Risorgerà il socialismo dalle sue ceneri?

In fondo Eduard Bernstein aveva visto giusto: con l’imperialismo la classe operaia non aveva bisogno di compiere la rivoluzione; la ricchezza aumentava per tutti e, con essa, la democrazia; si poteva arrivare al socialismo anche per via parlamentare, senza alcuna rivoluzione violenta. L’acutizzazione dei rapporti sociali, cioè la radicale polarizzazione delle classi antagonistiche, prefigurata nel Manifesto del 1848, non era avvenuta: dunque occorreva un mutamento significativo di strategia politica. La sinistra doveva diventare riformista. E in Europa occidentale lo divenne, prima con Bernstein, poi con Kautsky, infine con tutti gli altri.

Solo i bolscevichi non li seguirono. E loro fecero una rivoluzione radicale, così come l’avrebbero voluta Marx ed Engels, che però, col tempo, si rivelò fallimentare. Non meno drammatico fu il destino dei socialisti riformisti, che finirono col perdere completamente la loro natura socialista.

In che cosa il socialismo ha sbagliato?

Anzitutto non ha capito che il miglioramento delle condizioni di vita, in Europa occidentale, non dipendeva affatto dall’industrializzazione capitalistica, bensì dall’imperialismo, cioè dallo sfruttamento delle colonie. Era in virtù di questo sfruttamento che si poteva corrompere la classe operaia, aumentandole i salari o comunque offrendole migliori condizioni di lavoro, in cambio di un proprio silenzio sul sistema in generale.

Se la classe operaia preferisce le rivendicazioni sindacali alla lotta politica rivoluzionaria, i suoi dirigenti, ad un certo punto, l’asseconderanno. La lotta rivoluzionaria richiede infatti molti rischi e sacrifici, senza i quali non è possibile perseguire ideali elevati. Se poi sono gli stessi dirigenti a non credere più nella lotta rivoluzionaria, la classe operaia, che non ha lo stesso livello culturale e non è capace di avere una veduta d’insieme delle cose, se ne farà una ragione ancor prima.

Qui infatti era Lenin a brillare per intelligenza: la classe operaia, lasciata a se stessa, matura soltanto una coscienza sindacale; per averne una di tipo rivoluzionario, bisogna infondergliela dall’esterno, e questo è un compito che può fare solo l’intellettuale, poiché solo lui può vedere che la contraddizione tra capitale e lavoro è sempre assoluta e mai relativa a circostanze di tempo e luogo. Può essere variegata la strategia con cui la si affronta, ma l’obiettivo finale deve restare integro: quello della conquista del potere politico per il ribaltamento del sistema.

Ma come si può pensare di ribaltare il sistema in presenza dell’imperialismo? A questa domanda Lenin rispose dicendo che bisogna saper approfittare del momento favorevole, quello più critico, quello che produce infinite sofferenze, assolutamente insopportabili, che, ai suoi tempi, erano determinate dalla guerra mondiale. Egli lanciò una parola d’ordine molto chiara, anche se per realizzarla ci voleva molto coraggio e non poca organizzazione: trasformare la guerra mondiale contro un nemico esterno in una guerra civile contro il nemico interno. La classe operaia russa doveva abbattere il capitalismo interno attraverso una rivoluzione, dopodiché si sarebbe tirata fuori dalla guerra mondiale. E così fece.

Riuscirono i socialisti euro-occidentali a fare altrettanto? Nessuno. La guerra mondiale fu vista come guerra tra nazioni, quando invece doveva essere vista come guerra tra capitalisti di nazioni imperialistiche, che mandavano a morire, per i loro sporchi interessi, i rispettivi lavoratori (operai o contadini che fossero). Non ci furono ribellioni di massa a questa carneficina. E alla fine il socialismo non si realizzò da nessuna parte, a testimonianza che un affronto meramente parlamentare, cioè riformistico, delle contraddizioni strutturali del capitalismo, conduce soltanto a una forma di opportunismo e di tradimento degli ideali originari. Per un piatto di lenticchie, concesso dai loro rispettivi governi, i socialisti persero la primogenitura degli ideali rivoluzionari.

Tuttavia il socialismo mostrò ovunque un altro grave difetto, a fronte del quale persino la Russia si trovò del tutto impreparata. Fu un difetto così grande che nel 1991 la Russia decise di chiudere l’esperienza del socialismo statale, quello gestito in maniera burocratica. E, con questa realizzazione piena di manchevolezze, si buttò via anche la necessità di un socialismo democratico. Si finì col far tornare in auge il capitalismo, più o meno corretto da esigenze di tipo statale.

Quale fu il macroscopico difetto del cosiddetto “socialismo reale”? Fu il fatto di non aver capito che la classe operaia era totalmente priva di cultura e socialmente sradicata, mentre quella rurale aveva per tradizione un senso storico della collettività e si trasmetteva la propria cultura ancestrale oralmente di generazione in generazione. Fu il fatto di non aver capito che la produzione industriale in serie è una pura e semplice mostruosità, che può andar bene per esigenze specifiche in un lasso di tempo determinato, ma che non ha alcun senso in una condizione di vita normale. Non è da una produzione del genere che può dipendere il benessere di un paese, anche perché con essa vengono messe in subordine tutte le preoccupazioni di tipo ambientalistico.

Fu anche il fatto di non aver capito che il contadino non diviene per forza un piccolo-borghese quando possiede un pezzo di terra. Certo, il contadino vuol essere padrone in casa propria – com’è naturale che sia -, ma è disposto spontaneamente alla cooperazione, a convivere pacificamente col proprio vicino, a risolvere qualunque controversia, pur di far sopravvivere alla propria famiglia.

È piuttosto l’operaio, il quale spesso non è che un ex contadino o un ex bracciante rurale, ad aver bisogno d’essere integrato in maniera organica nella società. Anche l’intellettuale di sinistra che lo rappresenta è uno sradicato come lui, uno che non ha riferimenti culturali o sociali al mondo rurale e che si deve creare un’identità dal nulla.

Lenin era convinto, influenzato in questo dalle idee di Marx ed Engels, che la classe operaia, non avendo nulla da perdere, fosse più rivoluzionaria dei contadini, che avevano appunto la terra da difendere oppure da ottenere come obiettivo finale della loro lotta. La storia ha dimostrato che la classe operaia, non avendo una propria cultura ancestrale, è più facilmente manipolabile dei contadini, pur essendo questi tradizionalmente religiosi, mentre quella è di idee ateistiche. Infatti il socialismo staliniano, dopo averli fatti passare per dei piccolo-borghesi, sterminò milioni di contadini e non toccò gli operai, i quali, non a caso, credevano ciecamente nel socialismo amministrato dall’alto.

Certo, ci si può chiedere se i contadini russi, lasciati da soli (in mano ai populisti prima, e poi ai socialisti-rivoluzionari), avrebbero compiuto lo stesso la rivoluzione. Probabilmente non l’avrebbero fatta, ma solo per colpa dei propri dirigenti, che s’illudevano di poter ovviare pacificamente alla penetrazione del capitalismo nelle campagne.

I dirigenti russi dei contadini sono sempre stati degli ingenui, prima nei confronti dello zarismo, poi nei confronti del capitalismo. Ci volle Lenin per far capire ai contadini che se si fossero alleati con gli operai, avrebbero ottenuto subito la terra in proprietà e gratuitamente, senza dover pagare i forti indennizzi previsti dalla passata abolizione del servaggio. I contadini credettero in Lenin e si allearono con gli operai non solo per fare la rivoluzione, ma anche per uscire dalla guerra mondiale e per combattere la controrivoluzione bianca e l’interventismo straniero. Fecero enormi sacrifici (soprattutto a causa del comunismo di guerra, poi superato dalla Nep leniniana), e alla fine vinsero.

Chi distrusse il loro entusiasmo? la loro tenacia? Lo stalinismo, un’ideologia irrazionale che puntò tutto sulla industrializzazione pesante e accelerata, che doveva essere integralmente pagata dalla classe rurale, costretta peraltro a una collettivizzazione forzata. Idea, questa, che Stalin mutuò proprio dal suo irriducibile nemico, Trotsky, il quale vedeva i limiti dello stalinismo solo nella gestione burocratica e autoritaria del potere.

Questi errori molto gravi sono stati pagati in maniera drammatica. I contadini non erano contrari all’industrializzazione, ma a un primato inaccettabile, che ne faceva pagare a loro tutti i costi. Un primato che non poteva neppure essere giustificato dicendo che il socialismo russo minacciava d’essere distrutto dalle potenze occidentali. Se ci fosse stato un nuovo interventismo straniero, come quello del 1918-20, sarebbero stati nuovamente i contadini a scongiurarne il pericolo, le conseguenze. Questo perché decine di milioni di contadini, disposti a difendere la loro terra a qualsiasi prezzo, sono una forza spaventosa, di cui tutti devono aver paura.

Stalin ne eliminò una quantità sterminata, convinto che solo con l’industrializzazione si poteva tener testa ai paesi capitalistici avanzati. Ottenne esattamente l’effetto contrario: il capitalismo, infatti, non ha bisogno di usare le armi convenzionali, quelle da fuoco, per abbattere i propri nemici, e neppure quelle non convenzionali, come le armi atomiche. Per vincere gli basta la propaganda ideologica, la pubblicità commerciale, l’esibizione del benessere a oltranza, degli agi e delle comodità a tutti i livelli, del lusso sfrenato, della democrazia parlamentare, delle borse per qualunque valore e titolo, dei giganteschi mercati internazionali, degli istituti di credito finanziari, dello spionaggio e controspionaggio, della corsa alla conquista dello spazio cosmico, del peso della propria moneta negli scambi mondiali, della manipolazione degli istituti o enti internazionali, come p.es. l’Onu, l’Unesco, l’Ocse, la Fao, ecc.

E così oggi si sono tutti “imborghesiti”: gli operai rivoluzionari, i contadini attaccati alla loro terra, gli intellettuali socialcomunisti, i partiti di sinistra… Oggi, di fronte a un capitalismo che si muove molto facilmente su un piano globale (che è insieme materiale e immateriale), non si è neppure capaci di darsi degli strumenti altrettanto “globali” per difendersi.

Filosofie e religioni asiatiche

Le filosofie e le religioni dell’antica Asia (cioè vedica, brahmanica e induista in India; buddhistica, confuciana e taoistica in Cina) possono essere considerate l’equivalente dello stoicismo e dell’epicureismo dell’epoca ellenistica e romano-imperiale. Infatti sono tutte correnti di pensiero particolarmente rinunciatarie, più individualistiche alcune, più statalistiche altre (quelle cinesi p.es. appaiono meno legate a esigenze di casta).

Tutte sembrano fatte apposta per convivere con regimi oppressivi (schiavistici), in cui la libertà di espressione e di movimento è ridotta al minimo. Il credente (o il filosofo) deve trovare in se stesso una qualche consolazione agli antagonismi che rendono la vita sociale molto difficile. D’altra parte nessuna religione asiatica è mai stata usata per modificare la realtà, ma solo per conservarla.

Quando è molto faticoso trovare in se stessi la necessaria consolazione, poiché ciò implica particolari rinunce, forme ascetiche di vita ecc., si può sempre pensare di trovarla in una certa identificazione coi destini dello Stato cui si appartiene (è il caso del confucianesimo, per il quale il vero filosofo è il funzionario statale, che vive secondo una morale che noi definiremmo “kantiana”: il dovere per il dovere). Oppure si può sperare in una certa benevolenza da parte dei propri antenati defunti, che fanno da mediatori tra il cielo e la terra (anche questo è un atteggiamento che si ritrova nel confucianesimo, il quale tuttavia, come le altre filosofie cinesi, non parla mai di “dio”).

Il taoismo è invece una filosofia più astratta, in quanto pone la consolazione in una certa identificazione metafisica tra io e universo (tao vuol dire “eterno ordine del cosmo”). Notevole, di questa filosofia, è la convinzione che all’origine di tutto vi sia un’essenza sdoppiata in maschile e femminile, in cui gli opposti si attraggono e si respingono eternamente. In Cina veniva tollerato perché si pensava che le sue pratiche magiche (astrologia, geomanzia, ecc.) potessero servire per tenere la società sotto controllo, per quanto esso non nutrisse particolare interesse per la vita pubblica.

Quanto alla religione o filosofia vedica bisogna considerare che è la più antica, dopo quella totemico-animistica, per cui l’idea di una incessante riproduzione dell’essenza umana (in forme sempre varie, a seconda della colpa che si è commessa) inevitabilmente ha influenzato tutte le filosofie e religioni successive. La si ritrova anche nel buddhismo, per il quale il problema principale è proprio quello di come uscire da questo vortice senza fine, che porta a una certa esasperazione sulla terra.

Il raggiungimento del nirvana, cioè di tutto ciò che non è (poiché il non-essere cosmico è superiore all’essere terreno), è l’obiettivo principale del buddhismo, che non andava molto d’accordo col confucianesimo, in quanto sosteneva che la salvezza era una questione individuale, da viversi come monaci privi di un vero lavoro e, tutto sommato, abbastanza indifferenti alla pietà filiale e agli interessi dello Stato.

Generalmente le religioni e filosofie indo-buddhiste si pongono come unico problema quello di come uscire dal mondo o di come adeguarsi alle sue contraddizioni antagonistiche in modo da soffrire il meno possibile. Queste non sono filosofie in cui l’individuo lotta contro il sistema. Nel mondo induista, addirittura, è vietato farlo, in quanto ognuno deve riferirsi a una determinata casta, soprattutto quando sono in gioco i matrimoni e l’alimentazione: si è induisti in quanto si è nati da genitori indù (esattamente come si è ebrei in relazione al sangue della madre). Non ci si può mettere in contatto con induisti di caste diverse dalla propria, anche perché l’induismo ritiene del tutto inutile, ai fini della salvezza religiosa, il passaggio da una casta all’altra: tutti hanno il dovere di purificarsi, se vogliono evitare di reincarnarsi. Si badi che il sistema castale, pur essendo stato ufficialmente abolito nel 1950, continua a esercitare ancora oggi in India un’influenza notevole per la suddivisione dei lavori, gli equilibri di potere e il passaggio dei beni. La casta è uno status sociale che determina un certo stile di vita, dove il valore dell’onore gioca un ruolo fondamentale.

La terra è considerata un inferno, e tutte le religioni e filosofie asiatiche danno per scontato che non vi sia alcuna possibilità di modificare il sistema. Soltanto l’individuo può cercare di migliorare se stesso. È un compito puramente soggettivo. Un compito che si può adempiere nel miglior modo evitando di “desiderare” ciò che non è alla propria portata. Ognuno deve accontentarsi di quel che è e di quel che ha e di quel che prevede lo Stato e la società (o la casta) per lui. Qualunque aspirazione in più provoca disordine, frustrazione, odio, risentimento…, proprio perché un desiderio insoddisfatto nuoce alla salute, fisica e psichica.

Questo modo di ragionare lo ritroviamo nei momenti più drammatici del tardo impero romano, quando Diocleziano voleva che tutti rimanessero “incatenati” alle occupazioni lavorative ereditate dai propri avi; ma lo si ritrova anche nel Medioevo agricolo, quando si diceva che la società era rigidamente divisa in nobili, clero (entrambi padroni di immense proprietà terriere) e servi della gleba.

D’altra parte anche san Paolo nelle sue lettere diceva che “ognuno deve rimanere nella condizione in cui è stato chiamato”, e non si riferiva soltanto alla condizione verginale o matrimoniale, ma anche a quella sociale (cfr 1 Cor 7,21), tant’è che rimanda a Filemone lo schiavo fuggitivo Onesimo, nella speranza che anche il padrone diventi cristiano come il suo schiavo.

Una differenza però c’è. Quando il cristianesimo penetra in Europa occidentale possiede degli elementi ebraici che lo rendono abbastanza esigente, autorevole, con aspetti di caparbietà e risolutezza che intimoriscono le autorità costituite. Il cristianesimo si pone da subito come una sorta di “contropotere”, disposto sì a collaborare coi sovrani di turno per affermare l’ordine pubblico, ma intenzionato anche a difendere la propria autonomia e a non barattarla mai per difendere gli interessi dello Stato.

Nessuna filosofia o religione asiatica ha mai avuto pretese di “contropotere”. In Cina sono sempre stati abituati a considerare l’imperatore una sorta di capo religioso, per cui non avrebbe mai potuto esserci un potere ecclesiastico alternativo e neppure complementare (una ierocrazia). I burocrati erano sì una classe privilegiata, ma erano anche tenuti costantemente sotto controllo da parte dell’imperatore, nonostante che il loro confucianesimo sia stato la dottrina ufficiale delle istituzioni almeno sino alla fine dell’impero (1912).

Il desiderio di farsi valere in opposizione ai poteri costituiti è diventato molto forte anzitutto nell’area occidentale dell’Europa. Qui infatti si è sviluppato un vero e proprio “Stato della chiesa latina”, che non tollerava d’essere politicamente controllato dallo Stato civile del re o dell’imperatore. Anche in Europa orientale la chiesa ortodossa, pur limitandosi a concepirsi come “Chiesa di stato”, non ha mai tollerato che gli imperatori potessero modificare i dogmi conciliari, le sentenze ecclesiastiche in materia di fede religiosa.

Quale filosofia o religione asiatica ha mai avuto il coraggio di assumere comportamenti così radicali? Se tutto l’universo presenta leggi universali e necessarie, per quale motivo non dev’essere così anche sulla terra? Ecco qual era la loro concezione di vita, e per molti credenti odierni lo è ancora. Per queste filosofie non esisteva un male assoluto conseguente a una colpa originaria. Gli “spiriti cosmici” vogliono il bene dell’umanità, si diceva. Con tale forzata ingenuità non solo si negava la drammaticità dello schiavismo, ma si faceva anche della storia una semplice propaggine della natura. Gli uomini andavano soltanto educati ad accettare le cose così come sono. Tant’è che non c’è mai stata una vera preoccupazione per l’aldilà. Pur di affermare il senso della tradizione non si mettevano mai in discussione le credenze popolari e si evitava di formulare dei dogmi metafisici.

Ciò spiega il motivo per cui l’Asia è rimasta molto indietro quando l’Europa occidentale ha iniziato a intraprendere il cammino verso la formazione di una società borghese di tipo capitalistico. Una cosa infatti è fare commerci sotto il controllo delle istituzioni statali, un’altra è pretendere che tali istituzioni si mettano al servizio dei commerci (come chiedevano espressamente i puritani calvinisti). Per i confuciani una proprietà eccessiva faceva diminuire inevitabilmente l’etica, e senza etica è impossibile disciplinare i rapporti sociali, conservare il passato, accettare obblighi personali verso il padre, il padrone, il coniuge, il fratello maggiore e l’amico.

Un qualunque confuciano avrebbe biasimato la nota formula cartesiana Cogito, ergo sum. Sarebbe stato infatti inconcepibile per lui autodefinirsi senza fare esplicito riferimento alla propria famiglia e quindi al proprio villaggio. La famiglia confuciana si sentiva profondamente responsabile persino per i debiti o i reati compiuti da un qualunque proprio componente, a prescindere da quanto fossero vicini o lontani i legami di parentela. Non a caso doveva assolvere molti compiti assistenziali nei confronti di malati, anziani, vedove, studenti, ecc.

Se si considera che le prima fondamenta della società borghese sono state poste in Italia mille anni fa, possiamo dire che il mondo asiatico ci ha messo un millennio prima di allinearsi a questo trend. Il primo paese che ha iniziato a farlo è stato il Giappone, nella seconda metà dell’Ottocento, la cui filosofia shintoista, non a caso, presenta analogie significative col calvinismo, e dove la vecchia classe feudale si mise a capo di moderni monopoli industriali, saltando quelle fasi o tappe che invece in Europa erano state fondamentali. Agli inizi del Novecento una piccola isola come il Giappone era già in grado di vincere molto facilmente una guerra contro il colosso russo per il controllo della Manciuria.

Il crollo delle concezioni etiche tradizionali è avvenuto in Asia nella seconda metà dell’Ottocento, in pieno sviluppo imperialistico-europeo, quando già da un secolo inglesi e francesi erano penetrati in questo immenso continente, e prima di loro olandesi e portoghesi. La guerra dell’oppio è stata devastante in Cina, al punto che i burocrati e gli imperatori potevano controllare il loro paese solo grazie all’appoggio occidentale. Furono poi le continue rivolte a demolire l’impero e a imporre la repubblica democratica, che però resterà in Cina filo-occidentale sino alla svolta maoista del 1949.

Oggi l’Asia è destinata a soppiantare la cultura occidentale, espressa dall’Europa e soprattutto dagli Stati Uniti, in quanto è in grado di unire alla intraprendenza dell’individuo borghese il senso collettivo dello Stato.

Quale nuovo rapporto tra scienza ed etica?

Vi è qualcosa di apparentemente poco spiegabile nello sviluppo della scienza e tecnologia occidentale. Al tempo della Grecia classica, tra i filosofi della natura, pochissimi tenevano separata la scienza dall’etica; e anche quando lo facevano (p.es. con Anassagora e Democrito), era solo per poter affermare meglio l’indipendenza della natura da qualunque cosa, cioè i princìpi dell’ateismo. Nella vita privata, infatti, questi filosofi-scienziati tenevano un comportamento etico ineccepibile, mostrando che una professione di ateismo non comportava affatto la rinuncia ai valori morali.

La cosa strana è che tenevano unite scienza ed etica all’interno di un contesto sociale, così fortemente caratterizzato dallo schiavismo, che avrebbe invece dovuto indurli a fare il contrario. Nell’ambito dello schiavismo, infatti, il concetto di “persona” è quasi inesistente. Non si riconoscono i cosiddetti “valori umani fondamentali”, quelli inalienabili, che si possiedono in quanto appunto si fa parte del genere umano. Lo schiavismo è la negazione esplicita della libertà della persona, e quindi della possibilità di avere una propria identità, di essere ritenuto responsabile delle proprie azioni. Essere “giuridicamente libero” era in assoluto la cosa più importante di tutte.

Generalmente si aveva una concezione molto negativa dello schiavo: lo si considerava un fannullone, un bugiardo, un ladro, uno poco abituato a pensare, in quanto tenuto soltanto a obbedire, uno di idee opportunistiche, tendenzialmente amorali, in quanto, pur di avere il consenso del proprio padrone, sarebbe stato disposto a dire o a fare qualunque cosa. Lo schiavo non aveva alcun diritto e andava costantemente sorvegliato. Agli schiavisti non interessava sapere che molti di questi comportamenti erano proprio il frutto di una condizione di forte subalternità. Preferivano dipingere i loro schiavi con mille difetti pur di giustificare l’esigenza di sottometterli e di muovere guerra a popolazioni ritenute, per definizione, “inferiori”.

D’altra parte sia i Greci che i Romani ritenevano se stessi i migliori popoli del mondo allora conosciuto: non avrebbero potuto esprimere pareri favorevoli neanche nei confronti degli stranieri liberi, a meno che tali stranieri non mostrassero una particolare intelligenza, mettendola al servizio della stessa civiltà greca o romana.

Dunque il fatto che i filosofi della natura tendessero a non separare la scienza dall’etica non può certo essere attribuito alla presenza dello schiavismo. Almeno non direttamente. Infatti indirettamente lo schiavismo c’entra. La storia dimostra che là dove esso è presente, la scienza si sviluppa poco in senso tecnologico.

La regina delle scienze pratiche, nel mondo antico, era la medicina, che aveva saputo unire alla plurisecolare fitoterapia uno studio accurato del corpo umano. Viceversa la regina delle scienze teoriche era la matematica, che però aveva scarsa applicazione alla fisica (salvo la leva e gli specchi di Archimede, p.es.) e, ancor meno, all’economia (ferma all’uso dell’abaco). La matematica poteva essere applicata all’astronomia (p.es. per stabilire fasi lunari, equinozi, eclissi, ecc.), all’arte (in riferimento alla proporzione tra le parti), all’architettura (per tenere in piedi i ponti, per stabilire la pendenza degli acquedotti, per edificare teatri, anfiteatri, archi di trionfo ecc., si doveva per forza fare dei calcoli), all’arte militare (per costruire un campo, misurare la parabola dei proiettili, l’efficacia delle armi…).

Ma in fondo era una matematica abbastanza semplice; più che altro era una geometria, che si avvaleva di mezzi facili da costruire e di molta esperienza personale, basata su prove ed errori. Generalmente si sostiene che dal 2500 a.C. al 500 d.C. lo sviluppo tecnologico fu relativamente scarso. Quello che mancava alle civiltà schiavistiche era la sperimentazione in laboratorio, cioè la capacità di riprodurre, in forma ridotta e quindi simulata, le condizioni presenti in natura o in società. Non si avvertiva la necessità di fare progressi significativi in campo tecnico-scientifico o, quanto meno, di renderli di dominio pubblico.

Per conquistare i territori altrui ci si affidava alla forza fisica dei militari (fanti e cavalieri). Quando si ricorreva a una strumentazione ingegneristica (per costruire catapulte, torrette, arieti…), si usava sempre la stessa, quella consolidata per espugnare una città, una rocca, un bastione fortificato… Anche quando si costruivano navi militari, la forza propulsiva era sempre determinata dagli schiavi rematori.

Chi comandava si accontentava di vincere con la forza dovuta alla quantità numerica dei militari e ovviamente alla loro destrezza, frutto di accurati addestramenti. Tutto il resto veniva considerato accessorio. Semmai si considerava rilevante il coraggio da mostrare di fronte a un nemico temibile.

Quindi il mancato sviluppo di una tecnologia avanzata era dovuto proprio al fatto che la presenza dello schiavismo lo riteneva irrilevante. L’imperatore Vespasiano addirittura puniva chi provava a migliorare la tecnologia. D’altra parte la principale ricchezza era data solo da due cose: terre e schiavi. Chi si dedicava al commercio aveva più che altro esigenza di sicurezza, in quanto faceva degli investimenti rischiando di perderli.

In una società schiavista è già molto se si riesce a essere liberi, e chi lo è non può essere troppo tenero con gli schiavi, proprio perché sa che la sua libertà dipende anche dalla loro sottomissione. Ecco perché allo schiavista non si negava mai il diritto di vita e di morte sui propri schiavi.

In epoca moderna invece i ragionamenti sono molto diversi. In Europa occidentale, priva di schiavitù, come si poteva affermare, al tempo di Galilei, la propria esigenza al successo economico? Il cristianesimo aveva introdotto il concetto di “persona”, stabilendo che di fronte a dio si è tutti uguali e che nel paradiso entravano soltanto le persone che sulla terra si era pentite dei loro peccati o che avevano subìto ingiustizie. Lo stesso Cristo s’era fatto “servo” per redimere l’umanità dal peccato originale, per insegnare la legge dell’amore universale.

Certo, sulla terra il cristianesimo non chiedeva di eliminare lo schiavismo; però, siccome spostava nell’aldilà la realizzazione effettiva della libertà personale, era evidente che uno schiavo cristiano, rimasto fedele al suo padrone, anche quando questi lo trattava male, poteva essere considerato dalla chiesa un modello da imitare.

Tuttavia, sulla base di questa concezione di vita non poteva svilupparsi la scienza. Infatti, anche se si tendeva a preferire il servo della gleba, dotato di una relativa autonomia, allo schiavo, che ne era totalmente privo, la rivoluzione scientifica si ebbe soltanto alla fine del Medioevo, dapprima in campo fisico-astronomico, poi, nel Settecento, in campo industriale, grazie al carbone e al ferro.

È vero, durante il Medioevo vi furono varie migliorie tecniche nella gestione della terra (si pensi ad es. alla diversa tipologia degli aratri, al collare rigido per gli animali da tiro, alla staffa nella sella dei cavalli, alla ferratura dei loro zoccoli, ai mulini a vento…), ma non fu da queste cose che si sviluppò la moderna tecnologia.

Paradossalmente possiamo dire che neppure l’inizio dell’avventura coloniale vi contribuì. Le spedizioni navali di due paesi feudali come Spagna e Portogallo costituirono semmai un impedimento allo sviluppo scientifico, proprio perché nelle colonie nacque una nuova forma di schiavismo, da utilizzarsi liberamente per sfruttare le enormi risorse di quei territori.

La mentalità cominciò a cambiare solo quando qualcuno (Bartolomeo de Las Casas, Montaigne, Rousseau, ecc.) cominciò a dire che la civiltà europea, per come si comportava nelle colonie, era più barbara degli indigeni schiavizzati, e che, in ogni caso, non si potevano trattare da “schiavi” i nativi convertiti al cristianesimo.

Ecco la rivoluzione tecnico-scientifica vera e propria avvenne quando l’uso della schiavitù nelle colonie prese ad essere considerato una vergogna (non fu solo una questione di interesse pratico). La coscienza cristiana, per quanto laicizzata fosse, avvertiva come un’insopportabile contraddizione la pratica dello schiavismo con le idee di giustizia e libertà affermate in Europa.

Ora però si faccia attenzione a cosa avvenne riguardo ai rapporti tra etica e scienza. Siccome ai tempi di Galilei (ma anche a quelli di Newton) tutta la morale era determinata dalla religione, si cominciò a dire che tra scienza e fede non vi poteva essere alcun rapporto organico; nel senso cioè che una scienza, imbrigliata dal giudizio dei teologi, non avrebbe mai potuto svilupparsi. E così, proprio nel momento in cui la civiltà europea prendeva atto che la schiavitù era intollerabile (per motivi cristiani), si trovò il modo di estromettere il cristianesimo dallo sviluppo della scienza e della tecnica.

Chi si rese responsabile di questa decisione fu la borghesia, la quale, nel tentativo di ovviare agli evidenti limiti del cristianesimo in campo scientifico, pensò di sbarazzarsi anche di qualunque valutazione etica. La scienza si sarebbe sviluppata meglio rispondendo a esigenze materiali e demandando alle applicazioni delle proprie scoperte e invenzioni le considerazioni di tipo morale. La morale cioè sarebbe entrata nello sviluppo scientifico solo a posteriori, quando tale sviluppo avesse comportato svantaggi sociali insostenibili.

Ora però è venuto il momento di andare oltre questa concezione borghese della scienza (ovviamente senza concedere nulla al cristianesimo). Alla luce dei disastri ambientali ch’essa ha provocato, dobbiamo porre all’ordine del giorno il problema di come unire scienza ed etica. E questa sinergia deve avvenire a priori, prima ancora che gli scienziati e gli ingegneri si mettano a lavorare.

Il presupposto perché ciò avvenga può essere uno solo: concedere all’ecologia un primato significativo sull’economia. Cioè occorre fare della tutela ambientale la condizione irrinunciabile per un qualunque sviluppo socioeconomico. Va ripensato il concetto stesso di lavoro, poiché non ha più alcun senso svolgere determinati lavori quando questi distruggono l’ambiente e minacciano la salute umana.

Occorre ripensare il concetto di benessere, che non può dipendere da indici esclusivamente quantitativi (tipico quello del prodotto interno lordo, che è così fondamentale che anche quando sono presenti degli indici qualitativi, non lo si mette mai in discussione).

Va ripensato il concetto di comodità, nei cui confronti è del tutto ingiustificato l’atteggiamento di chi non si chiede quali effetti sull’ambiente possono avere gli oggetti che usa. Non possiamo più accettare che tali effetti vengano pagati dalle generazioni future.

Soprattutto va ripensato il concetto di progresso, nei cui confronti non si possono assumere atteggiamenti fatalistici: il progresso non è una sorta di divinità cui occorre prostrarsi senza discutere. Se il progresso materiale non sviluppa la personalità umana e riduce la facoltà di scelta, incatenando a decisioni altrui, è meglio rinunciarvi. Una moderna società tecnologica è quella dove i soggetti sono padroni dei propri destini, e questo è possibile solo se a livello locale possono controllare le loro risorse, senza dover dipendere dai grandi mercati.

Mille anni di storia di una chiesa corrotta

La lotta medievale per le investiture ecclesiastiche, scoppiata a partire dalla pubblicazione del Dictatus papae (1075), non ebbe alcun aspetto democratico, in quanto fu soltanto un’aspra controversia tra due istanze autoritarie: il papato e l’impero.

La prima, rappresentata da Gregorio VII, approfittò della decadenza morale del clero per affermare un potere assoluto e universale della sede romana, che non tramonterà se non con la cattività avignonese (1309-77) e con l’unificazione della penisola italiana.

Il papato diede una risposta dittatoriale, sul piano politico-istituzionale, a un problema di corruzione morale e di abusi economici a livello locale, in quanto i vescovi, nelle città, avevano un potere considerevole.

La corruzione del clero era già stata contestata dai primi movimenti ereticali pauperistici (p.es. la Pataria), e di essa avevano approfittato gli imperatori, i quali, a partire dal sassone Ottone I (963), avevano preso a nominare dei vescovi a loro fedeli, facendo così nascere il cesaropapismo.

La figura del vescovo-conte, se ci pensiamo, era un vero e proprio controsenso, in quanto un vescovo non dovrebbe essere scelto da un’istituzione civile, senza il consenso della chiesa; e, meno che mai, gli si potrebbe attribuire un ruolo politico-amministrativo da esercitare nelle città.

Gli imperatori si comportavano così perché sapevano bene che, non essendo sposati, i vescovi, alla loro morte, non potevano trasmettere ai loro discendenti i beni ricevuti in gestione: tutto tornava all’impero.

Un sistema del genere, agli occhi di un papato che voleva sempre più dotare di uno Stato la propria chiesa, era assai poco conveniente. Ecco perché nella lotta per le investiture si giocava il destino di una chiesa particolarmente venale e corrotta.

Il colpo di genio di Gregorio VII fu quello di approfittare della crisi per affermare, contemporaneamente, un proprio potere personale su tutti i vescovi e sull’imperatore (papocesarismo), mettendo altresì a tacere le proteste che partivano dalla base dei fedeli più rigorosi. Egli poteva altresì disinteressarsi completamente delle inevitabili contestazioni che sarebbero venute dalla chiesa bizantina, in quanto la rottura con tale chiesa era già stata consumata nel 1054 (e, da allora, mai più ricomposta).

Gli bastò servirsi delle potenti città borghesi dell’Italia centro-settentrionale per avere la meglio su Enrico IV. Egli non solo riuscì a vincere la lotta per le investiture in quasi tutta Europa, ma anche a porre le basi per l’affermazione della teocrazia pontificia, con cui il papato poté scatenare le crociate in Medioriente e nei Paesi Baltici, sottomettere, con la quarta crociata, sia il basileus bizantino che la chiesa ortodossa, e soprattutto sottomettere, con l’arma della scomunica, tutti gli imperatori feudali, con quella dell’interdetto tutte le città ghibelline e con l’accusa di eresia tutti i movimenti religiosi eversivi.

Quando il sovrano francese, Filippo IV il Bello, pose fine a questo delirio di onnipotenza, trasferendo la sede vaticana ad Avignone e affermando un nuovo (questa volta nazionale) cesaropapismo in piena regola, in quanto tutti i papi, di origine francese, venivano scelti dalla corona, i giochi erano fatti. La chiesa romana non sarebbe più tornata alla conciliarità della chiesa ortodossa, ma, anzi, la tendenza sarebbe stata quella di continuare a vivere nella più grande corruzione, accettando, nel contempo, l’idea di scristianizzarsi progressivamente, favorendo (o comunque non ostacolando) lo sviluppo dell’Umanesimo e del Rinascimento.

Dopo aver eliminato tutte le possibili contestazioni religiose al proprio interno, e aver stretto una forte intesa laica con la borghesia, il papato non riuscì a capacitarsi quando vide che in Germania esisteva ancora una forte critica teologica condotta da un monaco agostiniano chiamato Lutero.

Sottovalutò completamente il fenomeno della Riforma e, quando decise di reagire col Concilio di Trento, le guerre di Carlo V, i gesuiti e l’inquisizione era, ancora una volta, troppo tardi: l’Europa si era spaccata in due. Se prima il papato aveva favorito economicamente la borghesia, a condizione ch’essa non rivendicasse un potere politico anticlericale, ora deve fare marcia indietro. La borghesia, che nel nord Europa era molto favorevole al protestantesimo (con cui poteva credere in un dio a buon mercato), andava ostacolata in tutti i modi. E fu così che l’Italia sprofondò nel baratro sino al 1861 (per non parlare dei due grandi imperi coloniali, di Spagna e Portogallo).

A quella data il papa scomunicò i Savoia e non accettò alcun risarcimento per la perdita del millenario Stato della Chiesa, obbligando i cattolici a non partecipare all’attività politica, almeno finché col Concordato fascista del 1929 capì che indietro non si poteva più tornare. Cercò di strappare al duce il massimo possibile dei privilegi, molti dei quali durano ancora oggi (p.es. l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali), in forza di quello sciagurato art. 7 della Costituzione.

Tuttavia la svolta ideologica a favore della borghesia non avvenne col compromesso politico del 1929, bensì col Concilio Vaticano II del 1962-65, inaugurato in pieno boom economico, all’insegna del consumismo all’americana. Ciò a testimonianza che gli aspetti materiali del capitalismo sono molto più forti di quelli politici.

A partire da quel Concilio la chiesa romana iniziava finalmente a protestantizzarsi a tutti i livelli. L’ultimo sussulto profondamente clericale l’ebbe con papa Wojtyla, che, provenendo da una Polonia assai poco borghese e da una chiesa politicizzata, in costante lotta col proprio Stato comunista, ambiva a sconfiggere il socialismo internazionale e ad affermare una sorta di teologia politica alternativa sia a Marx che al capitale.

Il socialismo autoritario, in effetti, crollò, ma la chiesa dovette rinunciare a porsi come “terza via”. Una teologia troppo anticomunista non può sperare d’indirizzare il capitale verso la dottrina sociale della chiesa. L’unica teologia che avrebbe potuto farlo era quella sudamericana della “liberazione”, che però fu scomunicata senza appello dalla coppia Wojtyla-Ratzinger.

La chiesa romana, intesa come istituzione, non è in grado di risolvere alcun problema: al massimo, con l’attuale papa sudamericano, può rivolgere appelli generici alla pace, al rispetto dei valori umani, alla tolleranza interconfessionale e alla tutela ambientale. Essa stessa, infatti, deve imparare a vivere, al proprio interno, la democrazia e i valori umani, proprio perché gli scandali continuano a colpirla come mille anni fa, con la differenza che oggi riguardano anche il basso clero.

1) Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica cooperano con forte sviluppo mentre l’Europa si limita a guardare. 2) La matematica al servizio delle speculazioni globali gigantesche in tempo reale, che nel mondo intero rendono sempre più ricchi pochi e sempre più poveri troppi.

 

Goa: BRICS, alleanza sempre più stretta

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Il summit dei Paesi BRICS a Goa, India, tenutosi il 16 ottobre scorso segna un ulteriore passo avanti verso la creazione di una più stretta alleanza istituzionale tra i suoi membri. E’ indubbiamente la dimostrazione concreta che gli indebolimenti interni ai singoli Paesi e i tentativi esterni di destabilizzazione non hanno avuto gli effetti paralizzanti che certi interessi geopolitici si auguravano.

La Dichiarazione finale del summit afferma che i BRICS rappresentano “una voce influente sullo scenario internazionale capace anche di generare effetti positivi tangibili per i propri popoli”. Essi “contribuiscono grandemente all’economia mondiale e al rafforzamento dell’architettura finanziaria internazionale” anche attraverso i nuovi organismi come la Nuova Banca per lo Sviluppo (NDB) e l’Accordo per la Riserva di Contingenza (CRA) . Ciò dovrebbe agevolare la “transizione verso un ordine internazionale multipolare”.

Tale prospettiva si affianca alla denuncia dei “conflitti geopolitici che hanno contribuito al clima d’incertezza dell’economia globale”, in quanto lo sviluppo e la sicurezza sono strettamente collegati, direttamente proporzionali e determinanti per sostenere una pace duratura.

Al riguardo si ribadisce il sostegno al ruolo centrale dell’ONU come unica organizzazione multilaterale universale capace di lavorare per la pace, la sicurezza, lo sviluppo, la solidarietà e la tutela dei diritti umani. Tale sostegno è una scelta importante, per certi versi stridente con lo stesso silenzio dell’ONU rispetto a situazioni di crisi, come quelle in atto in Siria e in Nord Africa.

Si afferma con forza che “le politiche monetarie da sole non possono condurre ad una crescita bilanciata e sostenibile”. Si sottolinea perciò “l’importanza dell’industrializzazione e di efficaci misure finalizzate allo sviluppo industriale, che sono le fondamenta di una trasformazione strutturale”. In questo contesto l’innovazione tecnologica, si evidenzia, è centrale.

Durante la riunione del BRICS Business Council, formato da 25 importanti industriali, tenutosi il giorno prima del summit, i capi di governo dei BRICS hanno parlato con un linguaggio ancora più chiaro. Il presidente cinese Xi Jinping ha detto che l’economia mondiale langue nel mezzo di una “ripresa incerta e volatile”. E’ perciò necessario, ha aggiunto, che, dopo i successi dei passati dieci anni, i BRICS rafforzino la loro partnership.

A sua volta il primo ministro indiano Narendra Modi ha aggiunto che tale crescente e positivo rapporto tra i Paesi BRICS deve rafforzarsi con la creazione di nuove istituzioni e organizzazioni comuni, tra cui una propria Agenzia di rating, un Centro di ricerche agricole e quello per le infrastrutture e i trasporti ferroviari.

Il presidente russo Vladimir Putin, da parte sua, ha indicato una strategia comune per una nuova linea di cooperazione e di investimenti che colleghi le attività del Business Council con quelle della Nuova Banca di Sviluppo. L’intento è quello di rendere più operativi gli imprenditori privati. Molti dei quali, con l’occasione, hanno partecipato alla grande Fiera Commerciale di New Delhi dove sono stati presentati i nuovi prodotti tecnologici e industriali realizzati nei rispettivi Paesi

Noi pensiamo che nel prossimo futuro il mondo occidentale potrebbe essere sorpreso dai molti nuovi progetti realizzati congiuntamente dai BRICS in vari campi tecnologici.

I capi di governo dei BRICS hanno ribadito gli accordi e gli impegni presi al summit del G20 di Hangzhou in Cina all’inizio di settembre. In particolare hanno rinnovato l’impegno a lavorare con più decisione nel G20 per progetti di importanza globale, come l’Iniziativa per lo sviluppo dell’Africa e la definizione dei una più giusta ed equa governance del Fondo Monetario Internazionale.

Ci sembra che, anche in relazione al ruolo, sempre più incisivo, dei BRICS, l’Unione europea dovrebbe avviare con maggiore convinzione rapporti più stringenti con detti Paesi. Sarebbe il modo più concreto ed efficace di contribuire ad accelerare la ripresa economica globale, la crescita delle regioni in ritardo di sviluppo e, ovviamente, la realizzazione dell’indispensabile stabilità politica internazionale quale presupposto per una pace mondiale duratura.

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Algoritmi: parola magica per meglio speculare

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Recentemente i mercati internazionali, sia delle valute che dei titoli, hanno registrato dei capovolgimenti così grandi da suscitare grandi preoccupazioni sulla tenuta dell’intero sistema bancario e finanziario mondiale. Eppure i governi e le autorità preposte, nonostante le loro indubbie preoccupazioni, hanno cercato di far passare tali eventi come ‘fisiologici per il mercato’.

Invece, così non è.

Venerdì 7 ottobre, nel giro di meno di 3 minuti, la lira sterlina è crollata del 6% per poi recuperare il 5 % in meno di un ora. Dopo aver raggiunto il minimo assoluto degli ultimi 31 anni, a fine giornata la sterlina registrava una perdita dell’1,6%.

Il crollo è avvenuto alle 7 di mattina sul mercato di Singapore, mentre a Londra ancora si dormiva profondamente e la borsa di Wall Street aveva già chiuso le sue operazioni.

E’ stata una pura speculazione, di inaudita pericolosità per l’intero sistema, per niente giustificabile con i possibili effetti della Brexit sull’economia inglese. L’unica spiegazione possibile, ci sembra, è legata al cosiddetto ‘electronic trading’, che avviene quando i computer sono programmati con un algoritmo specifico a fare in automatico operazioni di compravendita ad una velocità straordinaria, oltre ogni immaginabile umana capacità.

Algoritmi e computer basati su istruzioni relative all’andamento di certi scenari, come quello della Brexit.

Si arriva finanche ad impostare tali algoritmi in rapporto al numero e al tipo di informazioni riportate dai media, a volte addirittura dai social media!

L’algoritmo succitato avrebbe ‘letto’ i reportage negativi sulla Brexit come un segnale di vendita della sterlina. Poi, quando la moneta inglese ha cominciato a scendere, altri algoritmi si sono ‘attivati’ nelle stessa direzione.

Purtroppo i mercati internazionali dei cambi sono ancora grandemente non regolati. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali gli scambi della coppia dollaro-sterlina rappresentano il 9,2% di tutte le contrattazioni nei mercati dei cambi, che mediamente sono di 5,1 trilioni di dollari al giorno.

Negli ultimi tre anni l’‘algorithm trading’ sarebbe aumentato enormemente.  

Si rammenti che qualche giorno prima, il 30 settembre, le azioni della Deutsche Bank avevano perso il 9% in mattinata e avevano guadagnato il 5,7% a fine giornata. Una cosa inaudita, fuori dal normale andamento.

Le nostre critiche alla DB sono note. Qui però si è di fronte ad un colossale attacco speculativo, non facilmente spiegabile. L’anomalo andamento non può essere attribuibile semplicemente alla stratosferica multa comminata dalle autorità americane alla banca tedesca per le sue passate speculazioni con i derivati sui mutui subprime americani. Né la successiva risalita delle sue quotazioni può essere giustificabile con le notizie relative ad una eventuale riduzione della multa in questione.

Chi ha comprato le azioni per salvare la banca dal tracollo? E’ una domanda che sorge spontanea.

Mario Draghi, governatore della Banca Centrale Europea, nel suo recente discorso ai parlamentari tedeschi del Bundestag, ha detto che la sua politica del tasso di interesse zero, nel 2015 ha fatto risparmiare alla Germania ben 28 miliardi di euro. Sulla base di questo dato si può ipotizzare che negli ultimi anni Berlino abbia pagato meno interessi sul suo debito pubblico per almeno 100 miliardi.

La Germania non sembra aver usato tanta ricchezza per sostenere consumi e investimenti in casa propria o nelle regioni europee più deboli e bisognose di un sostegno concreto per il loro rilancio economico.

Molto probabilmente il ‘tesoretto’ tedesco è stato accantonato proprio per il salvataggio delle banche che non sono in buona salute!

I due recenti avvenimenti finanziari menzionati assumono una gravità eccezionale per le dimensioni e i velocissimi tempi delle operazioni. Essi ci dicono che l’intero sistema economico è esposto più di prima a terremoti di altissima magnitudo.

Non sono vicende da lasciare ai mercati o solo alle banche centrali e alle autorità di controllo. Sono questioni squisitamente politiche che, secondo noi, richiedono interventi e decisioni da parte dei governi. Senza indugi, prima che una nuova crisi sistemica bussi alla porta.

*già sottosegretario all’Economia **economista

 

L’INGLORIOSA FINE DELLE MONTATURE SUL MISTERO DELLA SCOMPARSA DI EMANUELA ORLANDI, FONTE DI INFINITE SPECULAZIONI E DI MALOGIORNALISMO SOPRATTUTTO DA PARTE DELLA RAI

Leggendo questi miei quattro articoli avrete una panoramica completa. E vi farete anche un’idea dell’indecenza e del cinismo del film “La verità sta in cielo”, che ha la pretesa di avere risolto il mistero. Ogni articolo contiene inoltre i link che rimandano ad altri articoli e documentazioni varie che vi permetteranno di avere un’informazione sul mistero Orlandi e dintorni abbastanza esaustiva.

 

http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/ecco-la-voce-del-rapitore-di-emanuela-orlandi-reperto-del-1983-chiaramente-un-falso-2570160/
http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/emanuela-orlandi-flop-del-film-verita-smentite-2569228/

http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/bruno-vespa-smonta-il-caso-emanuela-orlandi-scemenze-i-sospetti-del-film-di-faenza-2562295/

http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/nicotri-opinioni/emanuela-orlandi-al-cinema-150-spettatori-a-milano-alla-anteprima-su-180-posti-2560737/

Si può davvero scegliere tra Galilei e Bellarmino?

La diatriba tra lo scienziato Galilei e il cardinale Bellarmino era sin dall’inizio impostata male. Basteranno alcune considerazioni per convincersene.

Che la Bibbia non potesse dir nulla sulla verità razionale degli esperimenti scientifici, laboratoriali, di Galilei, appare oggi pacifico. Solo una concezione integralistica della fede religiosa, che fa della teologia un’imposizione politico-istituzionale, cui un’intera società deve attenersi, poteva sostenere il primato “scientifico” della Bibbia su discipline come la matematica, la fisica e l’astronomia.

Una diatriba del genere non avrebbe mai potuto esserci là dove la Chiesa non pretende di avere un ruolo politico. Senza un tale ruolo, infatti, non si ha neppure la pretesa di egemonizzare la cultura e la scienza. Sotto questo aspetto Galilei avrebbe potuto avere seri problemi anche se avesse avuto a che fare non con la Chiesa romana, profondamente controriformistica, ma semplicemente con uno Stato confessionale (cattolico o protestante che fosse), ivi incluso quello ideologico e ateistico del regime staliniano.

Idee scientifiche così innovative come le sue e, per molti aspetti, chiaramente favorevoli a una visione laica della vita, potevano trovare, a quel tempo, ampi consensi solo se la borghesia si poneva il compito di difenderle. Cosa niente affatto scontata. Copernico, ad es., diede alle stampe le sue analisi rivoluzionarie solo poco prima di morire. E nessun testo degli scienziati del XVII e XVIII secolo mette in dubbio l’esistenza di dio. Tutti hanno paura di spiacevoli conseguenze per la loro carriera e persino per la loro incolumità, siano essi cattolici o protestanti.

È noto che Lutero, Melantone e Calvino giudicarono assai negativamente le idee di Copernico: non accettarono neppure la riforma gregoriana del calendario (che tra l’altro si basava proprio sui suoi calcoli matematici). Se gli scienziati dell’Europa protestante ebbero maggiore libertà d’azione, fu solo perché qui la borghesia era notevolmente più sviluppata, come lo era stata quella italiana prima del Concilio di Trento. Questo per dire che se anche la Chiesa romana si fosse astenuta dal criticare le idee scientifiche di Galilei e Copernico, rinunciando ad avvalersi della propria autorità politica, non avrebbe comunque potuto esimersi dal criticare le conseguenze laicistiche di quelle teorie.

Tuttavia è proprio su questo punto, relativo alla critica del laicismo implicito in quelle teorie scientifiche, che l’azione della Chiesa romana si è rivelata del tutto inadeguata. Cosa, d’altra parte, naturale quando si vuole sostenere una visione altamente ideologica della vita, la quale, peraltro, non permette neppure di capire sino in fondo le implicazioni di teorie opposte a quelle dominanti.

Da un lato infatti la Chiesa era tutta preoccupata di dimostrare che la Bibbia non poteva essere letta, là dove si voleva, avvalendosi di allegorie o metafore, poiché così si sarebbe potuta facilmente sostenere una qualunque interpretazione. Dall’altro però non riusciva a capire che la concezione della natura che aveva Galilei era pericolosa non tanto perché vicina all’ateismo, quanto perché profondamente “borghese”, cioè connessa a una concezione della vita e dei rapporti con la natura tutt’altro che democratica.

Galilei amava fare scienza secondo un preciso scopo, ch’era quello di tutti gli scienziati dell’epoca: dominare la natura. Secondo lui la scienza doveva essere posta al servizio delle esigenze di dominio di una classe sociale particolare. La Chiesa romana non lo contesta mai su questo aspetto, né vede che quelle teorie possono diventare pericolose per l’integrità della natura, per il rispetto dell’ambiente. Lo contesta semplicemente per il fatto ch’egli vuole sostenere delle idee contrarie a quelle dominanti.

In altre parole la Chiesa, come istituzione avente un determinato potere politico, teme che se la società si convince che quelle teorie scientifiche, così diverse da quelle ufficiali della teologia, risultano essere più credibili, allora è il suo stesso potere istituzionale che rischia d’essere minacciato. Bellarmino critica ideologicamente Galilei perché in realtà si sente rappresentante di una Chiesa preposta a gestire un potere politico. Più volte infatti aveva sostenuto che l’Inquisizione non avrebbe avuto nulla da eccepire se gli scienziati si fossero limitati a dire che le loro teorie erano semplici ipotesi interpretative, prive di qualunque attendibilità: cosa che sul piano fisico-matematico era quanto meno una richiesta irricevibile.

Su questi temi si potrebbero scrivere interi trattati, sia perché quando si sostiene (e gli scienziati lo facevano) che tra fede e scienza non vi è contraddizione, in quanto sono separati i loro ambiti e diversi i loro obiettivi, si sta in realtà sostenendo una posizione ambigua, di compromesso, che è poi chiaramente falsa, poiché uno sviluppo della scienza è sempre incompatibile con una posizione religiosa (almeno con una teologia tradizionale, chiaramente definita). Ma anche perché lo sviluppo “borghese” della scienza è straordinariamente somigliante a quello della religione cattolica e protestante (la prima sul piano politico-istituzionale, la seconda su quello socio-economico); nel senso che sia la teologia che la scienza hanno sempre avuto la concezione dell’uomo come “dominatore” della realtà, libero di usare gli strumenti più opportuni (quindi anche quelli più arbitrari) per affermarsi.

In Bacone (al servizio dei Tudor, una dinastia particolarmente sostenuta dalla borghesia inglese) è evidentissima l’equazione di scienza e potere. Né l’una né l’altro, nella sua filosofia, possono essere dati dai sillogismi della logica aristotelica o dalle magie e astrologie dell’Umanesimo del Quattrocento, ma solo dalla matematica e dalle scienze naturali con cui si scoprono le leggi della materia.

Ecco, sotto questo aspetto la differenza tra teologia cristiana (cattolica o protestante) e scienza borghese verteva soltanto sui mezzi o sugli strumenti da usare. Gli scienziati del Seicento portano alle più logiche conseguenze le filosofie laico-umanistiche sviluppatesi nei secoli precedenti, le quali, a loro volta, non avevano fatto altro che laicizzare ulteriormente le posizioni dell’ultima Scolastica, soprattutto di quella francescana presente in Inghilterra, chiaramente favorevole al sensismo e all’empirismo.

Questo sviluppo “borghese” della scienza è potuto avvenire in Europa occidentale proprio perché qui era maturata una teologia che di “umano” aveva assai poco: sia perché non conosceva in alcun modo il senso della “democrazia” (che si ritrova a quel tempo nello spirito conciliare della chiesa ortodossa), sia perché il rispetto della natura non era intrinseco alla teologia cattolica ma semplicemente relativo al fatto che ancora non si era compiuta la rivoluzione industriale.

A partire da Copernico (che peraltro era un ecclesiastico!) la scienza borghese non si poneva affatto (nonostante si pensasse il contrario) come un’alternativa alla teologia fondamentalista della Chiesa romana, ma si poneva come la sua immagine speculare, privata semplicemente di quegli orpelli mistici che il tempo aveva reso obsoleti. Tant’è che gli stessi scienziati erano così affascinati dalle loro scoperte che non tardarono a fare della nuova scienza una nuova “religione”. Il fatto stesso di voler tradurre tutta la realtà in rapporti matematici, lo dimostra; e anche il fatto di voler trascurare la qualità delle cose a tutto vantaggio della quantità.

Tutti, nessuno escluso, sono convinti che la nuova scienza debba servire per “dominare” la natura; e, pur di realizzare questo obiettivo, compiono cose che oggi giudichiamo eticamente discutibili, come ad es. il fatto di riprodurre in laboratorio condizioni ambientali private di tutte quelle imperfezioni, eccezioni, incongruenze… che nella realtà quotidiana sono del tutto naturali e che generalmente si accettano come facenti parte di una vita normale, in cui le contraddizioni vengono giudicate inevitabili.

La scienza da laboratorio, quella tipica di Galilei, pretendeva (e lo pretende ancora oggi) d’essere “pura”, aliena da condizionamenti socio-ambientali. Invece di chiedersi come superare “scientificamente” le contraddizioni sociali, la scienza borghese si poneva al servizio di quella classe che, in mezzo a quelle contraddizioni, ambiva soltanto a cercare un’affermazione personale, esclusiva, ch’era sì ostile ai poteri dominanti, ma soltanto per ottenere un proprio spazio nell’ambito di quegli stessi poteri. Per questa scienza non contava più chiedersi il “perché” delle cose ma solo il “come”. L’essenza stessa dei fenomeni veniva ridotta a un’operazione di calcolo. Si voleva far credere che un approccio alla realtà di tipo matematico potesse essere esente da valutazioni ideologiche, e quindi condivisibile da chiunque.

Questa scienza fisica e astronomica rappresenta le premesse culturali di quella scienza che di lì a poco sarebbe stata l’economia politica classica. Si vuol fare della scienza un qualcosa di asettico, di neutrale, indipendente da ogni valutazione etica (che quella volta coincideva con la religione); e, così facendo, si pongono le basi per una qualsivoglia scoperta o invenzione, privando la scienza di un criterio che possa stabilire quando una ricerca è “sensata” (cioè a misura d’uomo) oppure no.

La scienza borghese è tutto meno che scientifica, proprio in quanto rifiuta di confrontarsi con l’etica. Infatti solo a posteriori, dopo che sono avvenuti immani disastri, la borghesia si chiede come porvi rimedio. Un criterio per stabilire i limiti della ricerca viene rifiutato categoricamente, come se la scienza fosse un dio da adorare in maniera indiscutibile. Infatti quando avvengono i disastri (che oggi sono sempre più di carattere internazionale), non si mette mai in discussione la scienza in sé, ma solo il metodo con cui la si è applicata. Si pensa cioè di poter risolvere i suoi difetti semplicemente rendendo gli uomini migliori, più umani, e non si pone mai all’ordine del giorno il problema di come rivedere i criteri con cui si fa “scienza”.

E così, come sempre accade, gli uomini, eticamente migliorati per necessità oggettive, determinate dalle varie devastazioni, si trovano nuovamente a gestire dei criteri e dei mezzi tecnologici per i quali la loro eticità continua a rivelarsi del tutto insufficiente. Tant’è che dopo un certo periodo di tempo avvengono nuovi disastri, nuove apocalissi, in una spirale senza fine. Guarite le ferite, si torna a combattere una battaglia persa in partenza. Andando avanti di questo passo si rischia soltanto di porre delle condizioni sempre più autodistruttive, per le quali sarà impossibile trovare dei rimedi efficaci alle nostre assurde pretese di dominio.