi di sostentamento che la propria forza-lavoro. L’unica differenza è stata che, per vincere il monopolio della terra, la borghesia ha dovuto fare affidamento ai capitali e alla rivoluzione tecnologica, servendosi peraltro proprio di quel culto astratto della persona umana predicato dal cristianesimo, specie nella sua versione protestantica.

L’altra ovvia differenza sta nel fatto che l’accumulo di capitali, a differenza di quello delle derrate alimentari, non può incontrare alcuno ostacolo materiale, essendo il denaro il valore equivalente di ogni altra merce.

Oggi, se vogliamo reimpostare il concetto di “lavoro”, dobbiamo partire dal presupposto che non possono essere dei parametri meramente economici a dargli un senso qualificante. Quando la borghesia parla di “valore delle cose”, intende sempre qualcosa di quantitativo che va calcolato. La stessa parola “economia”, per la borghesia, implica qualcosa di meramente matematico, statistico, finanziario…

Quando nella parola “economia” vengono inclusi gli aspetti “sociali”, questi sono visti soltanto come un costo, un onere dovuto alla resistenza che i lavoratori pongono nei confronti dello sfruttamento.

Una qualunque ridefinizione del concetto di “lavoro” oggi va vista nella prospettiva di dare al sociale un primato sull’economico (anche per uscire dall’insopportabile cinismo che equipara il “valore” di una cosa al suo “prezzo”), quel sociale p.es. nei cui confronti non ci si può azzardare di considerare “improduttive” o “meno produttive” talune categorie di persone (bambini, studenti, casalinghe, pensionati, anziani, disabili, malati mentali ecc.).

Peraltro, è proprio la società borghese che, pur avendo tanto osannato il lavoro, crea continuamente giganteschi apparati di persone materialmente improduttive, come i burocrati, i militari, gli intellettuali, i politici ecc., di molto superiori, numericamente, a quelle produttive in senso proprio (operai, artigiani, agricoltori, edili ecc.).

Non solo, ma se il sociale deve di nuovo contare più dell’economico, nell’ambito del sociale vi è un altro aspetto che deve avere più importanza dell’economico, ed è l’ecologico. Non esiste democrazia nel sociale senza rispetto delle esigenze riproduttive della natura. Che l’economia borghese non sia democratica, lo si vede dal disprezzo in cui tiene non solo l’essere umano, produttivo o improduttivo che sia, ma anche la natura, considerata una risorsa da sfruttare senza ritegno, fino al suo totale esaurimento.

Non c’è altro modo di superare questo concetto borghese di “lavoro” che tornare indietro. Certo non al Medioevo, in cui il lavoro era definito come “servaggio”; ma neppure all’epoca della nascita dei Comuni, poiché proprio a partire da quel momento è nata la dipendenza dell’agricoltura dalla città e la prima trasformazione del servo della gleba in operaio salariato.

Dobbiamo tornare ancora più indietro, al tempo delle società pre-schiavistiche, al Neolitico, al tempo in cui l’agricoltura e l’allevamento erano gestiti dalle comunità di villaggio. Cioè all’epoca in cui tutto era di tutti, senza proprietà privata dei mezzi produttivi, in cui dominava l’autoproduzione e l’autoconsumo. (1)

L’unica cosa che bisogna cercare di non ripetere del Neolitico – almeno per come essa si sviluppò nella cosiddetta “Mezzaluna fertile” e in altre aree geografiche che gli storici sono soliti definire col termine di “civiltà fluviali” – è l’uso strumentale delle eccedenze, cioè il fatto che, ad un certo punto, in virtù di esse, il villaggio si trasformò in città-stato, producendo tutti quegli annessi e connessi (classi privilegiate, specializzazione del lavoro, uso politico della religione, legge del valore, colonialismo ecc.) che ancora oggi caratterizzano la nostra civiltà avanzata.

Questo perché se una qualunque eccedenza rischia inevitabilmente di portare alla creazione di una società divisa in classi contrapposte, allora dobbiamo dire che l’unico modo per restare “umani” è quello di tornare al Paleolitico.

(1) E’ singolare che i paesi del Terzo Mondo, anche quando intenzionati a cercare un’alternativa al capitalismo, non riescono a vedere nelle ultime vestigia di queste civiltà pre-schiavistiche, che pur da loro sono ancora presenti, una risorsa da valorizzare e non un problema da risolvere.

Sulla cinematografia americana (IV)

Si capisce subito quando un film è americano, e non solo dagli elementi tecnici che lo compongono (sceneggiatura, recitazione, fotografia, luci, suoni, trucchi e artifici di ogni genere), ma anche da un elemento fondamentale che lo contraddistingue nettamente: esiste sempre un eroe. L’individualismo della società americana, in cui pochi riescono davvero a emergere, comporta la necessità (onde attenuare i rischi di una perenne guerra civile) di creare il mito dell’eroe, in cui tutti possono riconoscersi nella finzione del cinema. Al tempo dei Greci lo si faceva usando il teatro (l’eroe in cui il popolo s’identificava di più era Dioniso, al punto che ne faceva il dio delle feste più eversive); al tempo dei Romani si usavano i giochi circensi coi gladiatori e le belve feroci.

Quando si assiste a una proiezione filmica, si è virtualmente compagni dell’eroe proiettato, la cui violenza implicita nelle sue azioni è visibile soltanto su uno schermo, proprio perché tra l’antico mondo romano e il nostro c’è di mezzo la religione cristiana, la quale, avendo aumentato il senso di umanità, non permette di identificarsi in una violenza esplicita, reale. Nel Medioevo cristiano al massimo si facevano dei tornei cavallereschi, in cui a volte, nonostante tutte le misure di sicurezza, poteva anche scapparci il morto, ma era un’eccezione.

Assistere a un film significa trasferire su una sequenza di immagini artificiali, impalpabili, la propria frustrazione, che si trasforma in illusione, anzi spesso in auto-illusione, poiché può determinare un mutamento effettivo di carattere, di atteggiamento nelle relazioni sociali (i film di Sergio Leone, coi loro primi piani delle facce dei cow boys, fecero scuola per i bulli di quell’epoca). Nel migliore dei casi lo spettatore si limita a veder confermati gli assi ideologici su cui si regge l’intera società ed evita di assumere infantili atteggiamenti mimetico-imitativi (quelli per i quali persino un affermato attore come John Wayne non sapeva distinguere la realtà dalla fantasia; non a caso ancora oggi negli Usa si parla di “sindrome di John Wayne”, secondo cui chiunque vorrebbe farsi giustizia con la pistola).

Lo spettatore, specie se particolarmente frustrato, aspira a diventare come l’eroe proiettato, ed è appunto così che la cinematografia riproduce il tipo di società che l’ha fatta nascere, quella individualistica, in cui il singolo conta più del collettivo, con la differenza che il cinema deve far sognare di poter essere diversi da quel che si è. Sotto questo aspetto tra politica e cinema non vi è molta differenza negli Usa, proprio perché sia gli attori che i presidenti della nazione devono far “sognare” la loro utenza. Hollywood è la fabbrica dei sogni per eccellenza e il suo prodotto più clamoroso, che ebbe un incredibile successo in politica, fu l’attore Ronald Reagan. Un altro attore famoso, tuttora governatore della California, è Arnold Schwarzenegger.

Il collettivo conta così poco che persino nei film polizieschi, dove invece dovrebbe supportare materialmente l’azione dell’eroe, spesso risulta d’ostacolo: p.es. quando ritiene che i metodi usati dall’eroe siano più violenti del previsto (le figure di Rambo e Callaghan sono emblematiche in tal senso). L’eroe si difende dicendo che con una criminalità così spietata è impossibile farcela seguendo le regole: col che la cinematografia americana veicola chiaramente un messaggio propagandistico, secondo cui le istituzioni vorrebbero rispettare le regole, ma la criminalità non glielo permette.

Nei film americani esiste addirittura una netta rivalità tra i corpi che devono tutelare l’ordine pubblico (spesso p.es. s’invoca la competenza giurisdizionale), e in ogni caso, anche se l’azione di tali corpi non è di ostacolo all’azione dell’eroe, è immancabilmente tardiva per la conclusione di un determinato caso. L’istituzione viene sempre vista come un intralcio burocratico o come una superfetazione, al punto che inevitabilmente s’impone la necessità di un “giustiziere” che agisca in assoluta autonomia, salvo l’aiuto finale che media tra lui e le istituzioni, per una riconciliazione che lo riporti nei ranghi della legalità formale, apparente.

In una cinematografia del genere è irrilevante per il regista andare a cercare le motivazioni storiche che spiegano l’agire dell’eroe. A volte le motivazioni dipendono dalla semplice presenza del “male”: l’eroe è buono perché esistono i cattivi. Il male che compiono i cattivi o è inspiegabile, dovuto alla casualità, al destino, a tare congenite…, oppure è determinato dai soliti motivi esistenziali: sesso, soldi, potere, torto subìto che viene vendicato (ma quest’ultima motivazione può essere usata anche per legittimare il comportamento dell’eroe).

In una società così fortemente antagonistica la vendetta non viene mai messa in discussione come principio, come regola di vita: l’unica differenza tra “vendetta personale” e “vendetta istituzionale” è che quest’ultima è patrimonio delle forze dell’ordine o dell’eroe che viene da esse autorizzato, per vie traverse, a compierla.

La cinematografia americana (almeno quella distribuita nei circuiti internazionali), esattamente come la società ch’essa riflette, fa solo psicologia o fenomenologia, non fa storia. Non è capace o non vuole spiegare le cause del male attraverso un’analisi delle contraddizioni storiche. Il male, per essa, ha origini soggettive, non collettive, perché è questo che le ha insegnato, sin dalle origini, la cultura calvinista. Può avere anche origini collettive (di clan, come p.es. nei film dedicati alla mafia), ma anche in questo caso si tralasciano le motivazioni storiche dell’agire criminale (al massimo si fa una saga, un’epopea, non meno mitica di quella dei Nibelunghi).

I registi sono costretti a comportarsi così proprio a causa dei valori culturali della loro società, poiché, se facessero davvero un’analisi storica, dovrebbero rinunciare all’idea fumettistica dell’eroe manicheo (che salva i buoni dai cattivi), cioè dovrebbero ripensare il criterio individualistico fondamentale su cui si regge l’intera società americana, che è nata proprio sull’illusione dell’onnipotenza dell’io, quell’onnipotenza assoluta che si regge sul possesso di capitali.

L’eroe cinematografico serve per illudere che nella vita reale ce la si può fare (persino in politica è sufficiente propagandare un motto molto semplice per ottenere milioni di voti: “yes we can”). L’illusione è quella di poter superare le contraddizioni restando individualisti, proprio perché le contraddizioni non vengono percepite come storiche e oggettive, strutturali al sistema, ma come limitate nel tempo, circoscritte nello spazio.

Ogni contraddizione è risolvibile se il singolo ha fiducia in se stesso. Per questo spesso nei film americani l’eroe dice a chi vuole migliorare se stesso (un singolo, una squadra sportiva, un corpo militare) o a chi vuole imitarlo nelle sue qualità, se ci crede veramente, se crede davvero nelle proprie possibilità, e se quello risponde di sì, glielo fa ripetere più volte, come se l’eroe stesse addestrando militarmente la propria recluta, le facesse assumere una sostanza psicotropa, allucinogena, che fa aumentare il senso della propria infallibilità. Questa metodologia è rinvenibile anche nelle loro sette religiose, per non parlare di quelle strutture di marketing in cui i commerciali vengono messi in competizione tra loro, previo lavaggio psicologico del cervello, e addestrati a puntino per raggirare gli sprovveduti.

Gli americani sono come dei bambini col bazooka in mano: possono distruggere qualunque cosa se i loro desideri non si realizzano, se incontrano qualcuno che cerca di far aprire loro gli occhi, se qualcuno minaccia le loro presunte sicurezze. Non avendo il senso della storia ma solo quello dell’interesse personale (o del collettivo di appartenenza, come nel caso dei militari), mitigato da retoriche patriottarde sulla “nazione eletta”, che li fa oscillare continuamente tra orgoglioso isolazionismo e avido imperialismo, per loro è molto facile, nel volgere di pochissimo tempo, esaltare qualcuno e fargli mangiare la polvere.

L’americano si ritiene il miglior cittadino della terra, il più intelligente sul piano tecno-scientifico, il più astuto sul piano economico-finanziario, il più forte militarmente, il più democratico politicamente, il più tollerante sul piano religioso, il più aperto agli stranieri, il più capace di valorizzare l’ingegno altrui, quello che può permettersi qualunque cosa.

Nella cinematografia americana i registi devono solo fare attenzione a non esagerare con questa esibizione di onniscienza e onnipotenza, altrimenti diventa difficoltosa l’identificazione con l’eroe da parte dell’uomo comune. Anzi, più aumentano le contraddizioni della vita reale e più l’eroe va umanizzato, raffigurandolo con difetti di carattere, con un passato non proprio limpido, con debolezze o eccessi che solo alla fine del film possono venire scusati, magari perché lui stesso si è sacrificato per salvare qualcosa o qualcuno d’importante.

Si potrebbero scrivere interi libri di analisi psicologica sulla figura dell’eroe nella cinematografia americana. P.es. l’eroe di un lungometraggio è molto diverso dall’eroe stereotipato dei serial televisivi (polizieschi), che è sempre perfetto e non muore mai. E’ la differenza che passa tra un prodotto fatto a mano e uno fatto in serie. Gli americani vogliono sentirsi i primi della classe in entrambi.

L’anticapitalismo dei GAS

Dal 2004 ad oggi i cosiddetti “Gruppi di Acquisto Solidale” (GAS) sono passati da un centinaio di unità a circa ottocento, tra quelli nazionali ufficialmente recensiti, dimostrando di saper recepire in maniera efficace non solo le preoccupazioni ambientaliste dei Verdi, e quindi anzitutto la necessità di promuovere un’agricoltura biologica o comunque ecologica, ma anche le esigenze sociali di un maggior controllo del territorio, delle sue risorse, al fine di valorizzare tutte quelle opportunità che possono favorire la “democrazia diretta”, autogestita.

Risultando da tempo assodato lo stato di crisi in cui versano le istituzioni della democrazia rappresentativa (al punto che oggi c’è chi parla di “dittatura della democrazia parlamentare”), le esperienze di coinvolgimento di cittadini nelle scelte pubbliche locali, in questo caso eminentemente economiche, costituiscono un tentativo di dare una risposta strutturata, regolamentata, alla crisi della democrazia dei partiti e delle istituzioni.

Quando i Gas parlano di realizzare una concezione più umana dell’economia non pensano soltanto a riformulare un’etica del consumo critico, ma anche a ripensare i meccanismi su cui si fonda la gestione dell’economia in generale. Cosa che non riescono a fare né le istituzioni né i partiti politici, anche se l’istanza comunale è inevitabilmente quella maggiormente coinvolta in queste iniziative dal basso.

I Gas infatti non parlano soltanto di “sostenibilità ambientale”, ma anche di “decrescita”, mettendo in dubbio la necessità di aumentare a tutti i costi il prodotto interno lordo, ovvero l’ovvietà di dar maggiore spazio agli indici quantitativi, l’inevitabilità dello stress da competizione, in una parola molte delle regole su cui si regge l’attuale capitalismo. Occorre cioè cominciare a subordinare l’economico al sociale.

Queste associazioni informali di persone e famiglie comprano direttamente da produttori selezionati facendo ordinazioni collettive; per la ricerca dei prodotti migliori, la raccolta degli ordini, il ritiro della merce e la sua distribuzione ci si avvale di personale volontario. La distribuzione, p.es., avviene a basso impatto ambientale, tramite consegne multiple in aziende, condomini, sedi di associazioni e parrocchie.

I criteri di selezione dei produttori sono alquanto rigorosi:

  1. devono essere tutti locali (non solo perché così è più facile controllare la qualità della produzione, ma anche per diminuire lo spreco di energia nei trasporti);
  2. tendenzialmente sono preferibili quelli piccoli, perché è più semplice controllarne e/o orientarne la produzione e poi perché favoriscono l’occupazione (essendo la loro produzione a più alta intensità di manodopera che di capitale);
  3. il loro prodotto dev’essere biologico o ecologico;
  4. il lavoro con cui lo si ottiene non deve essere lesivo della dignità umana e animale (p.es. non è ammesso il lavoro nero o la discriminazione per motivi di nazionalità, sesso, religione ecc.);
  5. dev’essere chiaro l’impatto che ogni prodotto ha sull’ambiente in termini di inquinamento, imballaggio, trasporto;
  6. dev’essere esplicitato quanto del costo finale di un prodotto serve a pagare il lavoro e quanto invece la pubblicità e la distribuzione (questo perché il costo reale di produzione non corrisponde mai al prezzo di mercato).

I produttori, inizialmente, vengono visitati senza preavviso, per vedere come lavorano e per chiedere loro se sono disposti ad accettare nuove condizioni di produttività e di smercio, anche perché i Gas vogliono premiare i produttori virtuosi, emancipandosi totalmente dalla grande distribuzione.

I Gas si preoccupano inoltre, ben sapendo che la logica del mero profitto è del tutto irresponsabile, di risparmiare sui consumi, recuperando o riciclando tutto quanto viene acquistato. Il consumatore vuole diventare un soggetto attivo dell’economia, pretendendo dal produttore il rispetto dell’ambiente e della salute umana.

Risparmiare sui consumi vuol dire tante cose, p.es. mangiare meno carne. La trasmissione “Report” del 17 maggio 2009 arrivò a dire che per 60 milioni di italiani non è sufficiente macellare 500 milioni di polli l’anno, 4 milioni di bovini e 13 milioni di suini: il resto dobbiamo importarlo.

Mangiando meno carne si fa un favore agli animali che vivono negli allevamenti intensivi, i cui spazi risicatissimi hanno termine solo il giorno della macellazione. A causa dei nostri appetiti, che difficilmente potremmo definire “salutistici”, visto che le carni sono spesso piene di ormoni per la crescita e di antibiotici, enormi estensioni di terreno fertile, nel Terzo mondo, vengono destinati alla coltivazione di foraggi e quindi sottratti a quegli alimenti che potrebbero nutrire le già povere popolazioni locali. Per non parlare del fatto che questi allevamenti industrializzati emettono più gas serra (18%) di tutto il settore dei trasporti mondiali (14%).

A dir il vero la prospettiva dei Gas è quella di sperimentare un modello replicabile in contesti diversi da quelli della pura e semplice alimentazione: p.es. la finanza etica, il turismo responsabile, il software libero, ma anche la telefonia, l’energia… Questo per avere col territorio un approccio non più esclusivamente consumocentrico ma globale. Non per nulla essi cominciano a organizzarsi come Reti (o Distretti) di Economia Solidale (RES e DES).

E già affiorano le polemiche con chi sponsorizza il cosiddetto “commercio equo e solidale”, poiché si ritiene sia meglio favorire i produttori locali che non quelli lontani, la conoscenza diretta della produzione che non quella indiretta, anche perché per l’ambiente è decisamente preferibile una filiera corta (a km0), in grado di garantire più freschezza e meno conservanti.

Insomma l’agricoltura biologica, basata su un rapporto molto stretto tra produttore e consumatore, sta diventando un’opportunità di recupero, nei nostri territori, di pratiche agricole sostenibili (un tempo tradizionali) e anche, se vogliamo, di relazioni sociali, con cui si cerca di trasformare qualitativamente la gestione dello spazio rurale, dell’ambiente e del territorio.

Di quale degrado stiamo parlando?

Che dichiarazioni contraddittorie quelle di mons. Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, rilasciate in un’intervista a Maria Antonietta Calabrò su fattisentire.org.

Se la prende duramente con “Famiglia cristiana”, la cui recente denuncia del degrado politico del paese e soprattutto della corruzione della classe politica dirigente, viene qualificata come “giustizialista”. Come se la stampa cattolica, quando al potere è la destra, potesse esprimere giudizi solo in positivo, senza alcuna criticità.

Se si è permessa di criticare, l’ha fatto – secondo il prelato – “solo per vendere qualche copia in più” (sic!). Il problema infatti non sta nella denuncia che non costruisce, ma “nell’educare a una cultura diversa”, dice serafico il vescovo.

A quale cultura però lo sappiamo, quella della fede cattolica, che deve permeare di sé anche la politica. Dunque il degrado esiste – secondo questi illuminati cattolici – perché la politica si comporta in maniera a-religiosa: per superarlo ci vuole la politica della fede!

Sembra un discorso di altri tempi, un discorso del più retrivo fondamentalismo, quale si può constatare in un movimento come Comunione e liberazione, cui il prelato appartiene.

Invece è un discorso attualissimo, proprio perché si vuol prendere come esempio di come sia possibile superare il degrado, un fatto recente, accaduto in Afghanistan, stravolgendone del tutto il significato.

Alla Calabrò, che gli ricordava il cardinale Bagnasco, quando aveva indicato l’esempio di San Lorenzo martire quale via da seguire per risolvere il degrado attuale, mons. Negri aggiunge un altro esempio che ha a dir poco dell’incredibile: “Sì, i martiri esistono anche oggi, come gli otto medici uccisi in Afghanistan dai talebani, messi a morte non perché curavano i poveri ma perché erano cristiani. Sono i martiri che dimostrano che una vita positiva è possibile”.

Dunque i medici sono stati uccisi perché “cristiani”, cioè perché erano andati a esercitare la loro professione in quanto credenti, al seguito delle truppe dell’Onu.

Anche prescindendo dalle dichiarazioni dei talebani, secondo cui costoro erano in realtà delle spie al servizio degli americani e che i “missionari cristiani” facevano proselitismo, avendo “Bibbie in dari da distribuire alla gente”, qui si ha a che fare col peggiore irrazionalismo.

Non solo il prelato (come d’altra parte il suo collega Bagnasco e aggiungiamoci anche mons. Bertone) non intravede neppure lontanamente il nesso imperialistico tra “intervento armato” e “assistenza umanitaria”, non solo continua a ribadire che il cristianesimo è migliore dell’islam, che l’occidente è migliore dell’oriente, che l’Europa e gli Stati Uniti sono migliori dell’Asia, ma, quel che è peggio, fa del martirio una forma di garanzia assoluta di autenticità della fede (allo stesso modo, peraltro, dei fondamentalisti islamici!).

Ma come! Mons. Negri non aveva parlato prima di “educazione a una cultura diversa”? quindi di un processo lungo e faticoso? E ora se ne esce con questa infelice esaltazione del gesto estremo? Come se quei medici avessero voluto farsi ammazzare per tenere alta la fede che li ispirava!

Ma siamo davvero sicuri che da parte di questa chiesa possa venire qualche luce per indicarci in quale direzione dobbiamo andare per risolvere il problema del degrado della politica? Siamo davvero sicuri che il degrado sia il frutto della mancanza di religione e non invece di qualcos’altro? Questo appellarsi al martirio à tous prix non è già esso stesso una forma di “degrado”?