Antony: canzoni da camera da un altro pianeta

Confesso la mia malcelata diffidenza verso il mite, sgraziato e angelico Antony e il suo nuovo disco con i suoi Johnsons. So che dovrei fregarmene, ma il troppo stroppia. Troppe sperticate lodi da ogni dove, troppi articoli sui giornali, comprese le riviste femminili ultrachic, troppe comparsate nei dischi altrui, da Bjork a Battiato. Aggiungo che da sempre è ambivalente il mio sentimento verso di lui. Da una parte adoro le sue canzoni (tutto “I’m a bird now” mi ha accompagnato sognante per un’intera estate, poi ho scoperto il suo primo album), dall’altra talvolta mi infastidisce la sua voce, sì proprio il suo tratto più caratteristico e osannato dai critici. E spesso mi ritrovo a chiedermi come sarebbero la sue canzoni cantate da altri. Una curiosità che mi ha stuzzicato anche mentre ascoltavo “The crying light”. Un disco di canzoni “da camera” quanto mai poetiche, come se venissero da un altro pianeta. La cosa che mi ha colpito positivamente di più non è la voce, ma l’arrangiamento, firmato in coppia con il compositore di musica contemporanea Nico Muhly (mi sto procurando avida i suoi dischi): suoni puliti, accenni di fiati, qualche percussione, gli archi mai invadenti, il pianoforte in primo piano. In “Aeon” è sostituito dalla chitarra elettrica, poche note cadono come pioggia, niente strumenti in “Dust e water”, solo voci, par d’essere nel buoi di una chiesa. La batteria di “Epilepsy is dancing” segue un ritmo insolito e intrigante, il finale di “Everglade” ricorda la sinfonie di Grieg, in “One dove” il sax sembra suonato da un clown triste. Nei testi – “emotional, mood or dream landscapes, it’s not so much to do with everyday places”, come ha detto lo stesso Antony – la parola più usata è love, seguita a ruota da cry, child, baby, heart. Il set è tutto immerso nella natura, bucolica e crepuscolare: “Another world”, come dice il titolo di una canzone, dove è bello perdersi, la sua voce soffia come una brezza leggera. E stavolta mi lascio buona buona accarezzare.

Jimmy, Billy e Lux: che casino giù all’inferno!

Poche righe, ma scritte col cuore in mano, per ricordare con affetto e stima Lux Interior, leader dei mitici, sgangherati, eccessivi Cramps, morto pochi giorni fa. E con lui anche Jimmy Carl Black, batterista delle Mohers of invention di Zappa e ancora Billy Powell, tastierista dei Lynyrd Skynyrd: anch’essi ci hanno detto recentemente addio. Ma più che piangere mi viene da sorridere: pensa il casino che stanno facendo laggiù all’inferno. Lux poi, me lo vedo mentre si dimena tra i diavoli, che non sanno  come farlo star tranquillo….

U2 novità: ma davvero? Non è che i rockers dovrebbero avere una data di scadenza?

E’ uscito il primo singolo degli U2, “Get on your boots”, che preannuncia il nuovo album, “No line on the horizon”, previsto per il 2 marzo (lo potete ascoltare sul sito della band, http://goyb.u2.com). Ascoltato un paio di volte mi ha stufato. Francamente mi aspettavo qualcosa di più “nuovo”, ha troppe reminescenze vecchio stampo tra flower power e Beatles. D’altra parte non sono di primo pelo né loro né i tre megaproduttori assoldati per l’occasione. A questo proposito vi faccio leggere il parere di un mio caro amico, Sergio Cossu, che non si è fatto pregare per mettere nero su bianco quanto già detto in una nostra lunga chiacchierata sul rock, pop e dintorni (lui il pop l’ha fatto in prima persona, ma da anni si occupa d’altro…). Poche e assai poco lusinghiere le parole spese da entrambi per un’altra novità discografica, l’ultimo di Bruce. Cossu non l’ha mai particolarmente amato, io invece sì. Da ragazza ha segnato per sempre la mia concezione dell’amore (Thunder road), e la sua voce, quand’è usata nei toni bassi, è tra le mie preferite. Ma è da mo’ che non mi dice più niente. Io intanto confido nell’intero cd degli U2, sono più ottimista: vorrei almeno meno rock e più… qualcos’altro (dalla dance all’elettronica, Eno datti una mossa)

“Perché ad un certo punto della sua storia la musica pop è diventata un genere creativo dal quale nessuno decide mai di ritirarsi?

La musica pop è un genere effimero per definizione, ed anche i più dotati di talento hanno espresso il loro meglio in un numero limitato di anni.

Il periodo geniale dei Beatles è durato dal 1965 al 1969; Elvis diciamo dal 1956 al servizio militare, pochi anni dopo; gli Who dal 1965 a Who’s next (1971), Frank Zappa fino a Joe’s garage (12 anni circa) etc.

I cantanti di successo degli anni 50 e 60 spesso ad un certo punto della loro carriera hanno smesso di fare dischi (o sono morti, più elegantemente).

Perché oggi ritroviamo tutti in pista, da nilla pizzi ai kings of leon, da brian auger ai killers? Sì, è vero, molti di questi non hanno ricevuto dalla musica l’equivalente del 6 al superenalotto e diciamo che “tengono famiglia”; ok.

Ma chi glielo fa fare ancora agli u2 , al boss, a neil young, a vasco, a paul mccartney di fare ancora dischi non avendo più niente da dire, e avendo finito da tempo di pagare il mutuo?

Il nuvo cd di brooce non merita neanche commenti (direi che bertoncelli ha espresso il giudizio più acuto in merito); gli u2 escono con un singolo che non ha ne’ la dignità né la grandezza né la fierezza né la forza creativa né l’energia né l’amore di with or without you, o di pride (lo so, sono canzoni di 20 e più anni fa, ma non è colpa mia se la musica popo rock viene bene da giovani) ma neanche di the fly; è un simpatico pastiche semibeatlesiano, con un’incomprensibile inserto semidisco verso la fine, realizzato molto bene (regia di eno, lanois e steve lilliwhite) ma che non scuote neanche il più sensibile dei nostri precordi, singoli o collettivi.

Non paghi, qualche anno fa, di avere sponsorizzato pubblicamente l’ipod (o meglio, di essere stati ben foraggiati da apple per legare la loro immagine all’i-pod, il vero killer della musica dal 2000 in poi), il loro nuovo cd esce in più versioni: con libretto a più o meno pagine, in confezione di plastica o cartone, in vinile, etc etc.

Ma hanno davvero bisogno di fare i pupazzi da marketing strategies? Hanno davvero voglia di fare i take that, i giusy ferreri, i boys boys boys? Non hanno un hobby, una famiglia, dei libri da leggere, un parco in cui passeggiare?

Non è giunto il momento di fare una moratoria generale sulla produzione di dischi?

Un anno senza produrre musica registrata non potrebbe essere produttivo?

Magari molti “artisti”, giovani o vecchi, scoprirebbero che si può vivere anche senza fare dischi, e magari anche senza fare musica.

Ve li immaginate mazzola, rivera e cruyff che, per quanto grandissimi siano stati un tempo, che domenicalmente (un inebriante neologismo © by trapattoni) indossano parastinchi e calzoncini e scendono in campo in serie A?

Mozart è morto a 37 anni, charlie parker a 36. Vorrà pur dire qualcosa…”

I migliori dischi del 2008: prima (e forse ultima) puntata

Comincia un nuovo anno e non c’è rivista specializzata di musica che non chiami a raccolta redattori e collaboratori per l’immancabile classifica dei dischi più belli dell’anno appena defunto. E io ogni volta mi accorgo che non ho tenuto fede al proposito di segnarmi, da gennaio fino a dicembre, i miei dischi del cuore, così non mi trovo impreparata, non faccio confusione con i cd pubblicati l’anno prima. Già dai tempi del vinile ero una frana: non riuscivo a memorizzare titoli, formazioni, ricordavo bene solo l’immagine in copertina. Con i cd è stato ancora peggio, e poi la catastrofe dell’mp3: ricordare nomi, facce, autori, titoli è quasi impossibile. Da aggiungere che di un album salvo un paio o poco più di brani, il resto va subito nel dimenticatoio. Azzardo comunque qualche titolo per me degno di nota per il 2008: oltre a tutti i cd recensiti in questa mia rubrichetta (Sigur Ros, Beck, Oasis, Giant Sand, Bob Dylan d’annata) ho ascoltato con vero piacere le ultime fatiche di My Brightest Diamond “A thousand shark’s teeth”, Tricky “Knowle wets boy” (basta ascoltare la prima traccia, “Puppy toy” e sei catturato nelle sue avvolgenti, cattive spire), New Puritans e “Beat pyramid” (imprevedibili), la colonna sonora di “Mamma mia” (tanto aborrivo gli Abba, tamarri come pochi, quanto ho rivalutato parecchi testi e accordi versione Duemila), l’ep “Mastroianni” degli italiani Diva (tipo Baustelle, ma più spiritosi), le due giovani e promettenti Duffy con “Rockferry” e Adele con “19”(ad essere più precisi mi piacciono più le loro voci che alcune delle loro canzoni), “Dear science” dei newyorkesi Tv on the radio.

Carini ma nulla di più “To survive” di Joan Wasser (tranne “Eternal flame” che già conoscevo), Lambchop e “Oh – Ohio” (se ne salvano un paio, il resto scorre e non lascia traccia), Parenthetical Girls e “Entanglements” (la musica è ok, la voce è insopportabile), il ritorno dei B-52’s con “Funplex” (ma il tempo per loro non passa mai?).

Decisamente sopravvalutati dai giornalisti (che non chiamo volutamente colleghi) quel debosciato e inconcludente di Nicola Conte (c’è addirittura chi l’ha messo nella stessa pagina con Paolo Conte, approfittando della parziale omonimia), Golden Frapp versione intimista (meglio quando ci faceva allegramente sgambettare), The killers (tutto già sentito, e meglio), Afterhours (eppure Manuel Agnelli quando suonava travestito da ragazza era un figo…), Kings of leon e “Only by the night” (scherziamo?), Terrence Howard e “Shine through it” (niente voce e niente idee, meglio faccia l’attore). Deludenti gli ultimi Thievery Corporation. Interessanti ma non stravolgenti gli Acoustic Ladyland di “Skinny grin” (mi ricordano vagamente i Primus, ma quel sax in più è troppo onnipresente).

Non ho messo ancora le mani (cose tante cose da fare e così poco tempo…) su “Surfing” dei Megapuss (ovvero Devendra Barnhart e Fabrizio Moretti degli Strokes, complimenti se non altro per il nome irriverente della band), “4:13” dei Cure (ma ne varrà ancora la pena?), Bonnie “Prince” Billy e il suo “Lie down in the light”, “22 dreams” di Paul Weller (da non lasciar invece perdere in concerto, una garanzia), “Harps and angels” di Randy Newman (ho letto meraviglie, lui mi piaceva molto ai tempi di “Short people” ma poi… perso per strada), “Hurricane” di Grace Jones e la compilation “Catwalk breakdown” selezionata da Vivienne Westwood, la mia stilista preferita, per le sue sfilate (sono irrimediabilmente curiosa), Matthew Herbert e “There’s me and there’s you” con una big band di venti elementi.

Mi sono sicuramente dimenticata qualcuno, per cui vi lascio con un bel 1)continua… non si sa mai.

A volte ritornano: e per fortuna! Welcome Giant Sand

Tempo fa trovo al bar Michele Borsa, grande cultore di musica e cinema, conosciuto ai tempi d’oro del “Mucchio selvaggio”. Mi fa: “Hai sentito l’ultimo dei Giant Sand? Mitico…”. “Quei Giant Sand dall’Arizona?” ribatto io, incredula. Sì, quelli lì, in formazione ovviamente riveduta (dal 2002 è targata Danimarca): ma se ho ancora un loro disco registrato in cassetta (conservo in libreria un contenitore-reliquiario con una trentina di cassette) più di vent’anni fa! Ma di Michele mi fido e mi faccio curiosa trasferire nell’ipod il loro ultimo “proVISIONS”. Non l’ascolto subito: me lo tengo buono per l’occasione giusta. E’ un viaggio in treno verso Roma, qualche giorno fa. Il ritmo ovattato del pendolino è quanto mai adatto. Parto con “Stranded pearl” e la pianura emiliana fuori dal finestrino non è più quella padana: siamo nel far west, il country si lega miracolosamente alla chanson francese, come se Johnny Cash cantasse in coppia con François Hardy , alla chitarra slide si affianca il pianoforte. Mi piace! Howe Gelb non sorprende perché ha cambiato pelle, ma perché riesce a regalare ancora qualche brivido con la sua solita “sol-fa”, complice la fugace apparizione di Isobel Campbell. Non è da tutti. “Without a word” potrebbe essere suonata dai Calexico (non a caso nati da una costola dei G.S.), con rimandi agli indimenticati e indimenticabili Violent Femmes. “Can do” è puro rock and roll alla Elvis, segue “Out there” più lenta e scura, il ritmo svogliato sa di Messico. E poi arriva una chicca: la cover di “The desperate Kingdom of love” dell’adorata P.J. Harvey: partenza sussurrata, voce + piano + cb, e poi si affiancano i fiati e un assolo di piano, poche note ma buone. “Increment of love” ruba un accenno di reggae, “Spiral” è la classica ballad che non delude, grazie anche alla seconda voce femminile notturna più che mai (Henriette Sennenvaldt). “Pitch & sway” riprende il ritmo, lenta ma inesorabile come un treno regionale. “Muck machine” si fa più veloce, siamo su un intercity. “Belly full of fire” si apre verso suoni psichedelici, ancora più caotici, alla Jon Spencer, in “Saturated beyond repair”: Gelb si fa prendere, come spesso gli accade, dalla voglia di mettere troppa carne al fuoco, come volesse dire guardate che so fare altro, di tutto e di più. E il disco così si chiude con “World’s end state park” piena di distorsioni, ma poi arriva “Well enough alone” a ci salutiamo pensando a Dylan e alla sua Band.

A promuovere “proVISIONS” arriva un tour italiano. I Giant Sand saranno in concerto il 29 gennaio a Torino, il 30 a Roma, il 31 a Ravenna e poi l’1 febbraio a Padova e il 2 a Milano.

Bob Dylan, benvenuti verso l’infinito e oltre

Poche parole, subito, anche se non è serio scrivere di un disco quando non lo si è ascoltato bene. Io “Tell tale signs”  di Bob Dylan non l’ho addirittura ascoltato tutto, sono alla traccia 8 del primo dei due cd. Ma è talmente… potente che non posso fare altrimenti. E’ la raccolta delle “Bootleg series” numero 8, ma niente rarità d’annata, roba vecchia. Solo (solo?!?) canzoni che vanno dal 1989 a un paio d’anni fa, mai uscite nei dischi di quel periodo oppure rivisitate dallo stesso Dylan più una manciata di registrazioni live. E basta sentire la prima, “Mississippi”, che non ha trovato posto in “Time out of mind” perché ti si allarghi il cuore e le altre intanto non ti deludono. Perché ancora una volta riscopri che Dylan resta inimitabile, anche come cantante. Che voce… Io l’ho amato molto da ragazzina, la mia formazione emotiva e sentimentale è nata e cresciuta con lui. Poi l’ho perso per strada, quelle menate con Gesù e compagni non le ho più sentite così mie. Ma ogni volta che ricasco nel suo gorgo mi lascio voluttuosamente catturare, appagata. Se ancora non l’avete fatto, lasciate stare la rete, niente mp3 stavolta. Per la qualità del suono e per quel libro di ben 62 pagine ricche di storie, segreti, curiosità, più un’esauriente sfilza di credits canzone per canzone e tante fotografie. Staccate i telefoni, fuori tutti, ed entrate nell’altro mondo. E’ il più bel regalo che potete farvi. A me è toccata la fortuna di riceverlo, inaspettato e folgorante come un fulmine a squarciare la nebbiolina padana: vale più di un mazzo di 100 rose rosse. E Dio solo sa quanto mi piacciono i fiori….

 

Niente sfida al Pixelle, ma io c’ero, la musica anche

Niente gara tra giornaliste-dj al Pixelle di Padova, per le serate di Kinotto, come preannunciato: il titolo di “campionessa” resta dunque mio visto che la sfidante del Corriere Veneto all’ultimo minuto ha fatto sapere di non essere della partita. Repentina una febbre da cavallo la costringeva a letto. Peccato che abbia avvertito quelli del Pixelle solo a tarda ora e così l’ho saputo quand’ero già per strada. Non mi sono tirata indietro anch’io e ho fatto la mia parte. Questa la scaletta: Oasis “To be where there’s life”, Asian Dub Foundation “New way new life”, Orbital “Choice”, Depeche Mode “Rush” dal doppio remixed, dei Nine Inch Nails la traccia numero 6 del terzo cd “Ghosts”, P.J. Harvey “Sheela-na-gig” dalle John Peel sessions, U2 “Crumbs from your table”, Asian Dub Foundation “Riddim I like”, Chemical Brothers “Marvo ging”, The DeathSet “Around the world” dalla raccolta “You don’t know Ninja cuts”, Hercules & love affair “Raise me up”, Yoko Ono “Everyman everywoman” (remixata dai Blow Up, dall’album “Yes, I’m a witch”), John Matthias “Evermore”. Ho chiuso il mio piccolo set con una canzone che non c’entrava niente (non che le altre seguissero un logica ben precisa…se non quella del capriccio), troppo lenta, ma avevo troppa voglia di sentirla e di farla sentire: “Don’t let me down and down” di David Bowie. Mai sentito la sua versione in indonesiano?

Giornalisti-dj, nuova sfida al Pixelle

Finalmente si rimette in ballo il “titolo” di giornalista-dj, conquistato mesi or sono al circolo Pixelle. E’ sua l’idea di mette in gara a suon di musica i giornalisti della stampa locale, non necessariamente del settore spettacoli, gente che non ha molta  dimestichezza alla consolle. Nella nuova sede del Pixelle in via Turazza 19 (zona Stanga) a Padova la sera di mercoledì 22 ottobre dovrò vedermela ai piatti (pardon, ai lettori cd…) con Federica Baretti, che scrive per il Corriere del Veneto a Treviso. Chi si trovasse in zona venga a fare il tifo! Per chi invece non sarà dei nostri conto di farvi sapere, ovviamente non prima della sfida, la mia scaletta. 

Oasis novità: viva il rock, oltre ‘sti benedetti Beatles

Gli Oasis non mi sono mai piaciuti, fin dall’inizio. Un po’ perché sono una bastian contraria, piacciono a tutti dunque a me no, poi perché rifanno troppo il verso ai Beatles, ma soprattutto perché i due fratellini mi stanno caldamente sui marroni, presuntosi, boari, arroganti, insomma due stronzi. Perché allora li ho voluti scoprire solo adesso, quando probabilmente hanno già dato il meglio? Sono incappata sul primo singolo del nuovo album, “The shock of the lightning”, e improvvisamente mi sono diventati simpatici. Tosti i ragazzi: meno pop (che se non è sublime non mi acchiappa) e più rock. Sì, lo so, è sempre la solita solfa ma che ci posso fare ogni volta ci ricasco (“Mamma mia”).E poi non posso non riconoscere che gli Oasis un merito, da sempre, ce l’hanno. Quello di saper fare come si deve una Canzone: sembra facile…Ci basta accendere la radio e sentire che di fatte bene ne circolano sempre meno (a proposito, con i Gallagher non c’entra niente, sta spopolando un pezzo di Kid Rock, l’ex marito di Pamela Anderson, una cover di “Sweet home Alabama” suonato dai Lynyrd Skynyrd negli stessi anni in cui è nato il Kid, chissà quanti ragazzini non lo sanno e credono invece sia una novità e non una canzone scritta dai loro nonni). Torniamo a “Dig out your soul”. Viva il rock, dicevo, ma i Beatles continuano a farsi sentire, eccome. A partire dalla prima canzone del cd, “Bag it up”: suona come un “outtake” del White album del ’68 (il disco in effetti si chiama “The Beatles” ma com’è noto deve il suo “titolo” alla copertina bianca), ha un po’ di “Helter Skelter” (il brano di MacCartney che Manson citò come ispirazione per i suoi delitti), una discesa di accordi alla “Back in the Ussr” (sempre Macca, sempre ’68), il suono dei celli nel finale ricorda “I am the walrus” (John), ma complessivamente il ritmo e i celli ricordano anche i T. Rex di Marc Bolan prodotti da Tony Visconti. Per i beatlesiani, il fascino di questa canzone forse sta nel ricordare allo stesso tempo idee di Macca e di Lennon; d’altronde i Beatles sembrano essere un’eredità di cui i gruppi inglesi (e americani) sembra non riescano a liberarsi, un po’ come Battisti per i nostri cantautori pop. Tra tutte le canzoni dei Fab Four comunque direi che la canzone che mi ricorda di più è la lennoniana “Glass onion”(sempre 68). Più che plagio diretto, abbiamo quello che nella legge americana si chiama “plagio d’intenzione”, cioè il ricreare un’atmosfera, piuttosto che la melodia o l’armonia di una composizione. I Beatles tornano a più riprese, addirittura con tanto di dedica a Lennon come in “I’m outta time” scritta da Liam. Nonostante Noel abbia dichiarato che stavolta no, chiamando in causa Stooges, Stone Roses, Doors. I pezzi per me più riusciti: “Waiting for the rapture”, “Ain’t got nothing”, la psichedelica “To be where there’s life”. Niente di sconvolgente ma “verghene”…

Voto: stavolta niente voto né giudizio, per solidarietà con gli insegnanti che si stanno battendo contro il maestro unico.

Carlo De Pirro torna alla Biennale Musica: due i concerti

Ci sono persone che senti amiche, per davvero, anche se non le vedi a cena, non ci vai in vacanza insieme. Addirittura non le frequenti proprio. Ma le senti molto vicine per intenti, per spirito di battaglia, per amore innato verso la musica, per un comune destino, voluto, da cane sciolto. Carlo De Pirro per me era così. Bastava intravvedersi ad un concerto, un cenno, un sorriso ed era come se ci fossimo detti tutto. E non perché eravamo tutte e due lì come giornalisti. Colleghi ma per due testate concorrenti, io rockettara, lui “colto”, io per tentare di gustare brani scritti troppi secoli fa, lui come critico. Ma Carlo era mooolto più avanti di me perché era anche, soprattutto, un musicista e un compositore. Il suo indomabile cuore, forte come una roccia, s’è arreso a 51 anni nella lotta con una malattia sleale il 27 maggio. Una malattia combattuta con sfrontata compostezza, quasi con distacco. Nato ad Adria nel 1956, padre toscano e madre emiliana, durante l’infanzia era vissuto tra Napoli e la Liguria, per poi stabilirsi da ragazzino a Padova, sua città d’adozione. Qui, al conservatorio “Pollini”, studiò con Wolfango Dalla Vecchia, diplomandosi in Composizione e perfezionandosi poi con Franco Donatoni e Salvatore Sciarrino. A sua volta dedicò molti anni all’insegnamento come docente di Armonia e Contrappunto al conservatorio “Venezze” di Rovigo e al giornalismo come critico musicale. Innumerevoli le sue conferenze: Biennale veneziana, Accademia Sibelius a Helsinki, Accademia Olimpica a Vicenza, Università di Padova, Torino, Venezia e molte altre istituzioni culturali e concertistiche. Da ricordare in particolare i suoi lavori su musica e computer: importante la collaborazione con Alvise Vidolin e il Centro di Sonologia Computazionale dell’Università padovana. Nel 2003 fu tra i fondatori del “Comitato per l’auditorium” di Padova e come suo rappresentante fece parte della commissione giudicatrice dei progetti ammessi al concorso indetto dal Comune. Già ferocemente provato dalla malattia aveva ripreso le idee del “comitato” per organizzare la scorsa primavera una manifestazione di protesta contro le polemiche che stanno tuttora paurosamente ritardando la realizzazione del progetto vincitore e contro l’indifferenza dei musicisti padovani. Le sue composizioni sono state commissionate dalla Biennale di Musica di Venezia ed eseguite in Italia e all’estero (tra tutte ci piace ricordare “Auretta assai gentil” per violino e pianoforte alla Carnegie Hall di New York nel 2003), trasmesse da Radio3 e Radio France, incise dalla Edipan di Roma e dalla Fonit Cetra e pubblicate da Ricordi. Tra i suoi lavori vogliamo segnalare per la Biennale Musica “Nove finali” nel ’95, “L’angelo e l’aura” con libretto del fido Andrea Vivarelli al Malibran e “Messaggeri e messaggini” all’Arsenale nel 2005. E ancora “Caos dolce caos” (debutto per Operagiovani al Teatro Sociale di Rovigo) nel 2001 e le “Sette stazioni di luce” per flauto del 2003. Singolarissima e anticonformista la collaborazione con i Solisti Veneti di Padova: Carlo, da sempre pronto ad abbattere i confini tra classica e contemporanea, ha composto per Claudio Scimone e la sua orchestra il concerto cangiante “Di luce e di vento” nel 2004, “Come sono suono” per cornista a rotelle e tromba di scorta nel 2006 e “La notte, la danza, il dono” nel 2007, suonata per il tradizionale concerto di Natale ai Servi. Per la “Giornata dell’ascolto” dello scorso anno presentò nel Salone del Palazzo della Ragione “Il tempo sospeso” per disklavier e nastro magnetico. Alla sua passione per il pianoforte comandato dal computer, protagonista anche di un concerto eseguito al Piccolo Teatro padovano sempre nel 2007, affiancava quella per le più curiose macchine sonore (memorabile il flipper “Anche tu musicista con 500 lire”) e i carillon: indimenticabile quello creato con lamine di metallo, seghe circolari e vetri di Murano per l’installazione sonora all’Expo 2002 in Svizzera, che ha poi trovato casa nel parco di Pinocchio a Collodi. Perché per Carlo la musica contemporanea voleva dire anche divertimento, gioco, sberleffo, poesia. Non per pochissimi, selezionati intenditori, ma per tutti. Mi diceva: “Trovo perverso distinguere tra classica e contemporanea, colta e pop, così come parlare ad una nicchia di esperti. Preferisco il metodo Mozart: “Questi concerti sono molto brillanti, gradevoli all’orecchio e naturali senza cadere nella vacuità. In alcuni punti solo gli intenditori possono cavarne diletto, ma faccio in modo che anche i non intenditori restino contenti, pur senza saperne il perché”.

Carlo torna anche quest’anno alla Biennale Musica di Venezia, intitolata “Radici futuro”. A ricordarlo saranno le sue composizioni, eseguite in due concerti. Un doveroso, affettuoso omaggio che curiosamente non ha ancora coinvolto le stagioni concertistiche di Padova, sua città d’adozione. Nei programmi dell’Orchestra di Padova e del Veneto, degli Amici della Musica e dei Solisti Veneti infatti De Pirro, che scrisse tre partiture proprio per Claudio Scimone, non compare. La Biennale veneziana vanta anche il merito di far ascoltare al pubblico “Descendit”, una composizione richiesta a Carlo dalla società musicale “Francesco Venezze” di Rovigo alla fine del 2007 per un concerto al tempio della Rotonda ma mai eseguito dal Quartetto della Scala, che non trovò neppure il tempo di provare il breve pezzo di contemporanea (10 minuti!) e si limitò ai collaudati Schubert e Beethoven. Il frutto di quattro mesi di scrittura, affrontati con passione nonostante l’aggravarsi della malattia e la mancanza di compenso, sarà finalmente eseguito domenica 5 ottobre alle 17 nella sale Apollinee della Fenice dal Quartetto d’archi del teatro veneziano, a fianco di composizioni di Beethoven e Nono. Venerdì 17 ottobre, sempre alle 17 ma nella sala concerti del conservatorio “Benedetto Marcello”, Carlo de Pirro aprirà il diciassettesimo colloquio di informatica musicale con ”Tempo sospeso”, per disklavier e nastro magnetico, composto in occasione della “Giornata dell’ascolto” di Padova del 2007 per andare in scena nel Salone del Palazzo della Ragione dalle 10 del mattino alle 11 di sera. Come critico De Pirro seguì numerose edizioni del Festival veneziano e fu invitato per la prima volta come compositore nel 1995 con un pezzo intitolato “Nove finali” per pianoforte, violino e violoncello, due clarinetti, suoni campionati e live electronics. Dieci anni dopo la Biennale Musica, per la sua vena creativa “assolutamente originale, la capacità davvero rara di raccontare storie, sogni, fantasie nel teatro musicale”, gli commissionò “Messaggeri e messaggini”. Sul palco le sue incredibili invenzioni sceniche e sonore: stelle di luce, campane tubolari, macchine orgogliose e giostre sonore. Scriveva: “Ogni rumore, se ascoltato a lungo, diventa una voce come diceva Victor Hugo in “La fin de Satan”. E non si spiegherebbe perché l’Harley Davidson abbia brevettato il rumore del suo motore se non per l’esclusivo tuffo al cuore che provoca nei suoi consumatori!”.

La musica del primo Novecento va in mostra a Venezia, dal vivo e su cd

Non di solo rock vive l’uomo…e la donna too. Eccomi dunque a segnalare una curiosa proposta di musica classica dal vivo agganciata ad una mostra in quel di Venezia. Ha infatti una colonna sonora speciale, che ci riporta ai primi del Novecento, l’antologica dedicata all’artista, illustratore di moda e scenografo George Barbier e alla nascita del déco allestita fino al 5 gennaio a Venezia, nel museo Fortuny. Composizioni di Debussy, Stravinskij, Satie, Faurè, Ravel e Milhaud, suonate dai giovani e intraprendenti Alessia Toffanin al piano e Alessandro Fagiuoli al violino, sono state infatti registrate dal fonico Matteo Costa tra gli affreschi di una chiesa sconsacrata alle porte di Padova per un cd prodotto dalla Blue Serge di Sergio Cossu (www.blueserge.it), in uscita prima di Natale.  Fagiuoli e il quartetto Paul Klee, di cui fa parte, hanno scelto su invito della curatrice della mostra veneziana, Barbara Martorelli, e della direttrice del museo, Daniela Ferretti, un repertorio di musiche dal vivo dal titolo “Colore in musica. Suggestioni di ascolto dalla Parigi di George Barbier” , proposto in quattro concerti al Fortuny (alle 19, una volta chiusa la mostra). «Non abbiamo voluto “sviscerare” musicalmente il ristretto periodo del déco ma piuttosto tradurre in musica le emozioni provate nel vedere le opere di Barbier – spiega il violinista – spaziamo così un po’ nel tempo proponendo da una parte maestri storici del gusto e e della tecnica compositiva francese come Debussy e Ravel e dall’altra autori più vicini a noi. Esemplare dunque il primo concerto al Fortuny il 6 settembre, con il grande pianista francese Jean-Pierre Armangaud e il mezzosoprano Sophie Fournier, che hanno eseguito un repertorio estremamente vario e “sentitamente” francese”».

Sulla stessa lunghezza d’onda il secondo appuntamento con la musica dal vivo: il 25 ottobre sarà il quartetto Paul Klee (ai violini lo stesso Fagiuoli e Stefano Antonello, alla viola Andrea Amendola e al violoncello Luca Paccagnella) a suonare il Quartetto di Debussy e il Quartetto di Ravel. Il 22 novembre il quartetto di flauti Berthomieu  proporrà invece autori francesi minori, puntando soprattutto sul “colore”. L’ultimo concerto, il 3 gennaio, saluterà il 2009 e il centenario dei mitici “Ballets russes” di Sergej Diaghilev, che danzarono sui capolavori composti da Stravinskij: Alessandro Fagiuoli al violino e Alessia Toffanin al pianoforte proporranno un omaggio ai balletti russi con un programma legato allo Stravinskij degli anni Venti e ad alcuni autori “minori” che scrissero anch’essi per la compagnia di Diaghilev: oltre a suonare il celebre “Prelude a l’apres midi d’un faune” di Debussy, coreografato da Nijinsky nel 1912. Un omaggio alla danza che vuole ricordare anche i fantasiosi disegni dei costumi realizzati dallo stesso Barbier per la danza, il teatro e il cinema: più di settanta quelli esposti a Venezia.

Lucio Battisti ci ritorna in mente, ancora, sempre

Son passati ormai più di dieci anni dalla morte di Lucio Battisti, indimenticato da fan, colleghi, critici e da milioni di italiani di tutte le età che conoscono a menadito le sue canzoni anche se non le ascoltano da anni. Cos’altro potrebbe mai esserci di nuovo da dire o scrivere su di lui e la sua collaborazione magicamente irripetibile con Mogol? Per il giornalista Renzo Stefanel (un passato da chitarrista pop) un mito del genere non finisce mai di dare nuovi spunti, altre suggestioni. E così ha dato alle stampe “Ma c’è qualcosa che non scordo” (Arcana): «È vero, libri e siti web non mancano, ma mi premeva ribadire con forza due assunti – racconta – Innanzitutto che i due non sono un “santino” come ci propongono i media da anni con una ventina di canzoni, sempre le stesse, ma due autori che hanno saputo indagare sul rapporto uomo/donna come nessuno altro in Italia. Fino alla critica dei capisaldi della civiltà occidentale dei dischi che io chiamo “perduti” scritti insieme tra il ’71 e il ’74: “Amore e non amore”, “Il nostro caro angelo” e “Anima latina”. Nel libro poi sottolineo come Battisti & Mogol abbiano avuto grande successo senza mai diventare di moda. Erano sempre un passo avanti rispetto agli altri, loro anticipavano le mode, e a tutti non restava che copiarli. Per rimanere ancora una volta spiazzati con l’uscita di un nuovo disco. E se Lucio tornasse in vita oggi non troverebbe lavoro nelle major, non sarebbe un cantante per la massa, inciderebbe per qualche etichetta indipendente». Il libro fa notare più volte la forza innovativa e rivoluzionaria di Battisti, eppure c’era chi lo diceva fascista… «Come ha già scritto Gianfranco Salvatore nella biografia, la leggenda di Battisti “nero” va sfatata. Forse era dovuta al fatto che non era politicamente schierato a sinistra come altri suoi colleghi e amici. Oppure al suo carattere chiuso e scontroso. Sta di fatto che persino le Brigate Rosse lo amavano. La sua intera discografia venne trovata in un covo, e una citazione da “Io vorrei non vorrei ma se vuoi” – “le discese ardite e le risalite” – spunta da un comunicato dei rapitori di Aldo Moro». Né di destra né di sinistra dunque, piuttosto un cane sciolto con una certa simpatia per una visione “hippy” della vita? «Mogol scriveva i testi solo dopo aver parlato a lungo dell’argomento con Battisti. Tant’è che Lucio diceva “non c’è parola di Mogol che io non condivida”. Le loro canzoni prendono di mira consumismo, maschilismo, bigottismo. Si rifanno a filosofi e intellettuali come Nietzsche, Heidegger e Svevo. E la voce era fuori da tutti canoni del bel canto italiano». Mentre Battisti continuò a comporre grandi canzoni anche senza Mogol, non si può dire viceversa: «Si è detto di tutto e di più sulla rottura del sodalizio, ma io credo che fu colpa dell’esaurimento della vena creativa di Mogol, ormai inadeguata. Lui stesso lo confessa in “Io tu noi tutti” quando scrive “il mio vecchio editore l’ho sempre fatto arrabbiare”. Ci riprovò con Cocciante, cambiando tematiche (ad esempio affrontando l’amicizia maschile) fino a dire che Gigi d’Alessio era il nuovo Battisti…». Nel libro possiamo leggere qualche notizia inedita? «Sì, una piccola grande curiosità. Dopo “Balla Linda” e “Il paradiso” ho scovato una terza canzone di Battisti tradotta in inglese, “Mi ritorni i mente” rifatta dai Love Affair (nel ’68 erano in classifica subito dopo i Beatles). La cover uscì nel ’71 ma fu un flop».

Battisti forever, dunque. Tant’è che Renzo Stefanel sta lavorando ad un nuovo libro su di lui: “Sarà tutto su “Anima latina” e tale sarà il suo titolo. Esce per la collana “Tracks” della Noreply di Milano, in cui ogni volume è dedicato allo svisceramento di un disco fondamentale della musica italiana e straniera e al suo inserimento nel contesto socio-politico-culturale dell’epoca in cui è uscito. Il libro sarà in vendita da febbraio 2009. Conterrà interviste a tutti coloro che hanno partecipato al disco in qualche modo o hanno ruotato intorno a Battisti in quel periodo”.

Non so che ho fatto, ma mi sento colpevole: parola di Beck

Una doverosa premessa: sono una fan di Beck, da sempre, e questo vuol dire che tendo ad essere assai poco obiettiva e a puntare inevitabilmente verso l’entusiasmo piuttosto che la delusione ogni qual volta si rifà vivo su disco. Ma per l’ultimo “Modern guilt” non devo scomodare qualsivoglia cieca ( e sorda) benevolenza: checché ne dicano gli immancabili detrattori, quelli che pretendono infinite innovazioni e strabilianti colpi di scena, è un vero piacere godersi queste nuove dieci canzoni. Beck ha quasi 40 anni, la metà spesi a far musica. Gli esordi sono stati fulminanti: perché chiedergli di fare solo e ancora capolavori? Potremmo chiedergli viceversa di andare in pensione se ci regalasse delle ciofeche, ma così non è. Non ancora. E allora ben venga “Modern guilt” a farci da colonna sonora dell’estate e oltre…con la sua proverbiale, inalterata capacità di dare un’aria di spigliata naturalezza, di sfrontata facilità anche al sound più complesso. Ovvero svogliatezza + genialità.

L’album si apre con “Orphans”, rock ridotto all’osso come ben sottolinea il video in bianco e nero, il classico trio chitarra+basso+batteria su uno sfondo tutto bianco. Anche la seguente “Gamma ray” ci riporta ad un basic pop anni Sessanta timbrato però inconfondibilmente Beck: bastan poche note e si riconosce contenti il marchio di fabbrica. Un’impronta che non puzza di ripetizione stantia, ma anzi mi dà un senso di appartenenza, di complicità. Giocato sul contrasto tra colori e bianco e nero, optical e total white il video, intrigante e autocelebrativo come sempre. “Chemtrails” ripesca dai 60 e 70 un pizzico di psichedelica e una batteria che butta sul progressive. La title track è quella che risente di più della produzione affidata da Beck a Danger Mouse, la metà dei Gnarls Barkley (il suo socio è il rapper Cee-Lo): nel testo confessa di non sapere che ha fatto di male, di che sentirsi colpevole, ma prova ugualmente vergogna e paura. Con Mouse Beck divide gran parte della strumentazione (il primo si occupa di beats, tastiere, sintetizzatori, il secondo spazia come sempre tra chitarre, percussioni, flauto, pianoforte, e basso) lasciando a pochi comprimari le briciole. Con “Youthless” il riff della chitarra si fa più serrato, nervoso, le voci si rincorrono, le tastiere anche, e poi la canzone, come quasi tutte le altre del disco, si tronca di netto. Cambio ancora di binario in “Walls”, archi tirati per le lunghe, cori femminili e batteria che rimbomba. Nei credits leggiamo che contiene un campionamento da “Amour, vacances et baroque”: su questo pezzo strumentale di Paul Piot & Paul Guiot scorre pari pari (voce femminile compresa) tutta la strofa. Nella seguente “Replica” (la mia preferita) il ritmo è ipersincopato, irripetibile, mentre il cantato e i cori volano oltre. E chissà perché alla fine mi vengono in mente i Weather Report. “Soul of a man” , forse la canzone più debole del disco, ci riporta al rock semplice ma efficace delle prime del cd. Ma è solo una pausa per riprendere fiato: arriva il pop ballabile di “Profanity prayers” e poi si chiude con una ballata, “Volcano”. Il testo parla di mal di vivere, ma per fortuna Beck si salva con la sua solita ironia: se quella ragazza giapponese si era buttata nel vulcano per cercare le sue radici, un senso alla sua esistenza, lui vuole solo scaldarsi un po’ le ossa…

Voto? da brava fan son troppo di parte, non riesco a scendere sotto l’8.

SIGUR ROS E L’AFA NON C’E’ PIU’

E’ un perfetto antidoto contro la calura ferragostana l’ultimo album dei Sigur Ros, e non solo perché vengono dalla fredda Islanda e fanno da colonna sonora ideale delle sere d’inverno (se poi fuori nevica è il massimo). Il loro è un mondo a parte, infantile e bucolico. E la strada che vediamo sulla copertina di “Con un ronzio nelle orecchie suoniamo all’infinito” (non trovo i caratteri giusti sulla tastiera per scriverlo nella lingua originale…) dista anni luce dalle nostre autostrade intasate da esodi e controesodi: in quattro saltano spensierati il guard rail ma senza fare un frontale. Nudi per giunta. Una copertina smilza, di cartone, che ripropone pari pari quelle dei dischi in vinile, dal sapore freak anni Settanta: i corpi nudi alla Woodstock non hanno nulla di ammiccante, di pubblicitario, e svelano una carica erotica naif solo nel video della canzone d’apertura, “Gobbeldigook”.

Il cambio di rotta preannunciato da un piccolo adesivo si sente solo nella prima parte del disco, ricordando l’antitesi tra “canzoni solari” e “oscure” di “()” del 2002 (sottolineata da una pausa di 30 secondi proprio a metà album). Una svolta “pop” che non delude, notevole ma non invadente. Si parte a tutto ritmo con la già citata “Gobbeldigook”, è tutto un battito di mani, di tamburi, di la-la-la-la, seguita a ruota da “Luni…” che può ricordare (in meglio) gli Arcade Fire. L’atmosfera si fa più rarefatta, per riprendere vigore con un incipit ripreso pari pari da “Boys don’t cry” dei Cure. Le percussioni si faranno ancora sentire, ma il suono torna ad essere marchiato Sigur Ros, e ci regala ancora una volta brividi e occhi umidi, come nell’apertura sinfonica di “Ara bàtur” (registrata negli studi londinesi “Abbey road” con la London Sinfonietta e un coro di voci bianche) per chiudersi con voce, pianoforte e ottoni dell’unica traccia cantata in inglese, “All alright”.

Qualche dato tecnico: il disco è stato registrato in giro per il mondo, da New York all’Havana, e non più esclusivamente in Islanda. Sul sito del quartetto è in vendita una versione deluxe con fotografie e dvd.

Curioso il duplice aggancio con quanto scrissi nel pezzo d’esordio su “Arruotalibera”: produzione e missaggio sono di Flood (già al servizio dei Nine Inch Nails), Bjork condivide con i Sigur Ros nazionalità e amicizia e ha suonato con loro “Gobbeldigook” nel giugno scorso a Reykjavik. La potete vedere su “You tube” che batte allegra su un rullante.

Voto? 8