Gli insuccessi del primo governo Trump

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Cambiamenti profondi possono avvenire, ma richiedono tempo, a volte molto tempo. Perciò anche le enunciazioni esplosive e rivoluzionarie di Trump devono sempre fare i conti con la realtà. Questa non muta semplicemente perché lo si desidera.

Al riguardo può essere d’aiuto analizzare i risultati economici del primo governo Trump dall’inizio del 2017 alla fine del 2020. Quattro anni di gestione dell’economia e dell’amministrazione americane non sono pochi per comprendere gli effetti di una politica che voleva essere di rottura con il passato. Le politiche economiche di Trump ci sembrano le stesse di quelle che propone adesso. Oggi sono proposte con maggiore virulenza.

Il debito pubblico Usa ha visto un’impennata con Trump. Al suo arrivo lo aveva trovato a 25.600 miliardi di dollari e a fine mandato, nel dicembre 2020, era di 32.670 miliardi. Con un aumento di oltre 7.000 miliardi in 4 anni! Indubbiamente le misure economiche contro la pandemia del Covid hanno avuto un effetto importante nel 2020. Nel triennio precedente il debito era comunque cresciuto di oltre 2.300 miliardi. Oggi è di circa 35.500 miliardi. Biden si è mantenuto nel solco di Trump che, a sua volta, aveva continuato con la politica di indebitamento dei suoi predecessori.

Lo stesso vale per il deficit di bilancio. Era di quasi 600 miliardi di dollari a fine 2016 e Trump lo ha portato agli oltre 3.000 miliardi del 2020. Oggi il deficit è di 1.830 miliardi.

Anche la bilancia commerciale americana era passata dal rosso al rosso scarlatto. Era di 503 miliardi di dollari all’inizio del suo mandato e, dopo l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, Trump la lasciava con un deficit di oltre 626 miliardi. Un buco più grande di 123 miliardi. Biden ha portato il deficit commerciale totale a oltre 918 miliardi.

E’ interessante notare che durante la sua presidenza,Trump ha ridotto di quasi 39 miliardi di dollari il deficit commerciale con la Cina. Politica continuata anche da Biden. Riduzioni nella maggior parte rimpiazzate dagli aumenti di importazioni da altri paesi, anche dall’Ue.

Ora Trump, per esempio, ha annunciato tariffe generali del 25% su acciaio e alluminio. Una ripetizione di ciò che aveva fatto all’inizio del 2017. Senza alcun effetto positivo! I principali esportatori oggi sono gli stessi di allora: il Canada, l’Europa e il Messico. Nel 2017-18 le importazioni diminuirono, ma il consumo interno di acciaio diminuì ancor di più, e la stessa produzione di acciaio degli Stati Uniti scese leggermente. Ma i prezzi aumentarono. Oggi la produzione americana di acciaio è leggermente inferiore rispetto a quella del 2015. La Cina, invece, oggi produce più della metà dell’acciaio mondiale. Un simile risultato si è avuto anche per l’alluminio.

Molti sono stati gli studi sugli effetti negativi della politica dei dazi del primo Trump sull’economia americana. Gli effetti accertati furono un leggero aumento dell’inflazione e la diminuzione delle produzioni interne. Non possono essere tutte catalogate come parte di un “complotto contro Trump”. Per esempio, nella relazione tenuta davanti a un Comitato del Congresso, la Tax Foundation, un think tank indipendente, ha riportato che la Commissione per il commercio internazionale degli Usa (USITC) ha riscontrato che, a seguito dei dazi sull’acciaio e sull’alluminio, si era avuto un aumento di 2,8 miliardi di dollari nella produzione, anche dovuto ai prezzi più elevati determinati dai dazi. Ha riscontrato altresì la diminuzione della produzione per 3,4 miliardi di dollari in alcuni comparti produttivi, come nelle costruzioni e nelle industrie che usano l’acciaio e l’alluminio.

Anche la Federal Reserve Bank di San Francisco a febbraio 2019 aveva stimato che le prime tre tranche di dazi sui beni cinesi avevano fatto aumentare dello 0,1% i prezzi al consumo nell’intera economia. Ci furono diversi cambiamenti nella politica tariffaria da febbraio 2019 (in particolare l’aumento dei dazi sulle importazioni cinesi al 25%) che, secondo lo studio, avrebbero generato un altro aumento dei prezzi al consumo dello 0,3%.

Quando ha annunciato i dazi “urbi et orbi”, Trump ha più volte ammesso che “potremmo avere qualche piccolo dolore (pain) nel breve termine, e la gente lo capisce.”. Forse è già consapevole che non saranno tutte rose e fiori. Sostiene anche che gli Stati Uniti “sono stati derubati” da ogni paese del pianeta. Davvero strano questo vittimismo da parte della nazione più potente del mondo.

La sensazione netta è che Trump, con Musk e altri, voglia sconquassare l’intero sistema delle relazioni internazionali nate alla fine della seconda guerra mondiale.

Secondo noi forse è l’ora di una nuova Bretton Woods, dove definire una più equa governance mondiale e una riforma del sistema economico, commerciale e finanziario globale, cui dovrebbero partecipare non solo gli Usa e l’Europa ma anche tutti i paesi Brics, l’Unione africana e il Mercosur.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Dazi Usa: la lezione della Grande Depressione

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Nel discorso d’inaugurazione della sua presidenza, Donald Trump affermò: “Applicheremo dazi e tasse ai paesi stranieri per arricchire i nostri cittadini.”.
Non si può liquidare come una semplificazione estrema o uno slogan elettorale. E’ un’affermazione preoccupante che rivela la mancanza di comprensione di come funziona un’odierna economia complessa, nazionale e internazionale.
Certi ideologi americani sostengono che Trump porterà a una violenta de-globalizzazione a favore di un nazionalismo economico americano esasperato, quasi autarchico. In realtà, nessun paese, tanto meno gli Stati Uniti, che voglia dettare le proprie condizioni al resto de mondo, può pensare di vivere in un progressivo isolamento e al contempo voler esercitare un dominio unilaterale.
In primo luogo, i dazi producono inevitabilmente legittime reazioni politiche ed economiche. Di solito generano dei contro dazi, proprio come con le sanzioni. Perché una nazione importante dovrebbe subirli senza rispondere? Forse si potrebbe pensare che il Canada o il Messico sarebbero indotti a sottomettersi per paura del gigante vicino. Ma la Cina? E il gruppo dei paesi Brics, tutti insieme? E, perché no, l’Unione europea? Si arriverebbe velocemente a una guerra economica globale con delle pericolosissime ripercussioni in campo geopolitico.
Solitamente i dazi sono imposti per far sì che, invece di importare certe merci, queste possano essere prodotte all’interno del proprio territorio, in questo caso negli Usa. E’ vero, per esempio, che con gli Usa la Cina ha un surplus commerciale favorevole di 270 miliardi di dollari. Anche l’Europa ha un surplus di 130 miliardi. Nell’ultimo anno la Cina ha esportato più merci negli Usa di quanto ne ha importato. Lo squilibrio è soprattutto il risultato della decennale politica americana di outsourcing, cioè la scelta di trasferire le proprie imprese in quei paesi dove la mano d’opera è a basso costo e dove si possono fare delle cose che negli Usa sarebbero vietate, per esempio dalle leggi ambientali.
Tale politica, oltre che con la Cina, è stata fatta anche nei confronti del Messico. Infatti, lungo il confine sono nate centinaia di cosiddette maquiladoras, dove imprese, spesso controllate dal capitale americano, producono per il mercato statunitense a prezzi molto ridotti. Una situazione creata dalle multinazionali americane.
Adesso, però, la domanda obbligata è: possono le imprese americane rimpiazzare velocemente i prodotti che non arriveranno dagli altri paesi a causa dei dazi? Sono in grado di farlo? E se sì, di quanto tempo hanno bisogno per creare e far operare delle imprese locali capaci di riempire il buco creato?
Gli Stati Uniti non sono la Russia. Quando, dopo l’annessione della Crimea, sono state imposte delle sanzioni, Mosca ha fatto immediatamente partire centralmente una politica di immediato sostegno alle imprese locali per rimpiazzare i prodotti bloccati e ha cercato, soprattutto con la Cina, di coprire celermente certe importazioni tecnologiche mancanti. Trump ha una politica dirigistica di questa portata? Oppure lascerà che sia il mercato a reagire? Potrebbe essere un calcolo errato.
Inoltre, i dazi sulle merci importate faranno lievitare i prezzi al consumo negli Usa. Forse nell’immediato non del 10% come i dazi imposti alla Cina. Ma senz’altro aumenteranno di alcuni punti percentuali. E di quanto lieviteranno nel tempo? Dazio non è la parola magica per far arricchire i cittadini americani né quelli di altri paesi. Al contrario, c’è il rischio di impoverimento.
Da non sottovalutare è l’effetto più generale delle restrizioni sul commercio mondiale. Basterebbe rispolverare gli studi fatti sulle conseguenze negative generate dalle politiche dei dazi imposti dopo la grande crisi di Wall Street del 1929.
Allora il governo Herbert Hoover sottoscrisse il noto Smoot-Hawley Tariff Act, la legge che impose dazi di oltre il 20% a tutti i prodotti importati. Almeno 20 paesi risposero con dei contro dazi. Dal 1929 al 1933 l’export-import americano crollò del 67% e con esso anche il commercio mondiale. Gli effetti del crack finanziario e dei dazi nei confronti del resto del mondo produssero la Grande Depressione con alta inflazione, crollo delle produzioni e milioni di disoccupati. Fu fermata soltanto dalle politiche di rilancio industriale del New Deal di Franklin Delano Roosevelt.
Qualcuno dovrebbe ricordare e spiegare tutto ciò al presidente Trump. Un aiuto a una migliore comprensione potrebbe venire anche dall’Unione europea. Siccome anche l’Ue dovrebbe essere colpita dai dazi, perché non unire le forze con il gruppo dei Brics e far arrivare al presidente Trump un messaggio chiaro a non commettere un simile errore? Non è una sfida ma un consiglio amichevole, anche un invito a guardare al mondo e a farsi carico dell’urgente assetto multilaterale geopolitico, rispetto all’attuale pericoloso disordine mondiale.

*già sottosegretario all’Economia **economista