800 vocaboli e affissi di origine indiana, 70 di origine persiana, 40 di origine armena e circa 200 termini tratti dal greco…..
La lingua romaní detta anche romaní chib o romanès o romanó (quest’ultimo termine è usato in Spagna e viene detto anche calo) non ha nulla a che vedere con la lingua rumena, né con le lingue romanze, né tanto meno con il romanesco della città di Roma, ma è una lingua strettamente imparentata con le lingue neo-indiane come l’hindi, il punjabi, il kasmiri e il rajastani e deriva dal sànscrito. La romaní chib non è altro che il risultato dell’evoluzione, al pari delle lingue citate, di forme popolari e mai scritte di idiomi indiani, mentre il sànscrito è il risultato di una lingua scritta da eruditi in forma colta e artificiale. Il romanès non è un dialetto delle lingue neo-indiane menzionate, ma una lingua a sé stante viva e vitale e come tutte le lingue ha tante varianti dialettali. Essendo tramandata oralmente per oltre dieci secoli, si è arricchita degli imprestiti dei popoli con cui è venuta in contatto. Dei tratti indiani la lingua romaní conserva soprattutto:
-la similitudine del sistema fonologico sia sul piano della struttura che su quello della frequenza dei fonemi;
-circa 800 vocaboli e affissi;
-la quasi identità morfologica del gruppo nominale romaní con quello delle lingue neo-indiane, con una declinazione di due casi (diretto e obliquo) e di un sistema di posposizioni; a questo si aggiunge l’accordo per genere, per numero e per casi della posposizione possessiva;
-delle similitudini fra le morfologie verbali romanès e le lingue neo-indiane.
Oggi i romanologi sono concordi nel sostenere che in tutti i dialetti della lingua romaní c’è una base di parole comuni: circa 800 vocaboli e affissi di origine indiana, 70 di origine persiana, 40 di origine armena e circa 200 termini tratti dal greco, non mancano termini rari come quello buruÒaski (lingua isolata dell’Himalaya) vun‡ile che significa “debiti” e la parola georgiana camcàle che significa “ciglia” (Marcel Courthiade). Ciò sottolinea come fino all’Impero Bizantino la popolazione romaní sia rimasta sostanzialmente unita (a parte le comunità che disseminava lungo il suo percosso verso Occidente). In Europa la lingua romaní si è arricchita dei vocaboli delle lingue e dei dialetti delle popolazioni ospitanti, a seconda dell’itinerario seguito. Oggi, è anche una lingua scritta grazie ad una fiorente letteratura (poesie, romanzi, opere teatrali, racconti, saggi, articoli giornalistici, ecc.) che si è sviluppata soprattutto nella seconda metà del Novecento.
A causa delle persecuzioni sistematiche in molte regioni e in molti Stati la lingua romaní si è fortemente indebolita, tanto che oggi vengono adottate le grammatiche dei Paesi ospitanti arricchite con il lessico romanò. I linguisti chiamano questo innesto di romanès nelle grammatiche delle lingue locali para-romaní o in Inghilterra, pogadi jib ( < romanès pakerdì chib che significa letteralmente “lingua rotta”). Sono le comunità romanès della Gran Bretagna, della Norvegia, della Svezia, della Spagna e del Portogallo che, oggi, parlano il para-romaní (in Gran Bretagna è detta anche anglo-romanès e nella penisola iberica calo). Esistono due lingue vicine al romanès che si sono separate da esso fra l’epoca della partenza dall’India e quello dell’arrivo in Europa: il domani o nawar (Siria, Libano, qualche gruppo in Egitto) e il lomani o bo∂a (Armenia, oggi probabilmente estinti).
Romaní (in inglese si trova scritto anche romany) non è altro che la forma aggettivale del sostantivo Rom, da cui deriva anche la forma avverbiale romanès. È importante sottolineare che, nonostante gli etnonimi diversi, tutti i gruppi di Rom (Roma), Sinti, Manouches, Kale (Cale) e Romanichals definiscono la loro lingua come romaní (romany) o romanès o romanó ed è parlata in tutti gli Stati europei, nelle Americhe, in Australia, in Nord Africa (Egitto, Algeria) e in Medio Oriente.
La lingua romaní è lo specchio fedele della storia e della cultura delle comunità romanès. E proprio grazie allo studio della loro lingua che si è potuto svelare una parte del mistero delle origini dei Rom, Sinti, Kale, Manouches e Romanichals che da più di tre secoli girovagavano continuamente in Europa, soprattutto a causa delle politiche persecutorie. La scoperta avvenne nel 1760 grazie al sacerdote ungherese Istvàn Vályi, attraverso il confronto fra il vocabolario della lingua Malabar di studenti indiani suoi colleghi a Leide e quella dei Rom Ungheresi. La sua in realtà fu solo un’intuizione geniale. Anche l’inglese Jacob Bryan nel 1776 sostenne l’origine indiana della popolazione romaní così come un altro inglese Williams Marsden. La conferma scientifica arrivò nel 1782 quando venne pubblicato a Leipzig il risultato degli studi effettuati nel 1777 Von der Sprache und Herkunft der Zigeuner aus Indien (della lingua e dell’origine degli zingari dall’India), in cui l’autore, il tedesco Johann Carl Christoph Rüdiger dimostra attraverso il metodo comparativo, che alcune frasi in lingua romaní sono collegate con alcuni dialetti dell’India Settentrionale. Questa “scoperta” viene consolidata e arricchita dal tedesco Heinrich Moritz Gottlieb Grellmann che con il suo libro De Zigeuner. Ein Historischer Versuch über die Lebensart und Verfassung, Sitten und Schicksale dieses Volkes in Europa, nebst ihrem Ursprunge (Gli zingari. Un tentativo storico sul modo e concezione di vita, costumi e sorte di questo popolo in Europa, come pure sulle sue origin), pubblicato a Lipsia nel 1783, cancellava molti dei dubbi sulle origini della popolazione romaní, unendo alle analisi linguistiche anche l’indagine storica e la descrizione dei costumi.
È un fatto ormai ben noto che la lingua romaní si divide in un gran numero di dialetti. Se si escludono le parlate definite para-romaní o pogadi jib (anglo-romaní, calo o ibero-romaní, bo∂a o lomani armeno, domani o nawar siriano, libanese ed egiziano) gli altri dialetti sono sufficientemente vicini per essere considerati come forme di una sola e medesima lingua.
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