IL VATICANO SUONA L’ALLARME SUGLI USA E TRUMP: FONDAMENTALISMO EVANGELICALE E INTEGRALISMO CATTOLICO

FONDAMENTALISMO EVANGELICALE E INTEGRALISMO CATTOLICO
 (Nota per il Lettore. Questo saggio uscito su La Civilta’ Cattolica e’ di estrema importanza perche’ fa il punto sul fondamentalismo cattolico alimentato dagli estremisti della destra di Trump capitanata da Steve Bannon, il super consigliere del Presidente. Si tenga conto che questo articolo e’ stato esaminato e aprovato dalle piu’ alte gerarchie del Vaticano. Si tratta di un testo che interessa credenti e non credenti perche’ ha un alto valore ‘politico’ oltre che religioso).

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FONDAMENTALISMO EVANGELICALE E INTEGRALISMO CATTOLICO

Un sorprendente ecumenismo

Antonio Spadaro – Marcelo Figueroa*

In God We Trust: questa è la frase impressa sulle banconote degli Stati Uniti d’America, che è anche l’attuale motto nazionale. Esso apparve per la prima volta su una moneta nel 1864, ma non divenne ufficiale fino al passaggio di una risoluzione congiunta del Congresso nel 1956. Significa: «In Dio noi confidiamo». Ed è un motto importante per una nazione che alla radice della sua fondazione ha pure motivazioni di carattere religioso. Per molti si tratta di una semplice dichiarazione di fede, per altri è la sintesi di una problematica fusione tra religione e Stato, tra fede e politica, tra valori religiosi ed economia.
Religione, manicheismo politico e culto dell’apocalisse
Specialmente in alcuni governi degli Stati Uniti degli ultimi decenni, si è notato il ruolo sempre più incisivo della religione nei processi elettorali e nelle decisioni di governo: un ruolo anche di ordine morale nell’individuazione di ciò che è bene e ciò che è male.
A tratti questa compenetrazione tra politica, morale e religione ha assunto un linguaggio manicheo che suddivide la realtà tra il Bene assoluto e il Male assoluto. Infatti, dopo che Bush a suo tempo ha parlato di un «asse del male» da affrontare e ha fatto richiamo alla responsabilità di «liberare il mondo dal male» in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, oggi il presidente Trump indirizza la sua lotta contro un’entità collettiva genericamente ampia, quella dei «cattivi» (bad) o anche «molto cattivi» (very bad). A volte i toni usati in alcune campagne dai suoi sostenitori assumono connotazioni che potremmo definire «epiche».
Questi atteggiamenti si basano sui princìpi fondamentalisti cristiano-evangelici dell’inizio del secolo scorso, che si sono man mano radicalizzati. Infatti si è passati da un rifiuto di tutto ciò che è «mondano», com’era considerata la politica, al perseguimento di un’influenza forte e determinata di quella morale religiosa sui processi democratici e sui loro risultati.
Il termine «fondamentalismo evangelico», che oggi si può assimilare a «destra evangelicale» o «teoconservatorismo», ha le sue origini negli anni 1910-15. A quell’epoca un milionario del Sud della California, Lyman Stewart, pubblicò 12 volumi intitolati I fondamentali (Fundamentals). L’autore cercava di rispondere alla «minaccia» delle idee moderniste dell’epoca, riassumendo il pensiero degli autori di cui apprezzava l’appoggio dottrinale. In tal modo esemplificava la fede evangelicale quanto agli aspetti morali, sociali, collettivi e individuali. Furono suoi estimatori vari esponenti politici e anche due presidenti recenti come Ronald Reagan e George W. Bush.
Il pensiero delle collettività sociali religiose ispirate da autori come Stewart considera gli Stati Uniti una nazione benedetta da Dio, e non esita a basare la crescita economica del Paese sull’adesione letterale alla Bibbia. Nel corso degli anni più recenti esso si è inoltre alimentato con la stigmatizzazione di nemici che vengono per così dire «demonizzati».
Nell’universo che minaccia il loro modo di intendere l’ American way of life si sono avvicendati nel tempo gli spiriti modernisti, i diritti degli schiavi neri, i movimenti hippy, il comunismo, i movimenti femministi e via dicendo, fino a giungere, oggi, ai migranti e ai musulmani. Per sostenere il livello del conflitto, le loro esegesi bibliche si sono sempre più spinte verso letture decontestualizzate dei testi veterotestamentari sulla conquista e sulla difesa della «terra promessa», piuttosto che essere guidate dallo sguardo incisivo e pieno di amore del Gesù dei Vangeli.
Dentro questa narrativa, ciò che spinge al conflitto non è bandito. Non si considera il legame esistente tra capitale e profitti e la vendita di armi. Al contrario: spesso la guerra stessa è assimilata alle eroiche imprese di conquista del «Dio degli eserciti» di Gedeone e di Davide. In questa visione manichea, le armi possono dunque assumere una giustificazione di carattere teologico, e non mancano anche oggi pastori che cercano per questo un fondamento biblico, usando brani della Sacra Scrittura come pretesti fuori contesto.
Un altro aspetto interessante è la relazione che questa collettività religiosa, composta principalmente da bianchi di estrazione popolare del profondo Sud americano, ha con il «creato». Vi è come una sorta di «anestesia» nei confronti dei disastri ecologici e dei problemi generati dai cambiamenti climatici. Il «dominionismo» che professano – che considera gli ecologisti persone contrarie alla fede cristiana – affonda le proprie radici in una comprensione letteralistica dei racconti della creazione del libro della Genesi, che colloca l’uomo in una situazione di «dominio» sul creato, mentre quest’ultimo resta sottoposto al suo arbitrio in biblica «soggezione».
In questa visione teologica, i disastri naturali, i drammatici cambiamenti climatici e la crisi ecologica globale non soltanto non vengono percepiti come un allarme che dovrebbe indurli a rivedere i loro dogmi ma, al contrario, sono segni che confermano la loro concezione non allegorica delle figure finali del libro dell’Apocalisse e la loro speranza in «cieli nuovi e terra nuova».
Si tratta di una formula profetica: combattere le minacce ai valori cristiani americani e attendere l’imminente giustizia di un Armageddon, una resa dei conti finale tra il Bene e il Male, tra Dio e Satana. In questo senso ogni «processo» (di pace, di dialogo ecc.) frana davanti all’impellenza della fine, della battaglia finale contro il nemico. E la comunità dei credenti, della fede (faith), diventa la comunità dei combattenti, della battaglia (fight). Una simile lettura unidirezionale dei testi biblici può indurre ad anestetizzare le coscienze o a sostenere attivamente le situazioni più atroci e drammatiche che il mondo vive fuori dalle frontiere della propria «terra promessa».
Il pastore Rousas John Rushdoony (1916-2001) è il padre del cosiddetto «ricostruzionismo cristiano» (o «teologia dominionista»), che grande impatto ha avuto nella visione teopolitica del fondamentalismo cristiano. Essa è la dottrina che alimenta organizzazioni e networks politici come il Council for National Policy e il pensiero dei loro esponenti quali Steve Bannon, attuale chief strategist della Casa Bianca e sostenitore di una geopolitica apocalittica[1].
«La prima cosa che dobbiamo fare è dare voce alle nostre Chiese», dicono alcuni. Il reale significato di questo genere di espressioni è che ci si attende la possibilità di influire nella sfera politica, parlamentare, giuridica ed educativa, per sottoporre le norme pubbliche alla morale religiosa.
La dottrina di Rushdoony, infatti, sostiene la necessità teocratica di sottomettere lo Stato alla Bibbia, con una logica non diversa da quella che ispira il fondamentalismo islamico. In fondo, la narrativa del terrore che alimenta l’immaginario degli jihadisti e dei neo-crociati si abbevera a fonti non troppo distanti tra loro. Non si deve dimenticare che la teopolitica propagandata dall’Isis si fonda sul medesimo culto di un’apocalisse da affrettare quanto prima possibile. E dunque non è un caso che George W. Bush sia stato riconosciuto come un «grande crociato» proprio da Osama bin Laden.
Teologia della prosperità e retorica della libertà religiosa
Un altro fenomeno rilevante, accanto al manicheismo politico, è il passaggio dall’originale pietismo puritano, basato su L’ etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, alla «teologia della prosperità», propugnata principalmente da pastori milionari e mediatici e da organizzazioni missionarie con un forte influsso religioso, sociale e politico. Essi annunciano un «vangelo della prosperità», per cui Dio desidera che i credenti siano fisicamente in salute, materialmente ricchi e personalmente felici.
È facile notare come alcuni messaggi delle campagne elettorali e le loro semiotiche abbondino di riferimenti al fondamentalismo evangelicale. Accade per esempio di vedere immagini in cui leader politici appaiono trionfanti con una Bibbia in mano.
Una figura rilevante, che ha ispirato presidenti come Richard Nixon, Ronald Reagan e Donald Trump, è il pastore Norman Vincent Peale (1898-1993), il quale ha officiato il primo matrimonio dell’attuale Presidente. Egli è stato un predicatore di successo: ha venduto milioni di copie del suo libro Il potere del pensiero positivo (1952), pieno di frasi quali: «Se credi in qualcosa, la otterrai», «Se ripeti “Dio è con me, chi è contro di me?”, nulla ti fermerà», «Imprimi nella tua mente la tua immagine di successo, e il successo arriverà», e così via. Molti telepredicatori della prosperità mescolano marketing, direzione strategica e predicazione, concentrandosi più sul successo personale che sulla salvezza o sulla vita eterna.
Un terzo elemento, accanto al manicheismo e al vangelo della prosperità, è una particolare forma di proclamazione della difesa della «libertà religiosa». L’erosione della libertà religiosa è chiaramente una grave minaccia all’interno di un dilagante secolarismo. Occorre però evitare che la sua difesa avvenga al ritmo dei fondamentalisti della «religione in libertà», percepita come una diretta sfida virtuale alla laicità dello Stato.
L’ecumenismo fondamentalista
Facendo leva sui valori del fondamentalismo, si sta sviluppando una strana forma di sorprendente ecumenismo tra fondamentalisti evangelicali e cattolici integralisti, accomunati dalla medesima volontà di un’influenza religiosa diretta sulla dimensione politica.
Alcuni che si professano cattolici si esprimono talvolta in forme fino a poco tempo fa sconosciute alla loro tradizione e molto più vicine ai toni evangelicali. In termini di attrazione di massa elettorale, questi elettori vengono definiti value voters. L’universo di convergenza ecumenica, tra settori che paradossalmente sono concorrenti in termini di appartenenza confessionale, è ben definito. Quest’incontro per obiettivi comuni avviene sul terreno di temi come l’aborto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’educazione religiosa nelle scuole e altre questioni considerate genericamente morali o legate ai valori. Sia gli evangelicali sia i cattolici integralisti condannano l’ecumenismo tradizionale, e tuttavia promuovono un ecumenismo del conflitto che li unisce nel sogno nostalgico di uno Stato dai tratti teocratici.
La prospettiva più pericolosa di questo strano ecumenismo è ascrivibile alla sua visione xenofoba e islamofoba, che invoca muri e deportazioni purificatrici. La parola «ecumenismo» si traduce così in un paradosso, in un «ecumenismo dell’odio». L’intolleranza è marchio celestiale di purismo, il riduzionismo è metodologia esegetica, e l’ultra-letteralismo ne è la chiave ermeneutica.
È chiara l’enorme differenza che c’è tra questi concetti e l’ecumenismo incoraggiato da papa Francesco con diversi referenti cristiani e di altre confessioni religiose, che si muove nella linea dell’inclusione, della pace, dell’incontro e dei ponti. Questo fenomeno di ecumenismi opposti, con percezioni contrapposte della fede e visioni del mondo in cui le religioni svolgono ruoli inconciliabili, è forse l’aspetto più sconosciuto e al tempo stesso più drammatico della diffusione del fondamentalismo integralista. È a questo livello che si comprende il significato storico dell’impegno del Pontefice contro i «muri» e contro ogni forma di «guerra di religione».
La tentazione della «guerra spirituale»
L’elemento religioso invece non va mai confuso con quello politico. Confondere potere spirituale e potere temporale significa asservire l’uno all’altro. Un tratto netto della geopolitica di papa Francesco consiste nel non dare sponde teologiche al potere per imporsi o per trovare un nemico interno o esterno da combattere. Occorre fuggire la tentazione trasversale ed «ecumenica» di proiet­tare la divinità sul potere politico che se ne riveste per i propri fini. Francesco svuota dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari e del «dominionismo», che prepara all’apocalisse e allo «scontro finale»[2]. La sottolineatura della misericordia come attributo fondamentale di Dio esprime questa esigenza radicalmente cristiana.
Francesco intende spezzare il legame organico tra cultura, politica, istituzioni e Chiesa. La spiritualità non può legarsi a governi o patti militari, perché essa è a servizio di tutti gli uomini. Le religioni non possono considerare alcuni come nemici giurati né altri come amici eterni. La religione non deve diventare la garanzia dei ceti dominanti. Eppure è proprio questa dinamica dallo spurio sapore teologico che tenta di imporre la propria legge e la propria logica in campo politico.
Colpisce una certa retorica usata per esempio dagli opinionisti di Church Militant, una piattaforma digitale statunitense di successo, apertamente schierata a favore di un ultraconservatorismo politico, che usa i simboli cristiani per imporsi. Questa strumentalizzazione è definita «autentico cristianesimo». Essa, per esprimere le proprie preferenze, ha creato una precisa analogia tra Donald Trump e Costantino, da una parte, e tra Hillary Clinton e Diocleziano, dall’altra. Le elezioni americane, in quest’ottica, sono state intese come una «guerra spirituale»[3].
Questo approccio bellico e «militante» appare decisamente affascinante ed evocativo per un certo pubblico, soprattutto per il fatto che la vittoria di Costantino – data per impossibile contro Massenzio, che aveva alle sue spalle tutto l’establishment romano – era da attribuirsi a un intervento divino: in hoc signo vinces.
Church Militant si chiede dunque se la vittoria di Trump si possa attribuire alla preghiera degli americani. La risposta suggerita è positiva. La consegna indiretta per il presidente Trump, nuovo Costantino, è chiara: deve agire di conseguenza. Un messaggio molto diretto, quindi, che vuole condizionare la presidenza, connotandola dei tratti di una elezione «divina». In hoc signo vinces, appunto.
Oggi più che mai è necessario spogliare il potere dei suoi panni confessionali paludati, delle sue corazze, delle sue armature arrugginite. Lo schema teopolitico fondamentalista vuole instaurare il regno di una divinità qui e ora. E la divinità ovviamente è la proiezione ideale del potere costituito. Questa visione genera l’ideologia di conquista.
Lo schema teopolitico davvero cristiano è invece escatologico, cioè guarda al futuro e intende orientare la storia presente verso il Regno di Dio, regno di giustizia e di pace. Questa visione genera il processo di integrazione che si dispiega con una diplomazia che non incorona nessuno come «uomo della Provvidenza».
Ed è anche per questo che la diplomazia della Santa Sede vuole stabilire rapporti diretti, fluidi con le superpotenze, senza però entrare dentro reti di alleanze e di influenze precostituite. In questo quadro, il Papa non vuole dare né torti né ragioni, perché sa che alla radice dei conflitti c’è sempre una lotta di potere. Quindi non c’è da immaginare uno «schieramento» per ragioni morali o, peggio ancora, spirituali.
Francesco rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del Regno di Dio sulla terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del «partito». Se fosse così inteso, infatti, il «popolo eletto» entrerebbe in un complicato intreccio di dimensioni religiose e politiche che gli farebbe perdere la consapevolezza del suo essere a servizio del mondo e lo contrapporrebbe a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè al «nemico».
Ecco allora che le radici cristiane dei popoli non sono mai da intendere in maniera etnicista. Le nozioni di «radici» e di «identità» non hanno il medesimo contenuto per il cattolico e per l’identitario neo-pagano. L’etnicismo trionfalista, arrogante e vendicativo è, anzi, il contrario del cristianesimo. Il Papa, il 9 maggio, in un’intervista al quotidiano francese La Croix, ha detto: «L’Europa, sì, ha radici cristiane. Il cristianesimo ha il dovere di annaffiarle, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi. Il dovere del cristianesimo per l’Europa è il servizio». E ancora: «L’apporto del cristianesimo a una cultura è quello di Cristo con la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita. Non deve essere un apporto colonialista».
Contro la paura
Su quale sentimento fa leva la tentazione suadente di un’allean­za spuria tra politica e fondamentalismo religioso? Sulla paura della frattura dell’ordine costituito e sul timore del caos. Anzi, essa funziona proprio grazie al caos percepito. La strategia politica per il successo diventa quella di innalzare i toni della conflittualità, esagerare il disordine, agitare gli animi del popolo con la proiezione di scenari inquietanti al di là di ogni realismo.
La religione a questo punto diventerebbe garante dell’ordine, e una parte politica ne incarnerebbe le esigenze. L’appello all’apocalisse giustifica il potere voluto da un dio o colluso con un dio. E il fondamentalismo si rivela così non il prodotto dell’esperienza religiosa, ma una concezione povera e strumentale di essa.
Per questo Francesco sta svolgendo una sistematica contro-narrazione rispetto alla narrativa della paura. Occorre, dunque, combattere contro la manipolazione di questa stagione dell’ansia e dell’insicurezza. E pure per questo, coraggiosamente, Francesco non dà alcuna legittimazione teologico-politica ai terroristi, evitando ogni riduzione dell’islam al terrorismo islamista. E non la dà neanche a coloro che postulano e che vogliono una «guerra santa» o che costruiscono barriere di filo spinato. L’unico filo spinato per il cristiano, infatti, è quello della corona di spine che Cristo ha in capo[4].

 
*Marcelo Figueroa è pastore presbiteriano
e direttore dell’edizione argentina de
L’Osservatore Romano.

Lo spirito democratico e internazionalista nel libro di Giona

Che senso ha il libretto veterotestamentario di Giona, profeta renitente? E perché ebbe così tanto successo all’epoca del cristianesimo primitivo? Al dire di Elie Wiesel nessuno nella Bibbia gli somiglia. Molti scrittori, artisti e registi si sono ispirati a lui. Tra i principali l’Ariosto nei suoi Cinque Canti, aggiunti e poi tolti dall’Orlando furioso, quando mette Astolfo nel ventre d’una balena; anche il protagonista del Barone di Münchhausen ci finisce dentro. E il Soldatino di piombo di Andersen? Il Pinocchio di Collodi? Il segno di Giona di Thomas Merton? E Ismaele, il giovane baleniere protagonista di Moby Dick, non può forse esser considerato un Giona? Esiste anche il film Jona che visse nella balena, di Roberto Faenza, che racconta i drammi di un bambino nei lager nazisti, mentre nel film di Peter Weir, Master and Commander (Sfida ai confini del mare), il giovane ufficiale identificato come il “Giona” maledetto, responsabile di una bonaccia senza fine, decide di suicidarsi. Nella Cappella Sistina appare come se litigasse con Dio. Persino il filosofo Leibniz visse un’esperienza simile a quella di Giona, in quanto rischiò d’essere affogato da marinai italiani in presenza di una tempesta solo perché, essendo lui un protestante e quindi per loro un eretico, veniva considerato responsabile del possibile naufragio: li convinse ch’era un buon credente cominciando a pregare con un rosario in mano.

Riassunto del testo

Jahvè ordina al profeta di avvisare gli abitanti pagani di Ninive che se continuano col loro indegno comportamento, la città verrà distrutta molto presto.

Lui però, invece di eseguirlo, s’imbarca a Giaffa su una nave di marinai pagani, battente bandiera fenicia, diretta a occidente, verso Tarsis, in Spagna (o in Sardegna). Proprio non ne vuol sapere: il mare, d’altra parte, favorisce il tradimento, è la via di fuga.

Tuttavia la nave, sballottata da un mare molto agitato, rischia d’affondare. I marinai, presi alla sprovvista, pensano che la responsabilità sia di qualcuno a bordo, e la sorte cade proprio su Giona, il quale lo conferma.

Per far calmare i venti, propone che lo gettino in acqua. In un primo momento non avevano intenzione di farlo, ma poi ebbe la meglio il timore di morire affogati. E così la tempesta si calmò. I marinai, molto turbati, capirono che il dio di Giona era più forte dei loro e gli offrirono dei sacrifici.

Giona però, lungi dall’essere affogato, era stato inghiottito da un enorme cetaceo. Restò nel suo ventre tre giorni, cantando un salmo e pentendosi del suo comportamento, sicché Jahvè costrinse il pesce a vomitarlo su una spiaggia.

Quando l’ordine gli viene ripetuto, decide di dirigersi verso Ninive, la terza più grande città dell’impero assiro. Una volta varcate le mura, cominciò a dire ch’essa sarebbe stata distrutta entro 40 giorni, sic et simpliciter.

La gente s’impaurì enormemente e il sovrano, sperando che il dio s’impietosisse o che almeno attenuasse la portata del castigo, diede ordine che assolutamente tutti facessero digiuni e penitenze, inclusi gli animali!1 Sembravano in preda a un terrore sacro dell’ignoto, dell’imponderabile, come prima i marinai s’erano affidati, magicamente, alla sorte per sapere chi o cosa era causa della tempesta. Giona era forse un profeta già conosciuto e ritenuto attendibile? Oppure Jahvè passava per un dio terribile, che, se e quando lo decideva, non risparmiava nessuno? Sia come sia, vedendo tale disponibilità al ravvedimento, Jahvè rinunciò a punirli. Si erano comportati meglio dello stesso Giona, che nei confronti del proprio dio aveva disobbedito.

Il profeta però se ne andò via indispettito: perché? Dentro le mura della città egli non aveva detto: “Pentitevi se non volete morire tutti”; ma aveva dato per scontato che la città sarebbe stata distrutta entro 40 giorni. Dunque cosa voleva far capire l’autore mostrando il disappunto di Giona? La motivazione che gli fa dire è poco comprensibile: “Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato. Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!” (4,2-3).

In pratica accusava il suo dio d’essere discontinuo, incoerente (oggi diremmo “buonista”). Da un lato infatti lo sente minacciare tremendi castighi; dall’altro invece lo vede impietosirsi di fronte alla contrizione degli abitanti. Ecco spiegato il motivo per cui non voleva andare ad avvisare i Niniviti: sapeva bene che se quelli si fossero pentiti, il suo oracolo non sarebbe servito a nulla, e lui ci avrebbe fatto una magra figura, in quanto avrebbero potuto dirgli che non era un vero profeta.

Giona è così depresso che vorrebbe morire: non si azzarda più a presentarsi in pubblico. È convinto che la sua reputazione sia finita. La sua schematica fede in Jahvè è crollata. D’altra parte da tempo sospettava che questi non fosse più severo come una volta. Ecco perché non voleva eseguire i suoi ordini.

Jahvè cercò di fargli capire che l’incoerenza non è sempre un segno di debolezza, ma anche di forza morale. Infatti, se avesse voluto distruggere la città, avrebbe potuto farlo, ma sapeva anche che non sarebbe stato giusto usare il suo potere visto che le motivazioni per cui lo voleva usare, erano cambiate. Quando è in gioco l’etica, non si può essere inflessibili. L’atteggiamento schematico, unilaterale di Giona aveva fatto il suo tempo; era ora di acquisire maggiore considerazione per chi la pensava diversamente, in quanto vizi e virtù sono patrimonio di tutta l’umanità.

Giona però non se ne torna a casa, ma si mette su una collina adiacente alla città per vedere come sarebbero finite le cose: aspetta la fine dei 40 giorni.

Intanto Jahvè, per dimostrare che aveva la forza di sempre, fa crescere, in una notte, una pianta di ricino per riparare Giona dal sole cocente, anche se poi la fa seccare il giorno dopo.2 Poi però, siccome s’era accorto che con tale sua esibizione di forza, unita al vento caldo che da oriente gli aveva fatto venire portandolo quasi allo svenimento, rischiava soltanto di favorire la sua tendenza suicida, si mette a discutere con lui, dicendogli: “Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita: e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?” (4,10-11).

Cioè in sostanza Jahvè aveva fatto capire a Giona che quando si ha pietà di qualcuno, vedendolo sinceramente pentito, non si deve guardare né la gravità della sua colpa (non sa distinguere il bene dal male, come i bambini), né il ruolo ch’egli riveste (è un pagano oppressore). Se Giona non capisce questo, non capisce nulla della vita. Sbrigativamente il racconto finisce qui, senza dirci se il profeta aveva davvero capito la lezione.3

Premessa per una esegesi

Il testo (di soli 48 versetti) è stato collocato tra i dodici profeti minori, ma appare più sapienziale-didattico, una sorta di parabola con elementi allegorici, del tutto priva di riferimenti storici: la vicenda non è conosciuta né dai libri dei Re né dai testi cuneiformi degli Assiri.

Giona era un insignificante profeta coevo del quarto re d’Israele Geroboamo II (783-743 a.C.), citato di sfuggita in 2 Re 14,25 (un libro che termina con l’esilio babilonese), ma il racconto non è suo, perché non è dell’VIII sec. a.C., bensì del V sec. (forse intorno al 400-350 a.C.). Addirittura il salmo 2,3-10 che Giona recita nel ventre della balena è ancora più recente; esso peraltro è del tutto fuori contesto rispetto alla situazione, poiché sono assemblate, in maniera raffazzonata e poco originale, alcune parti di una quindicina di salmi, trasformati in un inno di ringraziamento per lo scampato pericolo, quando in realtà Giona manifestava tendenze suicide, per cui in quella situazione avrebbe anche potuto consolarsi pensando che in maniera oggettiva non avrebbe adempiuto al proprio dovere profetico: quanto meno il salmo avrebbe dovuto essere una preghiera di afflizione o una richiesta di perdono. Invece il manipolatore di questo libretto ha voluto far passare Giona per un buon profeta, immediatamente pentitosi della propria disobbedienza.

Che il testo non sia stato scritto dal profeta lo si capisce anche dal fatto che si parla di lui in terza persona, offrendo un ritratto molto ironico (p.es. la scelta stessa del nome Giona, che vuol dire “colomba”, mentre lui appare come un corvo petulante o un gufo malfidente; il nome di suo padre, Amittani, che vuol dire “degno di fiducia”, mentre lui non lo era per nulla; esilarante poi il momento in cui se la dorme profondamente “nel luogo più riposto della nave”, mentre questa stava per sfasciarsi4).

Inoltre mancano del tutto i dettagli storico-geografici: p.es. quelli della sua patria e del luogo ove fu rigettato dal pesce. Non si conosce il tempo in cui avvenne la sua missione, né il nome del re di Ninive (peraltro non è mai esistito in questa città un “re”, quindi al massimo poteva essere un “viceré”).

Si usano vari nomi divini o si fa riferimento a una varia tipologia di divinità, come Jahvè (quando si parla di Giona, usato ben 25 volte), Elohim (usato quando si parla dei Niniviti), Re del Cielo (quest’ultimo usato anche nei libri di Esdra e Neemia, che iniziano dall’esilio e raccontano la ricostruzione di Gerusalemme), gli dèi pagani dei marinai, a testimonianza che al tempo della redazione del libretto l’autore non avvertiva più una grande differenza tra un dio e l’altro, in quanto tutti gli uomini sono in realtà figli di un unico dio.

La grande città di Ninive (di 100-150 mila abitanti, con 12 chilometri di mura, su un territorio di 750 ettari), era stata edificata dal re Assur sulla riva sinistra del Tigri, a nord della Mesopotamia (nell’odierno Irak), ed era già stata distrutta nel 612 a.C. dai Medi e dai Caldei, segnando la fine dell’impero assiro. Nessuno dei suoi abitanti s’era mai convertito all’ebraismo; anzi, quando andò al potere il re Assurbanipal o Sardanapalo (668-631 a.C.) la corruzione e la violenza avevano raggiunto i massimi livelli, al punto che alla sua morte i regni sottomessi si ribellarono e scoppiò la guerra civile. Erano stati proprio gli Assiri che avevano raggiunto la Palestina nell’VIII sec. a.C., distruggendo la Samaria nel 722 a.C.

Il culto principale a Ninive era quello di Ishtar, dea dell’amore e della guerra, che prevedeva nel tempio il rito della sacra prostituzione, maschile e femminile. Significativo però che proprio nella biblioteca della città siano stati trovati i testi più completi della splendida epopea di Gilgamesh, cui gli stessi ebrei attinsero a piene mani.

La missione di Giona in questa città ha delle assonanze con quelle di Elia in Fenicia e di Eliseo in Siria, anche se l’invio di un profeta ebraico in una città pagana resta del tutto inspiegabile, meno che mai ha senso vedere che tutti gli abitanti abbiano un timore reverenziale per le sue parole, quando nemmeno gli ebrei ne avevano per i loro massimi profeti. Il re Ioiakim di Giuda aveva gettato nel fuoco il rotolo scritto dallo scriba Baruc con le parole del profeta Geremia che richiamavano al digiuno e a cambiare stile di vita (Ger 36,23 ss.).

Giona comunque non chiede ai Niniviti di diventare come gli ebrei, ma solo di assumere un comportamento più degno (il che li porta a una certa propensione per il monoteismo e ad abbandonare gli idoli). Nel testo non si parla di universalismo centralizzato intorno al Tempio di Gerusalemme. L’universalismo di Giona è senza limiti rituali e geografici. L’autore, tuttavia, per poter dire che i pagani potevano anche essere migliori degli ebrei, deve farlo mostrando ch’essi decisero di credere in massa e seduta stante a Jahvè, rinunciando ai loro Elohim. Cioè il fatto che i Niniviti si convertano all’istante viene messo per far vedere che se anche Giona non era un grande profeta, per non aver obbedito immediatamente all’ordine di Jahvè, lo era però il suo dio, nei cui confronti tutti avevano timore.

Noi sappiamo che i Niniviti erano pagani e che non si convertirono mai all’ebraismo. Quindi l’autore quale messaggio voleva trasmettere? Il messaggio va letto tra le righe, perché non è chiarissimo o forse non poteva esserlo. Anzitutto non è importante dire esplicitamente che i Niniviti fossero pagani ma che si comportavano come “pagani”, e tale comportamento poteva caratterizzare anche gli ebrei; in secondo luogo, e come conseguenza di ciò, va detto che tra ebrei e pagani non era più il caso di porre steccati insormontabili.

Il nazionalismo post-esilico

Che sia un testo post-esilico è possibile capirlo anche dal fatto che in un ambiente del genere era possibile scandalizzarsi del non adempimento degli oracoli contro i pagani. Prima e dopo l’esilio i profeti avevano annunciato la vendetta divina contro i popoli oppressori di Israele, ma qui Giona fa capire che le minacce erano condizionate, non assolute. Questo però è un punto fondamentale che va trattato a parte.

Il popolo d’Israele, dopo l’esilio si era chiuso in un gretto particolarismo e covava sentimenti di odio contro i pagani, poiché si voleva la punizione di città come Babilonia, Tiro, Ammon, Moab, Edom… Il ritardo di ciò era motivo di scandalo.

L’apertura di Giona verso le divinità straniere è in netta contraddizione con la tendenza stabilita da Esdra e Neemia, per i quali la religione ebraica pre-esilica, fondamentalmente enoteista, in quanto riconosceva l’esistenza di altri dèi, anche se riteneva lecito per Israele esclusivamente il culto di Jahvè, diventa, nel post-esilio, profondamente monoteistica: Jahvè è l’unica divinità esistente, è lui a muovere la storia, al punto che anche un sovrano persiano può essere emissario della sua volontà. I matrimoni misti erano vietati.

Il culto religioso si concentra nelle mani dei sacerdoti: s’impone una sorta di ierocrazia a sfondo razzistico. Anche il loro re perde qualunque funzione sacerdotale; anzi, l’ultimo discendente di Davide, Zorobabele, pur col ruolo di semplice governatore, sparisce all’improvviso dalla Bibbia in circostanze misteriose.

Chi è davvero Giona?

Ma chi è Giona? Cosa rappresenta? Il nazionalismo giudaico geloso dei propri privilegi o il relativismo antropologico in materia di fede religiosa?

Il suo nome è puramente fittizio; probabilmente era stato scelto perché in 2 Re 14,25 non aveva fatto nulla di particolare, per cui lo si poteva usare senza fargli alcun torto. Semplicemente aveva proclamato che la riconquista dei territori perduti della Transgiordania era voluta da Jahvè, favorendo così l’iniziativa bellica di Geroboamo.

Qui fa la parte della persona retriva, schematica, ideologica, ma il messaggio che trasmette è progressista (interculturale, interetnico, internazionalista).5 Com’è possibile un’incongruenza del genere? Nei libri del DeuteroIsaia, di Rut e di Giobbe era abbastanza evidente come i popoli pagani avessero il diritto a far parte della comunità umana destinata alla salvezza: se esisteva un dio, non poteva essere solo per gli ebrei. Anche l’Ecclesiaste criticava la dottrina tradizionale della retribuzione. Ma nel libretto di Giona vi è qualcosa di più.

Sembra che l’autore anonimo non fosse libero di esprimersi, forse perché abituato a vivere una vita servile, in cui la libertà di parola era talmente ridotta al minimo che la morte sarebbe stata solo un vantaggio. Non a caso è proprio Giona a proporre ai marinai di buttarlo a mare. Quando l’autore lo fa dormire tranquillamente in mezzo alla tempesta, non è per dimostrare che il suo dio era nettamente superiore a quelli dei marinai, per cui a lui non sarebbe potuto accadere nulla, ma proprio perché vuol mostrare che Giona era del tutto indifferente alla sorte che gli sarebbe toccata. Non è un eroe ma un antieroe. Non era andato a Ninive perché aveva paura di morire, ma proprio perché non sopportava la tolleranza del suo dio. Il profeta aveva reagito con la fuga dalle proprie responsabilità, ma se lo si fosse messo troppo alle strette, avrebbe scelto una strada ancora più tragica.6

Gli stessi marinai, quando Giona fa la sua proposta, appaiono più umani: non lo stanno neppure a sentire. E anche i loro dèi non erano così sprovveduti, visto che avevano saputo individuare che il responsabile della tempesta era proprio lui. Erano inferiori soltanto perché non sapevano fermare il vento.

L’autore voleva far capire che anche i pagani provano dei sentimenti di umanità e sono in grado, seppur a modo loro, di avvicinarsi alla verità. Essi fanno di tutto, remando come pazzi e alleggerendo la nave di tutto il suo carico, per riuscire ad approdare alla riva più vicina, e solo quando, per il vento troppo forte, si vedono disperati, decidono di accettare l’idea di Giona, ma non prima d’aver implorato il suo dio di non punirli per questo delitto. Naturalmente qui ci si può chiedere perché, visto che sapeva cosa bisognava fare, Giona non si sia affogato da solo. Chissà, forse perché voleva scaricare su altri la responsabilità delle proprie azioni.

Poi, siccome la tempesta si placò subito, si convertono alla religione ebraica: “offrirono sacrifici al Signore e fecero voti” (1,16). Giona li aveva convertiti senza volerlo. E loro non sapevano che lui si era salvato.

Il profeta però non aveva motivo di ringraziare il suo Signore per averlo salvato. Sapeva soltanto che, di fronte alla sua potenza, non poteva che obbedire. Per questo, alla seconda richiesta di andare a Ninive, per rimproverare gli abitanti della loro iniquità, cede senza discutere.

A questo punto la domanda a cui vien voglia di rispondere è la seguente: a Giona la missione non piaceva perché, non essendoci, secondo lui, una fondamentale differenza di comportamento tra ebrei e pagani, la riteneva insensata, oppure perché, conoscendo l’incoerenza del proprio dio, che, dopo aver comandato una cosa, si pentiva d’averlo fatto, temeva di fare brutte figure? Non era forse stato il Deuteronomio (18,21 s.) a imporre come criterio di affidabilità di un profeta, il compimento puntuale dei suoi oracoli? E non erano forse stati i libri profetici di Naum e Sofonia a dire che Ninive, essendo una città sanguinaria, guerrafondaia, malvagia e crudele nei confronti dei popoli che conquistava, meritava d’essere completamente distrutta da Jahvè?

La risposta, alla luce di quel che si è già detto, può apparire semplice ma non lo è. Nel testo l’autore vuol far vedere che Giona rappresentava il clero fanatico, non disposto ad accettare le incoerenze del proprio dio; nelle sue intenzioni però, che non si possono dire, egli vuole andare oltre persino le idee del profeta Geremia (18,7-12), per il quale dio può anche cambiare la volontà di distruggere una nazione, se questa si converte. Vuol andare oltre perché il vero problema non sta più in ciò che un popolo crede, ma nel modo come vive ciò in cui crede. In altre parole, Israele non deve cercare d’imporsi in nome di un’etica che, senza la forza militare (quella che un tempo aveva), può apparire debole; semplicemente deve smettere di volersi imporre.

Apparentemente Giona fa fatica ad accettare la transizione da un dio degli eserciti, inflessibile coi propri nemici, a un dio della misericordia, che muta atteggiamento al vedere la contrizione degli uomini. Piuttosto che avere a che fare con un dio così, sarebbe disposto al suicidio. Eppure la sua convinzione interiore è opposta a questa.

Aveva forse un senso puntare sul nazionalismo, sul fanatismo ideologico quando l’antropologia dimostrava che gli esseri umani son tutti uguali, provano sentimenti comuni, vivono situazioni analoghe, benché adorino divinità differenti? Giona dunque rappresentava ufficialmente il giudizio di condanna espresso dalla casta sacerdotale e insieme, ufficiosamente, la sua critica. Da una parte pretende che la minaccia divina venga eseguita alla lettera, non foss’altro che per salvare la propria reputazione di profeta oracolare; dall’altra è convinto che non esista affatto un popolo che di per sé possa essere considerato migliore di un altro. Esistono solo atteggiamenti migliori o peggiori a seconda delle situazioni contingenti. Qualunque generalizzazione è inutile oltre che fuorviante.

Questo libro quindi non può essere stato scritto da Giona ma contro di lui, proprio perché l’anonimo autore ha usato il nome di Giona come simbolo di ciò che Israele non avrebbe dovuto essere, come emblema del fatto che i sacerdoti giudaici (quelli del secondo Tempio) non erano in grado di capire che un dio, per essere credibile, deve essere umano, altrimenti gli uomini continueranno a combattersi tra loro. Questo è un libretto altamente pacifista e, in tal senso, assomiglia ai testi di Giobbe, Daniele, Tobia, Giuditta…

Insomma Giona non può considerarsi migliore degli altri solo perché ebreo. Forse lo è il suo dio, anche se lui, apparentemente, non l’ha fatto vedere, perché lo contesta di continuo, mostrando in questo modo il suo coraggio, fino al punto da trasgredire l’ordine e di rifiutare la sua esecuzione. Semmai il bello di Giona sta proprio in questo, che col suo dio lui discute come se fosse un compagno di viaggio. Il profeta, malgré soi, non soffre di complessi d’inferiorità; anzi, ha il coraggio di dire quello che pensa, senza timore delle conseguenze, anche se proprio quello che pensa lo rende più retrivo del suo dio, che invece vorrebbe cambiar pelle umanizzandosi. Giona sarebbe apparso ancora più coraggioso se avesse capito che chi dà ordini ha il diritto di ripensarci, senza che per questo l’esecutore debba sentirsi un frustrato. Ma evidentemente qualcosa impediva all’autore di dirlo chiaramente, e questo qualcosa era il regime oppressivo dei sacerdoti che, dopo il ritorno dall’esilio, avevano preso a odiare a morte il mondo pagano. Quello stesso odio che oggi sono i sacerdoti islamici dell’Isis a provare per il mondo pagano e occidentale, e che li ha portati a distruggere le ultime vestigia di questa antica città.

Giona e il cristianesimo primitivo

Tale racconto ebbe molto successo nella chiesa antica perché si vedeva in questo profeta, rimasto tre giorni nel ventre della balena (simbolo degli inferi o degli abissi) e poi tornato sulla terra, una prefigurazione del Cristo morto e risorto. Viene detto in Mt 12,39 ss.: “Allora alcuni scribi e farisei lo interrogarono: Maestro, vorremmo che tu ci facessi vedere un segno. Ed egli rispose: Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra. Quelli di Ninive si alzeranno a giudicare questa generazione e la condanneranno, perché essi si convertirono alla predicazione di Giona. Ecco, ora qui c’è più di Giona! La regina del sud [di Saba] si leverà a giudicare questa generazione e la condannerà, perché essa venne dall’estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone; ecco, ora qui c’è più di Salomone!”. Lo stesso viene detto in Lc 11,29-32.

Gli evangelisti usarono il testo di Giona come se fosse storico, quando, se davvero Ninive si fosse convertita in massa al monoteismo, sarebbe stato un fatto più unico che raro nella storia di tutte le religioni. Neppure i grandi profeti ebraici, che pur agivano in mezzo a un popolo già monoteista, riuscirono mai a ottenere risultati così strabilianti.

Ma c’è di più: gli evangelisti usarono il testo di Giona in forma antisemitica; cioè là dove era stato Giona a rammaricarsi che dio non era stato coerente a sterminare i pagani, qui sono gli stessi cristiani che invocano la necessità di giudicare senza appello gli ebrei che hanno rifiutato la predicazione del Cristo.

Enrico Galavotti

1Il lutto o il digiuno imposto anche agli animali (3,7 s.) era un’usanza che praticavano gli Assiri nell’VIII sec. (ereditata dai Persiani). Sarebbe stato inconcepibile per un ebreo mettere sullo stesso piano uomo e animale. Qui il testo vuol far vedere che i Niniviti non erano più in grado di capire chi li aveva messi al mondo.

2Non si capisce però perché faccia crescere questa pianta quando Giona è già riparato dalle frasche. Qualche manipolatore ha invertito dei versetti? Si doveva far vedere, nel dialogo tra i due, che cosa dio era in grado di fare?

3Difficile non vedere nel racconto evangelico del figliol prodigo un riferimento significativo a questo testo.

4Il racconto evangelico della tempesta sedata, in cui Cristo dorme beato nella barca sballottata dalle acque del lago di Galilea, mentre gli altri discepoli sono tutti preoccupati, ha un chiaro riferimento alla vicenda di Giona.

5Paul Murray sostiene che questo libretto sia quello dal quale abbiamo più da imparare in questo terzo millennio (In viaggio con Giona. La spiritualità dello sconcerto, ed. san Paolo, Cinisello B. 2006). Ma si veda anche Klaus Heinrich, Parmenide e Giona. Quattro studi sul rapporto tra filosofia e mitologia, ed. Guida, Napoli 1987.

6Singolare che la Chiesa cattolica abbia deciso di farne un santo, ma forse non più di tanto, visto che la sua storia viene narrata in un giorno importante per il calendario ebraico, lo Yom Kippur, e anche nel Corano appare come un profeta di Allah.

L’AMARA LEZIONE DEL DEBITO PUBBLICO DELLA GRECIA, AGGRAVATO DALLE CURE EUROPEE

L’amara lezione del debito pubblico della Grecia
Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
Sette anni dopo l’inizio dei salvataggi finanziari, la Grecia sembra messa peggio di prima.
Nel 2000 il mercato aveva smesso di finanziare il debito pubblico greco. Allora i Paesi della zona euro, con vari accordi bilaterali, concessero crediti per 52,9 miliardi.

Nel 2012 si comprese che non era sufficiente. L’European Financial Stability Facility (EFSF), la struttura europea per l’aiuto finanziario ai Paesi europei in difficoltà, appena creata, varò perciò un secondo programma di aiuti finanziari pari a 141,8 miliardi di euro.
Neanche questo bastò. Nel 2015 l’European Stability Mechanism, il Meccanismo europeo di stabilità che è succeduto all’EFSF, ha varato un nuovo, il terzo, programma di salvataggio di 86 miliardi di euro in cambio di riforme strutturali, intese come politiche di massiccia austerità.

Ogni mese, dopo avere controllato se i tagli al bilancio sono stati fatti e dopo che il governo greco dichiara la sua intenzione di continuare con simili politiche, si negozia con Atene il versamento di una parte del sostegno finanziario. Il prossimo luglio, per esempio, serviranno 7,3 miliardi per coprire i debiti e gli interessi in scadenza e per evitare il default dello Stato.
Di conseguenza, dei 340 miliardi di euro di debito pubblico greco, la metà è nelle mani dell’EFSF e dell’ESM.
La colpa è soltanto di Atene? Sono state tutte valide le politiche di aiuto e di austerità imposte? Oppure il cosiddetto Meccanismo europeo di stabilità è stato la ricetta sbagliata?

Si ricordi che alla fine del 2010 il debito pubblico greco era pari al 148% del Pil che era di circa 220 miliardi di euro. La disoccupazione era del 12,5% e il 27,6% dei greci viveva sotto la soglia di povertà. Gli ultimi dati dicono che il debito pubblico è salito al 183% del Pil, che nel frattempo si è ridotto a 186,5 miliardi di euro. La disoccupazione sarebbe intorno al 26% e la percentuale di poveri avrebbe raggiunto il 34,6% dell’intera popolazione.

Dalla recessione iniziale, aggravata dal consolidamento fiscale e dalle politiche di austerità, si è arrivati alla depressione economica. Nel frattempo i contributi dell’Unione europea sono serviti soprattutto per pagare gli interessi sul debito dovuti alle banche e, in parte, a garantire il traballante sostegno sociale.
Che cosa deve ancora succedere perché Bruxelles, Berlino e anche Atene capiscano che una tale politica fallimentare non può continuare?
Da parte sua, il Fmi non dà risposte concrete, ma si limita soltanto a stimare che entro il 2060 il debito pubblico della Grecia potrebbe essere pari al 260% del Pil.

L’assurdo, però, sta nel fatto che, nonostante il bilancio statale rimpicciolisca, l’austerità ha determinato un avanzo primario di circa 3,5 miliardi di euro! Se non si conta il pagamento del servizio sul debito, Atene avrebbe più entrate che uscite!
In questo modo, secondo noi, la Grecia non può uscire dalla crisi, anzi, si sta scavando una fossa più profonda. Per finanziare il suo debito pubblico è costretta a pagare il 6% d’interesse, pari a circa 18 miliardi di euro l’anno. Ciò nonostante che il tasso d’interesse della Bce sia vicino a zero! E’ una vera e propria beffa.

Si rammenti inoltre che nel frattempo la Bce è intervenuta a sostegno delle banche europee, in primis di quelle tedesche e francesi, acquistando le obbligazioni del governo greco in loro possesso.
Secondo il Financial Times, Francoforte avrebbe speso 40 miliardi di euro per comprare dalle banche titoli greci con un valore facciale di 55. Ha fatto un favore alle banche poiché sul mercato il prezzo di tali obbligazioni sarebbe stato molto inferiore.
E’ una spirale senza fondo, ma non infinita nel tempo. Potrebbe essere “fermata” dall’eventuale default sovrano della Grecia, con inevitabili contagi sistemici per il resto dell’Europa, o, come auspicabile, dalla decisione europea di affrontare l’emergenza del debito e il rilancio dell’economia, ma senza imporre il fardello dell’austerità.

Ci sembra inevitabile la cancellazione e/o il congelamento di parte del debito. Il resto dovrebbe essere ripagato attraverso l’aumento delle risorse derivanti dalle nuove politiche di sviluppo e non con gli avanzi primari di bilancio, come purtroppo accade oggi.
La Grecia, come l’Italia, ha risorse importanti, a partire dal turismo e dalla cultura Necessita però, di sviluppare anche le sue manifatture, le nuove tecnologie, la ricerca. Al riguardo riteniamo molto importante per la Grecia, ma anche per l’Europa intera, la partecipazione fattiva alla realizzazione dei progetti e delle infrastrutture legate alla Nuova Via della Seta. Il porto del Pireo è stato già venduto a investitori cinesi che, sembra, vogliano trasformarlo in un importante hub.

Se, però, il Pireo fosse soltanto un porto di transito, sarebbe una svendita degli interessi greci e di quelli europei. Se diventasse, invece, la leva di uno sviluppo tecnologico e industriale allora potrebbe essere il volano di un’effettiva crescita dell’economia greca.
L’Italia non può essere indifferente, deve attivarsi perché il nodo Grecia sia sciolto positivamente. E’ nell’interesse del nostro Paese, che è il fulcro naturale di tutte le politiche economiche e di sviluppo del Mediterraneo e anche dell’Africa.

*già sottosegretario all’Economia **economista