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A un quarto di secolo di distanza, il mistero della scomparsa della bella ragazzina di quasi 16 anni Emanuela Orlandi continua a registrare periodiche riesplosioni a base di “rivelazioni”, “certezze” e “supertestimoni” che rivelano immancabilmente il loro vero volto: depistaggi, falsi scoop e false speranze. Nel suo nuovo libro Pino Nicotri ha condotto in modo serrato e implacabile l’analisi non più rinviabile dei fatti, passando al setaccio tutti gli elementi della vicenda e il torbido contesto in cui si è svolta, comprese le clamorose bugie del Vaticano, la compiacenza di inquirenti, il pressapochismo dei mass-media e le mene dei servizi segreti della Germania comunista. Il vuoto assoluto di verità nel gioco di specchi tra Vaticano e “rapitori” lascia spazio alle messinscene più varie, fino alle frottole e imprecisioni veicolate dai vari “Telefono Giallo”, “Novecento” di Pippo Baudo, “Chi l’ha visto?”, ecc.
Con buona pace dei fatti certi e documentati, oltre che del tanto conclamato desiderio di verità, sul caso Orlandi domina sempre di più la dura legge della caccia all’audience: The show must go on! Tant’è che con tecniche da lancio pubblicitario di un prodotto da vendere, il 22 giugno 2008 – in occasione del 25esimo anniversario della scomparsa – sono dilagati contemporaneamente gli ormai famosi manifesti recanti il volto sorridente di Emanuela e il battage sulle “rivelazioni” dell’ultima “supertestimone” in ordine di tempo. Vale a dire, di quella Sabrina Minardi che essendo stata a suo tempo l’amante di Enrico “Renatino” De Pedis, un boss della famosa banda della Magliana, si presta molto bene a un rilancio ancora più intrigante e denso di “misteri”, cioè a un altro “Romanzo criminale” arricchito da una tomba da principe della Chiesa per un principe del crimine. De Pedis dorme infatti il suo sonno eterno in una cripta della basilica romana contigua alla scuola di musica frequentata da Emanuela, dalla quale è stata vista uscire pochi minuti prima di sparire per sempre.
I risultati concreti di questo periodico riaccendere le luci della ribalta sono ben diversi dalle speranze di verità ufficialmente sbandierate. Il primo infatti è un incremento delle vendite dei giornali e dell’audience televisiva. Il secondo è continuare a poter parlare di rapimento, ieri per uno scambio con il “lupo grigio” Alì Agca, l’attentatore alla vita di papa Wojtyla, oggi per conto del cardinale “banchiere di Dio” Paul Marcinkus, all’epoca anche responsabile della sicurezza personale di Wojtyla. Il terzo è continuare a ignorare sistematicamente le conclusioni della magistratura italiana, che di fatto ha escluso la tesi del rapimento e che la vicenda Orlandi abbia qualcosa a che vedere con l’altra scomparsa cui sempre viene affiancata, quella cioè della coetanea Mirella Gregori. Il quarto è rinviare sine die una analisi razionale e spassionata dei fatti, onde scongiurare le inevitabili conclusioni: appare infatti chiaro che il vertice del Vaticano, compreso molto probabilmente Wojtyla, sapeva bene che non di rapimento si trattava, bensì di morte, avvenuta per motivi a tutt’oggi ufficialmente ignoti.
La verità è che se fino a mezzogiorno di domenica 3 luglio, vale a dire 11 giorni dopo la scomparsa, si poteva sperare che Emanuela Orlandi – se davvero rapita – venisse lasciata libera di tornare a casa, dopo il pubblico appello di Wojtyla ovviamente non lo si poteva sperare più. Le parole pronunciate dal papa quel giorno equivalevano di fatto a una condanna a morte, per giunta reiterata per ben altre sette volte con altrettanti appelli pubblici nelle settimane successive. E’ impossibile credere che nessuno in Vaticano, neppure il pontefice e la Segreteria di Stato, si rendesse conto delle conseguenze di quelle sortite, che costituiscono un caso unico, assolutamente eccezionale, nell’intera storia della Chiesa. Concludere che Wojtyla e/o la Segreteria di Stato sapessero come in realtà stavano le cose è sconcertante, ma si tratta di una conclusione supportata in particolare, tra molti altri, da tre elementi, tutti documentati e interni al Vaticano. Il primo è la assoluta mancanza di iniziative per aprire reali canali di comunicazione con i “sequestratori”. Il secondo è la scelta di “lasciare le cose come stanno”. Il terzo è il muro di bugie e omertà nei confronti della magistratura italiana. Un atteggiamento speculare a quello dei “rapitori”: il Vaticano tace e mente, i “rapitori” non forniranno mai la benché minima prova di avere l’ostaggio.
Il pubblico e reiterato outing di Wojtyla convinse infine i servizi segreti dell’Europa comunista a scendere in campo con manovre di vario tipo. Berlino Est puntava a prendere due piccioni con una fava. Il primo era l’Operation Papst, Operazione Papa, commissionata da Mosca per creare diversivi utili ad aiutare i “fratelli” bulgari, che la non disinteressata pubblicistica non solo italiana presentava con insistenza come mandanti dell’attentato al papa per conto del Kgb, i servizi segreti sovietici dell’epoca. Il secondo consisteva nel mettere il più possibile in imbarazzo Wojtyla per indurlo a frenare la sua azione ostinata e decisa, condotta su molti fronti, a favore dei movimenti che in Polonia puntavano a staccare il Paese dall’Unione sovietica e a liberarlo anche dal comunismo. Insomma, una vera e propria battaglia della guerra fredda, esplosa nell’estate più calda della storia italiana.
Ignorando volutamente anche le conclusioni della magistratura, oggi il caso viene rilanciato alla grande, con la banda della Magliana alla quale viene fatto prendere disinvoltamente e cinicamente il posto dei Lupi grigi. E domani, chissà, si tireranno in ballo i cinesi o gli iraniani. In attesa magari dei marziani…
Giuseppe “Pino” Nicotri è stato per 35 anni giornalista del settimanale L’Espresso. Autore finora di undici libri inchiesta e un romanzo, è titolare del sito www.pinonicotri.it .