A quando il reato di ecocidio?
Una squadra di giuristi da tutto il mondo con competenze in diritto penale, ambientale e climatico, ha formulato la prima definizione legale di ecocidio, primo passo per un’introduzione del reato da parte della Corte Penale Internazionale. Se riconosciuto, si tratterà del primo crimine internazionale volto a proteggere la natura partendo da una prospettiva ecocentrica, in cui il danno agli esseri umani non è un prerequisito per il reato. Sarà il quinto crimine internazionale dopo quelli di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e crimini di aggressione stabiliti dallo Statuto di Roma della suddetta CPI.
Si è finalmente capito che non è possibile decontestualizzare gli umani dal resto del mondo vivente e non è possibile separare la nostra esistenza da quella dagli ecosistemi che ci sostengono.
Non è certo un caso che l’80% della biodiversità sia presente nei territori abitati dalle comunità indigene, dove la cosmovisione si presenta come un modello alternativo allo sviluppo delle società occidentali. Ad oggi sono 37 i Paesi nel mondo che in diverse forme hanno riconosciuto i diritti della natura e una decina di loro hanno leggi nazionali specifiche in materia di ecocidio.
Il termine ecocidio fu per la prima volta introdotto dal bioeticista e fisiologo vegetale Arthur William Galston durante la guerra in Vietnam, per protestare contro l’uso da parte delle truppe statunitensi del famigerato agente arancio, un defoliante costituito da due diversi erbicidi e contenente diossina, utilizzato per distruggere le coltivazioni, la vegetazione e le foreste nelle zone occupate dai vietcong e che ancora oggi continua ad avere gravissimi effetti sia sugli ecosistemi che su tutte le generazioni nate dopo la guerra. Tant’è che il Vietnam è stato il primo, nel 1990, a inserire nel codice penale il reato di ecocidio come crimine contro l’umanità, superando così l’approccio del tipo “chi inquina paga”, che non fa altro che legalizzare il danno ambientale regolamentando la quantità d’inquinamento nei limiti delle norme vigenti.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso l’hanno offerta, nel 2019, i piccoli Stati insulari di Vanuatu e delle Maldive, minacciati di scomparire dall’innalzamento del livello del mare.
L’iter legislativo però potrebbe durare anni, se non decenni, com’è successo per il crimine di aggressione entrato in vigore nel 2018 dopo una fase di negoziazione iniziata nel 1998.
Non dimentichiamo che originariamente il reato di “grave danno ambientale” fu incluso nella bozza dello Statuto di Roma del 1991 come quinto crimine contro la pace, ma poi fu rimosso in una fase avanzata della stesura a causa delle pressioni da parte di Paesi Bassi, Regno Unito e Stati Uniti. Nella versione finale il danno ambientale non andò più a costituire un reato a sé, ma si decise di menzionarlo tra le varie disposizioni inerenti ai crimini di guerra dove vengono proibite “tecniche di modifica ambientale”, come appunto l’agente arancio, che hanno “effetti diffusi, durevoli o gravi”.
Insomma in cauda venenum. Anche perché se questa proposta passa, sarà finalmente possibile perseguire ministri di stato o amministratori delegati o alti funzionari di società ecc. Non solo, ma il riconoscimento internazionale del reato avrà effetto anche sui Paesi che non fanno parte della suddetta Corte (come p.es. USA, Cina e India), poiché a tutte le imprese che si trovano ad operare oltre frontiera non sarà più permesso attuare pratiche ecocide in nessuna giurisdizione che abbia incorporato la legge, o in quelle aree sotto giurisdizione internazionale.