UN ALTRO RELATORE DELL’ONU SULLA CONDIZIONE DEI PALESTINESI COSTRETTO A GETTARE LA SPUGNA PER L’OSTRUZIONISMO ISRAELIANO
Le dimissioni di Wibisono da Relatore Speciale dell’ONU sulla Palestina Occupata
di Richard Falk (ebreo inviato dell’Onu a suo tempo rifiutato da Israele perché aveva dichiarato che alcuni trattamenti di Israele contro i palestinesi sono di stampo nazista. Ne ho scritto qui: http://www.pinonicotri.it/2008/12/israele-caccia-un-ebreo-inviato-dellonu-la-colpa-avere-detto-chiaro-e-tondo-che-i-metodi-israeliani-contro-i-palestinesi-somigliano-a-queli-dei-nazisti-contro-gli-ebrei-non-e-un-caso-che-gli-obi/ )
Makarim Wibisono ha annunciato le sue dimissioni da Relatore Speciale dell’ONU sulla Palestina Occupata, dimissioni che avranno effetto dal 31 marzo 2016. Questo è l’incarico che io ho ricoperto per sei anni, terminando il mio secondo mandato nel giugno 2014.
L’illustre diplomatico indonesiano dice di non aver potuto svolgere le sue funzioni perché Israele è stata irremovibile nel negargli ogni contatto con il popolo palestinese che vive sotto la sua occupazione in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
“Purtroppo i miei sforzi per cercare di migliorare la vita dei Palestinesi vittime di violazioni sotto l’occupazione israeliana sono stati frustrati ad ogni passo”, ha spiegato Wibisono.
Le sue dimissioni mi ricordano curiosamente di quando Richard Goldstone ritrattò alcuni anni fa i risultati principali del Rapporto Goldstone, che era stato commissionato dall’ONU e da cui risultava che Israele aveva deliberatamente colpito dei civili nel corso dell’operazione Piombo Fuso, l’attacco massiccio contro Gaza della fine del 2008. In quell’occasione la mia risposta alle domande dei giornalisti fu che ero scandalizzato, ma non sorpreso. Scandalizzato perché le prove erano schiaccianti e gli altri tre autorevoli membri della Commissione d’Indagine dell’ONU avevano mantenuto la posizione originaria. Però non ero sorpreso, perché conoscevo Goldstone, un ex-giudice della corte costituzionale del Sud Africa, come un uomo di grande ambizione e debole carattere, una pessima miscela per un personaggio pubblico che si avventura in territori controversi.
Nel caso di Wibisono, sono sorpreso ma non scandalizzato. Sorpreso perché avrebbe dovuto sapere fin dall’inizio che doveva affrontare il dilemma se fare correttamente il suo mestiere nel denunciare i crimini e le violazioni dei diritti umani di Israele, oppure guadagnarsi la cooperazione di Israele per raccogliere le sue prove. Non sono scandalizzato, anzi gli sono grato, perché mette in evidenza le difficoltà che deve affrontare chiunque abbia il compito di riferire onestamente sulla tragedia dei Palestinesi sotto occupazione. Anzi, con le sue dimissioni per motivi di principio, non permette a Israele di farla franca con il suo tentativo di neutralizzare il ruolo del Relatore Speciale.
Val la pena ricordare che quando Wibisono fu scelto come mio successore, diversi candidati più qualificati furono eliminati. Sebbene le linee guida per la selezione pongano l’accento sulla conoscenza che il candidato deve avere sull’oggetto dell’incarico, Wibisono ebbe evidentemente la meglio, con l’approvazione di Israele e degli Stati Uniti, proprio perché non aveva nessuna competenza specifica.
Posso solo sperare che il Consiglio dell’ONU per i Diritti Umani (HRC) voglia ora rimediare al suo errore rivalutando le candidature della Prof. Christine Chinkin e di Phyllis Bennis, che possiedono entrambe le credenziali, le motivazioni e la forza di carattere per divenire validi Relatori Speciali.
Questo è il minimo che dobbiamo ai Palestinesi.
Quando incontrai Makarim Wibisono a Ginevra poco dopo l’annuncio della sua nomina a Relatore Speciale, mi disse pieno di fiducia che, se accettava l’incarico, gli era stato assicurato che il governo israeliano gli avrebbe permesso l’accesso, un’assicurazione che ha riferito anche nel suo annuncio di dimissioni. Da parte sua, si impegnava ad essere obiettivo ed equilibrato e a non aver idee preconcette.
Lo avvertii allora che anche uno che fosse stato politicamente vicino a Israele non avrebbe potuto evitare di arrivare alla conclusione che Israele era colpevole di gravi violazioni del diritto umanitario internazionale e delle norme sui diritti umani, e questo tipo di franchezza avrebbe sicuramente fatto arrabbiare gli Israeliani.
Gli dissi anche che stava facendo un grande errore se credeva di poter accontentare tutte e due le parti, visto che i diritti fondamentali dei Palestinesi sono negati da molto tempo. A quel punto sorrise, confidando evidentemente che la sua abilità diplomatica gli avrebbe permesso di esser gradito agli Israeliani anche quando avesse stilato rapporti che illustravano i loro crimini. Mi disse che voleva fare quello che avevo fatto io, ma farlo più efficacemente assicurandosi la cooperazione di Israele e aggirando così le loro critiche. Allora fui io a sorridere.
È vero che il mandato è di per sé esposto a critiche perché non comprende una valutazione delle responsabilità delle autorità amministrative palestinesi riguardo a violazioni dei diritti umani, ma si rivolge solo alle violazioni israeliane. Ho cercato invano di convincere lo HRC ad ampliare il mandato sino a comprendere le violazioni dell’Autorità Palestinese e di Hamas. I motivi per non farlo erano che sarebbe stato difficile trovare un accordo per definire il mandato, e aprire l’argomento della sua sfera di azione era rischioso, mentre in fondo la prova schiacciante dell’oppressione esercitata sui Palestinesi dall’occupazione si poteva ricavare dalle stesse politiche e pratiche di Israele. Per cui varie delegazioni presso lo HRC sostennero che le violazioni palestinesi sarebbero state un diversivo e avrebbero dato a Israele un modo per sviare le critiche all’occupazione.
Una cosa che ho scoperto nei miei sei anni da Relatore Speciale è che la persona in carica può fare la differenza, ma solo se è disposta a prendersi tutte le critiche.
Può fare la differenza in vari modi. Innanzitutto fornendo ai ministri degli esteri del mondo la relazione più autorevole possibile sulla realtà quotidiana del popolo palestinese. È anche importante saper portare il discorso su argomenti più illuminanti della semplice discussione su “l’occupazione”, affrontare temi come l’annessione de facto, la pulizia etnica e l’apartheid, e dare anche qualche appoggio dall’interno dell’ONU a iniziative della società civile come il BDS e la Freedom Flotilla. Facendo questo c’è da aspettarsi aspre reazioni da parte delle organizzazioni ultra-sioniste e da quelle che gestiscono la “relazione speciale” tra USA e Israele, mettendo anche in conto l’avvio di una campagna continua di diffamazione che cerca di screditare in ogni modo la voce di chi tratta questi argomenti e il lancio di accuse infuocate di anti-semitismo e, nel mio caso, di essere “un Ebreo che odia se stesso.”
Quello che mi ha scandalizzato e sorpreso allo stesso tempo è stata la disponibilità sia del Segretario Generale dell’ONU che dei rappresentanti diplomatici americani (Susan Rice e Samantha Power) a piegarsi verso Israele e unirsi al coro che faceva queste irresponsabili accuse finalizzate a chiedere le mie dimissioni.
Anche se qualche volta ho avuto la tentazione di dimettermi, sono contento di non averlo fatto. Vista la parzialità in favore di Israele dei grandi mezzi di comunicazione in USA e in Europa, è particolarmente importante conservare, anche se sotto attacco, questa fonte di verità senza arrendersi alle pressioni scatenate da varie parti.
La mia speranza è che il Consiglio per i Diritti Umani impari dall’esperienza fatta con Wibisono e nomini qualcuno che possa sopportare le critiche e al tempo stesso riferire i fatti per quello che sono. Il rifiuto di Israele a cooperare con attività ufficiali dell’ONU è un ostacolo alle funzioni del Relatore Speciale e costituisce di per sé una violazione degli obblighi di Israele in quanto membro dell’ONU. Al tempo stesso, il comportamento di Israele che sfida la legge internazionale è così evidente ed è così facile procurarsi informazioni attendibili, che io ho avuto la possibilità di stilare rapporti che trattavano tutti i principali aspetti della tragedia palestinese. Naturalmente il contatto diretto con le persone che vivono sotto occupazione avrebbe aggiunto una dimensione di conferma e di testimonianza, oltre a fornire un’espressione concreta delle preoccupazioni dell’ONU per gli abusi commessi sotto un’occupazione insostenibilmente prolungata e senza una fine in vista.
Finché non arriva il giorno dell’autodeterminazione palestinese, il minimo che l’ONU può fare è mantenere aperta questa finestra di osservazione e di valutazione. Dopo tutto, è stato l’ONU a impegnarsi nel 1947 a trovare una soluzione alla controversia israelo-palestinese e a riconoscere gli uguali diritti dei due popoli. Anche se questo approccio era colonialista e interventista nel 1947, è diventato plausibile nel 2016 visti gli sviluppi degli ultimi anni. L’ONU può non avere colpa di quello è andato male, ma certamente ha mancato di assolvere i propri doveri riguardo ai diritti fondamentali dei Palestinesi. Fino a che questi diritti non saranno realizzati, l’ONU deve dare quanta più attenzione possibile a questo residuo dell’epoca coloniale.