La Cina erediterà il capitalismo occidentale?

Il governo cinese respinge il “decoupling” con gli Usa e punta sempre di più sulla “autosufficienza tecnologica”.

Che significa “decoupling”? È il disaccoppiamento tra le due maggiori economie del mondo. Già adesso le imprese statunitensi stanno pensando di rilocalizzare la produzione strategica verso altri Paesi. L’esempio più noto è quello della produzione dei prossimi iPhone spostata in India, ma sono molte le liste che includono più di 50 grandi aziende americane che hanno avviato un processo di trasloco.

Gli USA han paura della capacità economica della Cina e non hanno più intenzione di trasferire le loro attività in questo paese che pur offre grandi vantaggi sul costo del lavoro. Ora temono di perdere la guerra commerciale.

Di qui la decisione del governo cinese di sganciarsi dalla tecnologia americana. Si punta soprattutto su Hong Kong, per farla diventare un centro internazionale di innovazione e tecnologia, che dovrà servire anche per la Nuova via della seta.

Ecco cosa significa “socialismo con caratteristiche cinesi”, cioè capitalismo sul piano sociale, sempre più autonomo sul piano tecnologico, e dittatura su quello politico, ove il premier è un presidente a vita e otto partiti politici legalmente riconosciuti seguono la direzione del Partito Comunista Cinese. Sembra che l’unico problema rimasto insoluto in Cina sia il divario enorme tra le ricche città costiere e le sottosviluppate aree interne.

Intanto questo è stato l’unico Paese al mondo ad aver risentito pochissimo – o addirittura ad avere tratto beneficio – della tragedia del Covid.

Il Pil sfiora il 5% e la disoccupazione è in forte calo.

Il tasso zero dell’etica liberistica

Scrive Luca Bottura il 30 ottobre su Repubblica.it: “La diffusa opinione che le vignette di Charlie Hebdo rappresenterebbero un brodo di coltura per il terrorismo somiglia a quella di chi pensa che la minigonna faciliti lo stupro. Tra i valori non negoziabili che la Francia ha insegnato all’Occidente c’è quello della laicità, più che del laicismo, e tutti poggiano sull’architrave della libertà di espressione. Dire che Macron se l’è cercata, con la sua difesa del foglio satirico parigino, rappresenta un grave equivoco e un ribaltamento plateale del rapporto di causa-effetto. Nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, è il paravento per una torsione democratica che non solo non dobbiamo permettere, ma non dobbiamo concedere agli estremisti islamici.

Le copertine di Charlie su Maometto erano orribili? Certo. Specie se sei musulmano. Quelle sull’Italia dopo il terremoto, col sangue dei morti paragonato al sugo, irricevibili? Ovviamente. Specie se sei italiano. I motteggi contro il Papa, le suore, altre religioni assortite, potevano risultare disturbanti? Se sei cattolico, di più. Perché di qualunque evenienza satirica è difficile dire che “non fa ridere”. Spesso fa ridere alcuni, non altri. Dipende da quanto ti tocca.

Ma c’è una differenza ancora più decisiva. Che dopo la pubblicazione, nessun italiano è mai entrato nella sede del giornale che le ha stampate per giustiziarne gli autori. E che nessun cattolico si è messo a sgozzare innocenti per lavare una presunta onta scritta con l’inchiostro.

Delle due, dunque, l’una: l’emancipazione non tanto culturale, ma esperienziale, di chi con la democrazia ha una consuetudine più lunga, va onorata continuando a difendere i valori che da noi sono ben riposti nella Costituzione all’altezza dell’articolo 21.

Oppure, mettiamo un tetto. Fissiamo delle regole di buon gusto, non foss’altro che per paura, a quel che si può dire. Sostituiamo l’opportunità al codice penale, che al momento stabilisce i limiti di ciò che è pronunciabile e cosa no.

A quel punto però si pone la domande delle domande: chi decide questi limiti? Chi decide dove sia la decenza? Chi mette il punto di non ritorno oltre il quale devono valere la censura o l’autocensura? Perché mica ce n’è una sola, di soglia da superare. Che tu sia cattolico, islamico, italiano, sammarinese, persino tifoso del Bologna, la tua percezione del sacro non è la stessa di quello che ti sta accanto. Figurarsi del legislatore. O del giudice.

Ma poi: ne basterebbe uno? Chi dovrebbe stilare il codice di auto-condotta?”.

Poi va avanti con altre amenità, quelle tipiche di chi ama l’individualismo delle nostre società liberistiche. Infatti arriva a dire “non riesco a immaginare nulla di più sottomesso che intimare a qualcuno di nascondere i propri disegni perché qualcuno se ne fa schermo per uccidere”.

Perché questi ragionamenti hanno un valore etico prossimo allo zero? Il motivo è molto semplice e lo diceva già Paolo di Tarso duemila anni fa: “Non possiamo fare della nostra libertà un motivo per scandalizzare gli altri”. Cioè in sostanza non basta affermare la laicità dei valori. Occorre anche che i valori siano umani e se sono umani non possono certamente essere imposti. Vogliamo che lo Stato imponga la laicità per tutti? Bene, ma laicità vuol dire rispetto delle idee umane e democratiche. Charlie Hebdo rispetta con le sue vignette indecenti la sensibilità, i valori, la fede religiosa degli altri? No, non lo fa. E allora lo si chiuda. Non è utile a nessuno. Non favorisce la convivenza civile. È antipedagogico per definizione. È una minaccia alla stabilità di un paese, anche perché può essere facilmente strumentalizzato da un governo con ambizioni autoritarie. Come appunto quello di Macron.

Stiamo tirando troppo la corda

Ecco un elenco dei messaggi di cordoglio che avrebbero meritato delle precisazioni. Ci si riferisce alle tre persone uccise da un tunisino nella cattedrale di Notre Dame, nel centro di Nizza.

Il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin ha riportato le parole del papa: “assicura la sua vicinanza alla Comunità cattolica di Francia e a tutto il popolo francese che chiama all’unità”.

La vicinanza deve assicurarla anche alla comunità islamica di Francia, in quanto milioni di credenti non hanno nulla a che fare con questi atti terroristici, anzi loro stessi ne sono vittime, rischiando facilmente di diventare il bersaglio di chi compie indebite generalizzazioni. Come quella p.es. di chi parla di “terrorismo islamico”, come se chi appartiene a questa religione potesse più facilmente diventare un terrorista.

I cattolici francesi devono in realtà sentirsi uniti agli islamici francesi nella lotta contro ogni forma di estremismo giustizialista in nome della religione.

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un messaggio inviato al Presidente della Repubblica Francese, Emmanuel Macron: “Nel condannare quest’ulteriore, deplorevole gesto di violenza, manteniamo ferma la determinazione nel contrastare il fanatismo di qualsivoglia matrice, a difesa di quei principi di tolleranza che costituiscono il tessuto connettivo delle nostre società democratiche”.

Ottimo. Avrei solo aggiunto, dopo le parole “qualsivoglia matrice”, laica o religiosa che sia. Questo perché non siamo così ingenui da pensare che solo un credente possa diventare un fanatico. Non ha senso credere che un laico o un ateo, solo perché tale, abbia la patente della persona tollerante. Il criterio della verità è la pratica.

“Il vile attacco che si è consumato a Nizza non scalfisce il fronte comune a difesa dei valori di libertà e pace. Le nostre certezze sono più forti di fanatismo, odio e terrore. Ci stringiamo ai familiari delle vittime e ai nostri fratelli francesi. Nous Sommes Unis!”. Lo scrive il premier Giuseppe Conte.

Non ho capito: siamo già uniti contro qualcuno? Dobbiamo considerare i nostri “fratelli francesi”, quelli laici o cattolici, migliori degli islamici presenti in Francia? Non sono forse anche quelli nostri “fratelli”? Sono cittadini francesi, anzi europei, pagano le tasse come noi, obbediscono alle leggi come noi. Con chi dobbiamo fare “fronte comune” per combattere “fanatismo, odio e terrore”? Con una parte della società contro l’altra? Rischiando così di far scoppiare dei pogrom razzistici? O delle guerre di religione?

“L’Italia ripudia ogni estremismo e resta al fianco della Francia nella lotta contro il terrorismo e ogni radicalismo violento”. Lo scrive il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

Giusto. E l’Italia soprattutto teme l’istigazione alla violenza, per cui raccomanda prudenza, tatto, diplomazia quando si difendono le ragioni di qualcuno senza considerare le ragioni di chi la pensa diversamente. Non si può dire infatti che le recenti dichiarazioni di Macron, che hanno fatto infuriare due miliardi di musulmani, sia andate in questa direzione.

“Contro il terrorismo dobbiamo essere capaci di unirci come comunità, rispondendo con fermezza e affermando i nostri valori”. Lo scrive il presidente della Camera, Roberto Fico.

Quali “nostri valori”? Quelli cattolici? La Francia è la patria del laicismo. Quelli laici? La Francia cade spesso nella tentazione di trasformare il laicismo in una nuova religione, da contrapporre in questo caso all’Islam. Forse i valori occidentali? Ma anche gli immigrati francesi, dopo un po’ che vivono da noi, e soprattutto se decidono di non tornare ai loro paesi d’origine, dobbiamo considerarli occidentali come noi. Non possiamo ghettizzarli, anche perché nella UE sono decine di milioni di persone. Dunque non restano che i valori umani. E noi non possiamo certo dire che gli islamici ne siano privi. Li ha riconosciuti persino il papa nella sua ultima enciclica.

La cancelliera tedesca Angela Merkel ha scritto in un messaggio pubblicato dal suo portavoce, Steffen Seibert: “La Germania è con la Francia in questo momento difficile”. Anche il primo ministro britannico Boris Johnson ha scritto: “Il Regno Unito è al fianco della Francia nella lotta al terrore e all’intolleranza”.

Cioè si fa fronte comune tra due Stati contro chi? Anche gli immigrati islamici residenti in Francia sono cittadini francesi. Se dovesse scoppiare una guerra, quanti cittadini islamici francesi contribuirebbero a difendere la loro nazione? È naturale che sia così. Che senso ha che uno Stato dichiari la propria solidarietà a un altro Stato quando non è in corso alcuna guerra contro un terzo Stato? Queste espressioni nazionalistiche non fanno bene alla pace nel mondo.

Saper convivere col Covid

Interessante un art. sull’attuale pandemia apparso sul “New York Times” del 21 maggio e tradotto da “Internazionale”.

La tesi che si sostiene, mettendo a confronto le varie pandemie della storia, è che la conclusione sociale della pandemia arrivi prima di quella

medica. Nel senso che le persone potrebbero stancarsi delle restrizioni al punto da “dichiarare” conclusa la pandemia anche se il virus dovesse continuare a colpire la popolazione e prima che sia disponibile un vaccino o una cura.

Alla fine diventa una questione di psicologia sociale.

Per es. l’influenza di Hong Kong del 1968 provocò la morte di un milione di persone in tutto il mondo. Le vittime furono soprattutto anziani. Oggi il virus circola ancora come influenza stagionale, ma quasi nessuno ricorda più il suo impatto iniziale e la paura che ne conseguì.

L’influenza del 1918 uccise tra i cinquanta e i cento milioni di persone in tutto il mondo. Il virus colpiva gli adulti giovani e di mezza età, flagellando le truppe inviate al fronte nel pieno della prima guerra mondiale.

Dopo aver travolto l’intero pianeta, l’influenza perse vigore fino a diventare una variante dell’influenza lieve che si ripresenta ogni anno.

In quel caso ci fu anche una conclusione sociale. La prima guerra mondiale era finita e le persone erano pronte per un nuovo inizio e desiderose di lasciarsi alle spalle l’incubo della malattia e del conflitto bellico. Fino a pochi mesi fa l’influenza del 1918 era solo un ricordo sbiadito.

Naturalmente ci sono anche malattie che arrivano alla loro conclusione medica. Per es. il vaiolo. Ma si tratta di eccezioni. Le epidemie di vaiolo hanno martoriato la popolazione umana per tremila anni, almeno finché si è trovato un vaccino efficace. Inoltre il virus che provoca la malattia non ha un ospite animale, così è stata la scomparsa del vaiolo tra gli esseri umani a debellare definitivamente la malattia. Infine i sintomi sono talmente specifici da essere facilmente associabili al virus, facilitando quarantene efficaci e un tracciamento dei contatti affidabile.

Insomma dobbiamo smettere di vivere nel panico e imparare a convivere col Covid-19.

India e Pakistan ai ferri corti

L’India ha approvato una norma che consente ai cittadini indiani di acquistare terreni nei territori del Jammu-Kashmir, unico stato indiano a maggioranza musulmana (66%), da 70 anni rivendicato dal Pakistan, cioè da quando nell’agosto 1947 i britannici rinunciarono all’India come loro colonia e accettarono di dividere il territorio in due nuovi paesi indipendenti: l’India, a maggioranza induista, e il Pakistan, a maggioranza musulmana (da un pezzo del territorio pakistano nacque poi il Bangladesh, nel 1971). Milioni di persone migrarono da un paese all’altro e ci fu moltissima violenza: i morti furono centinaia di migliaia. Nell’accordo che aveva stabilito la divisione dell’ex colonia britannica non era stata inserita alcuna soluzione per lo stato principesco del Jammu-Kashmir, uno dei 565 domini semi-indipendenti attraverso i quali la corona britannica aveva amministrato i territori indiani non direttamente sottoposti al suo controllo.

A quel tempo il Kashmir era un’area a maggioranza musulmana (contadini poveri) con un sovrano e molti agrari induisti. Nel 1947 sia l’India sia il Pakistan rivendicarono il piccolo stato principesco come proprio sulla base di ragioni religiose e culturali. I pakistani inviarono sul posto un esercito di volontari, mentre il principe locale chiese aiuto all’esercito indiano. Alla fine l’India riuscì a occupare due terzi della regione, mentre il Pakistan si prese il restante terzo.

L’ONU stabilì che la decisione finale doveva spettare alla popolazione locale, ma le elezioni non si tennero mai e la regione del Kashmir rimase divisa in due: da una parte lo stato indiano del Jammu-Kashmir, dall’altra quello pakistano del Gilgit-Baltistan. In mezzo, quella che anni dopo sarebbe diventata la cosiddetta “linea di controllo“.

Ora il nuovo provvedimento cancella il diritto esclusivo per chi è residente permanente nello stato del Kashmir all’acquisto di terreni nello stato stesso.

I politici locali denunciano una costante riduzione dei diritti del popolo del Kashmir da quando, lo scorso anno, è stato abolito lo statuto speciale garantito dalla Costituzione indiana fin dagli anni Cinquanta e che ne faceva una regione autonoma con proprie regole su residenza e proprietà. L’articolo 370 concede allo stato indiano una propria costituzione, una bandiera separata e la libertà di fare leggi, sebbene gli affari esteri, la difesa e le comunicazioni restino appannaggio del governo centrale.

Nell’ottobre del 2019 infatti il parlamento indiano ha diviso lo stato di Jammu-Kashmir in due diversi territori: uno che continua ad avere lo stesso nome e un parlamento statale, mentre l’altro, al confine con la Cina, tra Tibet e Pakistan, chiamato Ladakh, privo di parlamento. Da allora sono entrambi Territori dell’Unione ma governati direttamente dal governo centrale.

Il primo ministro indiano Narendra Modi vuole uniformare le regole in vigore nel Kashmir col resto del paese.

Dagli anni Ottanta il Pakistan ha cominciato a incoraggiare movimenti di guerriglia nel Jammu-Kashmir, che insieme alla brutale repressione dell’esercito indiano hanno provocato la morte di più di 40mila persone.

In questa area i due paesi hanno combattuto altre tre guerre (nel 1965, 1971 e 1999), nelle quali sono morte decine di migliaia di persone: l’ultima si concluse nel 2003.

Nel 2019 Modi ha ordinato un attacco aereo contro il Pakistan, dopo che un miliziano del Kashmir legato a un gruppo pakistano aveva fatto esplodere un’autobomba contro un convoglio militare indiano, uccidendo almeno quaranta soldati.

Durante il primo mandato di Modi il governo indiano aveva iniziato a riscrivere i libri di storia, eliminando molte parti che parlavano dei governanti musulmani, e aveva adottato politiche sempre più favorevoli agli induisti conservatori. Il progetto del premier è quello di cambiare il carattere fondamentale dell’India: da stato laico, voluto dai padri fondatori (tra cui Nehru, il primo capo del governo indiano) a nazione induista. Infatti negli ultimi cinque anni l’India di Modi si è spostata sempre più su posizioni nazionaliste e i gruppi e le organizzazioni indù di destra hanno acquisito sempre più potere.

Molti temono che ora il partito Bharatiya Janata (BJP) di Modi possa adottare nuovi provvedimenti per colpire l’Islam in India, per es. eliminando alcune particolari leggi relative ai matrimoni e alle eredità nelle famiglie musulmane e costruendo un tempio indù ad Ayodhya, sulle rovine di una moschea.

Intanto il governo indiano ha imposto un coprifuoco per evitare manifestazioni, ha interrotto tutte le comunicazioni verso l’esterno, ha arrestato diversi politici locali, anche i più moderati, e ha vietato qualsiasi forma di riunione e protesta.

Il primo ministro pakistano, Imran Khan, che vorrebbe tutto il Kashmir per sé, ha detto che si batterà contro la revoca dello “status speciale” rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Teme una pulizia etnica da parte dell’India.

Insomma ci sono tutte le premesse per una nuova guerra tra queste due potenze nucleari. E quella è una delle zone più militarizzate del mondo.

Anche la vicina Cina, che si è presa una parte del territorio nel 1962, ha espresso opposizione alla mossa indiana, schierandosi coi pakistani.

Da notare che il premier nazionalista Modi si sta preparando per le elezioni del prossimo maggio. Probabilmente ha voluto alzare i toni dello scontro con il Pakistan per aumentare i consensi del proprio partito. Ma la situazione potrebbe facilmente degenerare.

In gioco non ci sono solo cospicui giacimenti di rubini, oro, argento, rame, carbone, ferro e manganese, ma anche lo sfruttamento delle foreste e soprattutto delle risorse idriche del bacino dell’Indo (la zona è ricca di ghiacciai e nevi perenni), anche se l’80% della popolazione lavora in campo agricolo e nell’allevamento.

L’India è interessata soprattutto all’acqua, poiché orienta da sempre la propria politica energetica sull’idroelettrico, di cui è settimo produttore mondiale e quarto potenziale, dopo Cina, Brasile e Canada. Le dighe — potenzialmente — sono in grado di bloccare l’80% dell’approvvigionamento idrico dell’agricoltura pakistana.

La storia della Whirlpool al capolinea

La storia della Whirlpool è finita male. Il 31 ottobre chiuderà.

Dopo un anno di scioperi per impedire che i macchinari fossero portati in Polonia o in Cina, dove il costo del lavoro è ridicolo, la multinazionale del Michigan ha approfittato della seconda ondata di pandemia per chiudere definitivamente la sede napoletana.

Costruita dalla Ignis nel 1957, passata alla Philips nel 1972 e finita alla Whirlpool all’inizio degli anni novanta, era diventata un piccolo gioiello con standard tecnologici e produttivi molto alti. L’impianto oggi perde 20 milioni di euro all’anno e quindi non è più sostenibile.

Anche il polo casertano di Carinaro è stato trasformato in un deposito di pezzi di ricambio.

Il ministro Stefano Patuanelli ha dichiarato di non avere strumenti per fermare una multinazionale (che impegna 70 mila lavoratori in tutto il mondo ed è la maggiore produttrice mondiale di elettrodomestici). Il piano industriale 2019-2021, che prevedeva ammortizzatori sociali e incentivi economici, in cambio di un investimento da parte dell’azienda di 17 milioni di euro, non è servito a niente. L’azienda ha ricevuto aiuti pubblici in varia forma per un ammontare complessivo di circa 100 milioni di euro.

Per il 2020 la Whirlpool ha previsto un calo di fatturato tra il 13 e il 18% a causa della pandemia. Per questo l’azienda ha deciso di tagliare 500 milioni di dollari su manodopera e altri settori.

I lavoratori hanno ricevuto una lettera nella quale veniva annunciato il loro trasferimento a un’altra società, la Passive refrigeration solutions (Prs), una start-up svizzera dai finanziatori sconosciuti, che non ha neppure un sito web e non ha mai prodotto niente. La sede è a Lugano. La Prs ha già sciolto ogni trattativa con Whirlpool per la cessione della sede di Napoli, anzi ha dato mandato ai propri legali per denunciare la Whirlpool a causa dei suoi comportamenti.

Intanto 14 operai han già accettato la buonuscita di 75mila euro proposta dall’azienda.

Il lento esodo dei lavoratori è cominciato un anno fa. Erano 420, ora sono 350. Finora nessuno di loro ha trovato un altro lavoro, anche perché a 45 anni (età media nella fabbrica) non è facile Poi c’è un altro migliaio di persone che lavora nell’indotto.

Quali errori si sono compiuti? Alcuni storici: aver indotto i Paesi comunisti a diventare capitalisti. Altri strategici: non aver occupato la fabbrica. Non avere alcuna idea di come ristrutturare una fabbrica in maniera non capitalistica. Fidarsi delle promesse di una multinazionale, concedendole ampie agevolazioni.

I vescovi cattolici tedeschi pronti allo scisma?

L’episcopato tedesco cattolico, preoccupato per la scarsità delle vocazioni, vuole che i preti abbiano la possibilità di sposarsi e che anche le donne possano accedere al sacerdozio.

Sono guidati da un cardinale che di nome fa Reinhard ma il cui cognome è tutto un programma: Marx. È uno degli uomini più fidati della “cerchia” di papa Bergoglio.

Dopo mezzo millennio una parte della Chiesa cattolica sembra che si stia avvicinando a quella protestante. Che poi in quella ortodossa non è mai stato approvato il celibato del clero, se non per le alte gerarchie.

Anche sulla morale sessuale i Teutonici esigono delle aperture, soprattutto per il controllo delle nascite, ma sono anche intenzionati a sposare coppie omosessuali. Pretendono inoltre un rito comune che possa essere considerato valido tanto dai protestanti quanto dai cattolici e chiedono che la gestione degli ambienti parrocchiali possa essere affidata anche ai laici.

Si accontentano di poco. Non una parola su quell’obbrobrio da chiudere chiamato “Stato del Vaticano” e su quell’assurdità da eliminare chiamata “monarchia teocratica assoluta”, che prevede l’infallibilità pontificia. Sono ancora lontani mille miglia tanto dai protestanti quanto dagli ortodossi.

Il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari

Il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari firmato il 24 ottobre 2020 da 50 nazioni dell’ONU impedisce espressamente qualunque tipo di giustificazione per l’uso di armi nucleari nel diritto internazionale. Vieta lo sviluppo, i test, la produzione, l’immagazzinamento, il trasferimento, l’uso e la minaccia delle armi nucleari. Più chiaro di così non poteva essere.

È anche l’unico Trattato che proibisce esplicitamente ai suoi membri di ospitare armi nucleari appartenenti ad altri Stati (un classico esempio è quello della NATO nel nostro Paese). Gli Stati dotati di armi nucleari e non nucleari devono lavorare in cooperazione per ottenere l’eliminazione di tutti gli arsenali nucleari.

Purtroppo nessuna potenza nucleare l’ha firmato, e solo 6 dei 49 Stati europei hanno approvato e ratificato il Trattato: Austria, Irlanda, Malta, San Marino, Liechtenstein e lo Stato del Vaticano. L’Italia non ha firmato né ratificato il Trattato. Non ha partecipato alla negoziazione del Trattato alle Nazioni Unite a New York nel 2017 e quindi non ha votato sulla sua adozione. L’Italia è attualmente uno dei cinque Stati europei che ospitano testate nucleari statunitensi nell’ambito di accordi NATO. Si tratta di circa 40 bombe nucleari B61 presso la basi aeree di Aviano e di Ghedi. Nel 2019 l’Italia ha votato contro una risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite che invitava ad aderire al Trattato.

Siamo un Paese ridicolo. Vorrei sapere quali politici irresponsabili non hanno capito che non solo deve finire la corsa agli armamenti nucleari ma bisogna anche procedere allo smantellamento degli arsenali nucleari già esistenti. Quindi bisogna imporre alla NATO di eliminare l’arsenale nucleare dalle sue basi sul nostro territorio.

La difficile democrazia in Cile

Dopo molte proteste che chiedevano più welfare e meno oligopoli contro il governo cileno di Sebastián Piñera, le cui forze di sicurezza hanno compiuto abusi d’ogni genere, finalmente il 25 ottobre si è svolto un referendum in cui il 78% del 50% dei votanti si è espresso a favore di una nuova Costituzione, da approvarsi con un nuovo referendum entro giugno 2022.

Viene spontaneo chiedersi come abbia potuto una Costituzione fascista durare così tanto tempo. Semplice: con la dittatura. Non dimentichiamo che i militari di Pinochet, appoggiati dal governo americano di Nixon e Kissinger in funzione anticomunista, fecero un golpe nel 1973, uccisero Salvador Allende, presidente eletto democraticamente, ed eliminarono 3.508 persone (2.298 assassinate o giustiziate, 1.210 sparite nel nulla), mentre altre 28.259 furono vittime di torture, secondo la Commissione Rettig. Ma ancora oggi non si sa l’entità precisa del terrorismo di stato: secondo altre fonti gli internati, esiliati o arrestati in maniera arbitraria sarebbero stati tra 80.000 e 600.000, mentre i torturati e/o vittime di violenza tra 30.000 e 130.000.

Sette anni dopo il colpo di Stato, Pinochet elaborò una nuova Costituzione che favoriva il privato a danno del pubblico, la classe imprenditoriale a scapito dei dipendenti statali, inoltre concentrava nelle mani dell’esecutivo alcuni diritti fondamentali: dall’esonerare le alte cariche pubbliche a quelle militari. Sul piano economico Pinochet si avvalse di un gruppo di giovani economisti cileni iperliberisti, guidati da José Piñera (fratello dell’attuale premier), formatisi a Chicago da Milton Friedman. Sanità, istruzione, trasporti, previdenza furono appannaggio solo dei più ricchi.

Poi Pinochet, in seguito a un crollo finanziario, decise di allontanare quasi tutti i “Chicago boys” dal governo e nazionalizzò numerose aziende cilene, soprattutto quelle del rame, che facevano del Cile il maggior produttore al mondo.

Spinto dalle pressioni estere a una consultazione elettorale regolare, un referendum nel 1988 mise fine alla dittatura, con il 55% dei votanti che si espresse contro Pinochet, e lo costrinse ad avviare la transizione, reintroducendo la democrazia con libere elezioni nel 1989. Lasciò ufficialmente il potere solo nel 1990, rimanendo però capo delle forze armate fino al 1998. Divenne poi senatore a vita, godendo dell’immunità parlamentare fino al 2002. Arrestato nel Regno Unito su mandato del governo spagnolo per la sparizione di cittadini iberici e accusato di crimini contro l’umanità, di corruzione ed evasione fiscale, non fu però mai condannato per motivi di salute: rientrò in Cile, dove riuscì ad evitare i processi e dove morì nel 2006. Ancora oggi ufficialmente il suo regime in Cile non viene definito una dittatura. I delitti commessi dai militari furono “liquidati” con l’attuazione della politica di riconciliazione nazionale.

La prima modifica alla Costituzione avvenne nel 1989, ma le misure anti-terrorismo previste nel testo del 1980 rimasero sempre in vigore. Oltre a queste si continuava a favorire l’attività privata in tutti i settori della vita sociale, facendo diventare il Cile uno dei Paesi con più disuguaglianze nell’America Latina.

Ora la stesura della nuova Carta sarà affidata a una Convenzione costituente, composta interamente da 155 cittadini, scelti in occasione di apposite elezioni nell’aprile 2021, sulla base di un criterio di parità di genere e con una rappresentanza di delegati delle popolazioni indigene. Quindi non ci saranno i parlamentari!

Erdogan più laico di Macron?

L’insistenza del presidente francese Macron nel difendere la libertà di pubblicare le vignette contro il profeta Maometto sta provocando uno scontro di portata globale.

Alle proteste del presidente turco Erdogan si sono aggiunte quelle del premier pakistano Imran Khan, che giustamente ha detto: “Il presidente Macron avrebbe potuto puntare alla pacificazione e negare spazio agli estremisti piuttosto che creare ulteriore polarizzazione ed emarginazione che inevitabilmente portano alla radicalizzazione. È un peccato che abbia scelto di incoraggiare l’islamofobia attaccando l’Islam piuttosto che i terroristi che praticano la violenza, siano essi musulmani, suprematisti bianchi o ideologi nazisti”. Nel suo Paese l’hashtag #ShameOnYouMacron, “vergognati Macron”, è diventato la principale tendenza su Twitter, mentre #boycottfrance è tra le prime cinque.

In effetti i paesi che si affacciano sul Golfo Persico sembrano intenzionati a boicottare i prodotti “Made in France”.

In Libia è stata organizzata una manifestazione in piazza dei Martiri, nel centro di Tripoli.

Nella località tunisina di El Kamour, alle porte del Sahara, una marcia anti-francese ha riunito poche decine di persone.

Il leader del partito islamista algerino Fronte della Giustizia e dello sviluppo, Abdallah Djaballah, ha chiesto il boicottaggio dei prodotti francesi e la convocazione dell’ambasciatore francese.

Circa duecento palestinesi hanno protestato a Tel Aviv, davanti alla residenza dell’ambasciatore francese in Israele. Nella Striscia di Gaza i manifestanti hanno bruciato le foto di Macron. Hamas, che controlla la Striscia, ha affermato che gli “insulti nei confronti di religioni e di profeti” favoriscono “una cultura dell’odio”.

Una protesta formale viene anche dal governo giordano, secondo il quale la pubblicazione delle caricature “provoca amarezza in due miliardi di musulmani”. Il ministro degli Affari islamici, Mohammed al-Khalayleh, ha affermato che “offendere” i profeti “non è una questione di libertà personale ma un crimine che incoraggia la violenza”.

Un richiamo simbolico al boicottaggio è arrivato anche a Bab al-Hawa, un valico di frontiera nel nord-ovest della Siria, in mano ai ribelli e dove arrivano pochi prodotti francesi.

Il potente movimento sciita Hezbollah ha condannato “con forza l’insulto deliberato” rivolto al profeta, esprimendo in un comunicato il proprio “rifiuto della persistente posizione francese consistente nell’incoraggiare questo pericoloso affronto”.

In Kuwait, il ministro degli Affari esteri, lo sceicco Ahmed Nasser al-Mohammed al-Sabah “ha incontrato” l’ambasciatore francese Anne-Claire Legendre.

Chi obbliga Macron ad assumere una posizione così estrema per combattere quello che lui chiama il separatismo islamico? Gli Stati Uniti? Israele? O è tutta farina del suo sacco demenziale?

Lui dice di non accettare l’incitamento all’odio, ma sta proprio facendo questo.

Ha scritto: “Saremo sempre dalla parte della dignità umana e dei valori universali”. Eppure in nome di questi valori nega la dignità a quelli islamici. Ha assunto le posizioni della destra estrema. Dice infatti Marine Le Pen: “Mai scendere a compromessi con l’islamismo”. C’è forse una strategia occulta dietro questa ostentazione del laicismo più radicale?

Tutti i laici sanno che in ogni religione è possibile trovare il ridicolo, non essendo facile dimostrare ciò che predicano. Ma la satira esaspera errori o situazioni sbagliate per indurre a correggerli. Dileggiare è violenza, non è libertà. Maometto è stato un profeta che ha creato, per le esigenze culturali di molti paesi mediorientali, un tempo pagani, una fede che mancava. Nessuno ha il diritto di deriderla senza istigare la reazione dei fedeli. Se c’è chi reagisce col terrorismo, conviene continuare a provocarli?

Super multa per la JPMorgan per manipolazione dei mercati. Ma tanto poi non cambia niente….

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La JP Morgan Chase, la più grande banca americana, dovrà pagare una multa di 920,2 milioni di dollari, la più salata della storia, per protratte operazioni di manipolazione del mercato. La decisione è stata presa dalla Commodity Futures Trading Commission (Cftc), l’agenzia del governo statunitense che si occupa della regolamentazione dei future e di altri derivati finanziari contrattati sui mercati delle commodity, quelli delle materie prime e dei prodotti alimentari.  Il suo scopo è quello di garantire l’integrità del settore finanziario.

Secondo l’ordinanza della citata Cftc, dal 2008 al 2016 la JP Morgan ha tenuto “una condotta manipolatrice e ingannevole” in particolare nei mercati dei metalli preziosi e dei contratti future legati alle obbligazioni del Tesoro. Di fatto, gli operatori, i trader, della JP Morgan hanno emesso centinaia di migliaia di ordini di acquisto che venivano poi ritirati, cancellati, prima della loro esecuzione. In questo modo hanno stravolto il normale andamento della domanda e dell’offerta, inducendo gli altri investitori a intraprendere azioni finanziarie basate su valutazioni e attese falsate.

In pratica il sistema JP Morgan funzionava in questo modo: gli operatori emettevano ordini farlocchi di acquisto, per esempio, di contratti future sull’oro, i cosiddetti spoof order. Creavano così un “effetto onda”, imitato da altri operatori, per far salire il prezzo dei derivati. Poi, un momento prima di ritirare gli ordini fatti, essi emettevano un ordine vero, il cosiddetto genuine order, con il quale, invece, vendevano il future, il cui valore a quel punto era salito.  

Solo per un dato segmento di operazioni analizzate, è stato appurato che la JP Morgan avrebbe fatto profitti per oltre 172 milioni di dollari mentre gli altri operatori avrebbero avuto perdite per circa 312 milioni.

Nell’ordinanza della Cftc si legge anche che per anni la banca ha disinformato e manipolato la stessa agenzia di controllo, rallentando così ogni possibile intervento di correzione e di sanzione. La JP Morgan non ha potuto nemmeno giustificarsi e scaricare le responsabilità su qualche singolo dipendente “avventuriero”, in quanto i vari dirigenti dei dipartimenti preposti ai mercati erano direttamente coinvolti.

Soltanto nel 2016 la JP Morgan avrebbe iniziato a collaborare con l’agenzia di controllo. Per questa ragione, e ciò è alquanto sorprendente, l’ammontare della multa è stato proposto dalla banca e accettato dalla Cftc. Inoltre, sempre per tale tardiva e discutibile dimostrazione di buona volontà e di cooperazione, l’agenzia non ha chiesto che la banca fosse squalificata e dichiarata bad actor e, quindi, esclusa dai mercati perché “cattivo operatore”. Il che, e non solo secondo noi, sarebbe stata una vera rivoluzione nella finanza.  

Ancora una volta per le banche too big to fail si applica un conveniente accordo di favore. Le multe, anche se apparentemente salate, sono spesso solo una misera percentuale dei profitti fatti illegalmente e fraudolentemente. Il loro patteggiamento, di conseguenza, comporta sempre la fine delle indagini e dei procedimenti legali intrapresi.

In merito, comunque, il Dipartimento di Giustizia e il Procuratore dello Stato del Connecticut stanno istruendo dei procedimenti penali per frode. Anche la Security Exchange Commission (Sec), la Consob americana, l’agenzia federale preposta alla sorveglianza delle attività delle borse valori e alla protezione degli investitori, sta iniziando un caso legale in sede civile. Vedremo se andranno oltre l’imposizione di semplici ammende. C’è poco da sperarci.

Indubbiamente è in corso un profondo dibattito negli Stati Uniti circa l’efficacia delle azioni di controllo e di repressione da parte delle agenzie preposte al funzionamento dei mercati. Infatti, due consiglieri della succitata Cftc, si sono dichiarati non completamente soddisfatti per la mancata applicazione dello status di bad actor per la JP Morgan. Hanno richiesto una maggiore e fattiva collaborazione tra la Cftc e la Sec, che avrebbe l’autorità di escludere dai mercati le banche e gli operatori considerati inaffidabili. “Essenzialmente, hanno detto i due consiglieri, oggi la Sec consiglia alla Cftc quello che la Cftc deve consigliare alla Sec, il cui regolamento, poi, le vieta di fare”, Un “procedimento circolare” che oscura la trasparenza e le responsabilità con uno spreco di risorse. E’ qualcosa che anche in Europa e in Italia dovremmo imparare, circa le nostre varie agenzie di controllo.

La gravità dell’affaire della JP Morgan va ben oltre il caso in sé. La manipolazione dei mercati delle commodity non ha soltanto una valenza finanziaria. In questi mercati vengono contrattate le derrate e le risorse più importanti per l’economia e per la vita dei popoli e dei singoli cittadini: il cibo, l’energia, e tutte le materi prime che entrano nei settori produttivi dell’economia reale.

Non ci si può dimenticare dei picchi d’inflazione relativi ai prezzi del grano, del riso o del petrolio che, più volte in questi primi venti anni del ventunesimo secolo, hanno stravolto intere nazioni e impoverito, spesso fino alla fame, centinaia di milioni di persone.

Su problemi di tale portata non si dovrebbe né mettere la testa sotto la sabbia per non vedere né usare la mano leggera quando si scoprono comportamenti illegali. Essi, di solito, sono alla base di scandalosi arricchimenti.

*già sottosegretario all’Economia **economista

Il destino di Taiwan è segnato?

Su “Internazionale” un bell’articolo di Pierre Haski sui rapporti tra Cina e USA (21 ottobre 2020).

Questa settimana la Cina festeggia il settantesimo anniversario del suo ingresso nella guerra di Corea, nel 1950. Per Pechino la volontà di onorare i vecchi combattenti si aggiunge a quella di inviare un messaggio bellicoso a due potenziali avversari, gli Stati Uniti e Taiwan.

Nella guerra di Corea, tra il 1950 e il 1953, si affrontarono per la prima volta nel XX sec. gli eserciti cinese e americano.

Il messaggio dell’attuale governo è piuttosto esplicito: “abbiamo combattuto quando eravamo deboli e poveri, dunque non esiteremo a combattere ancora oggi”.

Gli eventi del 1950 hanno infatti assunto le forme del mito. All’epoca, l’esercito americano del generale MacArthur aveva salvato l’esercito sudcoreano dalla sconfitta coi comunisti del nord, e avanzava verso la frontiera cinese.

Ma nella notte del 19 ottobre 1950 Mao diede l’ordine a 250mila soldati cinesi di attraversare le acque gelate del fiume Yalu, prendendo di sorpresa le truppe statunitensi. Fu una carneficina, anche se i cinesi erano equipaggiati nettamente peggio degli americani. Mao aveva puntato sui numeri e aveva vinto, pur con pesanti perdite, compresa quella di suo figlio.

Nelle settimane successive gli statunitensi furono costretti ad arretrare fino all’attuale linea di demarcazione tra le due Coree. Per MacArthur fu una mezza sconfitta. Furioso, il vincitore della guerra nel Pacifico chiese a Washington l’autorizzazione a sganciare una bomba atomica sulla Cina. Il permesso fu negato e il generale fu sollevato dall’incarico.

Ora la Cina potrebbe approfittare della confusione dovuta alle elezioni negli Stati Uniti per lanciarsi all’assalto di Taiwan, anche se il rapporto di forze è ancora largamente favorevole agli americani.

Ormai da settimane Pechino aumenta la pressione sull’isola, rivendicata come propria sin dal 1949, in cui si affermò la rivoluzione di Mao.

La Repubblica Democratica Cinese di Taiwan è semipresidenziale, monocamerale e pluripartitica con oltre 22 milioni di abitanti. È dotata di un governo democraticamente eletto, di un esercito e di tutti i crismi di uno Stato indipendente, fatta eccezione per il riconoscimento internazionale, in quanto vari Paesi non la riconoscono, mentre altri non riconoscono la Cina: Swaziland, Isole Marshall, Nauru, Palau, Tuvalu, Belize, Guatemala, Haiti, Honduras, Nicaragua, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia, Paraguay.

Da quando Taiwan perse il suo seggio alle Nazioni Unite in qualità di rappresentante della “Cina” nel 1971 (sostituita dalla Repubblica Popolare Cinese), la maggior parte degli Stati del mondo hanno spostato il loro riconoscimento diplomatico alla RPC, ammettendo che quest’ultima è la sola rappresentante legittima di tutta la Cina, anche se molti evitano deliberatamente di affermare chiaramente quali territori debba includere la Cina comunista.

Il che non impedisce a Taiwan di mantenere relazioni diplomatiche ufficiali con molti Stati sovrani.

La cosa curiosa è che, con la rielezione del KMT (Partito Nazionalista Cinese) al potere esecutivo nel 2008, il governo di Taiwan afferma che “la Cina continentale è parte del territorio della Repubblica Democratica Cinese”. È curiosa perché le domande della RDC di ammissione alle Nazioni Unite sono state respinte per 16 volte fin dai primi anni 1990.

Le femministe salveranno la Polonia dall’oscurantismo?

Un anno fa la Camera del parlamento polacco votò a favore di un disegno di legge che voleva criminalizzare la promozione dell’attività sessuale minorile, vietando l’insegnamento dell’educazione sessuale nelle scuole, riconosciuta dalle femministe come uno degli strumenti principali contro la violenza di genere, contro la trasmissione di malattie, per la riduzione di gravidanze indesiderate e della mortalità materna.

Il disegno di legge praticamente metteva sullo stesso piano pedofilia ed educazione sessuale. Educatori, insegnanti o medici se fanno riferimento, o danno consigli o rispondono a domande sul sesso in presenza di minori rischiano il carcere. Ora è in discussione al Senato, nonostante la ferma opposizione del Parlamento europeo.

Le scuole pubbliche polacche non prevedono, formalmente, l’insegnamento dell’educazione sessuale, ma prevedono lezioni di “vita familiare” spesso basate sui cosiddetti valori della famiglia tradizionale, sull’opposizione all’aborto, all’uso dei contraccettivi e ai diritti delle persone LGBTQI e sugli stereotipi di genere.

In diverse città del Paese, guidate da sindaci meno conservatori, sono stati avviati nelle scuole programmi di educazione sessuale, cosa che ha causato pesanti contestazioni da parte del partito di estrema destra al governo, Diritto e Giustizia (PiS), e da parte della Conferenza episcopale polacca, una delle più conservatrici in Europa.

In genere per le associazioni cattoliche l’educazione sessuale precoce porta alla depravazione, stimola l’eccitazione sessuale durante quelle stesse lezioni causando una sessualizzazione forzata, e promuove la cosiddetta “ideologia gender” (che non esiste).

Per queste associazioni l’aborto andrebbe vietato quasi completamente.

Infatti di recente hanno ottenuto dalla Corte costituzionale, attraverso i parlamentari più retrivi, che la malformazione del feto non sia più un motivo per abortire.

Da notare che in Polonia ancora oggi non avviene nessuna cerimonia pubblica a cui non sia presente almeno un membro del clero. Eppure proprio in questo Paese negli ultimi 25 anni sono stati denunciati numerosi casi di pedofilia nella Chiesa. Nel marzo 2019 le autorità ecclesiastiche avevano dichiarato di essere a conoscenza di almeno 382 sacerdoti che dagli anni Novanta a oggi avevano abusato di 625 minori.

* * *

Il 22 ottobre la Corte Costituzionale polacca ha stabilito che l’aborto per grave malformazione del feto viola la Costituzione. Quindi sono rimasti solo due i casi in cui si può abortire.

Infatti secondo la legislazione del 1993 l’aborto può essere fatto solo in tre casi: pericolo di vita per la madre, stupro e, appunto, grave malformazione del feto. Il 98% delle procedure abortive veniva praticato per quest’ultimo motivo.

Ora la sentenza della Corte stabilisce un divieto quasi totale di interruzione di gravidanza.

I giudici hanno motivato la sentenza, approvata con 11 voti favorevoli e 2 contrari, dicendo che non può esserci tutela della dignità di un individuo senza la protezione della vita.

Soddisfatta la maggioranza governativa guidata dal partito di estrema destra Diritto e Giustizia (PiS), appoggiata da diversi gruppi religiosi cattolici e da molti vescovi. Il leader di questo partito, completamente filo-Trump e anti-Putin, è molto attivo nel Gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Cekia, Slovacchia), un gruppo sempre polemico con la UE, pur facendone parte dal 2004. Il premier si chiama Mateusz Morawiecki ed è figlio di uno dei fondatori di Solidarność, il sindacato più anticomunista che la Polonia abbia mai avuto, finanziato coi fondi del Vaticano.

Insomma è il solito problema che i cattolici più retrivi non sanno come affrontare: è “persona” l’embrione? Se sì, si dovrebbe impedire l’aborto anche in caso di stupro. In ogni caso può essere considerata meno importante la volontà di una donna rispetto alla non volontà di un embrione?

Ma forse sarebbero altre le domande scomode cui i polacchi dovrebbero rispondere. Per es.: cosa fanno le istituzioni, la società per indurre le donne a non abortire? Quali sono le garanzie o le tutele di cui una coppia o una donna può beneficiare perché sia indotta a non abortire? Sono facilmente accessibili i mezzi di controllo delle nascite? No, perché sono tantissimi i medici obiettori di coscienza. Esiste la possibilità legale del disconoscimento del neonato? Sì, ma in casi eccezionali. È possibile fruire di ampie agevolazioni sociali ed economiche nel caso in cui si voglia portare avanti la gravidanza? E come potrebbero? La Polonia si caratterizza per stipendi bassi, costo della vita elevato, elevata disoccupazione, scarse o nulle tutele sindacali e ammortizzatori sociali, forte emigrazione, soprattutto da parte di coppie giovani e ben istruite. Esiste una educazione sessuale in ambito scolastico? No, perché l’educazione sessuale viene equiparata alla pedofilia.

Possibile che un problema umano del genere debba essere affrontato solo con strumenti coercitivi di tipo legislativo? Se un problema così grave viene affrontato solo in questi termini, è evidente che la finalità è quella di imporre un controllo del corpo femminile e una dittatura sull’intera società.

Intanto secondo le organizzazioni femministe, sono tra 100mila e 200mila le donne polacche che ogni anno sono costrette a ricorrere all’aborto clandestino o ad andare all’estero per poterne avere accesso: in genere in Slovacchia, Cekia, Germania o Ucraina. Due di questi Paesi appartengono al suddetto Gruppo di Visegrád: non è ridicolo?

Il razzismo in Australia

Perché l’Australia è uno dei paesi più razzisti del mondo anglofono? Perché la politica dell’“Australia bianca” (con il rifiuto di tutti gli immigrati non bianchi) è stata ufficialmente abbandonata solo nel 1973.

La politica dell’Australia bianca fu un movimento politico isolazionista e di corrente xenofoba nato nel 1901, intenzionato a bloccare totalmente i flussi immigratori dall’estero.

L’ideatore di questo movimento fu Alfred Deakin, convinto che cinesi e giapponesi costituissero una seria minaccia al progresso del popolo bianco australiano, soprattutto per le proprie caratteristiche di instancabili lavoratori e la loro resistenza allo scarso tenore di vita.

Oggi invece è il gruppo di Murdoch che ha un istintivo atteggiamento islamofobo e xenofobo. Le varie testate della News Corp non si stancano mai di attaccare i musulmani e in generale di veicolare un razzismo spinto. Di recente hanno cominciato a sostenere i concetti del nazionalismo bianco e nel 2018 hanno diffuso ostinatamente il mito del “genocidio bianco” a danno degli agricoltori bianchi del Sudafrica.

Il dominio pressoché assoluto della News Corp nel panorama dei mezzi d’informazione australiani ha pochi eguali negli altri paesi democratici.

Sono così persuasivi che i profughi soccorsi in mare continuano a marcire in centri di detenzione nei vicini paesi insulari del Pacifico come Nauru e Papua Nuova Guinea. Oggi questa politica è talmente normalizzata da avere un sostegno bipartisan nel parlamento australiano.

Ma perché i bianchi australiani sono più razzisti dei bianchi neozelandesi, pur essendo stati i due paesi colonizzati a distanza di soli cinquant’anni l’uno dall’altro da persone provenienti dallo stesso paese e della stessa etnia: inglesi, irlandesi e scozzesi? La differenza sta nel fatto che i popoli che hanno incontrato erano molto diversi tra loro.

Gli aborigeni australiani vivevano in piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori, quasi disarmati e divisi da 600 lingue diverse. Non avevano mai sviluppato l’agricoltura, nonostante avessero abitato quelle terre per 65mila anni. I colonizzatori bianchi si limitarono a soggiogarli. Gli aborigeni non hanno ottenuto la cittadinanza e il diritto di voto fino al 1967.

La storia delle violenze razziali in Australia è andata avanti contro i cinesi nell’Ottocento, contro gli italiani negli anni trenta del Novecento e contro i libanesi nel 2005. Per questo motivo i bianchi australiani di oggi non sono preparati a un mondo segnato dal pluralismo culturale. Ma dovranno farsene una ragione, poiché al censimento della popolazione del 2001, solo il 39% della popolazione risultava essere di etnia bianca europea con avi appurati di origine britannica.

I maori neozelandesi, invece, erano arrivati appena cinquecento anni prima dei bianchi ma avevano già fattorie, vivevano in protostati (territori governati dai capi tribù) e avevano costruito fortezze in tutta la North Island.

L’arrivo dei colonizzatori bianchi fu devastante per i maori, ma erano un popolo abbastanza coriaceo da ottenere il rispetto degli invasori. Quando finalmente fu firmato un trattato, nel 1940, il documento era scritto in entrambe le lingue. Gli omicidi andarono avanti per altri trent’anni e i maori furono duramente colpiti, ma oggi il paese è ufficialmente bilingue e tutti i neozelandesi capiscono che si può vivere insieme a persone diverse.

Oggi le teorie razziste sono sostenute dai media di Murdoch, che hanno sicuramente favorito la strage di Christchurch del 15 marzo 2019, la quale, pur essendo avvenuta in Nuova Zelanda, era nata dal razzismo dell’Australia bianca.

Vi sono state 50 persone morte e il ferimento di altrettante. Furono prese di mira la moschea di Al Noor e il centro islamico di Linwood, entrambi i luoghi affollati da persone di religione musulmana che praticavano la preghiera del venerdì.

L’autore degli attentati di stampo islamofobo, un uomo australiano chiamato Brenton Harrison Tarrant di 28 anni vicino agli ambienti neofascisti, aveva trasmesso il video in diretta Facebook con una videocamera messa sulla testa. Sulle armi da lui utilizzate erano riportati nomi di storiche battaglie in cui i musulmani furono sconfitti (ad esempio quelle di Lepanto e di Tours) e nomi di personaggi storici o contemporanei responsabili di aver fatto guerra (in quanto comandanti militari) a persone di fede islamica e/o di aver ucciso persone di fede islamica.

È stato il più grande omicidio di massa della storia della Nuova Zelanda, un paese con una popolazione di più di quattro milioni di abitanti dove nel 2019 si sono verificati appena 35 omicidi.

La Nuova Zelanda è simile al Canada, dove il razzismo e i pregiudizi nei confronti degli immigrati e dei musulmani esistono, specialmente nelle aree rurali e nel francofono Québec, ma questa ostilità viene di rado manifestata apertamente, perché il rischio è quello di sembrare ignoranti. La gioventù delle città sembra sostanzialmente indifferente al colore della pelle.

La Nigeria al limite della guerra civile?

La Nigeria, ex colonia britannica, la più grande economia dell’Africa, è nella bufera. Il Paese più popoloso e urbanizzato dell’Africa (200 milioni di persone destinate a crescere fino a 440 milioni entro il 2050) è sconvolto dalle proteste che chiedono lo scioglimento della Sars (Special Anti Robbery Squad), una squadra di primo intervento istituita nel 1992 per combattere gli episodi di violenza nel Paese, ma che si è poi macchiata di episodi di corruzione, tortura e violenza generalizzata. Quasi un centinaio di inermi cittadini sono già stati ammazzati.

Al centro c’è la spaccatura tra un’élite vecchia e corrotta e una popolazione giovane e urbanizzata. Circa il 60% della popolazione ha meno di 24 anni e molti giovani si sentono esclusi da un sistema politico che è al servizio degli interessi di una parte ristretta della società.

La Nigeria è il maggiore produttore di petrolio in Africa, scoperto dalla società olandese Shell nel 1956 nel delta del Niger, oggi una delle zone più inquinate, più violente e povere del mondo. Gli introiti statali derivanti dalla produzione di greggio costituiscono più del 50% delle entrate totali del governo federale. Da questo commercio deriva il 90% del reddito statale in valuta estera.

I giganti occidentali del petrolio, Royal Dutch Shell (Paesi Bassi), Total (Francia), Agip (Italia), Exxon Mobil (USA), Chevron (USA), controllano il 95% dell’industria petrolifera della Nigeria attraverso delle joint-ventures. Il 20% del petrolio è destinato ai paesi europei, il 5% al Canada e all’Australia, mentre agli Stati Uniti è destinata la quota maggiore della torta con il 43%. Mentre quasi tutta la produzione giornaliera di petrolio viene esportata all’estero, la Nigeria deve importare circa 187.000 barili al giorno a prezzi esorbitanti. Una situazione assurda dovuta all’assenza di un’industria nazionale per i prodotti petroliferi. Il governo nigeriano contribuisce a questa situazione in cambio di tangenti.

Un tribunale militare condannò a morte nel 1995 lo scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa e altre otto persone perché lottavano contro i danni ambientali provocati dalla Shell. Infatti negli ultimi 50 anni le multinazionali petrolifere non solo hanno incamerato introiti per oltre 600 miliardi di dollari, ma hanno anche disperso nei corsi d’acqua e nelle terre del Delta 15 milioni di tonnellate di greggio.

Oggi c’è una generazione di giovani donne politicamente agguerrite che fanno capo all’influente Feminist Coalition, un collettivo di nigeriane nato nel luglio 2020 con l’obiettivo di ampliare i diritti e le possibilità delle donne nel Paese africano. Si chiedono possibilità di accesso gratuito ai servizi di base, come sanità e istruzione. Si chiedono lavoro e infrastrutture. Si vuol mandare a casa il governo del musulmano Muhammadu Buhari (ex golpista del 1983, salito al potere nel 2015), che ha imposto il coprifuoco, pur avendo sostituito la Sars con la Swat (Special Weapons and Tactics). Sono 10,6 milioni i nigeriani che vivono in grave stato di necessità. Il loro numero, anche a causa della pandemia, è in continuo aumento.

Fondamentale è il ruolo della diaspora nigeriana, molto forte negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Europa. Fin dall’inizio la diaspora ha supportato anche economicamente il movimento, organizzando manifestazioni in tutto il mondo, inclusa l’Italia.

Ma la tragedia della Nigeria è iniziata ben prima. Sono state 50.157 le morti violente legate a scontri armati avvenuti tra il 1997 e il 2015, con un picco nel 2015 quando le vittime sono state 10.933.

Nel 2016, il 7,8% dei conflitti armati in Africa ha avuto luogo in Nigeria, anche a causa della presenza nel nord-est del Paese di Boko Haram, nato nel 2002, che ha causato 1/4 di tutti i decessi in Africa, rendendo la Nigeria il paese più pericoloso per i civili africani: si conta che in sette anni di insurrezione armata il gruppo islamista abbia ucciso circa 15mila persone, costringendone all’esilio più di due milioni.

Boko Haram è un gruppo (diviso in due fazioni) a forte connotazione etnica perché intercetta il malcontento dei Kanuri, una popolazione del Nordest molto discriminata che vive in condizioni limite. Vuole trasformare la Nigeria in un emirato dominato dalla sharia. Considera nemici il governo e gli sponsor occidentali, americani, italiani, europei che avrebbero corrotto i costumi islamici dei nigeriani.

L’esercito non ha potuto far niente contro Boko Haram perché la Nigeria ha 139 gruppi etnici differenti e anche se tutti i militari hanno la stessa divisa, quando entrano in una regione di etnia diversa dalla propria vengono percepiti come forze di occupazione.

Vi è inoltre la potente la mafia nigeriana, formatasi agli inizi degli anni ’80, in seguito alla crisi del petrolio, che portò i gruppi dirigenti a cercare l’appoggio della criminalità per mantenere i loro privilegi. Si è poi sviluppata in Niger, Benin e nel resto del mondo. Presente in molti paesi (Germania, Spagna, Portogallo, Belgio, Romania, Regno Unito, Austria, Stati Uniti, Croazia, Slovenia, Repubblica Ceca, Ungheria, Ucraina, Polonia, Russia, Brasile, Malta e Italia), gestisce oltre al traffico di eroina e di cocaina, la prostituzione delle proprie connazionali tenute in schiavitù col sequestro dei documenti e le minacce ai familiari rimasti nel paese d’origine. Oggi è capace di gestire anche i flussi di spam informatico e il cybercime evoluto fino al traffico di esseri umani.