Argomenti non di storia né di politica

Andarsene per ricominciare

Abbiamo il tempo contato. Per quanti sforzi noi si faccia di durare il più a lungo possibile, per quanto ci si possa illudere di restare sempre giovani – il destino è segnato. Su questa Terra, che per molti versi amiamo, non possiamo restare in eterno. La odiassimo a morte, non c’importerebbe nulla; anzi, forse non vedremmo l’ora di andarcene. Il fatto è che, accanto a motivi di rabbia e di sofferenza, ce ne sono molti di soddisfazione, e questi, alla fine, sembrano prevalere. Ci dispiace andarcene. Anche se ci dicessero che passeremo a miglior vita, non sarebbe per noi una grande consolazione.

Alla Terra ci siamo abituati; ci è diventata familiare; la sentiamo come la nostra seconda casa. E’ per noi difficile pensare a qualcosa di più bello, anche perché, guardandoci attorno, nell’universo, vediamo soltanto pianeti aridi e inospitali, infinitamente più brutti del nostro. Non riusciamo a immaginare qualcosa di più bello della Terra.

L’unico vero motivo che può spingerci a desiderare d’andarcene, è la progressiva devastazione ambientale procurata alla Terra dagli esseri umani. Probabilmente questo desiderio aumenterà quanto più gli uomini renderanno il nostro pianeta invivibile, e non solo sul piano ecologico, ma anche su quello dei rapporti umani, poiché l’antagonismo sociale sembra incupirsi sempre più.

Tuttavia, se davvero siamo destinati ad andarcene, è bene precisare almeno una cosa: ricominciare da capo, nell’universo, nelle stesse condizioni in cui lasceremo la Terra, è una prospettiva assolutamente da rifiutare. Non sarebbe in alcun modo sopportabile. Quindi, se qualcosa ci costringe ad esistere anche al di fuori del nostro pianeta, occorre che vengano ripristinate le condizioni della vivibilità umana e naturale. Non è possibile che chi vuole tornare a vivere in pace con se stesso, a contatto diretto con la natura, in armonia con tutto l’ambiente che lo circonda, debba essere condizionato negativamente da chi si oppone a queste sue aspettative. Deve essere data a chiunque la possibilità di realizzarsi come persona, cioè di essere quel che si vuole essere. E questo non è possibile se qualcuno o qualcosa ce lo impedisce.

Certo, noi stessi non possiamo pensare di realizzarci a danno degli altri, impedendo l’esercizio dell’altrui libertà; ma questo deve valere anche nei nostri confronti. In fondo l’universo è infinito: ognuno può scegliersi lo stile di vita che preferisce. La condizione, valida per tutti, è che non si devono danneggiare gli altri in alcuna maniera, non si deve dar fastidio alla libertà altrui.

Questa cosa avremmo già dovuto metterla in pratica sulla Terra, e anzi per moltissimi secoli l’abbiamo fatto. Poi qualcosa s’è spezzato e non siamo più riusciti a ricomporlo. Quindi se l’universo, per noi, vuole essere una nuova possibilità, dobbiamo utilizzarla nel migliore dei modi.

L’ideale sarebbe che fossimo messi in grado di ricostruirci un habitat adatto alle nuove caratteristiche umane e naturali che avremmo. Sarebbe infatti alquanto frustrante trovare le cose già pronte. L’essere umano è un lavoratore e soprattutto un creativo. Ha bisogno di agire in prima persona sull’ambiente in cui vuole andare a vivere.

Indubbiamente oggi siamo diventati così ignoranti in materia di eco-compatibilità, che, prima di fare qualunque cosa nell’universo, dovremmo essere rieducati come scolaretti delle elementari. Probabilmente i nostri maestri saranno gli stessi uomini primitivi che, con fare sprezzante e supponente, abbiamo considerato “preistorici”. In ogni caso avremo tutto il tempo che vogliamo per imparare: ne avremo un’eternità.

Riconciliarsi col proprio passato

Se, in via ipotetica, ammettessimo che la coscienza umana non è il frutto di un processo evolutivo, avvenuto per successive determinazioni quantitative, ma una caratteristica assolutamente originaria, la cui qualità intrinseca non dipende da particolari modificazioni della materia, saremmo poi in un certo senso costretti ad ammettere che con la fine dell’esistenza corporea dell’essere umano non può aver termine anche l’esistenza e quindi lo sviluppo della coscienza.

Cioè se esiste una correlazione tra materia e coscienza, o è negativa, nel senso che alla fine dell’una corrisponde la fine dell’altra, o è positiva, nel senso che non vi è un’origine per nessuna delle due ed entrambe sono destinate a durare nel tempo, influenzandosi a vicenda.

In altre parole: se l’essenza umana coesiste, in origine, con la materia, essa è destinata per sempre a tale coesistenza. Se invece ammettiamo che la coscienza è un prodotto evoluto della materia, dovremmo poi spiegarci perché questo prodotto non è destinato a sopravvivere alla morte del nostro corpo.

Infatti che senso avrebbe, da parte della natura, aver creato un prodotto così complesso e, fino a prova contraria, unico in tutto l’universo, per poi lasciare che si annulli al momento della morte del corpo? Sarebbe un incomprensibile spreco di risorse e di energie.

Delle due l’una: o la coscienza non è un prodotto assolutamente unico nell’universo ed è, in un certo senso, facilmente riproducibile anche in assenza di esseri umani, oppure noi siamo destinati a esistere anche dopo la morte del nostro fisico. Cioè il corpo è solo un involucro che la coscienza si è data per esistere sulla terra, ma, essendo destinati a esistere nell’universo, esso sarà libera di darsi un nuovo involucro, molto probabilmente con migliori caratteristiche qualitative, p. es. in grado di adeguare più facilmente il desiderio alla realtà; o forse soltanto con migliori caratteristiche quantitative, come p. es. la possibilità di viaggiare alla velocità della luce.

In un certo senso dovremmo dire che l’essere umano non è mai nato, proprio perché non morirà mai. Parole come nascere o morire dovremmo reinterpretarle, poiché quando vengono racchiuse in un orizzonte meramente terreno, acquisiscono un significato molto restrittivo. Il nostro pianeta è soltanto il luogo in cui la coscienza universale ha preso una forma corporea determinata, cui però non si sente legata in maniera assoluta.

La coscienza umana terrena è solo il riflesso di una coscienza umana universale: il corpo ch’essa ha assunto ha caratteristiche idonee per il pianeta in cui è stata chiamata a svilupparsi, ma non necessariamente si deve pensare che tali caratteristiche saranno le stesse in un’esistenza extra-terrena. Noi dovremmo considerarci più figli dell’universo che non di un semplice pianeta.

L’universo è la possibilità di ricapitolare tutte le cose, a un livello di consapevolezza che sarà enormemente superiore a quello che possiamo avere su questa terra, ove siamo strettamente condizionati da uno spazio e da un tempo finiti, limitati. Dovremmo, in tal senso, fare uno sforzo di fantasia e immaginarci all’interno di una dimensione spazio-temporale dove tutto è infinito, illimitato, e dove la stessa coscienza può raggiungere livelli di profondità impensabili su questa terra.

Cioè tutto quanto su questa terra abbiamo compiuto, pensando d’essere assolutamente nel giusto, dovrà essere sottoposto al vaglio di una coscienza universale. Nell’universo tempo e spazio coincidono in qualunque momento e luogo, per cui non ci sarà modo di sottrarsi a un giudizio di merito, confidando nel fatto che il passato non può più essere compreso come se fosse un presente.

Finché tutte le scelte compiute su questa terra non avranno trovato il loro punto di chiarimento, sarà impossibile andare avanti, pensando di poter fare qualcosa in comune. Il genere umano di tutti tempi dovrà riconciliarsi con se stesso. Non possiamo rischiare di ripetere nell’universo gli stessi madornali errori che abbiamo compiuto su questa terra e che ci sono costati immani sofferenze.

È anche vero però che nessuno può essere obbligato a credere in cose in cui è implicata la libertà di coscienza. Questo quindi vuol dire che il processo di umanizzazione dovrà poter andare avanti anche se una parte dell’umanità non ne vorrà sapere. Cioè se l’adeguamento del desiderio alla realtà non potrà essere il frutto di un’azione meramente soggettiva, che non tenga conto della libertà altrui, è anche vero che non ci potranno essere impedimenti allo sviluppo della coscienza altrui da parte di chi non vuole riconciliarsi col proprio passato.

Chi vuole migliorare se stesso, deve poterlo fare in libertà, rispettando la libertà altrui, e non potrà certo essere impedito dal farlo dalla non-libertà altrui. Nell’universo non esistono principi giuridici del tipo “chi ha sbagliato paga”, come, d’altra parte, non esiste alcuna verità autoevidente, che s’impone da sé. L’essere umano avrà soltanto la consapevolezza di poter migliorare se stesso, e il primo modo di farlo sarà quello di riconciliarsi col proprio passato, poiché questo, in una dimensione infinita di spazio tempo, gli è sempre presente.

Specie umana e animale

E’ ridicolo pensare che la coscienza sia un prodotto evolutivo della materia o della natura, poiché, se ciò fosse vero, non si capirebbe il motivo per cui essa non sia presente in alcun animale.

Noi possiamo soltanto fingere di poter parlare con gli animali o ci illudiamo di poterlo fare, ma non c’è assolutamente modo ch’essi apprendano qualcosa che vada al di là dell’istinto o dell’abitudine. Gli animali si adattano all’ambiente per abitudine e, se lo modificano, lo fanno sulla base di certi istinti, ma sono lontani dall’essere davvero creativi. A noi paiono versatili semplicemente perché le specie sono illimitate, ma ogni specie, in realtà, non ha fatto altro che specializzarsi in qualcosa di particolare.

Solo noi abbiamo la possibilità di riprodurre, in qualche modo, tutte queste particolarità. L’essere umano sembra essere la sommatoria di tutte le specie viventi, incluse quelle estinte. Quindi questa nostra prerogativa ci porta inevitabilmente a pensare che all’origine di ogni specie animale vi sia stata una sorta di essenza umana, da cui, per sottrazione, tutte le specie si sono formate.

Le specie animali non hanno fatto che specializzarsi in una delle infinite caratteristiche dell’essenza umana universale. Non siamo stati noi a ereditare il meglio degli animali, ma sono stati gli animali a trovarsi, per così dire, specializzati in una o più qualità già presenti in tale essenza. Tant’è che noi, volendo, possiamo riprodurre qualunque peculiarità del mondo animale, mentre gli animali non sono in grado d’imitare, se non in misura molto ridotta, le caratteristiche umane e, di queste, solo alcune.

Le specie animali sono così specializzate nelle loro particolarità che provano non poche difficoltà a imitarsi persino tra loro. Se lo facessero, sarebbe, per loro, come andare contro natura. Un carnivoro che non mangiasse un erbivoro, quanto tempo durerebbe? Formiche e api vivono solo in grandi collettivi, ma con regole del tutto diverse e non arriveranno mai a modificarle osservandosi a vicenda.

Noi in realtà non abbiamo nulla da imparare dagli animali. Ci diciamo il contrario soltanto perché noi stessi non ci comportiamo in maniera umana. È evidente, infatti, che la disumanità ci rende peggiori degli animali e quando ci accusiamo di comportarci come animali, in realtà stiamo dicendo una cosa senza senso, in quanto nessun animale fa per istinto ciò che noi facciamo in libertà. Dovremmo limitarci a dire che siamo peggio delle bestie, ma anche questa espressione è ingenerosa nei confronti degli animali. La realtà è che una libertà usata negativamente è infinitamente peggiore, proprio per le sue enormi possibilità, di qualunque istinto e, sotto questo aspetto, gli animalisti avranno tutte le ragioni di questo mondo a preferire gli animali agli esseri umani.

Anzi, questo forse spiega il motivo per cui tutte le specie animali, appena hanno modo di conoscerlo, hanno terrore dell’essere umano. È da almeno 6000 anni che gli animali sono abituati a vederci come il loro nemico n. 1. E non sarebbe strano se essi si fossero trasmessi questa paura anche per via genetica. Non è affatto vero, parlando per assurdo, che i dinosauri sono scomparsi per far posto all’uomo: se ci avessero dato fastidio, avremmo sicuramente trovato il modo di farli fuori. I dinosauri rappresentano soltanto l’infanzia dell’umanità, quando, da piccoli, ci piaceva giocare coi mostri, coi giganti dalla forza spaventosa. I dinosauri sono scomparsi perché noi siamo diventati adulti e abbiamo capito che più importante della forza è l’astuzia e più importante dell’astuzia è la capacità di voler bene, cosa che solo con una coscienza matura sappiamo esercitare.

Povertà della logica ateistica

Nel numero 5/2013 di “MicroMega”, intitolato Ateo è bello! Carlo Bernardini basa il proprio ateismo “scientifico” su ciò che disse un accademico neopositivista, Richard von Mises: “Non esiste la dimostrazione della non-esistenza di ciò che non esiste”.

Detto da un esponente del Circolo di Berlino (non di Vienna), la cui filosofia aveva apprezzato quella del Trattato di Wittgenstein, fa un po’ specie. Che poi lo ripeta un fisico prestigioso come Bernardini, è increscioso.

È dai tempi del logico Frege, anzi forse da quelli di Hume e Leibniz, che non ci si permette più di dire che, in campo logico, una proposizione è vera se ha una qualche corrispondenza nella realtà. La logica moderna non è come quella aristotelica: non si basa su soggetto e predicato, che devono trovare conferme nella realtà, secondo il famoso sillogismo: “Se tutti gli uomini sono mortali, e Socrate è un uomo, Socrate è mortale”. Cosa che gli Scolastici neo-aristotelici chiamavano “adaequatio rei et intellectus”.

La logica moderna, quella astratta della borghesia, si basa invece sul fatto che anche una proposizione falsa è sensata, cioè un’espressione può essere sensata anche in quanto “logicamente” falsa. L’esempio di Wittgenstein è famoso: “piove o non piove”: anche la negativa è vera e può convivere tranquillamente con l’affermativa, anzi, proprio questa sussistenza permette di creare qualunque tipo di proposizione.

L’informatica si nutre di queste cose, facendo suo l’esempio, in positivo, che Bernardini usa per dimostrare la fondatezza del proprio ateismo: “La dimostrazione dell’esistenza del pane è il pane”. Bella tautologia questa, che, per quanto esistenzialmente povera, Wittgenstein avrebbe però rovesciato immediatamente nel suo contrario, proprio per rendere la logica più stringente: “La dimostrazione dell’esistenza (sottinteso: logica) del non-pane è il non-pane”.

In campo informatico, quando si devono elaborare algoritmi, “pane” e “non-pane” si equivalgono perfettamente. In logica la forma è sostanza. Pertanto dire che dio non esiste perché il credente non può dimostrarne l’esistenza, non ha senso. In campo logico non si deve “dimostrare” alcunché di metafisico, se non una propria interna coerenza formale, che i logici si guardano bene dal contraddire prendendo esempi dalla realtà. E in questo, purtroppo, bisogna dire che sbagliano, poiché la logica della vita, per quanto contraddittoria sia, è sempre più interessante e avvincente della logica formale dei segni e dei simboli.

Non è comunque sul piano della “dimostrazione logica” che l’ateismo può giocare la propria partita con il misticismo. Non è certo con la tautologia del pane che si dimostrano le contraddizioni del pane eucaristico! Infatti non si tratta – diceva Wittgenstein – di “di/mostrare” qualcosa. In campo etico si può soltanto “mostrare” qualcosa, cioè al massimo l’ateo può essere più convincente del credente se “mostra” sul piano etico d’essere migliore di lui. E quando riuscirà a farlo, sul piano etico, che è quello dell’affronto dei bisogni e delle umane contraddizioni, possiamo star tranquilli che sarà migliore anche di quell’ateo che basa il proprio ateismo su affermazioni meramente logiche.

Mettere la retromarcia

Dovremmo chiederci il motivo per cui il nostro pianeta ha avuto bisogno di 4 miliardi di anni prima di poter essere abitato da noi. Supponiamo infatti di dover popolare l’universo. Se per rendere abitabile un pianeta, ci volesse un tempo così lungo, la cosa sarebbe impossibile o comunque non avrebbe senso tentarla.

In questo momento noi stiamo cercando dei pianeti che abbiano almeno l’acqua, dalla quale si potrebbe ricavare l’ossigeno, cioè la vita. Ma sappiamo bene che la vita non ha bisogno solo di ossigeno. Bisogna porre le condizioni perché essa si possa riprodurre automaticamente, senza intervento umano. La natura ha proprio la caratteristica d’essere indipendente dalla nostra volontà.

In realtà noi siamo lontanissimi dal poter porre le condizioni perché nell’universo si possa formare, su qualche pianeta, una natura del tutto autonoma. Tutto quello che potremmo fare, al di fuori del nostro pianeta, sarebbe di tipo artificiale. Persino sulla Terra non siamo in grado di garantire alla natura una sua riproducibilità del tutto naturale.

Chi pensa, in questo momento, di poter popolare l’universo, nelle condizioni artificiali in cui ci troviamo, perde solo il suo tempo. Occorre prima che la sostanza del nostro essere assuma una nuova forma, adatta a vivere nell’universo.

Al momento possiamo soltanto chiederci come salvaguardare integralmente la natura del globo terracqueo, poiché questo, per permettere a noi di esistere, ha avuto bisogno di una gestazione incredibilmente lunga, tanto che ci vien quasi da pensare a una sorta di unicità in questo “esperimento” dell’universo. Non è possibile pensare che, una volta che il genere umano avrà acquisito la capacità di abitare il cosmo intero, ci voglia un tempo altrettanto lungo per costruire altri pianeti abitabili.

Noi, quando facciamo scienza, possiamo facilmente constatare di non aver bisogno di ripetere tutto il percorso di chi ci ha preceduto. Siamo abbastanza intelligenti da capire che possiamo partire dalle ultime cose che sono già state compiute. Grazie al fatto che abbiamo, in qualunque momento, la possibilità di posizionarci, come nani, sulle spalle dei giganti, possiamo esportare facilmente scienza e tecnica là dove si è ancora all’età della pietra. Il progresso, grazie all’uomo, diventa molto veloce. Può darsi quindi che, quando dovremo realizzare l’obiettivo di popolare l’universo, potremo fare la stessa cosa.

Il problema semmai è un altro. È il criterio di trasmissione del nostro progresso scientifico che andrebbe messo in discussione. Noi abbiamo fatto della scienza e della tecnica l’occasione per distruggere la natura, ponendoci fuori dalle condizioni di spazio-tempo in cui ci è stato chiesto di vivere. Cioè abbiamo voluto dimostrare una nostra capacità di trasformazione che è andata ben oltre i limiti di agibilità che la natura ci aveva consentito.

La natura infatti non può sopportare elementi che minaccino la sua esistenza, tanto più che questa ha avuto bisogno di oltre 4 miliardi di anni per assestarsi e consolidarsi in maniera definitiva. I delicati equilibri che in questo lunghissimo tempo si sono creati, non possono essere violati impunemente, meno che mai se lo vengono oltre un certo limite di estensione o d’intensità.

Quindi dobbiamo aspettarci una sorta di gigantesco meccanismo di autodifesa, che sicuramente ci coglierà impreparati, in quanto non siamo abituati a rispettare l’ambiente in cui viviamo. Scatterà in maniera automatica un allarme rosso, che noi stessi usiamo quando si supera una certa soglia di pericolo. Considerando che abbiamo devastato l’intero pianeta, le conseguenze dovranno per forza essere planetarie.

Se si guardano p. es. i deserti, si ha l’impressione che, piuttosto che permettere all’uomo di continuare a esistere, la natura preferisce, in un certo senso, mutilarsi, cioè tagliarsi il piede incancrenito per salvare la gamba, nella speranza che su quel che resta l’uomo si comporti con più attenzioni e premure.

Noi dunque dobbiamo aspettarci una reazione a catena prodotta da una arbitraria antropizzazione artificiale della natura. Ed è molto probabile che ciò avverrà contemporaneamente su più livelli, come p. es. l’innalzamento dei mari in seguito allo scioglimento dei ghiacciai, artici e non, causato dal surriscaldamento del clima, che provoca temperature e fenomeni atmosferici sempre più fuori norma e che rende l’aria sempre più nociva e irrespirabile; senza poi considerare che l’allargamento del buco dell’ozono può farci ammalare tutti di melanoma.

Se la natura inizia a collassare su aree molto vaste, il genere umano dovrà ridursi sensibilmente di numero. Ma questo, nelle attuali condizioni di particolare antagonismo sociale planetario, può voler dire soltanto portare il livello di conflittualità ai limiti di una nuova guerra mondiale. Noi stiamo andando in quinta, a tutta velocità, quando invece dovremmo mettere la retromarcia.

Sperare contro ogni speranza

Quando si finisce sulle Ande, perché l’aereo vi si è schiantato contro, e i soccorsi non arrivano e i viveri sono molto scarsi e non c’è alcun modo di comunicare con l’esterno, perché la radio non funziona, e i passeggeri, chi per le ferite riportate, chi per inedia, finiscono, uno dopo l’altro, per morire, e la disperazione comincia a farsi strada nei sopravvissuti, che, guardandosi attorno, avevano per un momento pensato d’essere stati “fortunati” – si vede subito la differenza tra l’ateo e il credente.

Uno prega, l’altro no; uno è passivo, rassegnato, l’altro no; uno dice di aspettare i soccorsi, l’altro invece li vuole andare a cercare tra quelle montagne impervie e innevate. Uno si affida a dio, l’altro al proprio io e cerca di convincere altri io a rischiare il tutto per tutto. Preso dalla terribile fame l’ateo propone di mangiare i cadaveri degli altri passeggeri; il credente, invece, si oppone per motivi di coscienza: ne fa una questione ideologica.

Dov’è dunque la vera differenza tra i due atteggiamenti? Dobbiamo forse pensare che l’ateo faccia di tutto per sopravvivere perché ritiene che non esista alcun aldilà? E che il credente faccia bene ad essere indifferente nei confronti della morte, perché sa che comunque tornerà a vivere? Dei due quindi dobbiamo ritenere più immaturo, più sprovveduto l’ateo, che non sa come stanno davvero le cose nell’universo?

No, la differenza non può stare in queste cose, poiché anche l’ateo può pensare che la vita continui dopo la morte. Se ritiene che l’universo sia infinito e che tutto quanto vi è contenuto si trasforma perennemente, niente gli impedisce di crederlo.

In fondo il credente non può avere alcuna certezza del suo “paradiso”: è solo una sua convinzione personale, in cui chiunque può credere, senza per questo dover scomodare l’esistenza di un fantomatico dio. La differenza, tra i due, non può essere così banale: deve per forza essere un’altra.

Il credente pensa di poter esibire ciò che lo distingue dall’ateo, per far vedere che è migliore, che il suo atteggiamento rassegnato e autoconsolatorio è quello giusto. Lui attende fiducioso un intervento miracoloso e si sente autorizzato a pensare che, se questo non arriva, la loro o la sua sia soltanto una prova da superare, magari per misurare la fede o per punire, lui o qualcun altro, di qualche peccato compiuto. Lui è lì, tutto pronto a fare delle supposizioni metafisiche.

No, l’ateo non farebbe mai ragionamenti del genere, così paralizzanti: tanto meno accetterebbe l’idea che quella tragica avventura deve servirgli per mutare opinione sulle questioni della fede. Anzi, troverebbe il modo di organizzarsi per cercare di salvare tutti, perché per lui la vita va vissuta sino in fondo, è tutto quello che è in suo potere di fare, deve farlo.

In questo sta la sua diversità: se deve morire, vuol farlo camminando, non stando a sedere, chiuso in quel rottame abbandonato da dio. Cercherà un modo per comunicare, anche a costo di attraversare a piedi quell’enorme catena montuosa. Si attrezzerà, pensando di dover sopravvivere a 40 gradi sotto zero e in un sacchetto metterà una scorta di carne umana. Non darà per scontato, senza prima provarci, che non ci sia più nulla da fare.

E una volta che avrà trovato i soccorsi, farà capire al credente cosa vuol dire l’espressione “sperare contro ogni speranza”. Sì, farà capire proprio a lui cosa vuol dire “aver fede”.

La verità fa male a chi non sa mentire

Quando uno pone una domanda del genere: “Che cos’è la verità?”, vien da chiedersi se stia scherzando o se sia cinico. Neanche i bambini se la pongono, perché, nella loro beata innocenza, sanno istintivamente che cosa sia, relativamente al loro “piccolo mondo antico”, così tanto amato dal Pascoli “fanciullino”.

Possibile che un adulto debba essere così diverso da aver completamente dimenticato ciò che in lui era naturale? Uno che avesse coscienza di questa grave rimozione, assai peggiore di tutte quelle freudiane, dovrebbe preoccuparsene seriamente, chiedendosene quanto meno la ragione. E cercare di capire se vi sia qualche possibilità di rimedio.

La verità rende liberi, in coscienza naturalmente, avendo la vita bisogno anche della giustizia: lo sappiamo da millenni. Dunque perché viviamo come schiavi? Potremmo fare a meno di queste catene o vi siamo costretti? Possibile che la falsità sia diventata la regola e la verità l’eccezione?

Qui infatti non è neanche il caso di parlare di bugie dette a fin di bene; non è in discussione l’esigenza di non poter dire tutta la verità: cosa inevitabile quando, chi ci ascolta, non è sufficientemente maturo per reggerla. Qui non stiamo parlando di quelle mezze verità o mezze bugie che si dicono per non offendere qualcuno, per non apparire scortesi, per non creare incidenti diplomatici, per non mettere in imbarazzo o tradire un amico, per non sfigurare di fronte al proprio partner o per non farlo sentire in colpa.

Qui stiamo parlando del fatto che come apriamo bocca, mentiamo. Dire falsità ci è diventata una seconda natura, quasi un istinto insopprimibile. Siamo così bravi a farlo che anche la macchina della verità ci fa un baffo. Tant’è che nei processi americani non la considerano minimamente. In un paese dove gli attori diventano presidenti e i presidenti recitano come attori, farebbe ridere il contrario.

Insomma, ogni giorno che passa diamo sempre più per scontato che la verità non esiste, e quando qualcuno fa delle affermazioni probanti o persuasive, le consideriamo mere opinioni e siamo disposti a credervi solo se vi siamo indotti da qualcosa che è più forte di noi: p. es. un desiderio di rivalsa dopo anni e anni di frustrazioni o di promesse che altri non hanno mantenuto, in cui abbiamo creduto inutilmente. Non ci fidiamo di qualcuno perché pensiamo dica la verità o perché conduce una vita esemplare, ma perché gli altri ci disgustano.

Sapere che qualcuno dice la verità c’interessa fino a un certo punto. Quel che più ci preme, infatti, è sapere se da ciò che si è ascoltato, possiamo ricavarci qualcosa. Crediamo in certe affermazioni non perché le riteniamo vere, ma perché possono servirci: la verità sta nell’interesse o nell’utilità. Non esiste la verità in sé o, se esiste, non possiamo dirla, anzi, neppure vi riusciamo. Dobbiamo vivere come se non ci fosse. E non è sufficiente togliere l’interesse o l’utilità per farla emergere, perché in una società, anzi, in una civiltà individualistica e materialistica come la nostra, è impossibile farlo.

Quando si è reciprocamente nemici, bisogna anzitutto difendersi, e il primo modo di farlo è quello di mentire. La prima regola fondamentale per sopravvivere è quella di non dire mai quello che si pensa, anzi, possibilmente è meglio dire il contrario, e di farlo ripetutamente, affinché chi ci ascolta non abbia l’impressione che qualche volta mentiamo e qualche volta no. Dobbiamo essere coerenti nel male che facciamo, proprio per essere più credibili.

Dobbiamo far credere di dire la verità mentendo: questa è un’arte che si acquisisce solo con un certo addestramento. E se qualcuno ci scopre incoerenti, subito dobbiamo accusare qualcun altro o di averci frainteso o di averci impedito con la forza di realizzare i nostri sogni. Un capro espiatorio cui far scontare il peso delle nostre menzogne, si può sempre trovare.

A questo punto ci si può chiedere: si può continuare ad andare avanti così? Non stiamo forse rischiando di arrivare a un punto in cui qualunque cosa si dica, a prescindere dal ruolo che si ricopre, non verrà mai creduta? Pensiamo davvero che per credere nella verità sia sufficiente che qualcuno giuri sulla testa dei propri figli o, se ci crede, sulla Bibbia? È difficile pensare che uno, da sempre abituato a mentire, si possa spaventare davanti al giudizio di dio o a quello dei propri figli. Troverà sicuramente delle buone motivazioni per giustificarsi, e allora dovranno essere i figli o lo stesso padreterno ad ammettere di non averlo capito. Nessuna pena può impensierire il bugiardo incallito, a meno che noi, invece d’imitarlo, smettessimo di credergli.

In Italia, peraltro, quando mai qualcuno viene scoperto a mentire o si pente per le menzogne che ha detto? Nel migliore dei casi si patteggia, ma a porte chiuse, quelle del tribunale o della propria coscienza. Nei tribunali non esiste la verità, ma solo una posizione di comodo, in linea col rispetto puramente formale delle regole. Agli avvocati non interessa neppure “sapere la verità”, quanto di vincere la causa e intascare la parcella: il cliente viene tanto più difeso quanto più paga.

Ai processi dovrebbero chiedere agli imputati di pronunciare una formula di rito molto semplice: “Provi in coscienza a dire la verità e la Corte s’impegna a tenerne conto il più possibile”.

Chiedere perdono dei propri crimini

In un universo infinito nello spazio ci si può nascondere dove si vuole pur di non pentirsi del male che s’è fatto. Poiché l’universo è anche eterno nel tempo, ci si può nascondere per sempre. Nell’universo infatti si ha consapevolezza che il suicidio non può essere fisico ma solo spirituale. Ci si nasconderà per l’eternità in un luogo remoto per la vergogna di ciò che s’è fatto, ma anche per la pervicace volontà di non pentirsi.

Sulla terra le cose sono un po’ diverse. Se uno ha compiuto crimini orrendi e, a un certo punto, s’accorge di non poter sfuggire alla giustizia, può arrivare a suicidarsi oppure a rassegnarsi ad avere il massimo della pena, che è la sentenza capitale o l’ergastolo. Cioè uno può pensare che, prima o poi, finirà di provare vergogna d’essere stato condannato per il reato compiuto.

Ma nell’universo questa stessa persona cosa dovrà pensare? A dir il vero uno può anche pensare d’aver compiuto i propri crimini secondo una certa plausibile motivazione o razionale giustificazione, per cui non ritiene di doversi pentire o comunque di non doverlo fare più di tanto. Quanti sostengono d’aver agito come criminali senza essere stati pienamente coscienti o perché condizionati da un drammatico passato o perché dovevano obbedire a un ordine superiore o perché accecati da un’ideologia o perché convinti che, in quel modo, avrebbero evitato un male peggiore? All’interno di considerazioni così particolari è difficile pentirsi al 100%, o almeno è molto difficile farlo da soli.

Ci vuole qualcuno che ci faccia capire fino a che punto si giocava la nostra responsabilità al momento di compiere un determinato crimine. Uno ha il diritto d’essere aiutato a pentirsi in qualunque momento, anche se gli si deve sempre garantire la libertà di non volerlo fare. Sono situazioni complesse, anche perché l’aiuto non può certo essere dato sulla base di motivazioni superficiali o schematiche. Bisogna saper tener testa alle argomentazioni sofisticate dei grandi criminali, che in genere sono uomini politici o militari o anche uomini di chiesa o intellettuali in grado di esercitare poteri significativi, come p. es. gli scienziati, i consiglieri, i funzionari…

Una differenza sostanziale, comunque, c’è: nell’universo la prigione o, se vogliamo, la pena è tutta interiore. Questo perché, essendo infinito nello spazio, l’universo permette a chiunque di non essere condizionato negativamente dall’atteggiamento altrui. Su questa terra, invece, gli uomini hanno sempre paura dei criminali: temono che i loro crimini possano ripetersi, anche se, essendo i grandi criminali le persone di potere, i comuni cittadini cercano di difendersi come meglio possono.

Paradossalmente là dove le condizioni di spazio e di tempo sono illimitate, l’importanza delle questioni di coscienza cresce in maniera esponenziale. Se non c’è alcun limite esterno all’agire, tutto dovrà giocarsi sulle potenzialità interne che uno dovrà per forza scoprire d’avere. E sarà su queste potenzialità che si dovrà prendere una decisione: o giocarsele tutte, mettendosi a disposizione di un proprio cambiamento significativo, o non giocarsele affatto, rendendo la propria coscienza impermeabile alle influenze altrui.

Di sicuro il tempo per ripensarci non mancherà. Nessuno può essere obbligato né a pentirsi né a non pentirsi: questa regola dovremmo adottarla anche sulla terra. Se esiste un inferno, è solo per chi lo vuole: non può esserci nessuna porta con scritto sopra: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. Quindi niente torture, ma anche niente condanne definitive.

Naturalmente questo discorso vale anche per chi ha subito il crimine, il quale, con non meno intensità emotiva del criminale, deve essere disposto a perdonare. E, per poterlo fare, deve essere convinto di almeno due cose: la prima è che il criminale può aver avuto delle motivazioni plausibili; la seconda è che nessuno è mai totalmente innocente. Cioè dentro quelle motivazioni ce ne può essere una che riguarda, in qualche modo, la stessa vittima. Si pensi solo al fatto che esiste colpevolezza anche quando, vedendo compiere un crimine contro qualcuno, si pensa che ciò non ci riguardi. La storia è stracolma di questi peccati di omissione. Non si è abbastanza vigili e solerti per colpa del nostro opportunismo qualunquismo egoismo cinismo…: possiamo chiamarlo come ci pare.

Bisogna infine stare attenti che nell’universo non è come su questo pianeta, dove i criminali, abituati a ragionare in termini giuridici, fanno calcoli sulla possibile convenienza che hanno a pentirsi. Nell’universo l’unica vera legge umana sarà quella della libertà di coscienza: sarà impossibile dimostrare d’essere pentiti senza versare fiumi di lacrime. Non avrà alcun senso dimostrare d’essere pentiti rivelando i nomi dei propri complici o restituendo il maltolto: la verità sui grandi crimini dell’umanità sarà alla portata di tutti. L’unica “indagine” da fare sarà quella nei confronti di se stessi.

Non solo, ma anche dopo aver versato fiumi di lacrime, non si potrà pretendere che le nostre vittime ci perdonino. La riconciliazione tra vittima e carnefice potrà avvenire solo nella più assoluta libertà reciproca. Per questo motivo dovremmo sin da adesso abituarci a compiere significativi gesti di riparazione là dove si sono compiuti orrendi crimini. Dobbiamo abituarci a chiedere scusa con insistenza, nella speranza che la vittima, quando vorrà, si convincerà della nostra buona fede.

Organi sessuali e civiltà

Gli organi sessuali sono preposti a tre funzioni: biologica, erotica e riproduttiva. La natura ha concentrato in un unico organo tre funzioni molto diverse. Non può averlo fatto soltanto per motivi “economici”, anche perché la funzione biologica ripugna a quella erotica e quest’ultima guarda con timore quella riproduttiva. Ci deve essere dietro alla motivazione “economica” (che potremmo chiamare anche “fenomenologica”, essendo molto evidente), una motivazione di tipo ontologico, cioè più profonda.

Qui sembra esservi espressa un’intelligenza di tipo etico, che appare inverosimile in ciò che siamo soliti definire col termine di “natura”. Sembra cioè di avere a che fare con una natura dall’intelligenza umana, in grado di prevedere un uso sbagliato, unilaterale, di una funzione, quella erotica, e quindi in grado di aiutarci a prevenirlo senza alcuna particolare forzatura, semplicemente mettendoci di fronte alle nostre responsabilità, come ci accade quando leggiamo quegli avvisi presso le centrali elettriche: “Chi tocca i fili, muore!”.

E’ come se la natura avesse predisposto che i nostri organi sessuali non possano essere usati nelle loro funzioni separate, se non in via temporanea o transitoria. In ultima istanza le funzioni devono restare correlate, poiché, quando non lo sono, occorre chiedersi se ciò sia naturale. Facciamo degli esempi:

  1. se l’erotismo è fine a se stesso, la perversione diventa inevitabile, come p. es. nella pornografia, nella prostituzione, ecc.;
  2. se il biologismo esclude per principio la riproduzione, diventa una forzatura, come p. es. nel celibato dei preti, negli eunuchi, ecc.;
  3. se la riproduzione viene resa obbligatoria, diventa un’ideologia, come quando la chiesa chiede una piena disponibilità a procreare ogni volta che si hanno rapporti sessuali, oppure quando si costringe la donna al solo ruolo di madre.

Questi sono tutti atteggiamenti contronatura. Quindi dovremmo ammettere che la natura ha previsto una coesistenza equilibrata di aspetti etici ed estetici, oltre che fisiologici. Ora quand’è che viene meno questo equilibrio? Viene meno quanto più l’umano si allontana dal naturale, cioè quanto più frappone tra sé e il naturale qualcosa di artificiale. L’essere umano è l’unico ente di natura in grado di farlo. L’artificio, ovvero il mezzo meccanico, gli permette di vivere un erotismo fine a se stesso o comunque non finalizzato alla riproduzione.

Per certa ideologia religiosa questo è peccato, ma i diretti interessati sanno bene che in una società conflittuale, dove il naturale è quasi del tutto scomparso, la riproduzione può avere costi proibitivi. Non voler rendersi conto di questo “handicap”, significa appunto essere schematici, farisei.

Dunque che possibilità abbiamo di ripristinare le funzioni naturali degli organi sessuali? Al momento nessuna. Anzi, la vita è così artificiale e complicata che persino la riproduzione si sta meccanizzando sempre di più, proprio in quanto le coppie sono sempre più restie a riprodursi e quelle infertili e sterili aumentano progressivamente, senza sosta.

Questo è un sintomo abbastanza eloquente e non possiamo certo minimizzarlo scegliendo come alternativa l’adozione di bambini abbandonati. Se nella riproduzione prevale l’artificiale, la natura, ad un certo punto, non sa più che farsene di noi e tende a emarginarci, a espellerci dal suo circuito riproduttivo e quindi addirittura dalla storia, sua e nostra. Noi infatti ci siamo illusi che i mezzi meccanici non potessero avere su di noi conseguenze irreparabili e che si potesse in qualunque momento fare un’inversione di marcia.

Questo, ovviamente, non è un problema della sola nostra società, bensì dell’intera civiltà industrializzata. Guardando come si è evoluto, sarebbe bene che il sistema capitalistico scomparisse dalla faccia della terra, proprio per permettere alla natura e a quelle poche popolazioni che vivono ancora in maniera naturale, di salvaguardarsi e, possibilmente, di farlo nel migliore dei modi.

Noi occidentali non dovremmo preoccuparci d’essere emarginati o espulsi dalla natura e dalla storia, quanto piuttosto di come favorire le condizioni perché qualcuno possa sopravvivere a un nostro declino che pare irreversibile. Il destino dell’umanità infatti è quello di popolare l’intero universo, ma nelle condizioni in cui attualmente ci troviamo, noi occidentali di sicuro siamo la popolazione meno adatta.

Uomo e Natura: la soluzione finale

Perché la natura, nel nostro pianeta, conserva tratti così spaventosi come le eruzioni vulcaniche, che fanno somigliare la Terra a una stella raffreddatasi soltanto in superficie e che la rendono molto diversa p.es. dalla placida Luna? Vien quasi da pensare che il nostro destino non sia quello di vivere un’esistenza meramente terrestre, proprio perché abbiamo a che fare con un pianeta soggetto a mutazioni sconvolgenti, del tutto imprevedibili e assolutamente irreversibili.

In attesa di metterci, come Noè, nell’ordine di idee che, presto o tardi, saremo costretti a traslocare in altri lidi, dovremmo intanto, e quanto meno, disabituarci all’idea di poter avere delle sicurezze che prescindono dalle fondamentali caratteristiche della natura sul nostro pianeta, di cui la principale è appunto l’instabilità, cioè il fatto che la materia possiede un’energia che l’essere umano non è in grado di controllare come vorrebbe, e probabilmente non vi riuscirà mai.

Nella sua profonda complessità, la natura ha una potenzialità che, in ultima istanza, ci sfugge. Tuttavia questo per noi è una garanzia, non un limite. Se noi non fossimo così insicuri a causa dell’antagonismo sociale, non vedremmo l’instabilità della natura come un pericolo, ma come l’espressione di una diversità irriducibile, che non possiamo controllare a nostro piacimento. Noi avvertiamo la natura come un nemico perché siamo nemici di noi stessi.

Tutto quanto la natura fa di “pericoloso” (o che a noi sembra tale), o è stato provocato da noi stessi, agendo in maniera irresponsabile sui suoi processi riproduttivi, oppure si tratta soltanto di semplici manifestazioni naturali della materia, che noi consideriamo innaturali solo perché da seimila anni abbiamo scelto di avere con la natura un rapporto egemonico.

Noi non sappiamo più esattamente cosa sia la natura, proprio perché abbiamo interposto nel rapporto con essa degli elementi del tutto artificiosi, che vanno a incidere, irreversibilmente, sui processi generativi e riproduttivi della stessa natura.

Finché questa interferenza restava circoscritta a determinate aree geografiche e popolazioni, i danni non superavano l’ambito locale e regionale; ma oggi i danni sono planetari, sempre più gravi e apparentemente irrisolvibili, in quanto ogni tentativo di soluzione che parta dall’antagonismo sociale è destinato a non produrre alcun rimedio significativo. Questo per dire che il genere umano è diventato il pericolo numero uno per la sopravvivenza del pianeta.

Per risolvere questo problema, di proporzioni gigantesche, non c’è altro modo che superare quello che i latini chiamavano bellum omnium contra omnes, determinato dalla proprietà privata dei mezzi produttivi, tutelata dallo Stato.

Le istituzioni non sono assolutamente in grado non solo di risolvere questo problema, ma neppure di porselo come obiettivo. Se la società non recupera la sua indipendenza nei confronti dello Stato, dimostrando che può fare a meno di qualunque organo istituzionale, e se all’interno della società civile non si pongono le condizioni per cui il benessere individuale abbia un senso solo all’interno del benessere collettivo, l’esistenza del genere umano su questo pianeta non ha alcuna ragion d’essere.

Non saranno certamente le popolazioni abituate a vivere in maniera conflittuale ad avere il diritto di popolare l’universo. Quello che abbiamo creato negli ultimi seimila anni non va considerato come una parentesi nell’evoluzione del genere umano, ma come una sorta di “soluzione finale”, un punto di non ritorno.

Essere artisti

Prima di dedicarsi a una qualunque attività artistica, dove l’estro, il genio, la sregolatezza sono una costante (anche per la riuscita della stessa opera d’arte), uno dovrebbe avere una maturità personale sufficiente almeno a sostenerlo quando il successo gli volterà le spalle.

Se uno si sente artista, deve pensare anzitutto a cercare un proprio equilibrio interiore, quello che permette d’essere il più possibile se stessi nella buona e nella cattiva sorte, benché sia puro idealismo sostenere che le circostanze non possano arrivare a modificare, anche profondamente, la personalità o lo stile di vita delle persone.

Certo, si può sempre obiettare che il valore dell’artista sta proprio nella sua diversità, nel voler fare dell’eccesso la sua fortuna. Molti artisti, in effetti, riescono in questa impresa e si affermano al grande pubblico, ma bisogna stare attenti ai prezzi da pagare, perché possono non essere pochi o comunque di entità non lieve.

Gli artisti soffrono di solitudine, perché possono sentirsi incompresi o emarginati o strumentalizzati da chi vuole sfruttare il loro talento. Non vivono rapporti normali o, in ogni caso, fanno molta fatica a vivere un’esistenza simile a quella della stragrande maggioranza delle persone. Sono portati a sognare, confondendo facilmente la realtà con la loro fantasia. Pensano, molto ingenuamente, che per realizzare dei rapporti autentici sia sufficiente che il pubblico li apprezzi per le loro capacità.

In tutti i rapporti che vivono, ad un certo punto fa capolino l’impressione che vi sia, nelle persone che frequentano, un fondo d’ipocrisia: temono d’essere apprezzati soltanto per il loro talento artistico e non anche per la loro persona, per quello che pensano di essere, anche al di là della stessa arte. Di qui l’idea, quando si sono arricchiti a dismisura, di porre ogni relazione sotto contratto, quando addirittura non fingono l’anonimato, sperando d’incontrare una persona che li ami o li consideri per quello che sono, per quello che pensano, a prescindere dalla loro arte.

Cercano il successo e stanno male quando lo perdono, non solo perché devono conservare un certo tenore di vita, ma anche perché, sul piano psicologico, il successo dà dipendenza come una qualunque sostanza stupefacente. Dietro ogni successo tendono a nascondere le loro frustrazioni, le loro insicurezze psicologiche, le debolezze di carattere. Spesso hanno cercato la fama per riscattarsi da una vita difficile. Ma il successo esige prestazioni di alto livello, superiori alla media, e l’artista si rende facilmente conto di non poter essere sempre all’altezza della situazione.

L’artista rischia di vivere la vita in maniera sdoppiata, assumendo una faccia per il pubblico e conservandone un’altra per la vita privata. Per non dover soffrire questa lacerazione, egli tende a inglobare sempre più la vita privata in quella pubblica, trasformando tutto in una sorta di esperienza teatrale, come se ci si dovesse esibire continuamente su un palcoscenico. Oppure se la prendono a morte coi fotografi che violano la loro privacy: come se nella nostra società, che vive di scandali e pettegolezzi, un artista affermato potesse avere una propria vita privata.

L’artista che vuole campare sfruttando il proprio talento e che al di là di una certa espressività artistica non saprebbe cosa fare, è fondamentalmente una persona immatura. Non si rende conto che non si può vivere in funzione dell’arte, poiché l’arte trova la sua vera ragion d’essere soltanto quando esprime la vita, cioè quando rappresenta qualcosa di significativo, qualcosa che non si può certo vivere al massimo tutti i giorni.

Se uno vive solo per l’arte, è costretto continuamente a non stare mai fermo, a cercare, ovunque gli capiti, una qualche fonte ispirativa, che gli permetta di rimanere sulla cresta dell’onda. E quando non la trova è facile ch’egli arrivi ad accettare compromessi poco dignitosi, nell’illusione di poter conservare la fama raggiunta, cioè di poter essere apprezzato qualunque cosa faccia.

Proprio mentre pensa di sentirsi libero non lavorando sotto padrone, o di poter dettare al committente le proprie condizioni, si ritrova schiavo della propria ambizione, del proprio egocentrismo. Il vero artista è quello che non si dispera all’idea di dover morire di vecchiaia lontano dal palcoscenico, è quello contento del proprio presente e non si mette a raccontare continuamente il proprio passato.

Vendetta o perdono?

La scelta tra vendetta e perdono sta nel mezzo, cioè nella speranza che chi ha compiuto il torto non possa più ripeterlo. Ovviamente sarebbe meglio averne la certezza, ma se si pensa di poterla avere quando è in gioco la libertà di coscienza, ci illudiamo soltanto. L’unica cosa certa è che non si può essere schematici: non si può fare una scelta a prescindere da qualunque altra considerazione. Non si può essere vendicativi o perdonisti per partito preso: qui la differenza non è tra ateismo e religione, tra cinismo e buonismo, ma tra maturità e infantilismo.

Forse quello che dà più fastidio non è tanto il fatto di aver subito un’offesa, poiché ciò può anche inorgoglire: a volte infatti esiste una punta di autocompiacimento anche nel vittimismo, a condizione ovviamente che gli altri sappiano che abbiamo patito un’ingiustizia evidente. Gli altri devono soprattutto sapere che si soffre in silenzio, senza reagire.

Una sofferenza del genere, tutta interiore, ingiustificata, immeritata, non può però essere tenuta dentro: va resa pubblica, perché solo così se ne può attenuare l’intensità. Altrimenti il rischio è che possa esplodere e che chi ha subìto un torto si comporti peggio di chi l’ha procurato. Naturalmente per renderla pubblica, occorre unacomunità di riferimento, che faccia da supporto, che attenui il dolore, che dia forza, anche nel denunciare il torto, quando si pensa di non averne abbastanza da soli.

Ma quello che assolutamente dà più fastidio è che il colpevole continui ad agire indisturbato. Ancora di più si soffre quando si constata che le istituzioni non fanno il loro dovere per catturarlo, per punirlo, per impedirgli di reiterare la colpa. E ancora ancora di più quando la comunità attorno a noi non ci aiuta, non fa pressione sulle istituzioni perché giustizia venga fatta.

Ecco, in situazioni del genere può scattare il desiderio di una vendetta privata, l’esigenza di diventare dei “giustizieri della notte”. Si risponde in maniera individualista a un reato compiuto per colpa dell’antagonismo sociale. E non se ne esce. Invece di approfittare dell’occasione per ripensare i criteri di vita, si reagisce riconfermandoli, e la violenza privata diventa una spirale senza fine, come nelle faide d’un tempo.

Bisogna togliere all’individuo il diritto di vendicarsi, ma questo è possibile solo se gli si assicura che si farà di tutto per trovare il colpevole e soprattutto che si discuterà insieme sulle motivazioni che possono aver portato a quel suo determinato comportamento. Affinché non si ripeta.

Certo, è importante che l’offesa venga pagata (chiunque deve sapere che ogni reato ha il suo prezzo), ma è ancora più importante la consapevolezza d’aver posto le basi perché esso non si ripeta. Uno può anche accontentarsi di non aver ottenuto una piena soddisfazione o riparazione personale, ma in alternativa bisogna offrirgli la convinzione d’aver ottenuto una soddisfazione più generale, riguardante l’intera collettività, foss’anche soltanto quella locale d’appartenenza.

Non solo va rieducato chi ha compiuto il torto, ma anche chi l’ha subìto, perché, se da un lato è vero che lo Stato deve dimostrare che non c’è alcun bisogno di ricorrere alla vendetta privata, in quanto le istituzioni funzionano e non sono colluse con la criminalità; è anche vero, dall’altro, che non serve dare al colpevole una punizione esemplare, come p. es. il carcere a vita o la pena di morte. Condanne di questo genere non fanno parte della giustizia ma solo della vendetta. Nessuno ha il diritto di togliere a un altro la possibilità di pentirsi. E nessuno ha il dovere di far credere che la responsabilità di un crimine ricada solo sul criminale.

Lo Stato non può chiedere al cittadino di non esercitare una vendetta privata affinché possano esercitarla pubblicamente le istituzioni, sotto la parvenza della legalità. E’ un segno di maturità saper trasformare le colpe in occasioni di ripensamento di comportamenti abituali. Bisogna mettere il colpevole nelle condizioni di capire che anche grazie a lui, indirettamente, la collettività ha avviato un processo di revisione di determinati stili di vita.

Questi processi rientrano in quella branca del sapere che si chiama psico-pedagogia politica e che ancora, purtroppo, è poco sviluppata, in quanto si tende a fare della psico-pedagogia una scienza da utilizzarsi contro i guasti o le manchevolezze della politica o delle istituzioni in cui la politica viene esercitata.

Umano e Naturale, da qui all’eternità

Una persona autoconsapevole non può avere alcun interesse a sapere com’è nata, perché, anche se potesse guardarsi sin dal momento della fecondazione, non sarebbe in grado di riconoscersi. Se quei nove mesi di gestazione fossero davvero importanti, ai fini dell’identità di sé, noi dovremmo conservarne piena memoria; invece noi non ricordiamo neppure i nostri primi anni di vita. La nostra memoria inizia a svilupparsi verso i tre-cinque anni e non ci preoccupiamo affatto di non ricordare nulla di quanto fatto prima.

Questo vuol dire che il momento del nostro concepimento, della nostra gestazione in utero e persino dei nostri primi anni di vita hanno, a parità di condizioni tra un neonato e l’altro, un’importanza relativa. Per noi non è importante conoscere l’inizio della nostra vita, poiché l’ignoranza assoluta di questi stati iniziali di esistenza non ci priva di alcunché. E, viceversa, non aumenterebbe di un cappello la nostra conoscenza neppure se noi, nella fase embrionale, fossimo già dotati di una straordinaria memoria.

In qualunque momento della nostra vita abbiamo già in noi tutto quello che ci serve per diventare quel che dobbiamo diventare. Questo significa che per noi ciò che conta è solo il presente. Lo sviluppo avviene solo nel presente: passato e futuro, in un certo senso, non esistono, rappresentano il non-essere, che pur dobbiamo dare per scontato, in quanto, se vogliamo, esso ci precede e ci supera. Quindi, in un altro senso, il non-essere è anche più importante dell’essere.

Non ricordando nulla dei primi momenti del nostro passato, per noi è come se non fossimo mai nati. E il fatto di non sapere quando verrà la nostra fine, ci fa pensare che non moriremo mai. Solo chi ha coscienza di non essere mai nato è convinto di non poter morire mai.

La morte che sperimentiamo su questa terra è equivalente alla nostra nascita: resta indeterminata. Lo diceva bene Epicuro: “se ci sei tu, non c’è lei e se c’è lei non ci sei tu”. Infatti non possiamo assistervi: non possiamo guardarla dall’esterno. Noi non possiamo mai guardarci dall’esterno, nemmeno con uno specchio, poiché, nel momento in cui lo facciamo, non facciamo nulla. Racchiudiamo il presente in un semplice guardarsi, che è quanto di più innaturale. Se ci pensiamo bene, sono i matti  che hanno lo sguardo fisso.

Il fatto di avere coscienza di qualcosa che non ci appartiene (il passato e il futuro, che possiamo vivere solo come presente), ci autorizza a pensare, proprio per questo motivo, che la nostra coscienza è assolutamente illimitata, insondabile nella sua profondità. Cioè la consapevolezza di non poter afferrare completamente tutto il nostro non-essere, rende il nostro essere illimitato. Non a caso noi diciamo di essere figli dell’universo, in cui l’immensità e la profondità e l’infinità della materia per noi costituisce una garanzia assoluta del nostro essere. Non siamo semplicemente figli della terra e tanto meno dei nostri genitori.

Chi pensa che il nostro universo sia limitato o debba implodere o contrarsi o esaurire la propria energia o tornare al punto di partenza, non si rende conto che noi non abbiamo neanche le parole per leggere adeguatamente questo universo. La stessa parola “uni-verso” riflette soltanto quella porzione di universo che noi dalla terra possiamo vedere. Se noi avessimo piena consapevolezza della nostra nascita, ne avremmo anche della nostra morte. Invece questa indeterminatezza si rende assolutamente liberi. La libertà sta proprio nel principio di indeterminatezza, che pur ha le sue leggi.

La garanzia dell’essere è data proprio dal non-essere. Siamo giunti all’opposto di quanto affermava Parmenide col suo schematico principio: “l’essere è, il non-essere non è”. In realtà dovremmo dire che l’essere è proprio perché esiste il non-essere.

Se questo è vero, le implicazioni pratiche sono notevoli. Anzitutto diventa impossibile affermare una qualsivoglia identità senza l’apporto della diversità. Una cultura che pretende di farsi valere prima di entrare in rapporto con altre culture, è solo un’arrogante ideologia, una sorta di totalitarismo, che inevitabilmente si esprime anche in forme politiche dittatoriali.

In secondo luogo dobbiamo sostenere che, se siamo figli dell’universo, tutto quanto di umanonaturale non riusciamo a realizzare nella dimensione terrena, dovremmo necessariamente realizzarlo in una extraterrena, per cui sarebbe bene non perdere tempo su questa terra con le forme individualistiche e antagonistiche.

Gli aspetti umani e naturali sono quelli che caratterizzano meglio la nostra identità: se vogliamo essere noi stessi, non possiamo prescinderne. La nostra libertà di coscienza, che è il valore più grande dell’universo, può essere adeguatamente tutelata solo all’interno di condizioni e processi umani e naturali. Quelle condizioni e quei processi che abbiamo abbandonato negli ultimi seimila anni di storia, cioè da quando abbiamo fatto nascere le civiltà.

Se continuiamo ad essere “disumani” e “innaturali”, l’universo non saprà che farsene di noi. Non ci permetterà di popolare alcun altro pianeta, anche se, sul piano tecnologico, sembriamo quasi pronti per farlo.

La morte, laicamente

Non è possibile che il bene più prezioso dell’universo, la libertà di coscienza, sia legato a un filo, quello dell’esistenza terrena. Non è logico. Sarebbe uno spreco assurdo di energia, anche se simile a quello cui ci ha abituato l’uomo negli ultimi seimila anni, costruendo e distruggendo le cose con una disinvoltura preoccupante.

La cosa potrebbe avere un qualche senso se gli esseri umani fossero tutti relativamente uguali e solo se fossero facilmente riproducibili in condizioni extraterrestri. La natura però ci ha voluti, ognuno di noi, uniciirripetibili e la nostra generazione, stando alle conoscenze di cui disponiamo, sembra avvenire solo su questo pianeta, anche se non possiamo escludere a priori un qualche intervento esterno, nella fase, per così dire, della “fecondazione”, come avviene in tutti i casi riproduttivi, salvo eccezione (p. es. in certi vermi ermafroditi).

Tuttavia, se c’è stato un qualche intervento esterno, nell’essenza non possiamo considerarlo superiore all’essere umano, come non lo sono i genitori nei confronti del figlio che mettono al mondo.

Un’altra cosa che resta da chiarire è il motivo per cui esiste la morte. In natura la morte è un fenomeno meno ricorrente della vita. Per fortuna non siamo tutti farfalle. Coi nostri occhi vediamo che, in ogni cosa, la morte è soltanto il passaggio da una condizione a un’altra. Tutto è soggetto a perenne trasformazione.

Ci si può chiedere però perché questa cosa avvenga anche nell’essere umano, che è dotato del bene più prezioso dell’universo, la libertà di coscienza, che non è cosa che possa essere sostituita o riciclata. La libertà di coscienza muore con la morte del nostro corpo: non c’è niente, su questa terra, che possa farci pensare il contrario.

La cosa che più ci fa riflettere è il motivo per cui un bene così prezioso, il cui valore è assolutamente inestimabile, abbia un destino legato all’esistenza di una cosa materiale, soggetta a deperimento, come appunto il nostro corpo.

Se possiamo rispondere, guardando la natura, alla domanda “perché si muore”, non riusciamo a farlo quando è in gioco l’esistenza umana. Lo strazio per la morte di una persona che si ama è incolmabile. Questa cosa la si vede persino in molti mammiferi (p. es. negli elefanti).

Per rispondere alla domanda sul perché si muore dovremmo però prima chiederci: perché all’aumentare della consapevolezza della libertà di coscienza diminuisce la forza fisica con cui esercitarla? Ovvero perché la saggezza deve riguardare la persona anziana che di quella saggezza, in un certo senso, non sa che farsene e che magari la baratterebbe volentieri con una migliore prestanza fisica, dimostrando così di non essere affatto una persona “saggia”?

Deve essere esistito un tempo in cui la morte veniva vissuta, anche nell’essere umano, come un fenomeno del tutto naturale, come una vera e propria liberazione dal decadimento fisico. Tuttavia anche questa non è una risposta convincente. Qui ce ne possono essere altre due e dobbiamo andarle a cercare nella mitologia religiosa, che nel tempo ha preceduto la riflessione filosofica.

La prima è questa: probabilmente ai primordi dell’umanità era più netta la percezione o addirittura la consapevolezza che l’esistenza umana non riguardava solo il pianeta terra ma l’intero universo, sicché si avvertiva il decadimento fisico come l’anticamera di una mutazione necessaria (e persino desiderata) da una condizione di vita a un’altra, per cui di fronte alla morte, in definitiva, non ci si angosciava ma ci si rallegrava. Il suicidio poteva essere ammesso solo in presenza di un corpo umano in disfacimento, assolutamente irrecuperabile. E’ sufficiente infatti smettere di nutrirsi.

La seconda risposta può essere questa: probabilmente nel corso dell’evoluzione della nostra specie deve essere accaduto qualcosa che ci ha indotto a considerare un’esistenza temporale limitata come una condizione accettabile da sopportare a fronte di un persistente uso improprio della libertà. Nel senso che nel passato dobbiamo avere avuto consapevolezza della piena legittimità, da parte della natura, di limitare su questa terra il tempo a nostra disposizione. La riduzione cioè sarebbe stata voluta proprio a nostro vantaggio, al fine di limitare al massimo gli errori che si potevano compiere.

Ma anche in questo caso nessuna angoscia, quanto piuttosto consolazione. Non avevamo ancora compiuto uno sbaglio nei confronti del quale non si poteva trovare rimedio.

Entrambe queste risposte – è facile notarlo – ci portano a credere che i nostri più antichi progenitori si sentissero parte dell’intero universo, anche molto tempo prima che allestissero i noti osservatori astronomici.

E’ stato in virtù di questa discrepanza tra percezione dell’infinità della libertà di coscienza e consapevolezza dei limiti organici in cui poterla esercitare, che è nata la religione, una risposta infantile a un problema reale.

I limiti umani e naturali

Apparentemente sembra assurdo sostenere che la materia sia pensante, poiché l’unica vera prova che lo sia è data dall’uomo, il cui giudizio, che implica poi determinati comportamenti, potrebbe essere considerato molto soggettivo o relativo.

In natura infatti tutti si comportano sulla base di leggi da cui non si può prescindere. Queste leggi vengono vissute in due maniere: secondo l’istinto e secondo ragione, e questa implica la libertà di coscienza. Nel senso che l’essere umano è l’unica specie vivente che è libera di violare le leggi della natura, pagandone poi il relativo prezzo, proprio perché non è possibile andare oltre un certo livello di violazione.

Ora, è evidente che animali e piante vivono solo d’istinto, anche se dispongono della possibilità di utilizzare un certo margine di adattamento all’ambiente, per cui gli istinti possono anche parzialmente mutare. Sicuramente un animale selvatico, se viene addomesticato, perde una parte dei propri istinti naturali e ne acquisisce altri di tipo indotto. A maggior ragione questo vale per le piante.

Ci si chiede: l’uomo è forse libero d’indurre o di costringere animali e piante a vivere in maniera difforme dai propri comportamenti naturali? Diciamo che se non lo facesse sarebbe meglio, poiché, addomesticando piante e animali, si corre più facilmente il rischio di violare delle leggi di natura. Un animale bisognerebbe sempre lasciarlo libero di tornare selvatico, o comunque non bisognerebbe mai metterlo in condizioni da dover considerare l’uomo il suo peggior nemico.

Quanto più la natura viene salvaguardata, tante meno possibilità ci sono di violarne le leggi. Il fatto che l’uomo sia dotato di ragione, libertà e coscienza, di per sé non garantisce una sua sicura sopravvivenza nei millenni futuri. I dinosauri sono durati 160-180 milioni di anni: non è detto che l’uomo, abituato a distruggere se stesso e l’ambiente (come ha fatto, con molta sistematicità, negli ultimi seimila anni), riuscirà a far di meglio.

L’uomo è l’espressione della materia cosciente di sé, ma può esserlo solo a condizione di rispettarne le leggi, altrimenti diventa solo un fardello insopportabile. Se non esistesse l’uomo “civilizzato”, all’animale sarebbe facilissimo rispettare le leggi della natura. Invece, a causa di un uso sbagliato della libertà, tutto diventa incredibilmente difficile, e non solo per la specie umana, ma anche per tutte le specie della terra.

Il fatto di essere autoconsapevoli, di per sé non offre garanzie di nulla. Non dimentichiamo che negli ultimi 500 anni l’uomo ha potuto rinviare la soluzione definitiva dei suoi conflitti sociali soltanto a motivo della scoperta di una grande estensione di territorio che, sul piano dello sfruttamento delle risorse, era ancora vergine, essendo stato abitato da popolazioni indigene (da noi sterminate o sottomesse) che coltivavano un certo rispetto per la natura.

L’uomo non può aggiungere alla materia ciò che essa non ha; anzi, in genere, quando la trasforma, la priva sempre di qualcosa, al punto che se questa sottrazione supera un certo livello di guardia, la natura non è più in grado di riprodursi e inevitabilmente si desertificata. Per noi è diventato del tutto naturale produrre strumenti che lavorino per noi e non ci rendiamo conto che un atteggiamento del genere è quanto di più innaturale vi sia, tant’è che ha conseguenze molto nocive sull’ambiente.

L’uomo è solo l’espressione dell’autoconsapevolezza della natura, la quale ha proprie leggi indipendenti, di cui la principale, che include tutte le altre, è quella della perenne trasformazione delle cose, sulla base degli opposti che si attraggono per completarsi e si respingono per tutelarsi nella reciproca diversità. L’esigenza riproduttiva della materia, che appartiene alla legge della perenne trasformazione, è superiore all’esigenza produttiva dell’essere umano.

Noi non possiamo esercitare la nostra libertà al di fuori dei limiti che le permettono d’essere libera. Questo principio dovrebbe valere per qualunque cosa. Esistono sempre dei limiti di tollerabilità al di là dei quali una cosa non è più la stessa, incluso l’essere umano. Il fatto che dobbiamo continuamente dircelo, tramite leggi e regolamenti, sta appunto a indicare che noi non abbiamo più coscienza, in maniera naturale, dell’esistenza di questi limiti.

Abbiamo talmente sostituito l’artificiale col naturale che ci rendiamo conto d’aver oltrepassato i limiti solo dopo averlo fatto. In questa maniera gli svantaggi che otteniamo da un uso sbagliato della libertà sono infinitamente superiori ai vantaggi che potremmo avere da un uso conforme a natura.