L’agenzia di rating africana è in costruzione

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Mentre i paesi europei sembrano essersi assoggettati in modo definitivo ai dettami delle tre sorelle americane del rating, l’Africa, invece, lavora per creare un’agenzia di rating africana. Lo ha ribadito l’economista nigeriano Akinwomi Adesina, presidente della Banca africana per lo sviluppo (Afdb), nella sua riunione annuale tenutasi recentemente a Nairobi, in Kenya.
L’intenzione del Consiglio dei governatori della banca è di avere “una valutazione equa e adeguata delle operazioni sovrane e non sovrane del continente”. L’obiettivo “non è quello di competere con le agenzie di rating internazionali, ma di stabilire una nuova cultura della valutazione che tenga conto delle diverse specificità delle economie africane”.
Adesina stima che la creazione di un’agenzia africana farà risparmiare ogni anno più di 75 miliardi di dollari, spesi per il servizio del debito a causa di un rating “ingiusto”. Si tratta di una somma notevole che potrebbe essere destinata a progetti di sviluppo.
Le tre agenzie di rating americane, Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch, controllano il 95% del business del rating globale e utilizzano dei parametri classici, tra cui la crescita del pil, il reddito procapite, il debito pubblico, i livelli storici dell’inflazione e dei fallimenti e la presunta stabilità delle istituzioni.
L’Afdb raccomanda, tra l’altro, di rivedere il metodo di calcolo del pil delle economie africane includendo la ricchezza del sottosuolo, le materie prime, il potenziale della forza lavoro giovanile. E, poiché l’Occidente mette tra le sue priorità l’ambiente, i consumi e la riduzione delle emissioni di CO2, l’Africa vuole giustamente che sia parametrato anche il contributo ecologico del continente (foreste, stoccaggio del carbonio, ecc.).
Qualche settimana prima era stata l’Unione Africana a sostenere con forza la necessità di sottrarsi ai dettami delle “tre sorelle del rating” e lavorare per un’agenzia tutta africana. L’idea di un’Acra, African credit rating agency, era stata formulata già nel 2017 e sostenuta anche da vari organismi delle Nazioni Unite.
Sebbene non abbiano una presenza attiva nel continente africano e spesso utilizzino i dati della Banca Mondiale o delle istituzioni centrali africane, le agenzie americane, sfruttando le divisioni interne all’Africa e le inadeguatezze burocratiche, hanno potuto, indisturbate, “pontificare” sugli andamenti economici dei paesi africani.
Oggi le cose sono cambiate. L’Africa non è più in balia degli eventi. E’ parte attiva del cosiddetto Sud Globale ed è capace anche di mettere in campo una dirigenza preparata e competente. Ecco perché i governatori dell’Afdb hanno anche sollecitato la riforma dell’architettura finanziaria globale che dovrebbe essere accompagnata dall’intensificazione degli sforzi da parte dei paesi africani per migliorare l’ambiente macroeconomico.
L’Afdb è consapevole che le tensioni geopolitiche internazionali, l’inflazione sui prezzi del cibo e le politiche monetarie esterne rendono molto difficile realizzare lo sviluppo se concepito con i vecchi metodi di sudditanza e di dipendenza dalla “benevolenza” degli altri. E’, però, anche consapevole delle enormi ricchezze del continente: le materie prime di ogni tipo, le terre rare, l’acqua, le foreste e una crescente popolazione giovanissima. Si consideri che l’età media è di circa 19 anni.
Oggi, però, mentre gli “asset under management”, i patrimoni in gestione, globalmente sono pari a circa 120.000 miliardi di dollari, la quota africana è soltanto di 2.500 miliardi.
Il programma è “accelerare la trasformazione dell’Africa”. Per realizzare entro il 2030 gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell’Onu il gap finanziario annuale è aumentato da 2.500 a 4.000 miliardi di dollari. L’Africa avrebbe bisogno di 1.330 miliardi l’anno per realizzare gli obiettivi. Una cifra non da poco.
Ecco perché la Banca africana ha anche messo al centro delle future attività finanziare l’attivazione del settore privato, interno e internazionale. Attraverso varie forme di garanzia e di mitigazione dei rischi, si vuole favorire una partecipazione privata a investimenti di sviluppo reale, nelle infrastrutture, nell’agricoltura, nei settori sociali e in particolare nell’industria. Infatti, il settore manifatturiero contribuisce soltanto per il 10% al pil dell’Africa. Sulla scia delle esperienze del Brics, stanno crescendo anche le emissioni di obbligazioni per lo sviluppo nelle monete africane locali. In tutto questo l’African Development Forum, la piattaforma per lo sviluppo creata dall’Afdb nel 2018, ha un ruolo importante. In pochi anni ha già mobilitato investimenti per 180 miliardi di dollari.

*già sottosegretario all’Economia **economista

G7: non solo guerre ma anche il debito

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

In vista del Giubileo del 2025 la Santa Sede sta sollecitando la vasta rete delle organizzazioni internazionali, politiche, sociali e culturali, a formulare e promuovere politiche per condonare o almeno ridurre il fardello dei debiti dei paesi poveri.

Pochi giorni fa, parlando al simposio “Affrontare la crisi del debito nel Sud del mondo”, organizzato dalla Pontificia Accademia delle Scienze, papa Francesco ha rinnovato la richiesta di una moratoria sui debiti. Naturalmente non si è limitato a questo appello ma ha prospettato la necessità di “una nuova architettura finanziaria internazionale audace e creativa”, cioè “ la creazione di un meccanismo multinazionale, basato sulla solidarietà e sull’armonia tra i popoli, che tenga conto del significato globale del problema e delle sue implicazioni economiche, finanziarie e sociali”, al fine di spezzare il circolo vizioso del finanziamento che diventa indebitamento.

D’altra parte è risaputo che la sola moratoria sui debiti crea un momentaneo sollievo alle economie dei paesi più poveri ma non affronta alla radice le vere cause, quali gli annosi problemi del sottoviluppo, della dipendenza e della sottomissione economica ai vecchi e nuovi colonialismi pubblici e privati.

La moratoria sui debiti nei confronti dei paesi poveri era stata sollecitata anche da papa Giovanni Paolo II per il Giubileo dell’Anno 2000. Il risultato dell’iniziativa fu la cancellazione del debito per 52 fra i paesi più poveri del mondo. Nel 2005, il G8, anche con una forte azione dell’Italia, condonò debiti per 40 miliardi di dollari e varie istituzioni finanziarie lo fecero per 130 miliardi.

Anche la cancellazione non basta. Infatti, passati meno di due decenni, la crisi del debito si presenta più minacciosa, soprattutto in Africa. Tra il 2013 e il 2022 la percentuale media del debito pubblico in Africa è raddoppiata, passando dal 30% al 60% del pil. Se paragonata con la media di oltre il 100% dei paesi cosiddetti avanzati o con il 138% dell’Italia, il livello africano potrebbe sembrare “virtuoso”. Per i paesi poveri, però, ripagare i prestiti è sempre più difficile e gli interessi crescono. Il debito di fatto diventa un sistema di colonizzazione che può considerarsi una vera e propria schiavitù.

Il pagamento degli interessi su un debito anche di dimensioni limitate può mandare in tilt il bilancio di uno Stato. Per esempio, l’Angola deve usare il 60% del suo pil per il servizio del debito. Ogni due mesi la Guinea Bissau chiede un prestito alla Banca dell’Africa occidentale non per nuovi investimenti bensì per pagare i salari dei dipendenti pubblici. Le spese correnti vengono coperte con i debiti, creando così un meccanismo perverso.
Il Papa è entrato nel merito del tipo di finanziamento finora concesso ai paesi poveri, rilevando che “ai popoli non serve un finanziamento qualsiasi, ma quello che implica una responsabilità condivisa tra chi lo riceve e chi lo concede.” Dipende dalle condizioni poste, da come viene usato e dalle specifiche situazioni in cui si trovano i singoli paesi indebitati. Infatti, troppo spesso i finanziamenti nascondono delle “trappole” mortali: condizioni di austerità insostenibili, il land grabbing, con il quale chi concede il credito si garantisce lo sfruttamento di grandi territori e delle materie prime. I finanziatori sono sempre più fondi finanziari anonimi che applicano le più ferree e dure leggi di mercato. A ciò vanno aggiunte altre perniciose tendenze interne ai paesi che chiedono e ricevono i finanziamenti, tra cui sicuramente la corruzione pervasiva, una gestione incompetente e la corsa all’acquisto di armamenti.
Come ha spesso fatto nei suoi interventi, il Pontefice afferma che “il debito ecologico e il debito estero sono le due facce di una stessa medaglia.” Al di la delle controversie circa gli studi sull’ambiente e sul cambiamento climatico è indubbio che i paesi occidentali abbiano un grande debito ecologico nei confronti dei paesi poveri, dovuto a molti decenni di sfruttamento incondizionato delle risorse. Esempi tangibili sono le miniere scavate senza alcun rispetto per l’ambiente. Per non dire della manodopera locale sfruttata e senza neanche i minimi diritti.

Che il Papa parli di questi argomenti è molto importante. Ci auguriamo che i governi del G7 e le grandi istituzioni internazionali, che hanno proprio la responsabilità politica di affrontare queste sfide, lo ascoltino. Purtroppo, temiamo che anche il G7 di Borgo Egnazia in Puglia possa restare muto di fronte a queste emergenze. Il problema però c’è ed è di prima grandezza!

*già sottosegretario all’Economia **economista