“In Israele il terrorismo ha vinto già 20 anni fa” (in realtà da 65)

L’israeliano Etgar Keret autore per il Corriere della Sera del seguente  articolo riconosce che con l’uccisione venti anni fa del primo ministro Yitzahk Rabin, colpevole agli occhi di settori del rabbinato, delle forze armate e dei servizi segreti di volere la pace con i palestinesi, in Israele ha vinto il terrorismo. Che infattti è riuscito a bloccare la via della pace facendo imboccare la Israele la via disastrosa e sanguinosa della guerra permanente e della dittatura militare sui territori palestinesi, che, non dimentichiamolo, sono governati dall’arbitrio di ufficili militari.

In realtà però in Israele il terrorismo ha vinto sin dalla sua nascita, anzi fin dalla sua gestazione. Nel ’48 infatti è proseguita la “pulizia etnica” iniziata già l’anno prima contro i palestinesi, cacciati in massa con le armi – almeno 700 mila esseri umani – dalle loro case e dalle loro terre (cosa di cui non si parla mai, sono stati derubati in massa anche dei loro risparmi depositati in banca e dei gioielli delle loro donne) perché colpevoli di trovarsi nella parte della Palestina assegnata dall’Onu in maggior parte alla minoranza ebraica. Tale violenta pulizia etnica è stata condotta con l’esecuzione dell’ormai famoso Piano D, studiato fin nei minimi particolari già da anni e tradotto in realtà da bande militari e paramilitari con la bandiera della stella di Davide.

L’esistenza del Piano D è stata rivelata decenni dopo dai “nuovi storici” israeliani come Ben Morris e Ilan Pappè, che servendosi degli stessi archivi militari finalmente resi almeno in parte accessibili hanno scoperto e reso pubblico che la nascita di Israele, alla pari di quella di molti Stati specie nelle Americhe, è stata realizzata “con la violenza, la menzogna e il sangue”. Ovviamente a spese dei più deboli.

E sempre nel ’48, per l’esattezza il 17 settembre, venne ucciso a Gerusalemme dai terroristi israeliani della banda Stern l’inviato dell’Onu conte Volke Bernadotte, colpevole di voler rendere operante la soluzione dell’Onu che prevedeva la nascita anche dello Stato palestinese. E non dimentichiamo che i successivi uomini di governo  israeliano provenivano, compreso lo stesso Rabin, dalle fila della banda Stern e delle altre organizzazioni che nel ’47 avevano cacciato brutalmente i palestinesi tramite l’esecuzione del Piano D.

Tutto ciò premesso, ecco l’articolo di Etgar Keret:

“Quella dell’assassinio di Rabin non è una storia nuova. È una storia che noi israeliani ci raccontiamo da venti anni. Alcuni dettagli sono scomparsi col passar del tempo ma il pathos si è intensificato e alla fine siamo rimasti con la seguente versione: vent’anni fa qui regnava un re coraggioso e benvoluto, pronto a fare qualsiasi cosa per il bene del suo popolo. Un giorno, dopo aver radunato il popolo nella piazza principale della città e aver cantato insieme un inno alla pace, l’amato sovrano fu assassinato da uno dei suoi sudditi che, con tre colpi di pistola, non solo uccise lui ma anche la speranza della pace. Al posto di quel monarca ne arrivò un altro, grande nemico del precedente, che sostituì la speranza con il sospetto e con una guerra senza fine.

Ogni anno raccontiamo a noi stessi questa storia triste e piena di autocommiserazione in cui c’è tutto ciò che serve: un eroe, un malvagio, un crimine imperdonabile e una brutta fine. Manca però una cosa, un personaggio chiave che è stato cancellato dalla trama senza che quasi ce ne accorgessimo: il popolo di Israele.
Infatti, per quanto sia triste ammetterlo, Benjamin Netanyahu non ha strappato la corona a Rabin dopo la sua morte autoproclamandosi re. Netanyahu è stato eletto dopo la morte di Rabin nel corso di elezioni democratiche. Lo stesso popolo che ha pianto la morte dell’amato sovrano ha scelto Netanyahu subito e senza esitazione, accantonando completamente l’idea della pace, rieleggendolo più volte e optando per la sua linea politica. Così, a distanza di tempo, l’assassinio di Yitzhak Rabin si è rivelato uno degli omicidi politici più riusciti dell’era moderna che deve il suo successo non solo alla mano ferma del killer ma anche al popolo di Israele, il quale ha aiutato l’assassino a promuovere la sua visione ideologica.

La storia è piena di assassinii politici che hanno ottenuto l’effetto opposto di quello auspicato dai loro esecutori. L’assassinio di Martin Luther King promosse il processo di uguaglianza dei neri e quello di Lincoln non ripristinò la schiavitù negli Usa. Quello di Rabin, invece, ha realizzato il progetto dell’assassino, Yigal Amir, e fermato il processo di pace. Ma Amir non sarebbe riuscito nella missione senza l’elezione di Netanyahu da parte di noi cittadini d’Israele. Quel Netanyahu che pochi mesi prima aveva incitato le piazze a opporsi a Rabin e al processo di pace. Così, nella vera storia, a differenza di quella che noi amiamo raccontarci, il popolo di Israele non è solo vittima ma anche partner del crimine. E in questa tragedia, come in ogni tragedia, il castigo non è tardato a venire.

Vent’anni dopo l’assassinio di Rabin siamo nel pieno di una nuova ondata di terrorismo. La prima Intifada, iniziata più di venti anni fa con lanci di sassi e accoltellamenti durante gli accordi di Oslo, si fece via via più ingegnosa. Terroristi suicidi cominciarono a farsi saltare in aria con cinture esplosive e infine si passò a una grandine di missili. Ora siamo al punto di partenza, ai brutali accoltellamenti e ai lanci di pietre. Sembra che più si vada avanti, più le cose rimangano le stesse. O forse, sarebbe giusto dire, «quasi le stesse». In questa seconda ondata di accoltellamenti, infatti, le atrocità sono le stesse ma qualcosa per noi, cittadini di Israele, è cambiato. E il cambiamento si è avvertito soprattutto in occasione del linciaggio di Haftom Zarhum, un rifugiato eritreo scambiato per un terrorista avvenuto a Be’er Sheva una settimana fa. Nonostante non avesse compiuto alcun gesto minaccioso né avesse armi da fuoco con sé, Zarhum è stato colpito con sei proiettili e quando già giaceva a terra sanguinante è stato picchiato da alcuni presenti, preso a calci e colpito in testa con una pesante panchina. Uno degli aggressori, arrestato dopo il fatto, ha detto: «Se fosse stato un terrorista tutti mi avrebbero ringraziato». Certo non sarebbe stato condannato dai ministri membri del governo che hanno chiesto di rendere più flessibili le norme che regolano l’uso delle armi da fuoco. E non sarebbe stato condannato nemmeno da uno dei leader dell’opposizione, Yair Lapid, secondo cui troppi terroristi palestinesi vengono catturati vivi. Il tono dominante nei corridoi della Knesset durante l’attuale ondata di terrore è chiaro: dimenticate le regole e il rispetto della legge, chiunque brandisce un coltello, merita la morte.

L’assassinio di Rabin, vent’anni fa, ha segnato un punto di svolta. Che, contrariamente a quanto la maggior parte di noi ama pensare, non è quello in cui abbiamo smesso di prendere l’iniziativa e siamo diventati vittime. Quel riuscito omicidio a sfondo ideologico non ha influito sul grado di controllo che abbiamo sulle nostre vite ma solo sul sistema di valori in base al quale alcuni di noi scelgono di agire. Di recente, a una figura di spicco dei coloni, Daniella Weiss, è stata fatta una domanda a proposito delle minacce di morte ricevute dal presidente di Israele Reuven Rivlin da parte di elementi dell’estrema destra. «Nessuno ucciderà Rivlin», ha risposto lei sprezzante, «non è abbastanza importante». E con questa affermazione ha rivelato una dolorosa verità: in Israele, dopo l’era Rabin, un omicidio politico viene visto non solo come un trauma nazionale ma anche come uno strumento pragmatico, efficace e sempre presente in sottofondo, capace di ribaltare la situazione.

E così, nel ventesimo anniversario dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin gli israeliani moderati continuano a sperare in due cose: in un nuovo e coraggioso leader che riesca a riempire il grande vuoto lasciato da Rabin e, nel caso si trovi un simile leader, che non venga ucciso pure lui”.

Le Borse sono ostaggio dei computer speculatori mentre la Cina impone nuove sfide all’Europa

LE BORSE OSTAGGIO DI COMPUTER-SPECULATORI

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

Si stima che le operazioni “high frequency trading”, le transazioni ad alta frequenza, rappresentino il 70% di tutte le transazioni borsistiche negli Usa e circa il 40% di quelle effettuate in Europa. In Italia la Consob nel 2012 le quantificava intorno al 14% di tutte le contrattazioni. Tali operazioni avvengono tramite sofisticatissimi software ultra veloci, guidati da complicati algoritmi matematici, e con l’intento di lucrare su piccolissime variazioni di valore.

Gli speculatori operano sui mercati di azioni, obbligazioni, strumenti derivati e commodities generando enormi quantità di transazioni giornaliere e utilizzano la strategia HFT per trasformare anche margini minimi in forti guadagni.

Il metodo più frequente è quello di utilizzare supercomputer che operano in micro secondi piazzando i propri ordini in anticipo rispetto alle grosse transazioni con un evidente e notevole vantaggio sui grandi investitori istituzionali come i fondi comuni, i fondi pensione o le stesse banche. Ciò permette di conoscere e anticipare la direzione della domanda, dell’offerta e dei prezzi. Sarebbe una sorta di “insider trading automatico”, contrattazioni fatte sfruttando sistemi accessibili solo ad operatori privilegiati.

E’ ciò che accadeva lo scorso venerdì 2 ottobre. Alle 14.30 l’euro si cambiava a 1,115 verso il dollaro, mezz’ora dopo arrivava a 1,27. L’oro, da 1.109 dollari l’oncia, un’ora dopo saliva a 1.140. In meno di un’ora quindi i mercati erano stati colpiti da scosse improvvise e da modificazioni profonde.

Era successo che il governo americano aveva semplicemente dichiarato che l’aumento dell’occupazione nel mese di settembre era stato inferiore alle aspettative. Tale annuncio ha fatto temere che l’aumento del costo del denaro da parte della Fed, di cui si stava parlando, sarebbe potuto slittare. Teoricamente, quindi, il dollaro si sarebbe indebolito nei confronti dell’euro e la domanda di oro sarebbe cresciuta.

Qualche secondo prima dell’annuncio governativo relativo al dato occupazionale si erano messi in moto i grandi operatori finanziari, tra cui la Goldman Sachs e la Morgan Stanley, che intervengono sui mercati con le suddette operazioni HFT.

Operazioni HFT sono fatte ogni minuto, ma si mettono in azione in modo più sistematico e potenzialmente devastante ogni qualvolta si presenti una decisione o una valutazione con importanti conseguenze di politica economica.

Ci sono anche transazioni HFT molto complicate, spesso nemmeno controllate dagli stessi speculatori. Come avvenne il 6 maggio 2010 quando i programmi HFT impazzirono e i computer, in automatico, provocarono in pochi minuti il tracollo di 700 punti dell’indice Dow Jones.

Quel giorno il mondo venne a conoscenza che i mercati finanziari e monetari non erano più quelli delle contrattazioni “alle grida” visti centinaia di volte nei film di Hollywood ma erano passati sotto il controllo del “grande fratello” informatico, quello dei super computer programmati ad operare in automatico.

Ovviamente anche in questo campo mancano le regole, nonostante in molti Paesi vengano applicate sanzioni e multe e vengano fatte indagini per insider trading o per manipolazione dei prezzi.

Non mancano i fautori del nuovo corso. Essi sostengono che la stragrande maggioranza delle transazioni sono perfettamente legittime, difendono l’HFT come un fattore di efficienza dei mercati, che li rende più liquidi abbassando i costi del singolo investimento. Si afferma che gli operatori del mercato sono i primi interessati alla regolarità e all’autodisciplina. Anche Alan Greenspan, l’ex governatore della Fed, lo diceva a proposito dei banchieri fino al 2007.

Secondo noi non si possono lasciare i mercati finanziari ancora una volta in ostaggio di speculatori e di computer con il “pilota automatico”. E’ anche comprensibile che le economie sottoposte alla spada di Damocle di una finanza senza regole non garantiscono il futuro di sicurezza e di sviluppo cui legittimamente tutti aspiriamo.

LA CINA E LE NUOVE SFIDE ECONOMICHE ER L’EUROPA

L’11 dicembre 2016 tutti i Paesi membri dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) dovrebbero ufficialmente garantire alla Cina il cosiddetto “market economy status” (MES). Dovrebbero cioè riconoscerle di essere diventata a tutti gli effetti una economia di mercato. E’ la stessa “qualifica” che hanno gli Usa e i Paesi dell’Unione Europea. In verità dovrebbe essere un riconoscimento automatico per ogni Paese aderente all’OMC.

Fino a quella data la Cina è considerata una “non market economy” . Di conseguenza i Paesi importatori di semilavorati o di prodotti industriali cinesi possono imporre dei dazi e delle tariffe protettive contro eventuali azioni di dumping. Di fatto, per abbattere i prezzi di vendita e vincere la concorrenza, la Cina ha spesso sfruttato una serie di condizioni speciali, quali il basso costo del lavoro, la mancanza di controlli stringenti sulla qualità, varie forme di sussidi di stato e altre importanti agevolazioni statali. Ciò ha determinato la chiusura di numerose aziende europee, alcune anche italiane, in quanto non più in grado di competere con i prezzi “super cheap” della Cina.

Perciò attualmente in Europa è in corso un grande dibattito sulla convenienza del riconoscimento MES alla Cina. Al riguardo vi sono anche posizioni estreme. Però nel frattempo si susseguono ricerche e analisi per valutarne le conseguenze sull’occupazione e sull’industria europea.

In uno studio preparato dall’Economic Policy Institute di Washington si fanno delle proiezioni, in verità un po’ troppo semplici e lineari, basate sulla ipotesi di un aumento di importazioni europee dalla Cina del 25% e del 50%. Se tali percentuali astratte diventassero realtà, si stima che nel giro di 3-5 anni l’Unione europea potrebbe perdere tra 1,7 e 3,5 milioni di posti di lavoro e veder diminuire la sua produzione annuale tra 114 e 228 miliardi di euro, rispettivamente pari all’1 e al 2% del Pil dell’Ue. In ordine, i Paesi più colpiti sarebbero Germania, Italia, Gran Bretagna e Francia.

Come è noto, il commercio tra l’Unione Europea e la Cina è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi 15 anni. Le importazioni europee sono aumentate di 5 volte passando da 74,6 a 359,6 miliardi di euro. Anche le esportazioni verso la Cina sono cresciute ad un tasso molto significativo. Ciò nondimeno a fine 2015 il deficit commerciale europeo con la Cina dovrebbe essere di 182,8 miliardi di euro.

E’ interessante notare che la pressione più forte sull’Europa a non concedere il MES alla Cina venga dagli USA. Da chi, per anni, ha agevolato grandi importazioni e permesso stratosferici deficit commerciali in cambio di acquisti di grandi quote di debito pubblico americano da parte della Cina.

Il Wall Street Journal ammonisce l’Europa: rischiate di restare senza protezioni. Si rammenti che, quando si garantisce il MES ad una economia, le autorità anti dumping degli altri Paesi possono iniziare delle indagini soltanto partendo dal presupposto che i prezzi e i costi di quella economia sono determinati dal mercato e non in altro modo.

Noi crediamo che l’Europa possa e debba affrontare questa sfida senza doversi chiudere a riccio. Del resto rifiutare il MES alla Cina equivarrebbe a far ritornare indietro le lancette della storia. In verità è da tempo che occorre una grande riforma dell’OMC piuttosto che il suo blocco. Temiamo che, oltre alla guerra monetaria in corso, vi sia anche chi auspica una anacronistica guerra commerciale.

Né si può ignorare che la Cina sta entrando in una fase di grandi cambiamenti interni relativi al lavoro, ai diritti civili, alla qualità della vita, all’ambiente, al crescente ruolo del settore privato e alla trasformazione del ruolo dello Stato. Sono evoluzioni inevitabili che abbiamo vissuto anche noi in Europa nei decenni passati. Ovviamente tutto ciò porterà a dei profondi mutamenti, oltre che nella società, anche sui suoi costi economici e sugli standard produttivi.

L’Europa poi non è lasciata senza una rete di protezione. Diventare un Paese MES vuol dire anche sottoporsi progressivamente agli stessi parametri di garanzia e di sicurezza usati in Europa. Si rammenti che il mercato europeo è accessibile soltanto a chi risponde agli standard europei richiesti per legge. Standard che devono essere rispettati sia da produttori europei che da quelli stranieri.

In questa prospettiva l’Europa potrà meglio definire il proprio protagonismo nella realizzazione, insieme ai cinesi e non solo, delle grandi opere infrastrutturali nel continente euroasiatico, a partire dalla Nuova Via della Seta di cui si parla.

*già sottosegretario all’Economia

**economista

Guerra all’Isis. La Russia fa sul serio

Guerra all’Isis. La Russia fa sul serio

di Davide Insaidi

Ufficialmente è un anno che gli USA sono in guerra contro l’Isis. Con risultati trascurabili, per non dire nulli.
Tra l’altro, un paese che è stato capace di scoprire l’acqua su Marte e che dispone di un controllo satellitare potentissimo e estremamente dettagliato, non è stato tuttavia in grado di accorgersi delle colonne di Toyota dei miliziani dell’Isis che avanzavano nel deserto (nel deserto!) verso Palmira o verso altri siti.
Ci doveva pensare la Russia.

Chiamata dal Presidente Assad (eletto dal suo popolo con l’88% dei voti), l’aviazione russa nel giro di tre settimane ha distrutto decine e decine di centrali operative, di campi di addestramento, di depositi di armi e munizioni e di roccaforti dello “Stato Islamico” e di Al Nusra (ossia Al Qaeda, gli stessi presunti attentatori delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, e che, non si sa bene per quale motivo, adesso gli USA li considerano l’opposizione “moderata” ad Assad e da sostenere).
L’esercito siriano, grazie a questi interventi, sta riprendendo a poco a poco il controllo di vaste aree nelle province di Hama, Latakia, Idlib, Homs, Aleppo e nella stessa Damasco.
I miliziani tagliagole dell’Isis sono in ritirata un po’ dappertutto nel territorio siriano. Numerosi di loro sono fuggiti soprattutto in Turchia (guarda caso…) e si moltiplicano i casi di diserzione.
Un simile successo in meno di un mese crea un fortissimo imbarazzo agli Stati Uniti e agli altri paesi occidentali, Francia in primis.
Anzi, più che imbarazzo: sta smascherando –di fatto- il doppio gioco di paesi, i quali da una parte si vantano tanto di combattere il terrorismo e dall’altra parte il minimo che si possa dire è che lo lasciano agire indisturbato.
L’obbiettivo dell’Occidente, infatti, è l’abbattimento del cosiddetto “regime di Assad”, colpevole di non piegarsi ai diktat degli USA.
Naturalmente la reazione dei paesi della NATO non s’è fatta attendere: a livello mass-mediatico all’inizio s’è subito detto –senza dimostrarlo- che i bombardamenti dei russi avrebbero colpito la popolazione civile, e in seguito è caduto il silenzio-stampa e della Siria e dell’Isis non se ne parla più.

Ma l’intervento di Putin ha una valenza che va ben al di là della Siria e della sconfitta dell’Isis (e di Al Nusra): diversi paesi del Medio Oriente –fra cui Iraq ed Egitto- ora incominciano a sentirsi più protetti da parte della Russia, a scapito degli americani, e stanno sempre più rafforzando i loro legami con Mosca.

In pratica, gli equilibri geo-politici nel Medio Oriente stanno mutando a favore della Russia e a sfavore degli Stati Uniti.
E’ definitivamente tramontato il periodo –seguito alla fine dell’Unione Sovietica- in cui gli USA erano rimasti l’unica superpotenza mondiale e potevano fare il bello ed il cattivo tempo un po’ ovunque.
Questo fatto, in sé, è positivo.

Il problema è che potrebbe portare anche a conseguenze tutt’altro che positive: Washington, infatti, non si lascerà soffiare via il suo primato politico-militare così facilmente e quindi corriamo il serio rischio che gli USA scatenino una guerra di portata e di intensità maggiore di quelle degli ultimi anni.
E l’Italia, che fa parte della NATO e che ha tuttora i suoi militari in Afghanistan, potrebbe benissimo esserne coinvolta. Anche perché tra l’altro nel nostro territorio esistono qualcosa come 90 ordigni nucleari USA.
Mai come ora ci sarebbe urgente bisogno di un forte movimento pacifista nel nostro paese, che porti in piazza milioni di persone.

Ma gli italiani sono troppo impegnati a controllare gli scontrini di Marino…

RAZZISMO E SUPREMATISMO DA INCUBO DI TROPPI ISRAELIANI

DOV WEISSGLASS, portavoce di Ariel Sharon, Ha’aretz, 6 ottobre 2004:
“Il significato del piano di disimpegno [da Gaza] consiste nel congelamento del piano di pace. E congelando tale processo si impedisce la formazione di uno Stato palestinese e si impedisce la discussione sui rifugiati, sulle frontiere e su Gerusalemme. Di fatto, l’intero pacchetto chiamato Stato palestinese, con tutte le sue implicazioni, viene rimosso dall’agenda ufficiale a tempo indeterminato. Il tutto con la benedizione presidenziale (USA) e con la ratifica delle due Camere del Congresso”.
—————
Oltre che, bisogna aggiungere, con la benevola complicità della sempre più ipocrita e serva Europa, la famosa civilissima Europa “dalla civiltà superiore”
RUTH GABISON, professoressa all’Università Ebraica di Gerusalemme, ex dirigente dell’Associazione per i Diritti Civili e candidata alla Corte Suprema, ad Ha’aretz il 1°dicembre di non ricordo quale anno:
“Israele ha il diritto di controllare la crescita naturale [cioè demografica] dei palestinesi”.
Letteralmente: “Le-Israel yesh zkhut le-fakeah al ha-gidul ha-tivi shel ha-‘Aravim”
Se questo non è colonialismo, razzismo, suprematismo, fetore di nazismo….

E non vorrei ci si dimenticasse di ARNON SOFFER, professore all’Università di Haifa, al The Jerusalem Post del 10 maggio 2004:
“Perciò, se vogliamo restare vivi, dobbiamo uccidere, uccidere e uccidere. Tutto il giorno, ogni giorno [….]. Se non uccidiamo, cessiamo di esistere [….] La separazione unilaterale non garantisce la “pace”, garantisce uno stato sionista-ebraico con una schiacciante maggioranza di ebrei”.

“SÌ, È LA TERZA INTIFADA E VI SPIEGO”.

di Ramzy Baroud – 13 ottobre 2015

Quando fu pubblicato il mio libro “Searching Jenin” [In cerca di Jenin] dopo il massacro israeliano nel campo profughi di Jenin nel 2002 fui interrogato ripetutamente dai media e da molti lettori per aver usato il termine ‘massacro’ per quella che Israele presentava come una legittima battaglia contro ‘terroristi’ con base nel campo.

Le domande erano mirate a trasferire il racconto da una discussione riguardante possibili crimini di guerra a una disputa tecnica sull’applicazione del linguaggio. Per loro la prova delle violazioni israeliane dei diritti umani contava poco.

Questo genere di riduzionismo è spesso servito da preludio a qualsiasi discussione riguardante il cosiddetto conflitto arabo-israeliano: gli eventi sono presentati e definiti utilizzando terminologia polarizzante che presta scarsa attenzione a fatti e contesti e si concentra principalmente su percezioni e interpretazioni.

Dunque a queste stesse persone dovrebbe importare poco se o no giovani palestinesi come Isra’ Abed, 28 anni, abbattuto con numerosi colpi d’arma da fuoco il 9 ottobre ad Affula e Fadi Samir, 19 anni, ucciso dalla polizia israeliana qualche giorno prima erano, in realtà, palestinesi che brandivano coltelli in una condizione di autodifesa e sono stati abbattuti dalla polizia. Persino quando emergono prove video che contestano la versione ufficiale israeliana e rivelano, come nella maggior parte degli altri casi, che i giovani uccisi non rappresentavano alcuna minaccia, la versione israeliana sarà sempre accettata come un fatto da alcuni. Isra’, Fadi e tutti gli altri sono ‘terroristi’ che hanno messo a rischio la sicurezza di cittadini israeliani e, ahimè, in conseguenza hanno dovuto essere eliminati.

La stessa logica è stata usata per tutto lo scorso secolo, quando le attuali cosiddette Forze di Difesa Israeliane operavano ancora come milizie armate e bande organizzate in Palestina, prima che questa fosse ripulita etnicamente per diventare Israele. Da allora questa logica è stata applicata in ogni contesto possibile in cui Israele si è trovato, a quanto affermato, costretto a usare la forza contro ‘terroristi’, potenziali ‘terroristi’ palestinesi e arabi e la loro ‘infrastruttura terroristica’.

Non è affatto questione di che genere di armi i palestinesi usino, se mai le usano. La violenza di Israele riguarda la percezione israeliana della realtà cucita a propria misura: che Israele è un paese assediato la cui stessa esistenza è sotto costante minaccia da parte dei palestinesi, che essi resistano usando armi o siano bambini che giocano sulla spiaggia di Gaza. Non c’è mai stata una deviazione dalla norma nella storiografia del discorso ufficiale israeliano che spiega, giustifica o celebra la morte di decine di migliaia di palestinesi nel corso di anni: gli israeliani non hanno mai colpe e non è mai richiesto alcun contesto di ‘violenza’ palestinese.

Gran parte del dibattito attuale a proposito delle proteste a Gerusalemme, nella West Bank e di recente al confine di Gaza è centrata sulle priorità israeliane, non sui diritti dei palestinesi, che sono chiaramente pregiudicati. Una volta di più Israele parla di ‘disordini’ e di ‘attacchi’ partiti dai ‘territori’, come se la priorità sia garantire la sicurezza degli occupanti armati; che si tratti di soldati o di coloni estremisti.

Razionalmente ne segue che lo stato opposto ai ‘disordini’, quello della ‘pace’ e della ‘quiete’, si ha quando milioni di palestinesi accettano di essere sottomessi, umiliati, occupati, assediati e regolarmente uccisi, linciati da folle di ebrei israeliani o bruciati vivi, abbracciando il loro miserabile destino e tirando avanti come se nulla fosse.

È ottenuto così il ritorno alla ‘normalità’; ovviamente all’elevato prezzo di sangue e violenza, di cui Israele ha il monopolio, mentre le sue azioni sono raramente messe in discussione. I palestinesi possono allora assumere il ruolo di perpetua vittima e i loro padroni israeliani possono continuare a presidiare posti di controllo miliari, a rubare terreni e a costruire altri insediamenti illegali in violazione della legge internazionale.

La questione oggi non dovrebbe riguardare gli interrogativi fondamentali su se i palestinesi uccisi brandissero coltelli o no, o rappresentassero effettivamente una minaccia per la sicurezza dei soldati e di coloni armati. Dovrebbe piuttosto essere incentrata principalmente sullo stesso atto violento dell’occupazione militare e degli insediamenti illegali in terra palestinese, tanto per cominciare.

Da questa prospettiva, allora, brandire un coltello è, di fatto, un atto di autodifesa; discutere della sproporzione o meno della reazione israeliana alla ‘violenza’ palestinese è del tutto accademico.

Confinarsi a definizioni tecniche significa disumanizzare l’esperienza collettiva palestinese.

“Quanti palestinesi dovranno essere uccisi perché sia il caso di usare il termine ‘massacro’”? è stata la mia risposta a chi ha contestato il mio uso del termine. Analogamente, quando dovranno essere uccisi, quante proteste dovranno essere mobilitate e quanto ci vorrà prima che le attuali ‘agitazioni’, ‘rivolte’ o ‘scontri’ tra dimostranti palestinesi ed esercito israeliano diventino una ‘Intifada’?

E perché addirittura dovrebbe essere chiamata una ‘Terza Intifada’?

Mazin Qumsiyeh descrive ciò che sta accadendo in Palestina come la ‘Quattordicesima Intifada’. Dovrebbe saperlo, visto che è stato l’autore dell’eccezionale libro ‘Resistenza popolare in Palestina: una storia di speranza ed emancipazione’. Tuttavia io mi spingerei anche oltre e suggerirei che ci siano state molte più Intifade, se si usano definizioni che siano relative all’espressione popolare degli stessi palestinesi. Le Intifade – scuotersi di dosso – diventano tali quando comunità palestinesi si mobilitano in tutta la Palestina, unificandosi al di là di programmi settari o politici e attuano una sostenuta campagna di proteste, di disobbedienza civile e altre forme di resistenza dalla base.

Lo fanno quando hanno raggiunto un punto di rottura, il cui processo non è dichiarato mediante comunicati stampa o conferenze televisive, ma è tacito e tuttavia duraturo.

Alcuni, pur benintenzionati, sostengono che i palestinesi non sono ancora pronti per una terza Intifada, come se le rivolte palestinesi fossero un processo calcolato, messo in atto dopo molte deliberazioni e trattative strategiche. Nulla può essere più lontano dal vero.

Un esempio è l’Intifada del 1936 contro il colonialismo britannico e sionista in Palestina. Era stata inizialmente organizzata da partiti arabi palestinesi, che erano prevalentemente autorizzati dallo stesso governo del Mandato Britannico. Ma quando i fellahin, i contadini poveri e in gran parte non istruiti, cominciarono ad avvertire che la loro dirigenza era cooptata – come accade oggi – agirono fuori dai confini della politica, lanciando e sostenendo una ribellione che durò tre anni.

I fellahin allora, come è sempre stato, fecero le spese della violenza britannica e sionista, cadendo a frotte. Quelli abbastanza sfortunati da essere catturati furono torturati e giustiziati: Farhan al-Sadi, Izz al-Din al-Qassam, Mohammed Jamioom, Fuad Hijazi sono tra i molti leader di quella generazione.

Tali scenari si sono costantemente replicati da allora e con ciascuna Intifada il prezzo pagato in sangue pare aumentare regolarmente. Tuttavia altre Intifade sono inevitabili, che durino una settimana, tre o sette anni, poiché le ingiustizie collettive subite dai palestinesi restano il comun denominatore tra generazioni successive di fellahin e dei loro discendenti di profughi.

Quella che sta avvenendo oggi è un’Intifada, ma è superfluo attribuirle un numero, poiché la mobilitazione popolare non segue sempre la logica netta richiesta da alcuni di noi. La maggior parte di quelli che guidano l’attuale Intifada erano o bambini oppure non erano nemmeno nati quando l’Intifada al-Aqsa iniziò nel 2000; certamente non vivevano quando l’Intifada dei Sassi esplose nel 1987. In realtà molti potrebbero ignorare i dettagli dell’Intifada originale del 1936.

Questa generazione è cresciuta oppressa, confinata e soggiogata, in totale conflitto con il fuorviante lessico del “processo di pace” che ha prolungato uno strano paradosso tra fantasia e realtà. Manifestano perché vivono un’umiliazione quotidiana e devono sopportare l’incessante violenza dell’occupazione.

Inoltre avvertono una totale sensazione di tradimento da parte della loro dirigenza, che è corrotta e cooptata. Perciò si ribellano e tentano di mobilitare e sostenere la loro ribellione più a lungo che possono, perché non hanno altro orizzonte di speranza che la loro azione.

Non lasciamoci impantanare dai dettagli, da definizioni e cifre autoimposte. Questa è un’Intifada palestinese anche se finisce oggi. Ciò che davvero importa è come rispondiamo alle implorazioni di questa generazione oppressa; continueremo ad assegnare maggiore importanza alla sicurezza dell’occupante armato che non ai diritti di una nazione oppressa?

Ramzy Baroud è un giornalista internazionale indipendente, scrittore e fondatore di PalestineChronicle.com. Il suo libro più recente è ‘My Father Was a Freedom Fighter: Gaza’s Untold Story’[Mio padre era un combattente della libertà: la storia non narrata di Gaza].

Da Z Net Italy- Lo spirito della Resistenza e’ Vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/of-course-it-is-an-intifada-this-is-what-you-must-know/

Originale: Ma’an News Agency

Traduzione di Giuseppe Volpe

©2015 ZNet Italy- Licenza Creative Commons CC BY NC-SA 3.0

“DOBBIAMO UCCIDERE, UCCIDERE, UCCIDERE. TUTTO IL GIORNO, OGNI GIORNO!.

“Perciò, se vogliamo restare vivi, dobbiamo uccidere, uccidere e uccidere. Tutto il giorno, ogni giorno [….]. Se non uccidiamo, cessiamo di esistere [….] La separazione unilaterale non garantisce la “pace”, garantisce uno stato sionista-ebraico con una schiacciante maggioranza di ebrei”.
Arnon Soffer, professore all’Università di Haifa. The Jerusalem Post del 10 maggio 2004

ORMAI SIAMO AL SIONISMO COLONIALE, SEMPRE PIU’ COLONIALE E SOLO COLONIALE

QUESTO ARTICOLO TRATTO DAL BLOG DELL’ISRAELIANO ZEEV STERHELL SI INTITOLA “SIONISMO COLONIALE” ED E’ DEL 2008. IN QUESTI SETTE ANNI LA SITUAZIONE E’ DIVENTATA SEMPRE PIU’ VERGOGNOSA, SEGNANDO UN ALTRO TRACOLLO DELLA CREDIBILITA’ DELL’EUROPA E DEGLI USA. ORMAI IL SIONISMO NON E’ ALTRO IN REALTA’ CHE L’ULTIMA VERSIONE DEL COLONIALISMO EUROPEO E DELL’IMPERIALISMO USA. 

Sintesi personale

Hebron è una vergogna nazionale, un vero e proprio peccato criminale: l’ apartheid, come Boaz Okun ha scritto nel settimanale Yedioth Ahronoth la scorsa settimana, è già qui. Ma non solo a Hebron: la situazione nei territori, in generale insieme con il furto di terre private, sono la testimonianza del fallimento dello stato di fronte all’arroganza del colono e alla sua determinazione a non sottostare a vincoli etici e giuridici, favorendo il consolidarsi di una quotidiana cultura della violenza.

Secondo il rapporto di Peace Now gli insediamenti occupano oltre il 90% di terre private palestinesi. Vorrei precisare che in tre articoli scritti nei mesi di maggio e giugno del 2001 ho spiegato la mia posizione per quanto riguarda i coloni: la vita degli ebrei che vivono su entrambi i lati della Linea Verde è “ugualmente preziosa. La limitazione della libertà di circolazione è un disastro storico, ma per ora ci sono persone che vi abitano la cui vita deve essere tutelata”. In realtà, la distinzione tra le persone che dobbiamo proteggere e la dimensione temporale del fenomeno è essenziale. Ho già scritto in passato e lo ripeto oggi: Se la società israeliana non avrà il coraggio necessario per porre fine agli insediamenti, gli insediamenti porranno fine allo stato degli ebrei dando vita ad uno stato binazionale.

I  leader dimostrano disprezzo per i principi di base della democrazia stessa. Essi sanno come sfruttare le istituzioni democratiche, ma ignorano i diritti umani e riconoscono solo i diritti degli ebrei. Il non rispettare la sentenza dell’ ‘Alta Corte di giustizia che nel 1979, stabilì che era illegale appropriarsi dei terreni privati , erode il fondamento della democrazia e i diritti dei singoli. Nonostante il potere che ha acquisito grazie alla codardia del governo, il colono ideologico sempre indossa il mantello di un martire, perseguitato dalla sinistra e dai mezzi di comunicazione . Sebbene egli controlla il territorio, gli piace essere raffigurato come una vittima di cospirazioni. Sebbene per quasi quattro decenni ha creato una realtà sulla quale gli elettori israeliani non sono mai stati chiamati a decidere trasformando l’occupazione militare in una forma di controllo civile che contraddice ogni norma internazionalmente accettabile, egli si dichiara derubato.

I loro leader dimostrano disprezzo per i principi di base della democrazia stessa. Essi sanno come sfruttare le istituzioni democratiche, ma ignorano i diritti umani e riconoscono solo i diritti degli ebrei. Nonostante il potere che ha acquisito grazie alla codardia del governo, il colono ideologico sempre indossa il mantello di un martire, perseguitato dalla sinistra e dai mezzi di comunicazione. Sebbene egli controlla il territorio, gli piace essere raffigurato come una vittima di cospirazioni. Sebbene per quasi quattro decenni, ha creato una realtà sulla quale gli elettori israeliani non sono mai stati chiamati a decidere trasformando l’occupazione militare in una forma di controllo civile che contraddice ogni norma internazionalmente accettabile, egli si dichiara derubato