Fare sistema o uscire dal sistema?

“Fare sistema” o “uscire dal sistema” sono espressioni che sembrano non voler dire nulla al singolo cittadino.

Generalmente tutti noi “facciamo sistema”, pur senza volerlo o pur senza saperlo. Noi tutti esistiamo ereditando un sistema di vita precedente e ne riproduciamo le condizioni della sua sopravvivenza. In tal senso, p.es., anche il proletariato occidentale è co-responsabile dello sfruttamento delle periferie neocoloniali da parte dell’imperialismo statunitense, nipponico ed euroccidentale (a questo imperialismo ora bisogna aggiungere anche quello cinese, che tiene in condizioni sub-umane i propri lavoratori, i cui prodotti possono essere venduti in tutto il mondo a prezzi stracciati).

Per “uscire dal sistema” c’è solo un modo: conquistare il potere politico e condizionare con lo strumento della politica l’attività economica. Il problema è come farlo, cioè non solo come “conquistare” il potere ma anche – ed è ancora più importante – come “condizionare” l’economia, evitando di ripetere tutti gli errori del passato.

La storia della sinistra ha dimostrato che, sul problema della “conquista”, i metodi generalmente sono due: o si conquista politicamente lo Stato dopo aver conquistato culturalmente la società civile, oppure questa si conquista “dopo” aver conquistato quello.

La prima soluzione è detta “gramsciana”, la seconda “leninista”. La prima non è mai arrivata a conquistare alcuno Stato; la seconda vi è riuscita in più Stati, ma è poi sempre stata tradita da una gestione autoritaria del potere.

Dov’è che si sbaglia quando si creano alternative al sistema, ovvero quando la politica vuole condizionare l’economia?

Intanto bisogna dire che la via gramsciana sbaglia nell’illudersi che il passaggio dalla conquista della società alla conquista dello Stato possa avvenire in maniere indolore, cioè in maniera automatica, come una logica conseguenza, una inevitabile necessità. E’ addirittura un errore pensare di poter conquistare una società di tipo “borghese” in maniera “progressiva”, per determinazioni quantitative, senza traumatiche rotture.

Il capitale ha mezzi molto potenti per “imborghesire” la popolazione, al punto che in una società “borghese” si è tutti “corrotti”, inevitabilmente. Per convincersene, è sufficiente vedere quante volte si è venuti meno, proprio durante le rivoluzioni, agli ideali di giustizia sociale.

Da quanto è nato il socialismo, i “momenti forti” in Italia sono stati soltanto il “Biennio rosso”, la Resistenza e il Sessantotto, e ogni volta gli ideali sono stati traditi. E gli altri paesi europei han fatto lo stesso: dalla Comune di Parigi alla Repubblica di Weimar, ecc.

Nell’Europa occidentale non solo è fallita la strategia gramsciana, ma anche quella pre- o filo-leninista di conquista dello Stato, che in genere si presenta quando le crisi sociali sono gravissime e insostenibili, di regola correlate a disastri bellici.

Il socialismo europeo non è mai riuscito ad approfittare delle situazioni favorevoli a una “fuoriuscita dal sistema”, quelle in cui le contraddizioni del sistema esplodono. Nelle società borghesi avanzate, opulente, il socialismo non riesce a spuntarla né in situazioni pacifiche né in quelle disastrate.

Al massimo il socialismo riesce a imporsi nei paesi periferici più arretrati, nei cosiddetti “anelli deboli” del sistema, dove la povertà regna sovrana. Solo che in questi paesi, dopo aver compiuto la rivoluzione, nasce immancabilmente una dittatura. Sicché non si capisce dove stia l’errore.

In occidente il socialismo, nel migliore dei casi, rischia di diventare un puntello del sistema borghese; altrove rischia di negare più libertà di quante ne neghi il capitalismo.

Le strade da percorrere sono altre. “Uscire dal sistema” non può voler dire soltanto attendere passivamente che la sua crisi strutturale giunga a esplodere, ma non può neppure voler dire aiutare il sistema a sopravvivere compiendo singoli aggiustamenti o parziali riforme.

A livello di società civile bisogna uscire progressivamente dalla logica del mercato, entrando in quella dell’autoconsumo, e il giorno in cui s’imporrà l’esigenza di una rivoluzione politica, occorrerà da subito porre le condizioni perché lo Stato venga sostituito dal governo politico della società civile, la quale deve essere messa in grado di autogestirsi.

In Russia la rivoluzione venne tradita nel momento stesso in cui si svuotarono i “soviet” del loro effettivo potere. Non si può affidare a uno “Stato socialista” il compito di abbattere la borghesia, perché poi, dopo che l’avrà fatto, esso non avrà pietà neppure del proletariato.

Bisogna demandare immediatamente alla società civile il compito di liberarsi della mentalità borghese al proprio interno, smantellando progressivamente tutte le funzioni dello Stato.

La dittatura è inevitabile? Forse no

Una svolta politica, per tenere in piedi un sistema malato come il nostro, non può essere che autoritaria. Se non si vogliono risolvere (ma, se vogliamo, neppure affrontare) le cause fondamentali del malessere e se si vuol far credere che il malato soffre di un male non cronico ma passeggero, non resta che la dittatura, cioè il modo tradizionale con cui illudere le masse che dall’alto si possono facilmente risolvere tutti i problemi, tutte le crisi.

Nei paesi occidentali, ove domina il capitale privato, quando la democrazia formale non funziona. non si chiede maggiore democrazia ma più autoritarismo. Lo chiedono ovviamente i poteri forti, quelli che gestiscono la politica, l’economia, l’informazione. Non si vede altra via d’uscita che il cesarismo, il capo carismatico, proprio perché gli esponenti di quei settori di potere vogliono conservare i loro privilegi e, anzi, possibilmente aumentarli. Non vogliono avere intralci di alcun genere, non vogliono sentire contestazioni.

I nemici da abbattere, da ridimensionare, da circoscrivere in un’area ben limitata sono gli oppositori politici, i magistrati che vogliono far rispettare la legge, i movimenti a favore delle libertà sociali civili ambientali, i docenti che fanno della loro libertà d’insegnamento un’occasione per criticare la democrazia borghese.

In questa operazione di censura e di costrizione, i poteri forti spesso si avvalgono della collaborazione delle confessioni religiose di stato o maggioritarie, le quali, essendo anch’esse istituzioni di potere o comunque di consenso, han bisogno, per sopravvivere, di determinate contropartite.

Il problema principale che in questo momento i poteri governativi (politici o economici) devono risolvere è capire in quali forme è possibile imporre una dittatura, cioè con quali pretesti si può cercare di convincere la popolazione della sua necessità. Devono infatti stare attenti a non ripetere le esperienze fallimentari del nazi-fascismo, quando la dittatura si poneva in maniera troppo esplicita.

Quelle furono esperienze conseguenti ai problemi rimasti irrisolti dopo la fine della prima guerra mondiale e al crac borsistico del 1929. Oggi non solo non esiste la prima condizione, ma grazie allo Stato sociale s’è potuto scongiurare un crollo finanziario altrettanto grave, quello del 2008. Le banche sono state salvate grazie ai risparmi dei cittadini, sottratti loro con la forza.

L’unica condizione che oggi il potere può utilizzare come pretesto per rendere necessaria una dittatura è appunto il colossale debito degli stessi Stati sociali: un debito che, in assenza di un Pil sostenuto, rischia di travolgere l’intero sistema.

I poteri forti non vogliono un caos generalizzato, i cui scenari potrebbero essere imprevedibili, ma aspira a utilizzare la paura del caos per rivendicare la necessità di un presidenzialismo autoritario. Ecco perché non ha fretta a fare delle riforme; ecco perché, quando parla di riforme, le vuole a costo zero, oppure molto dolorose per i ceti medio-bassi (negli Usa, addirittura, l’unica che sono riusciti a fare, quella sanitaria, se la stanno rimangiando).

Se vi è la minaccia di un crac finanziario dello Stato, se le famiglie temono che tutti i loro risparmi si riducano a un nulla, se il tenore di vita è sempre più costretto a subire gravi deterioramenti e se la popolazione ha la netta percezione che i propri sacrifici non sortiscono alcun effetto positivo sulla crisi, sicuramente si pongono le condizioni per una svolta autoritaria.

Il sistema, che è profondamente corrotto, vuole offrire l’illusione che la dittatura serva proprio per difendere la democrazia. Le istituzioni, quindi, possono anche sopravvivere, ma come un guscio vuoto. E’ la dittatura della democrazia che ci vogliono somministrare come medicina salutare per un sistema malato. Una dittatura non solo economica (del capitale) ma anche politica (delle istituzioni che lo rappresentano).

Un’operazione del genere, in Europa, può essere fatta solo in un modo: trasferendo tutti i poteri politici al Parlamento europeo, cioè ponendo fine all’autonomia dei singoli Stati, sempre più incapaci di autogovernarsi e soprattutto di gestire il proprio debito pubblico. Gli Usa invece, che questo centralismo l’hanno già e che sono infinitamente più militarizzati di noi europei, hanno bisogno di pretesti che coinvolgano immediatamente le forze armate e di polizia.

Ecco, di fronte a un’operazione del genere non si può tergiversare, soprassedere, minimizzare. Bisogna difendersi, non per limitarsi a tutelare la democrazia formale (come fa la sinistra riformista), ma proprio per uscire dal sistema. E, poiché questo è di tipo mercantile, la ricetta per farlo è una sola: l’autoconsumo.

La storia non offre ulteriori alternative. Ci vuole un autoconsumo armato, in grado di difendersi dagli attacchi del globalismo liberista e deregolamentato, dall’oligopolio delle multinazionali, dalla mondializzazione finanziarizzata: un virus che non proviene solo dagli Usa, ma anche dal Giappone e dall’Europa occidentale e, ultimamente, anche dalla Cina.

Dobbiamo farlo anche a costo di dover rinunciare a tutto il progresso tecnologico fin qui raggiunto e col rischio di ritornare al paleolitico. E’ la dignità umana che ne va di mezzo.

Quale nuova tecnologia per il socialismo democratico?

Non è possibile capire i passaggi da una civiltà a un’altra limitandosi ad esaminare l’evoluzione della tecnologia. Un’analisi del genere, benché strettamente connessa alla relativa formazione socio-economica, diventerebbe di tipo sovrastrutturale, in quanto non terrebbe conto delle motivazioni culturali che portano a fare determinate scelte.

Senza cultura è impossibile spiegarsi perché una civiltà avanzata come quella romana (specie sul piano ingegneristico), rimase ferma, in ambito rurale, alla zappa e alla vanga, e non riuscì a inventare la staffa, la ferratura e il collare da spalla per il cavallo, il giogo frontale per i buoi da traino, la rotazione triennale delle colture, il vomere dell’aratro, l’erpice, il mulino ad acqua, il carro a quattro ruote… La ruota idraulica venne prodotta solo per far fronte alla penuria di schiavi. Resta incredibile come la lavorazione della terra, in una civiltà di tipo mercantile, che sul piano militare aveva le legioni migliori del mondo, sia rimasta praticamente identica per oltre un millennio.

Questa cosa non si può spiegare se non facendo riferimento al fatto che l’economia romana si basava sulla schiavitù. Lo schiavo doveva essere continuamente sorvegliato e costretto a lavorare, poiché non aveva alcun interesse a farlo. Non aveva mai la percezione che, aumentando o migliorando il proprio lavoro, avrebbe di sicuro ottenuto un beneficio a favore della propria emancipazione umana, sociale e civile.

Certo uno schiavo poteva diventare semi-libero (o liberto), ma questo dipendeva esclusivamente dalla magnanimità o generosità del suo padrone. Un proprietario terriero poteva anche trasformare i suoi schiavi in coloni, ma questo dipendeva dai suoi personali interessi e in genere poteva valere solo per le periferie colonizzate, dove i controlli erano più difficili.

Se si pensa che Roma divenne una grande potenza schiavista durante le guerre bisecolari con Cartagine, si è in grado facilmente di spiegare il motivo per cui i ceti benestanti e le stesse autorità politiche non vedevano di buon occhio i miglioramenti tecnologici in ambito lavorativo. Là dove la disponibilità di manodopera schiavile è molto alta e questa manodopera viene acquistata su un mercato del lavoro, lo schiavista ha intenzione di sfruttarla il più possibile e non a sostituirla con la tecnologia.

Questo atteggiamento, semplice e diretto, è del tutto normale in una civiltà basata su rapporti di forza, in cui col concetto di “forza” s’intende proprio quella “militare”. Quando una popolazione veniva sconfitta sul piano militare, il suo destino era quello di subire rapporti schiavili, in forme più o meno gravi. Anche quando un cittadino romano veniva rovinato dai debiti, non c’era pietà che gli risparmiasse un destino da schiavo.

La sottomissione integrale a un padrone rende lo schiavo un semplice oggetto, senza personalità, senza diritti, su cui si può aver potere di vita e di morte. Non ci può essere progresso tecnologico in presenza di schiavismo, proprio perché si ritiene che lo schiavo sia già lo strumento più sofisticato, quello che permette, insieme alle terre che si possiedono, di vivere senza lavorare.

Prima di vedere un progresso tecnologico bisogna aspettare che lo schiavo venga considerato un “essere umano”, ma ciò sarà possibile, seppure parzialmente, solo nel Medioevo, quando gli schiavisti verranno sconfitti dai cosiddetti “barbari”, che non praticavano lo schiavismo come sistema di vita, e che incontreranno una cultura, quella cristiana, disposta a considerare tutti gli uomini “uguali” davanti a dio.

Per il cristianesimo la schiavitù è un titolo di merito, sia perché il “figlio di dio” s’è fatto schiavo per liberare l’umanità dall'”ira divina”, conseguente a quel peccato originale che impedisce agli uomini di compiere il bene, sia perché lo schiavo, una volta resosi cristiano, ha molte più possibilità di salvezza nell’aldilà di quante ne abbia il suo padrone pagano. Ecco perché, se è vero che il cristianesimo non chiede allo schiavo di emanciparsi, se non appunto “cristianamente”, chiede però al suo padrone di trattarlo umanamente e anzi di diventare “cristiano” come lui.

E’ la trasformazione dello schiavo in servo, cioè in persona semi-libera, che porta a fare delle migliorie significative in ambito rurale.

Tuttavia, poiché anche il servo continua a restare un lavoratore giuridicamente sottoposto al feudatario, queste migliorie restano un nulla rispetto a quelle che si verificheranno quando, nella civiltà borghese, si sancirà l’uguaglianza giuridica (davanti alla legge) di tutti gli uomini. Quando si è tutti formalmente uguali, l’unico modo per poter sfruttare un’altra persona è quello di utilizzare qualcosa che faccia da “tramite” o da “ponte”, ed è appunto la tecnologia. Non basta avere capitali o terre, bisogna anche fare investimenti sulle macchine, le quali devono riempire, in un certo senso, il vuoto che il lavoratore crea quando non sta lavorando, essendo un cittadino libero.

Finché lavora sotto padrone, resta schiavo, ma siccome è giuridicamente libero, il tempo del suo lavoro è determinato, è limitato; le macchine vengono proprio a rimpiazzare il tempo mancante, quello che il diritto sottrae al rapporto schiavile. Ecco perché si parla di “schiavitù salariata”.

Poiché lo schiavo moderno è giuridicamente libero, il suo indice di sfruttamento è per così dire super-concentrato nel momento in cui resta schiavo di una macchina il cui uso deve essere massimo. Quando lavora come schiavo, l’operaio è parte integrante delle macchine, che ovviamente determinano la sua produttività. E’ la macchina che gli impone un determinato tasso di rendimento, calcolato scientificamente. A parità di tassi di rendimento, per il capitalista resta più vantaggioso un rapporto di lavoro meno costoso, per cui quanto più un lavoratore si lascia schiavizzare, tante meno possibilità vi sono di trovare una transizione al capitalismo.

La tecnologia quindi è strettamente correlata al sistema produttivo. E’ stato un errore colossale ritenere che nella transizione dal capitalismo al socialismo fosse sufficiente socializzare i mezzi produttivi, conservando inalterata la tecnologia della borghesia, che ha subito uno sviluppo impetuoso proprio perché la finalità era quella di sfruttare al massimo dei lavoratori giuridicamente liberi.

In realtà il socialismo può anche svilupparsi sulla base di una tecnologia di livello inferiore. La tecnologia da sviluppare, una volta realizzato politicamente il socialismo, dovrà essere in rapporto a un lavoratore non solo giuridicamente ma anche socialmente libero. Cioè dovrà essere lui stesso a decidere la tecnologia con cui lavorare.

I criteri per poter stabilire quale tecnologia usare, saranno determinati non dal profitto o dai mercati, ma dalla stessa autosussistenza e non senza trascurare le esigenze riproduttive della natura, che sono vitali per la sopravvivenza del genere umano. La tecnologia dovrà essere molto diversa da quella attuale, in quanto più facilmente realizzabile e riproducibile, utilizzabile, riparabile e reintegrabile nell’ambiente. In una parola dovrà essere eco-compatibile. L’ecologia dovrà avere la preminenza sull’economia: questa sarà solo un aspetto di quella.

Ecco, questa idea di socialismo democratico è ancora tutta da costruire.

Che cosa vuol dire “trasformare le cose”?

Noi “occidentali” siamo capaci solo di distruggere. Infatti tutto quello che costruiamo implica la distruzione irreversibile di qualcosa che appartiene all’ambiente naturale. La differenza fondamentale tra la nostra civiltà e quelle basate sull’autoconsumo è che queste si limitano a trasformare la natura, senza distruggerla.

Per trasformare la natura bisogna usare mezzi naturali, ricavati dalla stessa natura. Questo significa che dovremmo accontentarci di ciò che ci offre la superficie terrestre: non ha alcun senso “umano” o “naturale” andare a scavare troppo in profondità. Quando si è fatta una buca e si è piantato un seme, questo è sufficiente per l’alimentazione.

L’uomo deve vivere di ciò che gli offre la natura in superficie: caccia, pesca, allevamento, agricoltura… Le primissime popolazioni vivevano soprattutto di raccolta di cibo selvatico: tuberi, radici, frutti, funghi, miele, erbe, foglie, uova, insetti… La caccia venne dopo.

Quando si vanno a cercare risorse nel sottosuolo, la comunità originaria non esiste più: al suo posto sono subentrate le differenze di genere, di casta o di classe e quindi la necessità di avere eccedenze alimentari da controllare. Le civiltà antagonistiche sono nate proprio dall’esigenza di controllare queste eccedenze. Si pensava al futuro distruggendo tradizioni millenarie.

Noi dovremmo nutrirci di prodotti visibili a occhio nudo, che non richiedono particolari trasformazioni, al pari delle tribù che vivevano a contatto delle foreste. Invece di difendere queste popolazioni nell’habitat ove esistono, facciamo di tutto per “civilizzarle”, per farle diventare come noi.

Ma la nostra esistenza è del tutto artificiale e quindi innaturale. Non si conciliano le trasformazioni ottenute artificialmente con le esigenze riproduttive della natura. Esiste artificio là dove il prodotto che si ottiene non è facilmente riciclabile, cioè non si reintegra velocemente coi meccanismi riproduttivi della natura.

Non si può assegnare alla natura il compito di smaltire i nostri rifiuti e i nostri strumenti di lavoro in un lasso di tempo di molto superiore alla nostra esistenza. Se con la fine della nostra vita, tutto quello che abbiamo usato rimane, vorrà dire che noi avremo obbligato qualcuno, a prescindere dalla sua volontà, a smaltire quanto ci apparteneva. Un tempo i beni ch’erano appartenuti alla persona, venivano deposti nella sua tomba, vicini al suo corpo, nell’ingenua credenza che potesse averne bisogno anche nell’aldilà. E i morti si seppellivano in posizione fetale, perché avrebbero dovuto rinascere in una nuova dimensione, che non poteva essere molto diversa da quella già vissuta.

Una comunità o una generazione non può far pagare a un’altra comunità o alla generazione successiva il proprio impatto ambientale. Vivere un’esistenza naturale vuol dire che la natura è preposta a darci i mezzi necessari alla nostra sussistenza. Questi mezzi possono essere trasformati, ma rispettandone le caratteristiche di fondo. Dal ramo di un albero posso ricavare l’arco e la freccia con cui cacciare, ma se taglio il tronco per fare legna da ardere, sono già un anti-ecologista, a meno che io non sia in grado di garantire che nell’arco della mia vita tutti gli alberi da me tagliati potranno essere sostituiti con altri nuovamente piantati.

L’essere umano, all’interno del suo clan di appartenenza (poiché per un’esistenza naturale è da escludere qualunque individualità isolata), deve usare ciò che gli serve per sopravvivere: tutto quanto eccede questo scopo, va rifiutato.

Si possono catturare degli animali selvatici, addomesticarli e utilizzarli per la sopravvivenza. Ma tenere questi animali come reclusi, in appositi stabilimenti o, peggio ancora, negli zoo, o usarli come cavie, inseminarli artificialmente, riprodurli in laboratorio, obbligarli a gare sportive o a combattimenti o a comportamenti per loro del tutto innaturali, è immorale.

Noi dovremmo alimentarci con quanto la natura ci offre spontaneamente e con quanto produciamo nel rispetto delle sue esigenze riproduttive. Se vogliamo dare un senso alla nostra umanità, dobbiamo anzitutto accettare ch’essa si lasci fare dalla natura.

Il vero problema è come far accettare delle verità che dovrebbero essere evidenti e che millenni di cosiddetta “civiltà” han reso assurde.

Quando il popolo comincia ad amarsi

Noi cominciamo ad amarci quando l’odio rende impossibile l’amore. Prima che l’odio raggiunga l’apice, c’è rassegnazione, indifferenza, sopportazione del male.

Il popolo comincia ad amarsi quando è stanco di odiarsi per colpa di chi lo governa, per colpa di chi, stando al potere, invece di risolvere i problemi, li crea, li amplifica, li fa incancrenire, rendendoli irrisolvibili.

Noi non riusciamo ad amarci nella normalità della vita quotidiana semplicemente perché non esiste alcuna normalità in cui poter essere davvero umani. La vita è una continua sopportazione dolorosa di sofferenze imposte dai poteri forti.

Non ci si libera di questa servitù se non reagendo in massa, all’unisono, proprio perché chi governa ha sempre gli strumenti per reprimere qualunque istanza individuale o di piccolo gruppo o anche di un grande partito che, di fronte alle forze dell’ordine, resta disarmato. Chi governa, anche se rappresenta un’infima minoranza rispetto a quanti soffrono, è convinto d’avere il potere sufficiente per continuare a dominare.

Il problema è che se si sopporta troppo, se ci si illude di poter sopportare ad oltranza, non si è poi capaci di reagire con la dovuta fermezza. Si finisce nella disperazione della vita isolata, anonima, che si abbruttisce sempre di più.

Dovremmo chiederci il motivo per cui è così difficile esprimere dei sentimenti umani positivi. Se si dicesse perché si teme la loro strumentalizzazione, si finirebbe col dare per scontato che la stragrande maggioranza delle persone esprime più facilmente dei sentimenti negativi; si finirebbe in sostanza con l’accampare dei pretesti. Se affermiamo che la natura umana è più incline al male (come in genere fanno i credenti), il discorso è già chiuso: l’essere umano ha poche speranze (per i credenti nessuna su questa terra).

La verità è che se non si viene educati alla positività (che non è quella sbandierata da chi possiede già tutto), si viene automaticamente educati alla negatività (che è quella di chi, avendo già tutto, fa di tutto per non perdere nulla e anzi per aumentare quello che ha).

Il senso della negatività (sia essa come indifferenza oppure odio) demotiva, avvilisce, diventa un circolo vizioso per i sentimenti umani, che non migliorano mai. Ecco perché per riuscire a vivere la positività del sentimento umano, quando il contesto è intriso di negatività, occorre, in via preliminare, uno sforzo della volontà, una conversione della mente, una modificazione delle abitudini.

La prima regola che ci si deve imporre è quella di lasciarsi condizionare il meno possibile dalla negatività. E’ una vera e propria lotta quotidiana contro la tentazione a comportarsi come gli altri, ovvero a giustificare il proprio comportamento sulla base di quello altrui, che appare prevalente (quante volte sentiamo dire, anche da parte di persone molto autorevoli, che se una certa cosa la fanno gli altri, ottenendo vantaggi tangibili, non si capisce perché la debbano fare solo loro?).

Avendo perduto la naturalezza dei rapporti umani e vivendo in un contesto sociale che ha ereditato dalle generazioni precedenti delle forme di vita caratterizzate negativamente, l’uomo contemporaneo, se vuole uscire da questo vicolo cieco, deve anzitutto fare violenza a se stesso, porsi in uno stato d’animo distaccato dalle mode prevalenti e, nello stesso tempo, con la medesima determinazione, combattere tutte le forme di negatività che rendono opprimente l’esistenza umana, il vivere civile.

La credibilità di un soggetto non sta soltanto nella verità che dice, ma soprattutto nel modo come la vive. La prassi è il criterio della verità. Essere credibili, dal punto di vista della verità, non significa essere accomodanti, minimizzando la negatività, far buon viso a cattiva sorte; significa essere coerenti con le proprie scelte che ai più paiono scomode, e bisogna farlo senza schematismi di sorta, senza fanatismi di maniera. Non si può diventare intolleranti proprio mentre si pensa di aver ragione.

Oggi purtroppo tutte queste cose è lo stesso “capitale” che le dice e semplicemente per accaparrarsi quanti più “clienti” possibili. In questo sistema infatti la positività viene assunta a modello fondamentale di sicuro benessere o di sicuro business. Il successo arride all’ottimista.

Ecco perché è difficile stabilire il luogo della verità e quando si parla di “punto di vista della verità”, si rischia di dire una cosa senza senso. La verità, in realtà, non ha più alcun luogo, se non quello della coscienza personale di ciascuno, che, se resta meramente personale e non diventa collettiva, è la cosa più arbitraria di questo mondo. La verità riposa soltanto nella coscienza degli uomini (al plurale) che la mettono in pratica. Di volta in volta. E guai a pensare che una verità vissuta in maniera collettiva sia di per sé migliore di una verità vissuta a titolo personale.

Programma minimo per uscire dal mercato

Porsi contro il denaro oggi vuol dire porsi contro il sistema in cui il denaro, nella sua forma di principale mezzo di scambio, di investimento e di accumulazione, è il fulcro di ogni forma di esistenza, nessuna esclusa. Un tempo il denaro era cosa che riguardava solo la città, non la campagna né la montagna: oggi investe il mondo intero.

Contro il sistema basato sul denaro, sia esso nella forma del capitale o nella forma di semplice mezzo di scambio, esiste un’unica soluzione: l’autoconsumo, cioè consumare direttamente ciò che si produce, senza passare attraverso l’intermediazione del mercato.

Sul mercato infatti il produttore prevale sul consumatore; nell’autoconsumo invece si equivalgono o addirittura coincidono, e là dove si diversificano è solo per cose non essenziali alla propria riproduzione, e quand’anche fossero cose essenziali, il bisogno di averle, tra produttore e consumatore, sarebbe reciproco. Questo perché in luogo del denaro domina il baratto, sulla base del quale entrambi i contraenti conoscono bene il valore delle merci che si scambiano. Sanno bene che il valore di un bene è stabilito dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrlo, senza interferenze di prezzi stabiliti dal mercato.

Nell’autoconsumo l’interdipendenza è solo fra produttore e consumatore, mentre quella che ci propone l’attuale sistema è una dipendenza unilaterale del consumatore nei confronti del mercato (e anche quella del produttore minore nei confronti di quello maggiore). Una delle componenti fondamentali del mercato è la borsa valori e cambi, che ancor meno del mercato può essere tenuta sotto controllo. Non solo la finanza marcia per conto proprio rispetto all’economia, ma ha anche il potere di distruggerla.

La comunità locale deve tornare a controllare l’uso dei mezzi produttivi locali, che le permettono di esistere e di riprodursi. Per poter controllare questo uso occorre che essa ne sia proprietaria esclusiva. I mezzi di produzione devono appartenere alla comunità locale.

Tutti i componenti della comunità locale devono chiedersi di cosa hanno bisogno per sopravvivere, senza dipendere dal mercato. La produzione va finalizzata alle esigenze locali. E devono anche chiedersi, nel caso in cui avessero bisogno di qualcosa che non riescono a produrre, se sia davvero essenziale averla, o quale sia il modo migliore per ottenerla, senza arrecare danno alla natura, o quale sia il prezzo che l’autonomia può essere disposta a pagare per ottenerla, senza arrecare danno a se stessa.

Per mettere in piedi una comunità del genere vi sono solo due strade di carattere generale: o si attende che il sistema crolli rovinosamente, e allora saranno gli eventi che in qualche maniera costringeranno a compiere la scelta dell’autoconsumo (e questa è una strada molto dolorosa, già sperimentata, p.es., col crollo dell’impero romano); oppure si comincia subito a riflettere su come creare un’alternativa concreta, uscendo progressivamente dal mercato. Questa è una strada pedagogica, sicuramente molto meno dolorosa, in quanto ci si educa lentamente ma con decisione consapevole, senza particolari traumi (se non quelli artificiosi e pretestuosi della coscienza), nella convinzione che i tempi di realizzo degli obiettivi, a causa di abitudini collettive profondamente sbagliate, saranno sicuramente molto lunghi.

Bisogna partire da una riflessione culturale sui valori della vita, cercando però, nel contempo, di realizzare quelle piccole cose che modificano in maniera tangibile il nostro stile di vita. Noi non dobbiamo comportarci bene per far star meglio il sistema: dobbiamo uscirne, per il bene anche di chi non è consapevole della sua disumanità o della sua incapacità strutturale a risolvere i conflitti di classe, gli antagonismi sociali.

E’ un lavoro continuativo, verso obiettivi sempre più importanti, in rapporto anche al numero di persone che si riescono a coinvolgere.

Per partire bisogna chiedersi anzitutto da dove provengono i nostri alimenti, come vengono prodotti e quante possibilità abbiamo d’intervenire sulla loro produzione e distribuzione. Il consumatore deve cercare il più possibile di stabilire un rapporto organico, non occasionale, coi produttori locali e organizzare, con questi, la produzione e lo smercio dei beni per la comunità locale. Il produttore deve sapere in anticipo ciò di cui la comunità locale ha bisogno. Produrre esclusivamente per realizzare profitti è immorale e chi lo fa va estromesso dalla comunità locale.

Bisogna inoltre verificare se tutto quello che in questo momento stiamo usando è di fondamentale importanza per la nostra esistenza e se non è assolutamente sostituibile da nient’altro. Bisogna informarsi sulle possibili alternative praticabili. E’ noto infatti che a parità di qualità costa di più un prodotto reclamizzato o di marca. E se anche la qualità non è identica, bisogna abituarsi a considerare i vantaggi sociali, che non sono immediatamente quantificabili. Siamo p.es. abituati a mangiare frutta senza imperfezioni esterne, pur sapendo che una frutta del genere è stata trattata con sostanze cancerogene.

Pensiamo soltanto all’uso dei dispenser che sostituiscono i contenitori di plastica o di vetro che ogni volta acquistiamo quando il loro contenuto è finito: dall’acqua al vino, dal latte all’olio e all’aceto, dai saponi ai detersivi. Non è solo una questione di risparmio: è anche un modo per dire basta ai produttori di contenitori usa e getta, all’inquinamento dell’ambiente. E’ un modo per far capire al sistema che il consumatore vuole interagire col produttore, obbligandolo a fare scelte eco e socialmente compatibili.

La raccolta differenziata dei rifiuti non ha senso se, a monte, non si modificano delle abitudini sbagliate, dettate da logiche di mercato.

Ma pensiamo anche all’uso dei medicinali, in cui la chimica ha completamente sostituito la fitoterapia, una scienza durata non migliaia ma milioni di anni.

E che dire di quella incredibile tragedia che abbiamo arrecato alla natura sostituendo gli orologi a carica manuale con quelli a pila?

Abolire le province e ripensare il federalismo

Si sta discutendo se abolire o ridurre le Province. Io penso che vadano abolite in toto, perché sono una vergogna del nostro paese e di qualunque paese che voglia dirsi democratico. Sono un’emanazione dello Stato centralista. I Savoia le hanno prese dai francesi allo scopo di controllare i Comuni.

Sono i Comuni che devono avere più potere. Sono loro che devono decidere cosa fare a livello locale, con chi consorziarsi per gestire i problemi intercomunali e come utilizzare le tasse che devono restare in loco.

Il vero potere democratico è solo quello locale ed è il Comune che, al massimo, dovrebbe, a seconda della necessità contingente, concederlo temporaneamente allo Stato. Quanto più la delega dei poteri viene gestita lontana dal Comune tanto meno forti dovrebbero essere i poteri che si concedono, a meno che non vi siano urgenze particolari e momentanee (come quando le tribù cosiddette “barbare” affidavano, in caso di guerra, tutti i poteri a un sovrano eletto per il tempo necessario).

I Comuni fanno parte di una società civile che è il vero soggetto della democrazia. Oggi tutto questo viene vissuto in maniera rovesciata e il federalismo della Lega Nord non ha fatto che accentuare il centralismo.

Oggi però il vero problema è che la sinistra non ha nessun progetto alternativo allo Stato sociale che la destra vuole smantellare per favorire i monopoli privati. Ancora non riesce a capire che più importante dello Stato è la società civile e che bisogna progressivamente aumentare i poteri di questa società diminuendo quelli dello Stato. Se avesse capito questo, da tempo sarebbe riuscita a togliere alla Lega Nord il monopolio del discorso sul federalismo.

Un federalismo pensato in maniera davvero democratica deve prevedere l’autogestione collettiva (in ambito comunale) di tutte le risorse locali, contro il globalismo delle multinazionali, fino al ripristino dell’autoconsumo, per potersi emancipare, almeno nelle cose essenziali, dalle logiche dei mercati, che sfuggono, come le borse, ad ogni controllo politico.

Cosa vuol dire “essere umani”?

Il criterio della democrazia non può essere soltanto quello di poter essere quel che si vuole nel rispetto della volontà altrui. Non è detto che la volontà altrui debba meritare d’essere rispettata, neppure quando viene espressa da una maggioranza di persone, altrimenti si dovrebbero giustificare molte dittature volute dalle masse popolari.

Il vero criterio da stabilire è quello relativo all’essere. Cosa vuol dire “essere umani”? Una cosa infatti è l’essere umano (un individuo biologico con le sue relazioni sociali); un’altra invece è l’essenza di questo essere.

Mentre si può stabilire a priori cosa sia un essere umano (tutto ciò che non è animale, vegetale o minerale), non si può farlo con la sua essenza. Astrattamente cosa voglia dire “essere umani” non lo sappiamo. Può essere stabilito solo da un’esistenza comune, condivisa, dell’essere, che faccia sentire umani tutti quelli che la vivono.

Chi vuole sentirsi umano, deve poterlo fare liberamente. Non può esistere qualcosa che glielo impedisca, se non la sua stessa volontà, in quanto nessuno può essere costretto né a essere libero né a non esserlo. E’ solo l’esperienza del momento (il qui e ora) che ci fa capire se stiamo vivendo un’esperienza autentica dell’essere. Una qualunque definizione dell’essere lo viola ipso facto.

L’unica definizione che possiamo dare dell’essere è che è eterno nel tempo e infinito nello spazio. Le forme di questo essere mutano di continuo, ma la sua sostanza è come l’acqua chiusa in un pugno, l’aria che respiriamo. Dell’essenza umana possiamo soltanto dire che “è ciò che è”.

Chi non riesce ad essere se stesso, non è, e per essere se stessi bisogna guardare non solo dentro di sé ma soprattutto al di fuori di sé, poiché l’essere è anzitutto “relazione”. L’essere è un tema di cui possiamo porre, in astratto, solo le premesse. Lo svolgimento è azione, “atto puro”, direbbe Gentile.

Se noi dicessimo che la democrazia o l’essere umani, l’essenza umana dell’essere, è poter essere ciò che si vuole, dovremmo aggiungere che questa regola deve essere valida per tutti. Non basta aggiungere che per poter essere umani, bisogna rispettare la volontà altrui.

Noi non sappiamo più cosa voglia dire “essere umani”, altrimenti non ci porremmo queste domande. Dobbiamo riscoprirlo. Non ha alcun senso rispettare la volontà altrui, se questa volontà non ci aiuta a essere noi stessi, umani. L’unica volontà che meriti d’essere rispettata è quella che ci aiuta a essere noi stessi.

Il fatto però di non sapere a priori cosa sia l’essere, ci obbliga a verificare gli effetti di ogni volontà. La storia ha appunto questa funzione: indurci a sperimentare tutti i tipi di volontà, al fine di poter scegliere la migliore.

Fino adesso, in verità, l’unica forma dell’essere che ci ha permesso di vivere in maniera umana e democratica è stata quella pre-schiavistica, cioè quella del comunismo primitivo. Da quando abbiamo voluto rompere con questa esperienza, affermando volontà non-umane o non-democratiche, le conseguenze sono state devastanti.

Da quando s’è formato l’antagonismo sociale, non si è più riusciti a tornare indietro. Sono soltanto mutate le forme dell’odio tra ceti o tra classi sociali e anche tra individui dello stesso ceto o classe. Tutti i tentativi di superare definitivamente l’antagonismo sociale sono falliti.

Filosofia del cellulare

Il cellulare è un oggetto incredibilmente complesso, che quando si guasta non si può riparare. Da soli non si riesce a farlo e farlo fare ad altri può essere più costoso che comprarne uno nuovo.

Il cellulare è un prodotto derivato dal telefono, il quale, a sua volta, era un prodotto derivato dal telegrafo di Morse, di quarant’anni prima, tecnologicamente molto più semplice.

La differenza tra cellulare e telefono è che il primo non ha bisogno di cavi prese spine e spinotti per l’utente finale. Può essere portato con sé, usato ovunque, all’ovvia condizione che vi sia “campo”, il segnale delle onde radio da parte dei ricetrasmettitori terrestri. Chi tiene il cellulare acceso può essere facilmente rintracciato, anche se non lo usa. In un futuro molto prossimo tutta la tecnologia delle telecomunicazioni sarà satellitare.

L’handicap del cellulare è che la batteria si scarica e ha bisogno dell’energia elettrica per ricaricarsi. Il rischio, sul piano fisico, è che può nuocere alla salute con le sue onde elettromagnetiche, soprattutto al cervello.

Ma a che serve precisamente il cellulare? Perché oggi si parla di dipendenza psicologica? Perché questo oggetto è diventato una vera e propria slot-machine tascabile?

Come noto il cellulare ha molte funzioni: permette di ascoltare musica, di giocare, di collegarsi al web, di inviare email, di fare investimenti, di fare riprese con la videocamera incorporata, di scattare delle foto e di spedirle a qualcuno, di registrare la propria voce, ecc. E’ in sostanza un piccolo computer.

Ma la funzione principale resta sempre quella della comunicazione orale. Si può comunicare col mondo intero. Il cellulare ci dà l’impressione che il mondo sia a portata di mano, sia la nostra comunità di vita.

Quando nei testi scientifici si prende in esame l’evoluzione della tecnologia, si vede solo un progresso. Non ci si chiede mai se una determinata innovazione fosse davvero indispensabile all’esistenza quotidiana.

Fino a tutto il Medioevo la comunicazione avveniva tramite segnali luminosi (gli indiani nordamericani usavano anche quelli di fumo, per esprimere concetti semplici). Non si dava così tanta importanza alla comunicazione a distanza. Si dava cioè per scontato che la vera comunicazione, utile all’esistenza, fosse soprattutto quella interpersonale, ch’era diretta, da persona a persona, senza intermediazioni artificiali. Nel Nordamerica, prima che arrivassero gli europei, esistevano almeno 500 tribù, con altrettante lingue diverse: ebbene tra di loro gli indiani avevano imparato a comunicare usando circa 400 gesti diversi del linguaggio dei segni.

A partire dalla nascita dell’epoca borghese si è invece avvertito il bisogno di comunicare il più in fretta possibile (oggi addirittura in tempo reale) col mondo intero. Sono stati compiuti sforzi colossali per assicurare sul piano tecnologico un contatto potenziale con qualunque persona del pianeta, quando, sul piano delle relazioni personali, l’individualismo stava raggiungendo vette ineguagliate.

La filosofia del cellulare è dunque questa: quanto più si vuole comunicare in maniera artificiale, tanto meno si riesce a farlo in maniera naturale. Tra l’io e il tu si frappone sempre qualcosa: dalla semplice penna a sfera al collegamento con la navicella spaziale. Si ha in mano un potenziale tecnologico enorme che non aiuta minimamente a migliorare il livello di umanità degli esseri viventi.

Forse l’uso più significativo del cellulare lo si vede quando qualcuno è in pericolo: p.es. in caso di terremoto o quando si è sommersi da una slavina. Ma – chiediamoci – per casi del genere, in fondo abbastanza rari, era davvero indispensabile dotarsi di un oggetto così complesso come il cellulare? Non bastava un semplice rilevatore della nostra presenza? Cioè un qualcosa di molto meno costoso, di più facilmente riparabile in caso di guasto? di molto meno nocivo alla salute? di infinitamente meno inquinante per la natura? Anzi, meglio ancora: non bastava l’addestramento dei cani? Abbiamo già la natura che ci aiuta: perché dobbiamo complicarci la vita?

La nostra è una civiltà che produce beni tecnologici che in realtà servono non tanto a chi li usa, quanto soprattutto a chi li vende. Non servono neppure a chi li produce, poiché gli operai non sono padroni di ciò che fanno, essendo soltanto dei salariati, e quando rivendicano il diritto al lavoro dovrebbero anche chiedersi se ha davvero senso fare “certi lavori”.

I proprietari dei mezzi produttivi illudono che noi si possa fare chissà cosa, quando in realtà la vita resta alienata come prima. Anzi la percezione della differenza tra quel che virtualmente si potrebbe fare e ciò che effettivamente si riesce a fare, rende l’alienazione ancora più evidente. La solitudine sembra essere diventata la caratteristica principale della nostra civiltà basata sulla comunicazione.

Elogio della precarietà

La precarietà è il segreto della vita che voglia restare umana. Dire una cosa del genere quando la gran parte dei lavoratori vive nella precarietà e fa di tutto per uscirne, può apparire offensivo.

In realtà oggi esiste, nell’ambito del lavoro, la precarietà delle mansioni o delle funzioni proprio perché alcuni han cercato di superarla a spese altrui, sfruttando risorse umane e naturali che storicamente non gli appartenevano.

Molti sono precari perché pochi, coi loro atteggiamenti autoritari, son voluti diventare dei privilegiati e han voluto conservare a tutti i costi questa loro prerogativa. La precarietà è di molti perché qualcuno l’ha arbitrariamente rifiutata e si è servito della precarietà altrui per vivere una vita da privilegiato. Così gli uni non sono umani perché miseri, gli altri perché benestanti.

Un tempo non era così. La precarietà era di tutti, era quella che la natura imponeva a tutti, senza esclusione.

La natura non può rendere facile la vita, proprio perché sa che gli esseri viventi sono in evoluzione continua, devono crescere, svilupparsi. E sa anche che nella sicurezza, negli agi, nelle comodità uno smette di crescere, si atrofizza.

Oggi nella precarietà ci si odia, si avverte l’altro come un rivale, un nemico, un concorrente da eliminare. Un tempo, essendo la precarietà una comune condizione, ci si aiutava per meglio sopportarla. Non la si fuggiva, la si dava per scontata. Al massimo si cercava di attenuarne il peso nei limiti che la stessa natura imponeva.

La natura infatti da un lato offre le condizioni per vivere, dall’altro chiede uno sforzo collettivo per attingere alle sue risorse. E’ lei che indica il livello delle comodità oltre il quale si rischia di perdere la nostra caratteristica umana.

La natura non è cosa che possa essere affrontata in maniera individuale. Chi ha voluto farlo, usando la forza, ha sconvolto dei meccanismi che per millenni avevano garantito a tutti la sopravvivenza.

Tuttavia, siccome l’esistenza della natura, con le sue leggi, è anteriore a quella dell’uomo, essa non può lasciarsi sconvolgere senza reagire. Di tanto in tanto ci fa ricordare, spesso dolorosamente, le sue prerogative e soprattutto il fatto che la sua esistenza non dipende da quella dell’uomo.

Quando la natura non ha sufficienti forze per resistere alle umane devastazioni, si trasforma in deserto, rendendo a tutti impossibile la vita. Per poter vivere nel deserto, che è la precarietà assoluta, bisogna essere uomini assolutamente speciali, quali non si potrebbero mai incontrare nelle grandi città, dove la ricerca delle comodità è l’obiettivo n. 1 per tutti.

E’ stata infatti proprio l’idea di comodità che ha distrutto il comunismo primordiale. E’ stata l’idea di surplus o di eccedenza che ha minato il principio della precarietà collettiva.

Alcuni han voluto far credere ai molti (usando miti e religioni) che si sarebbe potuto raggiungere il benessere accumulando riserve per i momenti più difficili. E’ stato così che è nato il problema di come controllare queste riserve e di come ripartirle.

Si è voluto por fine alla precarietà aumentando i tempi del lavoro, obbligando la natura a uno stress produttivo, diversificando in modo arbitrario le funzioni, i ruoli all’interno del collettivo.

La precarietà ha cominciato a essere vista non come una condizione naturale dell’esistenza, ma come un limite da superare con tutti i mezzi e i modi, senza neppur distinguere tra lecito e illecito, se non con la retorica delle parole. Chi superava prima e meglio degli altri la precarietà, difendeva con maggior forza le comodità acquisite; anzi, quando vedeva che queste diminuivano o non rispondevano più alle aumentate esigenze di comodità, diventava sempre più bellicoso, non essendo più abituato a sopportare la precarietà.

Dopo aver creato discriminazioni sociali all’interno del loro collettivo, gli strati privilegiati, preoccupati di conservare le acquisite posizioni di rendita, sono andati a cercare al di fuori delle loro comunità le risorse da integrare alle proprie. Chi si sentiva minacciato nel proprio lusso, nel proprio sfarzo, ha esportato all’esterno il malessere che viveva all’interno.

Si sono cominciate a condizionare, a minacciare, a conquistare le comunità altrui. L’antagonismo è diventato progressivamente un male di vivere che si è diffuso sull’intero pianeta. A volte il nomadismo, cioè la precarietà come stile di vita, è riuscita a porre un argine alla stanzialità, che è la comodità per eccellenza, ma nel complesso bisogna dire che la stanzialità ha vinto, al punto che oggi, chiunque scelga di emigrare dal luogo in cui la vita gli sembra impossibile, lo fa per diventare stanziale.

Tutti vogliono vivere in maniera urbanizzata, senza rendersi conto che le città sono nate solo dopo aver sottomesso a sé tutto il mondo rurale.

Hosea Jaffe e il colonialismo

I

Giustamente Hosea Jaffe sostiene, in Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo (ed. Jaca Book, Milano 2007), che l’idea engelsiana di favorire il colonialismo europeo per accelerare il processo di industrializzazione nelle periferie coloniali, al fine di porre le basi per una transizione al socialismo, era un’idea non “socialista” ma “imperialista”, frutto di un’interpretazione meccanicistica o deterministica del materialismo storico-dialettico.

E ha altresì ragione quando afferma che la contraddizione principale, nell’ambito del capitalismo, è diventata, a partire dalla nascita del colonialismo, non tanto quella tra capitalista e operaio delle aziende metropolitane, quanto quella tra Nord e Sud, dove con la parola “Nord” non si deve intendere solo l’imprenditore ma anche lo stesso operaio che nell’impresa capitalista si trova a sfruttare, seppure in maniera indiretta, le risorse del Terzo Mondo.

Detto questo però Jaffe non è in grado di porre le basi culturali per comprendere la nascita del capitalismo (che non può essere considerato una mera conseguenza del colonialismo, in quanto quest’ultimo s’impose già nel Medioevo con le crociate ed esisteva già al tempo della Roma e della Grecia classica e non per questo è possibile parlare di capitalismo, che storicamente nasce solo nel XVI sec.). Jaffe non è neppure in grado di porre le basi politiche di un accordo tra il proletariato del Nord e quello del Sud.

Alla fine del suo percorso egli si ritrova su posizioni speculari a quelle engelsiane: laddove infatti si considerano interi continenti (Asia, Africa, America latina) incapaci di avviare l’industrializzazione borghese in maniera autonoma e quindi di favorire una transizione al socialismo, qui invece si considera l’occidente, en bloc, del tutto inadatto a comprendere i meccanismi mondiali dello sfruttamento economico; il che fa diventare assolutamente inutile il tentativo, da parte del proletariato coloniale, di cercare, nelle aree metropolitane dell’occidente, quei soggetti che possono condividere i suoi processi di democratizzazione sociale.

Hosea Jaffe assume una posizione deterministica rovesciata, al punto che gli diventa impossibile esprimere dei giudizi obiettivi sui limiti delle esperienze socialiste dei paesi coloniali (come quelle avvenute a Cuba, in Cina, nella Corea del Nord ecc.).

Pur di poter manifestare una posizione contraria all’occidente in sé, considerato quasi come una categoria metafisica, Jaffe è disposto a transigere su molti difetti dei regimi socialisti. Anche perché continuamente ribadisce la tesi trotskista secondo cui una transizione al socialismo è più facile in un paese economicamente arretrato che non nell’occidente avanzato.

Alla fine non gli resta che auspicare una terza guerra mondiale in cui lo scontro non avvenga più tra potenze imperialistiche ma tra Nord e Sud. Col che lascia del tutto irrisolto il nodo relativo al modello di sviluppo. A lui interessa soltanto che il Sud si liberi del Nord, non che si liberi anche della sua assurda industrializzazione.

II

In realtà non è di nessuna importanza che un paese sia industrialmente “avanzato” o “arretrato” ai fini della transizione al socialismo. Quello che più importa è la capacità di saper organizzare una rivoluzione che porti effettivamente a vivere una transizione verso il socialismo democratico.

In astratto infatti si può dire che un paese arretrato, sul piano industriale, è più vicino alle idee del socialismo in quanto è più vicino al pre-capitalismo, cioè alla cultura pre-borghese. Ma si può anche dire il contrario, e cioè che quanto più un paese è industrialmente avanzato, tanto più avverte il problema di uscire dalle contraddizioni del sistema, che rendono la vita invivibile, specie per le conseguenze ambientali che ha.

Nei paesi avanzati non sono avvenute rivoluzioni socialiste non perché è più facile che queste avvengano nei paesi arretrati – come diceva Trotski -, ma perché i paesi avanzati industrialmente sono anche quelli che praticano il colonialismo, oggi a livello internazionale, seppur, rispetto a ieri, in forme più economico-finanziarie che politico-militari.

Nel mondo non esistono paesi avanzati o arretrati autonomi, in grado di sperimentare percorsi indipendenti gli uni dagli altri. Nel mondo esistono paesi avanzati sul piano tecnologico che dominano politicamente o anche solo economicamente altri paesi arretrati sul piano industriale.

Tale dipendenza impedisce di servirsi liberamente delle tradizioni pre-borghesi per realizzare una transizione al socialismo. Questo peraltro il motivo per cui Lenin non credeva che il populismo russo, con la sua idea di “comune agricola”, sarebbe riuscito a impedire la diffusione del capitalismo in Russia.

Se i paesi avanzati non avessero colonie da sfruttare, le loro contraddizioni interne, a causa dei rapporti fortemente antagonistici, diverrebbero esplosive in poco tempo. Invece, grazie allo sfruttamento coloniale, il peso di queste contraddizioni può essere scaricato sui paesi arretrati.

L’Europa occidentale ha iniziato a comportarsi così già con la civiltà cretese, ereditata poi da quella ellenica; ha continuato a farlo, in grande stile, coi Romani; ha proseguito nel Medioevo col fenomeno delle crociate; e in epoca moderna ha inaugurato con la scoperta dell’America il colonialismo su scala mondiale.

Sono almeno tremila anni che l’Europa ha una pretesa di dominio verso le realtà più deboli. Ogniqualvolta i conflitti sociali diventano troppo acuti per poterli risolvere pacificamente, in politica interna si usano i sistemi autoritari, i metodi repressivi, e in politica estera si adottano programmi di conquista coloniale, di sfruttamento delle risorse altrui, umane o naturali che siano.

Ai problemi di natura sociale ed economica si risponde con soluzioni poliziesche (all’interno) e militari (all’esterno). Dopo aver represso il dissenso interno, si cerca di contenere il malcontento generale, facendo pagare a popolazioni estranee il prezzo delle proprie contraddizioni.

Ecco perché il dissenso interno riesce a trovare, temporaneamente o in territori circoscritti, uno sfogo alle proprie frustrazioni. I dissidenti si trovano a vivere nelle colonie quegli stessi rapporti antagonistici che subivano in patria, con la differenza che ora, nelle colonie, sono loro che li fanno subire alle popolazioni e ai loro territori conquistati.

Anche ammettendo che nella loro terra d’origine i dissidenti volevano realizzare una qualche transizione al socialismo, bisogna dire che questa esigenza non s’è mai realizzata nelle colonie ch’essi hanno conquistato o semplicemente abitato. E non solo perché la loro stessa madrepatria non gliel’avrebbe mai permesso.

I coloni hanno sì potuto riscattarsi dal peso delle contraddizioni subìte in patria, ma solo perché sono diventati i nuovi padroni in casa altrui. Non hanno mai cercato un rapporto di collaborazione con le popolazioni incontrate, onde potersi opporre al dominio della madrepatria. E se l’hanno fatto, è stato in maniera strumentale, per necessità di circostanza, per aumentare il loro potere di colonizzatori. Il dissenso frustrato nella madrepatria s’è trasformato nelle colonie in dominio nei confronti dei territori conquistati e delle popolazioni sottomesse.

Questa cosa è potuta andare avanti finché ci sono state terre da conquistare e popolazioni da sfruttare. Ma oggi tutto il pianeta è stato colonizzato. Se le popolazioni sottomesse cominciassero a ribellarsi, non ci sarebbe più modo, da parte dei paesi tecnologicamente avanzati, di trovarne di nuove da sottoporre a nuovi sfruttamenti.

L’antagonismo non può più espandersi geograficamente, può solo acutizzarsi a livello sociale, là dove riesce a dominare. Se non riusciamo a realizzare una transizione al socialismo, le barbarie è assicurata.

III

Detto questo, resta sempre da chiarire che cosa s’intenda per “socialismo democratico” e, su questo, Jaffe è incredibilmente lacunoso. Non avendo posto alcuna premessa per un discorso di tipo culturale, si trova a ripetere sempre le stesse cose, senza riuscire ad offrire suggerimenti significativi per uscire non solo dalla dipendenza coloniale, ma neppure dai meccanismi sociali e culturali che creano il bisogno di avere un dominio coloniale.

Qui il discorso si fa davvero ampio e tutto da costruire. Se Jaffe si fosse concentrato sulle origini socio-culturali del capitalismo, non avrebbe dato così grande peso al colonialismo, che pur di quelle origini è parte organica, ma sarebbe stato costretto a darne alla religione, alla teologia, alla filosofia, al diritto, all’arte, alla scienza, all’etica e alla morale, cioè a tutte quelle discipline che il marxismo ha sempre definito come “sovrastrutture” dell’economia e che, per questa ragione, sono sempre state considerate dagli studiosi di sinistra come una sorta di mero rispecchiamento della realtà concreta dell’economia. In realtà tra struttura e sovrastruttura esiste un reciproco condizionamento, che impone allo studioso un’analisi di tipo olistico, obbligata a tener conto di tutti gli aspetti nel loro insieme.

Lo stesso colonialismo dipende da una determinata cultura, esattamente come il capitalismo. Se gli uomini di una civiltà, di una religione, di una nazione ecc. si sentono, ad un certo punto, in diritto di dover conquistare territori altrui, significa che già al loro interno esiste questa deformazione, esiste già il senso del dominio da parte del più forte nei confronti del più debole. Questo senso o sentimento o atteggiamento sociale non dipende dalla psicologia dei popoli, ma da una cultura, da una concezione della realtà. E questa concezione, nell’antichità, si esprimeva soprattutto in chiave religiosa (mitologica o metafisica o razionale che fosse).

Le cause del colonialismo possono anche essere state sociali, politiche, economiche, ma noi dobbiamo cercare le cause culturali, quelle precedenti a tutto. Bisogna scoprirle e combatterle, proprio perché di fronte a una determinata situazione sociale non si debba nuovamente rispondere con la scelta dell’antagonismo e quindi inevitabilmente del colonialismo. Il problema principale infatti è quello di non ripetere, in forme diverse, gli errori del passato.

In occidente le forze progressiste non possono aspettare la fine del colonialismo prima di cercare un’alternativa al capitalismo. Se il problema sta anzitutto “fuori” (nelle colonie), alla fine soltanto quelli di “fuori” potranno risolverlo. Ma se la borghesia avesse aspettato la fine spontanea della rendita feudale, non sarebbe mai riuscita a far trionfare l’idea di profitto.

Tutti i libri di Hosea Jaffe

Armi e Mercato. Uscire dal globalismo

Le armi che abbiamo creato sfuggono al nostro controllo nella stessa misura in cui ci sfugge il controllo del mercato. Abbiamo creato un sistema totalmente in mano ai poteri forti, autoritari, che non solo non sono controllati da nessuno, ma non sono neppure in grado di controllare se stessi.
Chiunque presume di non dover essere controllato, è potenzialmente un nemico pericoloso per la società, anzi, considerando l’attuale consistenza del globalismo economico e militare, per l’intera umanità.
La stessa tipologia di armi di cui questi potentati sono in grado di disporre si presta all’impossibilità di un controllo effettivo del loro impiego, come già dimostrato sin dalla prima guerra mondiale con l’uso dei gas, benché si parli oggi di “obiettivi chirurgici”. Il valore personale dei militari è diventato inversamente proporzionale alla potenza delle loro armi.
La reazione che questi poteri possono avere a quel che ritengono una minaccia per la loro sicurezza o per la loro autorità, reale o presunta che la minaccia sia, può anche esprimersi secondo criteri estranei a qualunque ragionevolezza umana. Infatti l’abitudine reiterata a gestire un potere assoluto, può indurre a compiere azioni il cui effetto può diventare inconsulto, imprevedibile, del tutto sproporzionato rispetto al rischio effettivo che si crede di subire o a qualunque intenzione o volontà di difesa si voglia manifestare. Tant’è che lo scoppio delle due ultime guerre mondiali è avvenuto cogliendo di sorpresa il mondo intero.
L’esercizio del potere assoluto deforma la percezione della realtà, esaspera i problemi, ingigantisce i pericoli, sottovaluta le conseguenze delle proprie azioni, rende incapaci di mediazioni. La tragedia del mondo contemporaneo è che la mancanza di esercizio della vera democrazia si verifica proprio nel momento in cui si crede di usarla (come quando p.es. si va a votare). L’occidente considera addirittura la propria esperienza di democrazia un prodotto di esportazione, da far valere anche con l’uso delle armi, legittimato da risoluzioni di organismi internazionali, in cui solo le cinque nazioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu dispongono di effettivi poteri.
Oggi la dittatura più pericolosa non è quella del terrorismo internazionale, ma quella che porta a compiere dei crimini contro l’umanità proprio in nome di un’idea distorta di democrazia: un’idea che l’economia borghese divulga attraverso la democrazia delegata e questa la trasmette alla società attraverso il monopolio dell’informazione.
L’economia di mercato ha fatto perdere il controllo sulla produzione, la quale produzione implica anche quella delle armi di distruzione di massa, che, nonostante la fine della guerra fredda, non sono state smantellate, ma, anzi, tendono sempre più a diffondersi. E tutto ciò è avvenuto proprio in nome della formale democrazia borghese, che non è sociale ma semplicemente parlamentare, e si vanta di rappresentare la volontà popolare anche quando i governi in carica sono votati da una minoranza, rispetto a tutti gli elettori aventi diritto di voto (come succede p.es. negli Usa, definiti la più grande democrazia del mondo, dove solo la metà dell’elettorato si reca alle urne).
Se non recuperiamo il concetto di autoproduzione, se non ci liberiamo dal dominio del mercato, dagli indici quantitativi del prodotto interno lordo, da uno sviluppo meramente economico e non sociale, se la democrazia non smette d’essere delegata e non diventa diretta, non solo non saremo mai in grado di controllare le azioni dei poteri forti, economici e militari, ma rischieremo anche di dover ripetere i meccanismi della stessa formale democrazia borghese persino dopo aver subito catastrofi mondiali, belliche o ambientali che siano.
Se non comprendiamo la necessità vitale dell’autogestione delle risorse produttive, rischiamo soltanto di perfezionare gli strumenti e gli inganni per una successiva catastrofe mondiale. Dobbiamo uscire da questo tragico destino e perverso circolo vizioso, riducendo al minimo la forza del mercato, puntando decisamente sulla decrescita e tornando progressivamente all’autoconsumo.
E in questo ritorno dovremmo paradossalmente difenderci con le armi da chi vorrà impedircelo: armi proporzionate a un uso meramente difensivo. Nell’ambito del mercato non c’è alcuna possibilità di sopravvivenza per chi non dispone di potere d’acquisto, meno che mai in maniera dignitosa, proprio perché chi è abituato al potere assoluto, non vuole perderlo, non vuole vederlo diminuire, anzi, lavora ogni giorno per aumentarlo, costruendo monopoli sempre più vasti e complessi, in grado di dominare la scena internazionale.
L’unico modo per poter controllare la gestione delle armi è quello di usarle per difendere il proprio territorio, in cui i cittadini decidono liberamente di praticare la gestione collettiva dei mezzi produttivi. Non abbiamo bisogno di un mercato mondiale per sentirci parte di uno stesso pianeta. Non ha alcun senso democratico uniformare i consumi per far sentire l’umanità una cosa sola.
Nel capitalismo non c’è alcuna possibilità che la politica controlli l’economia. E là dove si è tentato di farlo, usando gli stessi strumenti che la borghesia, sin dal suo nascere, si è data (lo Stato, la burocrazia, il parlamento, il partito politico ecc.), come nel cosiddetto “socialismo reale”, il fallimento è stato totale. Qualunque idea di socialismo che non preveda l’autoconsumo, è destinata a trasformarsi in una dittatura. Qualunque idea di socialismo che non preveda l’uso della democrazia diretta a livello locale, è destinata a svolgersi in maniera opposta ai propri fini, e quindi a porsi contro gli interessi di esistenza del genere umano.
Le comunità locali potranno sentirsi parte di un unico pianeta soltanto quando non ci sarà nessuno che farà loro perdere l’autonomia.

Il tempo scaduto dell’occidente

Perché s’imposero le moderne monarchie nazionali sull’impero e sui potentati feudali? Semplicemente perché l’idea di “impero cristiano” era stata profondamente corrotta dalla pretesa teocratica dei pontefici.
In Italia, pur di affermare questa pretesa contro gli imperatori, il papato finì con l’appoggiare le rivendicazioni borghesi dei grandi Comuni settentrionali, nella convinzione che, una volta ridimensionato il potere imperiale (germanico), la chiesa non avrebbe avuto problemi a circoscrivere quello degli stessi Comuni. Cosa che se in Italia riuscì effettivamente a fare, con l’aiuto della Spagna controriformistica, sino al momento dell’unificazione nazionale, non poté però fare nel resto dell’Europa, dove le grandi città avevano creato le monarchie assolutistiche appoggiate dalla borghesia.
In realtà quindi la crisi dell’impero cristiano-feudale d’occidente coinvolse non solo gli imperatori tedeschi ma anche i pontefici: i primi a tutto vantaggio dei grandi feudatari, che disponevano di enormi territori da trasmettere ai propri discendenti (anche se poi questa nobiltà nulla potrà fare contro l’avanzata della borghesia); i secondi a vantaggio delle chiese nazionali, che sempre più legavano i loro interessi a quelli delle monarchie dei loro paesi, fino al punto in cui la fine dell’impero feudale, accelerando il processo di laicizzazione della fede, aprirà le porte al successo della riforma protestante.
Da quando era salito al trono Carlo Magno, le istituzioni ragionavano solo in termini politico-militari, dove gli aspetti etico-religiosi svolgevano un ruolo del tutto subordinato, di mera facciata, funzionale alla conservazione e anzi all’ampliamento di un potere politico ed economico sempre più autoritario, sempre meno legittimato.
Gli ideali venivano usati in maniera strumentale, al fine di ripartire questo potere in mani diverse: p.es. dagli imperatori ai feudatari, dai feudatari alla borghesia. Ovvero gli ideali affermati in sede giuridica, politica, filosofica, etica e religiosa, venivano sistematicamente smentiti da una pratica politica, sociale ed economica tutt’altro che umana e democratica.
Persino quando, col socialismo, si pensò di fare gli interessi del proletariato, emersero delle situazioni non molto diverse da quelle delle peggiori dittature borghesi. Questo perché non si volle ripensare sino in fondo tutta la struttura della società borghese.
Nonostante le immani catastrofi belliche, di cui l’Europa occidentale è stata oggetto e soggetto, coinvolgendo il più delle volte dei territori extraeuropei, dall’inizio del Sacro Romano Impero sino alla seconda guerra mondiale, non si è ancora stati capaci di trovare una coerenza significativa tra ideali teorici e pratica politica ed economica.
Questo potrebbe anche portare a pensare che l’Europa occidentale, come d’altra parte gli Stati Uniti, che dell’Europa moderna sono l’erede più significativo, non hanno più titoli per guidare le sorti dell’umanità o per proporsi come modello da imitare.
Per poter dimostrare la loro coerenza, il tempo che gli europei e gli statunitensi hanno avuto, è finito. E’ giunto il momento di ripensare le relazioni internazionali. E per poterlo fare è necessario riprendere in esame, a titolo esemplificativo, i rapporti tra feudatari locali-regionali e monarchie nazionali.
Dunque per quale motivo in Europa occidentale vinse la borghesia, che appoggiava i re nazionali? Semplicemente perché i feudatari non vollero abolire il servaggio e usavano la religione come strumento di potere. Quando i feudatari si opponevano alla borghesia, non incontravano il favore dei contadini. E questi, a guerra finita, si trovarono a vivere, sotto la monarchia nazionale borghese, una situazione peggiore di quella che avevano vissuto sotto il giogo feudale. Una situazione che invece a molti sembrò migliore solo perché in realtà le contraddizioni insanabili del capitalismo vennero fatte pagare, col colonialismo, ai paesi più deboli sul piano militare (africani, asiatici e sudamericani).
Mezzo millennio fa si lottò per affermare il livello nazionale contro quello locale-regionale. Poi ci fu lo scontro tra le nazioni, durante le ultime due guerre mondiali, da cui emerse lo strapotere degli Usa, che, per dominare, si servono di organismi internazionali (Onu, Fmi, Banca Mondiale, Nato, Wto, Ocse ecc.).
Oggi abbiamo il problema inverso: come uscire da questo mondialismo globalizzato, riaffermando il valore del livello locale-regionale, da gestirsi però non in maniera feudale, ma secondo i principi del socialismo democratico e dell’umanesimo laico.
Dobbiamo spezzare il cerchio dell’incoerenza tra teoria e pratica, riprendendoci i beni che ci permettono di vivere dignitosamente. Dobbiamo eliminare la dipendenza nei confronti di chi decide arbitrariamente i nostri destini.

Spezzare il cerchio della soluzione finale

L’etica economica di derivazione cattolica ha fatto moralmente bancarotta, in Italia, con l’omicidio di stato del parlamentare Aldo Moro, ma anche con l’omicidio di tutti quei politici e magistrati meridionali che hanno lottato contro la mafia in nome dello Stato. Sono morti ben sapendo che tutte le mafie meridionali altro non rappresentano che la faccia corrotta dello Stato e nella speranza, rivelatasi fino ad oggi illusoria, che all’interno di questo Stato vi potessero essere dei corpi sani, in grado di avviare una controtendenza.
Alla fine degli anni Settanta s’era capito che i cattolici non avevano più niente da dire, sul piano etico, all’economia borghese e che questa poteva marciare per conto proprio. D’altra parte uno Stato che fa fuori i propri statisti, un partito che elimina fisicamente i propri attivisti di spicco, pur di non realizzare alcun compromesso coi comunisti, pur di non farsi moralmente giudicare dalla sinistra, non merita di sopravvivere, almeno non restando uguale a se stesso.
Infatti una prima trasformazione della Dc e dello Stato ch’essa rappresentava avvenne con la stagione del craxismo, che volle dare allo Stato una maggiore laicità e, contemporaneamente, una minore istanza etica (anche se nella fase della trattativa per il rilascio di Moro il Ps si dimostrò possibilista e non intransigente come i democristiani e i comunisti, preoccupati solo di difendere la ragion di stato, benché per motivi assai diversi).
Si voleva una maggiore coerenza fra teoria e prassi: ecco perché col socialismo craxiano nasce una corruzione non più cristiana, cioè tardo-feudale, ma laica, cioè neo-borghese. Il capitalismo non ha più bisogno di farsi largo tra le maglie, a volte troppo strette, dell’etica cattolica, ma semmai è questa che, per sopravvivere, deve cercare di adeguarsi a una mentalità sempre più secolarizzata.
Col craxismo l’Italia ha sperimentato una sorta di riforma protestante laicizzata, attraverso cui il potere poteva essere gestito pienamente da politici “socialisti”. Il ruolo dei vecchi democristiani era piuttosto subordinato. Sembrava una ventata di novità: si revisionò il Concordato, in politica estera si assunse un atteggiamento meno prono alla volontà americana.
Tuttavia anche il socialismo craxiano fu un fallimento totale. Da un lato ci s’illudeva di poter sussistere a tempo indefinito sfruttando il crollo del socialismo sovietico; dall’altro si finiva col rappresentare soltanto il volto borghese della vecchia Dc. Anzi, la corruzione non aveva neppure i freni della medievale etica economica.
L’operazione “Mani pulite” piovve come un fulmine a ciel sereno: per un momento si credette che nello Stato ci fossero pezzi istituzionali eticamente sani. Si fece in poco tempo piazza pulita della corruzione socialista e democristiana, ivi inclusi le altre forze minori, gretti eredi e decadenti del Risorgimento.
Si scoprì chiaramente che tutti sfruttavano lo Stato per arricchirsi e per pagarsi i costi delle campagne politiche, delle proprie clientele: tra politica ed economia dominava il do ut des. Non c’era alcuna differenza tra etica borghese ed etica cristiana.
Sulla scia di questo ripulisti della prima Repubblica (che comunque non aveva toccato i gangli vitali del sistema, essendo impossibile che potesse farlo la sola magistratura), il centro-sinistra ha cercato di convogliare in un unico progetto il meglio della vecchia Dc (la parte più onesta) col meglio della sinistra parlamentare, nella convinzione di poter rimediare a una situazione di sfacelo morale.
Ma anche quest’operazione è fallita, com’era naturale che fosse quando non si vogliono rimettere in discussione i criteri di vivibilità del nostro sistema, i suoi criteri di sostenibilità. E’ stata un’operazione inutile, l’ennesima illusione di poter gestire democraticamente dei processi che di democratico non hanno mai avuto nulla, sin da quando s’è formato lo Stato sabaudo centralista e anti-contadino.
Ecco perché ha trionfato il berlusconismo, che rappresenta il peggio del craxismo, con l’appoggio del peggio della vecchia Dc (Comunione e liberazione) e della vecchia destra fascista (che non ha accettato lo sdoganamento istituzionale di Fini) e della nuova destra razzista rappresentata dalla Lega Nord, che ha fatto di un’istanza giusta (il federalismo) un motivo per far nascere nuovi egoismi locali e regionali.
Rispetto al craxismo si è persino venuti meno a quella parvenza di laicismo che aveva inaugurato la stagione degli anni Ottanta. Il centro-destra, sostenuto dagli elementi più retrivi del Vaticano, è quanto mai clericale. E’ l’espressione più adeguata di un capitalismo che prende del cattolicesimo gli aspetti più amorali e individualistici, più ipocriti e faziosi, al punto che lotta strenuamente per l’abolizione dello Stato sociale.
Questa compagine governativa sta portando il paese alla bancarotta etica ed economica, alla guerra civile tra le generazioni, all’impoverimento di massa delle famiglie, alla dittatura presidenzialista, alla scissione geografica tra macro-regioni. Non è possibile opporsi a una tale “soluzione finale” senza ripensare i criteri di gestione della produzione e della distribuzione dei beni, della ricchezza materiale, dei rapporti con la natura, dei rapporti di genere…
Non servirà a nulla mandare al governo un centro-sinistra o addirittura una sinistra integrale solo dopo aver visto che la destra avrà fatto collassare il sistema. Bisogna da subito ripensare i criteri fondamentali della nostra stessa sopravvivenza. Bisogna uscire dal globalismo delle multinazionali, dal mercato finalizzato al profitto, dallo sfruttamento del lavoro altrui, dalle rendite parassitarie e persino dalla proprietà privata dei mezzi produttivi. Se non si esce da tutto questo il cerchio non si spezza o, prima o poi, si richiude.

L’anniversario dell’unificazione nazionale

In occasione di questo 150° anniversario dell’unificazione nazionale potremmo porci due semplici domande. La prima: Cos’è che dal 1861 ad oggi riteniamo che sia stato maggiormente tradito rispetto agli ideali risorgimentali?

L’elenco è breve:

  1. il Mezzogiorno è stato il grande penalizzato, in quanto s’è voluto trasformarlo in un’enorme colonia di risorse umane, naturali e materiali per l’industrializzazione del centro-nord. Se ancora oggi i meridionali avvertono come traditori i Savoia e persino Garibaldi, il motivo è tutto qui: la cronica mancanza di una riforma agraria a favore delle plebi rurali; la netta subordinazione delle esigenze agricole a quelle industriali.
  2. Unità nazionale e processo industriale hanno voluto dire decollo di un sistema sociale basato sul capitalismo privato, senza alternative di sorta; quel capitalismo che porterà sì al miracolo economico della belle époque e del consumismo anni Cinquanta-Sessanta, ma anche al brigantaggio, all’emigrazione, all’abbandono delle terre, alla penetrazione massiccia del capitalismo nelle campagne (e quindi alla formazione di monocolture per i mercati e alla fine di qualunque esperienza di autoconsumo e di comunità di villaggio).
  3. Lo sviluppo del capitalismo privato, prima concorrenziale poi monopolistico (con l’appoggio dello Stato), ha comportato una devastazione irreversibile dell’ambiente naturale, nel senso che si è preferito privilegiare il concetto di “produzione di beni industriali” piuttosto che quello che “riproduzione di beni naturali” (al nostro paese s’è imposta con la forza l’idea di “consumare” quante più merci possibili).
  4. La centralizzazione dei poteri politici, nella capitale romana, ha mortificato enormemente gli usi, i costumi, le tradizioni, le lingue locali e regionali, nonché l’autonomia delle comunità territoriali e degli Enti Locali (cosa che oggi si cerca di recuperare, senza però rimettere in discussione lo sviluppo capitalistico del paese, attraverso l’idea di “federalismo”, che, guarda caso, sembra procedere in parallelo a una accelerazione dei processi politici verso una repubblica presidenziale).
  5. La permanenza di uno “Stato del Vaticano” ha reso impossibile un’effettiva separazione giuridica e politica tra Stato e chiesa, un’affermazione della laicità dello Stato, una formulazione autenticamente democratica degli articoli costituzionali riferiti alla libertà di coscienza e di religione (l’art. 7, p.es., sarebbe semplicemente da abolire).

Ora poniamoci la seconda domanda: Dal 1861 ad oggi cos’è che si è maggiormente sviluppato a favore della democrazia sociale, culturale e politica?

  1. Nel secondo dopoguerra si è sviluppato lo Stato sociale (scuola, sanità, previdenza, assistenza ecc.), che però si è cominciato progressivamente di smantellare sin dall’inizio degli anni Ottanta e soprattutto a partire dal crollo del cosiddetto “socialismo reale”, di cui lo Stato sociale dei paesi occidentali costituiva una sorta di “mimesi”. Si fa questo senza rendersi conto che gli sbocchi inevitabili del puro liberismo sono stati, fino ad oggi, due guerre mondiali, intervallate da decenni di disumane dittature, e là dove non s’è imposta la dittatura politica(p.es. in Francia o in Inghilterra) è stato solo perché si beneficiava ancora dei vecchi imperi coloniali, cioè di una dittatura economica.
  2. Le battaglie condotte dal mondo del lavoro contro il capitale (anni Venti, Resistenza e anni Sessanta-Settanta) hanno sicuramente contribuito a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, ma anche queste conquiste si stanno progressivamente riducendo, soprattutto a causa del fatto che il globalismo del capitale sta inducendo alla delocalizzazione delle imprese occidentali, là dove il costo del lavoro è minimo. Il che comporta che le nostre conquiste tecnico-scientifiche possono essere acquisite da quelli che un tempo venivano chiamati “paesi del Terzo mondo”, senza che questi abbiano bisogno di ripercorrere tutto l’iter storico e culturale che ci è servito per ottenerle.
  3. La donna ha sicuramente aumentato la consapevolezza di una propria diversità di genere da far valere nel rapporto con l’uomo, ma l’Italia resta ancora un paese molto indietro rispetto ad altri paesi nord-europei. Soprattutto la donna italiana non è in grado d’intervenire nella rappresentazione che di lei danno i mass-media (tv, cinema, carta stampa e pubblicità).
  4. E’ aumentata la sensibilità per i problemi dei consumatori, ma resta ancora molto forte l’egemonia economica dei produttori. Il consumatore vede il produttore come un nemico da combattere proprio perché il produttore vede il consumatore come un pollo da spennare.
  5. E’ notevolmente cresciuto l’interesse per i problemi ambientali, per le produzioni biologiche e per quelle ecosostenibili, ma nel complesso ciò non scalfisce il trend dominante, che resta basato su saccheggio e spreco di risorse naturali, e questo nell’illusione che scienza e tecnica siano sempre in grado di risolvere i loro stessi problemi, ma anche nell’errata percezione di causare danni minimi coi nostri comportamenti sbagliati, per non parlare della irresponsabilità con cui assegniamo ad altri o alle generazioni future il compito di rimediare ai nostri guasti.
  6. E’ aumentato il senso di appartenere a una comunità europea, ma siamo ancora lontanissimi dall’avere un’identità comune europea. Gli Stati continuano a muoversi in maniera separata e non vogliono attribuire al Parlamento europeo poteri effettivi. Le religioni, specie quella cattolico-romana, ostacolano notevolmente la formazione di un’identità europea laica. L’Europa continua ad essere avvertita come un di più, spesso inutile e oneroso.

Probabilmente però la cosa che più manca alla coscienza degli italiani non è il senso della democrazia o della laicità, che pur certamente da noi difettano più che altrove in Europa. E’ piuttosto la consapevolezza di ciò che l’Italia fa nel mondo. Noi non sappiamo nulla di come il nostro paese si muove all’estero. Non sappiamo cosa produce, cosa acquista, come lo faccia, che rapporti abbia con tutti i paesi della terra. Soprattutto non sappiamo quali siano i legami internazionali che determinano il nostro benessere.