Il Marx di Diego Fusaro

Indubbiamente Diego Fusaro, astro nascente dell’attuale filosofia marxista italiana, ha avuto e tuttora ha il merito di aver aiutato a riscoprire la portata eversiva delle teorie anti-capitalistiche di quel grande economista chiamato Karl Marx.

Vogliamo sottolineare la qualifica di “economista” perché è in questo ruolo che Marx ha dato il meglio di sé, checché ne pensi Fusaro, che invece lo preferisce di più nei panni del “filosofo” o in quelli del “filosofo dell’economia”, rischiando così pericolosamente di darne un’interpretazione influenzata dall’hegelismo, come d’altra parte fece uno dei suoi principali maestri, Costanzo Preve.

La vera grandezza di Marx sta invece proprio in questo, nell’aver distrutto il primato della filosofia, facendo dell’economia politica una vera scienza, e non una semplice ideologia al servizio della borghesia, com’era, in particolar modo, quella elaborata in Inghilterra, in cui dominava l’idea di considerare il capitalismo un fenomeno di tipo “naturale” e non “storico”, ovvero come un evento destinato a durare in eterno e non a essere superato da una società di tipo comunista. Per l’ultimo Marx, quello interessato all’antropologia, il comunismo altro non sarebbe stato che un ritorno al comunismo primitivo in forme e modi infinitamente più evoluti, in quanto scienza e tecnica avrebbero giocato un ruolo di rilievo, assolutamente più democratico di quello che svolgono in un contesto dominato dall’antagonismo tra capitale e lavoro.

A dir il vero il giovane Marx non aveva affatto intenzione di superare la filosofia con l’economia, bensì con la politica. Solo dopo aver conosciuto Engels si mise a studiare questa disciplina. Fu la sua sconfitta come politico della Lega comunista, nel corso delle rivoluzioni europee del 1848, che lo portò, una volta emigrato a Londra, a dare più peso agli studi teorici dell’economia capitalistica, di cui quelli dedicati al pre-capitalismo risultavano, agli occhi esigenti di Marx, non meritevoli d’essere pubblicati.

Tutti i testi di economia – ad eccezione dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, che maturarono a Parigi a contatto con gli ambienti socialisti – sono stati elaborati sotto il peso di un’amara sconfitta politica: di questo, leggendoli, non bisogna mai dimenticarsi, se si vuole tentare di esaminarli nella maniera più obiettiva possibile, cioè se non si vuole soprassedere al fatto che in tutti quegli scritti risulta alquanto forte l’uso dialettico della categoria hegeliana della necessità e quindi un certo determinismo economico, che tanto peso avrà nella storia della seconda Internazionale e in quasi tutto il marxismo europeo, sempre molto influenzato da correnti borghesi di pensiero, come ad es. il positivismo e lo strutturalismo, mentre, per quanto riguarda la Russia, ci si deve riferire allo sviluppo del cosiddetto “marxismo legale” ed “economicismo”, contro cui il giovane Lenin muoverà le sue forti proteste.

Marx è stato un genio assoluto in campo economico, ma per averne uno in campo politico abbiamo dovuto attendere Lenin, di cui però Fusaro non s’interessa minimamente. Eppure egli, pur scrivendo testi dichiaratamente filosofici, vuole darsi un obiettivo politico generale: quello del superamento del capitalismo. Perché dunque non fare mai alcun riferimento organico, propositivo, a Lenin? Il quale indubbiamente fu non solo il Marx dell’epoca imperialistica sul piano economico (il suo testo sull’Imperialismo è ancora oggi assolutamente fondamentale per capire le premesse dell’epoca in cui viviamo), ma anche il politico marxista più coerente, l’unico che seppe realizzare con successo gli insegnamenti del suo maestro, dimostrando una creatività di pensiero fuori del comune. Se Marx avesse potuto conoscerlo, non l’avrebbe certamente considerato di livello inferiore ai tanti suoi seguaci, più o meno ortodossi (Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lassalle, Lafargue, Guesde…), che in Germania e in Francia si accingevano a costruire un partito socialista rivoluzionario e una seconda Internazionale.

Rivalutare Marx, senza fare alcun riferimento a Lenin, può portare a due inevitabili conseguenze: ripetere cose già dette o fraintendere il suo pensiero. Marx e Lenin sono due soggetti molto particolari: non possono essere semplicemente “studiati” o, peggio ancora, “letti” come due autori qualunque. Entrambi chiedono d’impegnarsi per trasformare le cose, proprio perché avvertono con drammaticità la gravità della crisi e con urgenza il compito di risolverla, senza sfociare in alcuna forma d’irrazionalismo. Tuttavia, se si dà più peso a Marx che non a Lenin, si finisce col fare i “teorici dell’alternativa”, senza lasciarsi coinvolgere in alcun partito o movimento politico e senza neppure essere capaci di fondarne uno nuovo. È appunto questa la posizione che ha l’attuale Diego Fusaro, che quando parla di filosofia fa politica e quando parla di politica fa filosofia.

Se ci si ferma a Marx, tralasciando Lenin, si sarà indotti ad attendere, in virtù delle proprie critiche eversive, che le masse spontaneamente insorgano. Cioè si finirà col compiere il medesimo errore di Marx, di cui lui stesso si rese conto (dicendolo nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica), senza però riuscire a porvi rimedio, tant’è, anzi, ch’egli si trovò come costretto ad accentuare il lato deterministico della transizione al socialismo, appellandosi alla necessità, per chiunque voglia compiere la rivoluzione, di vedere preventivamente esaurite le forze propulsive del capitale. Un errore che Lenin evitò accuratamente di ripetere, anche perché precisò subito, in Che fare?, che la coscienza rivoluzionaria di un superamento complessivo del sistema bisogna portarla, al proletariato, dall’esterno, in quanto, se lo si lascia a se stesso, al massimo matura una coscienza sindacale.

Lenin aveva capito queste cose oltre un secolo fa; trascurarle, pensando sia sufficiente riscoprire Marx per fare di nuovo un discorso anti-capitalistico, rischia di portare fuori strada, anche perché il revival di Marx è già avvenuto, soprattutto in Europa occidentale, negli anni della contestazione operaio-studentesca: ripetere oggi quella scoperta, senza fare un passo avanti, in direzione del leninismo, non servirà a nulla. Anzi, su taluni aspetti è lo stesso leninismo che va rivisto: si pensi ad es. ai primati concessi all’industrializzazione, all’urbanizzazione, allo sviluppo tecnico-scientifico, che oggi una qualunque coscienza ambientalista guarderebbe con molto sospetto; ma si pensi anche alla necessità di non trascurare i rapporti tra coscienza umana e coscienza politica, onde evitare di veder assorbita la prima alla seconda.

Fusaro è convinto d’essere titolato pienamente a parlare di “riscoperta di Marx”, in quanto, secondo lui, quella avvenuta nella stagione del Sessantotto (che si protrasse almeno sino al delitto di Aldo Moro) fu tutta all’interno del sistema borghese, cioè fu una riscoperta che servì alla piccola borghesia per modernizzare il sistema. In realtà se questo fu l’esito della contestazione, bisogna dire che fu del tutto involontario o comunque non intenzionale. In gran parte dipese appunto dal fatto che si volle riscoprire solo Marx, senza fare i conti con Lenin, cioè ci si affidò più allo spontaneismo delle masse che non all’organizzazione di un partito di professionisti, capace di creare un consenso popolare e di gestirlo in chiave rivoluzionaria. Quando parlavano di rivoluzione, generalmente i partiti finivano nel terrorismo, ripetendo così gli errori di un certo anarchismo estremo e individualistico. E quando si parlava di Lenin, al massimo lo si faceva – come Althusser – sul piano meramente filosofico.

In Italia si ebbe addirittura l’impressione, negli anni Settanta, che il parlare così tanto di Gramsci, soprattutto di quello dei Quaderni, pubblicati per la prima volta dal 1948 al 1951, servisse proprio per non parlare di Lenin. L’importanza attribuita alla cultura appariva cioè strumentale all’esigenza di non toccare i tasti dell’impegno rivoluzionario vero e proprio, al fine di accettare acriticamente la politica di “larghe intese” (il famoso “compromesso storico”) realizzata tra comunisti e democristiani.

Un movimento come quello del Sessantotto non può essere guardato con gli occhi del filosofo: ci vogliono quelli del politico. E Fusaro ancora non li ha, e se non si emancipa dalla lezione di Preve, ch’egli peraltro ha assorbito quando Preve era già nella sua fase involutiva, rischierà di spegnersi in questa sua forte carica contestativa. Questo per dire che al giorno d’oggi, se davvero si vuol fare i “marxisti”, non è sufficiente fare dei “discorsi eversivi”; non si può evitare d’essere meramente “filosofi” limitandosi a usare quella che Lenin chiamava la “fraseologia rivoluzionaria”. Occorre l’appartenenza a un partito, una militanza personale.

Marx aveva ucciso la filosofia con l’economia, ma Lenin aveva detto che “la politica è una sintesi dell’economia”. Questo perché non c’è bisogno di conoscere il sistema capitalistico in tutte le sue sfumature prima di potersi organizzare praticamente per abbatterlo. Non abbiamo bisogno di riscrivere il Capitale per capire la nostra epoca globalizzata. È già sufficientemente chiaro che l’unica alternativa è quella di fuoriuscire dal sistema, abbattendo i suoi due pilastri fondamentali: lo Stato e il mercato, cioè il principale strumento oppressivo della borghesia e il primato assoluto che il valore di scambio ha su quello d’uso. Le differenze fra una strategia e l’altra possono riguardare soltanto le modalità e i mezzi da impiegare, anche perché il capitalismo si evolve di continuo e l’analisi economica viene sempre dopo, come ai tempi di Hegel la filosofia, civetta di Minerva. Con questa differenza, che la filosofia non riusciva mai a comprendere l’essenza degli antagonismi sociali.

Il primo a farlo, in maniera scientifica, dal punto di vista economico, con le sue teorie sul plusvalore, è stato appunto Marx. Fusaro glielo riconosce, anzi, lo esalta proprio per questo motivo, senza però accorgersi di un limite di fondo di tutta l’analisi del Capitale, e cioè la sottovalutazione dell’importanza dei fattori sovrastrutturali. Se Fusaro avesse studiato Lenin, o se almeno l’avesse fatto senza usare le lenti deformanti del suo maestro Costanzo Preve, che rifiutava il leninismo non solo sul piano politico, ma anche, e ancor più, su quello filosofico, forse avrebbe potuto dare di Marx una valutazione più obiettiva.

Dopo l’interpretazione che Lenin ha dato del “marxismo classico”, mediante cui ha valorizzato enormemente l’aspetto sovrastrutturale della politica, non è più possibile fare una semplice “riscoperta” di Marx. Ci vuole ben altro. Persino il giorno in cui riscopriremo Lenin, ci vorrà ben altro. Non potremo infatti considerare sufficiente una “politica rivoluzionaria”, trascurando, colpevolmente, quelli che oggi vengono chiamati i “diritti (o valori) umani universali”, i quali, per quanto formulati astrattamente, cioè senza riferimenti specifici a condizioni di spazio e tempo, fanno parte comunque del patrimonio dell’umanità, la cui formalizzazione è stata avvertita come inderogabile dopo due devastanti guerre mondiali, e che sono stati sinteticamente riprecisati dopo la fine di quella che Fusaro, sulla scia di Preve, chiama la “terza guerra mondiale” (cioè la “guerra fredda”), in quel documento significativo (la cosiddetta “Carta della nonviolenza” o “Dichiarazione di Delhi”) che Gorbaciov firmò nel 1986 insieme a Rajiv Gandhi.

Il tempo non passa invano, e per non ripetere gli errori del passato, occorre approfondire la riflessione critica, rendendo la prassi ad essa conseguente. I limiti sovrastrutturali nell’analisi economica di Marx non riguardano soltanto la scarsa importanza attribuita ai nessi con la politica. Per tutto il periodo londinese Marx si è sentito un teorico dell’economia e, fatto salvo l’impegno per costituire la prima Internazionale, che però nel 1876 si era già sciolta, egli non arrivo mai a impegnarsi per la costruzione di un partito autenticamente rivoluzionario. Qui la differenza da Lenin è netta.

Ma il limite di fondo riguarda anche la scarsa importanza attribuita ai fenomeni culturali, relativamente alla capacità che hanno di condizionare i processi economici. Per tutta la sua vita Marx ha visto la cultura, l’ideologia, le idee etiche, religiose, filosofiche, giuridiche, artistiche… come semplici riflessi o rispecchiamenti di determinate strutture economiche. Al massimo – aveva detto nella Prefazione alla prima edizione del Capitale – ci si poteva elevare soggettivamente nella comprensione delle contraddizioni sociali.

Lenin non era affatto così schematico, proprio perché attribuiva un’importanza decisiva, ai fini della rivoluzione, agli strumenti e ai metodi della tattica e della strategia. In Italia abbiamo dovuto attendere Gramsci – lettore di Lenin, anche se totalmente a digiuno di economia – prima che, nell’ambito del socialismo, si capisse l’importanza della cultura, per quanto già l’ultimo Engels non avesse mancato di sottolineare, coi suoi testi sullo Stato, la proprietà privata e la famiglia, sulla riforma protestante e la guerra contadina, che qualcosa del “marxismo” del suo geniale collega andava emendato, tant’è che proprio lui fu indotto a sostenere che il primato della struttura sulla sovrastruttura andava considerato tale solo in ultima istanza.

D’altra parte lo stesso Marx, alla fine della sua vita, cominciò a capire l’importanza delle formazioni sociali precapitalistiche (in modo particolare l’esperienza della comune agricola russa) e a rivalutare quel periodo storico che poi fu definito col termine di “comunismo primitivo”. Ma ormai gli mancavano le forze per approfondire questi temi. La stesura del Capitale lo aveva completamente distrutto; più volte Engels l’aveva messo sull’avviso, nelle lettere che gli scriveva, che quell’opera avrebbe minato irreparabilmente la sua salute.

Anche Lenin si rese conto solo alla fine della sua vita di non aver dato sufficiente spazio al lato umano della politica rivoluzionaria. Ma non ebbe il tempo sufficiente per porvi rimedio (anche a causa del grave attentato che subì) e la svolta autoritaria s’impose appena dopo pochi anni dalla sua morte. Per poter leggere il suo Testamento i comunisti russi han dovuto attendere il 1956: sotto lo stalinismo lo si considerava addirittura inesistente.

Che anche Fusaro non abbia capito l’importanza della cultura, come fattore particolarmente condizionante della struttura economica, lo si evince dalla mancata comprensione della motivazione per cui, nel tempo, si è passati dalla schiavitù diretta (quella tipica p.es. del periodo greco-romano) a quella salariata, che si è imposta proprio sotto il capitalismo. Il passaggio fu determinato non solo da fattori storici e contingenti, ma anche dallo sviluppo del cristianesimo. Cosa di cui Fusaro si disinteressa completamente, rischiando di fare un passo indietro persino rispetto a Marx, il quale, pur senza mai approfondirlo, aveva intravisto nel Capitale un nesso significativo tra capitalismo e protestantesimo. Argomento, questo, che verrà particolarmente sviluppato, ma dal punto di vista borghese, da Max Weber. Il quale, se ben comprese che il calvinismo era la confessione religiosa che meglio si confaceva allo sviluppo del capitalismo, non riuscì però a capire che le prime tracce di capitalismo s’erano sviluppate nell’Italia comunale e signorile, dove la religione dominante era quella cattolico-romana.

D’altra parte Fusaro, tralasciando, nei libri dedicati a Marx, di fare un’analisi sulla dittatura politica e ideologica affermatasi nel cosiddetto “socialismo reale”, non arriva neppure a comprendere che una schiavitù salariata non è una prerogativa del solo capitalismo privato, ma anche dello Stato totalitario di marca socialista, in cui il partito-guida, che è un padre e padrone, usa mistificanti motivazioni di tipo ideologico con cui estorcere plusvalore alla massa dei lavoratori.

È importante essere convinti di questo, poiché quando si contesta l’Europa delle banche e della finanza – come fa Fusaro con insistenza – e si vuole tornare alla sovranità degli Stati nazionali (che per lui ovviamente dovrebbero diventare di tipo socialista), si rischia di ripetere errori già compiuti. Tutti i giorni, infatti, vediamo che l’idea di Stato nazionale viene progressivamente erosa dalle esigenze del grande capitale, che sempre più ha bisogno di governi e istituti sovranazionali. Sono le esigenze del mercato che lo impongono, proprio per mantenere alti i profitti dei grandi monopoli, industriali e finanziari. Una battaglia contro questi monopoli, i quali per espandersi hanno continuamente bisogno di provocare tensioni e conflitti d’ogni tipo, non può riportarci alla fase dello “Stato nazionale”, sia questo di tipo capitalista o socialista.

È dal “sistema” che bisogna uscire, coi suoi meccanismi di mercato e di oppressione istituzionale. E, sotto questo aspetto, bisogna stare attenti a non ripetere gli errori della rivoluzione d’Ottobre e di tutte le rivoluzioni comuniste, dove, pur parlando, teoricamente, di progressiva estinzione dello Stato, si è finiti, temendo continui attacchi militari da parte dei nemici storici, col rafforzare all’inverosimile proprio le istituzioni statali, facendole, ad un certo punto, implodere. È stata una grande illusione pensare di eliminare le leggi del mercato usando la forza di uno Stato autoritario. Questo è un compito che va lasciato alla popolazione civile, messa in grado di usare liberamente la propria volontà. Anche se, ovviamente, non può essere considerata sbagliata l’idea di usare le leve dello Stato per affrontare l’eventuale controrivoluzione.

Nota

I due testi di Diego Fusaro cui qui si fa riferimento sono Karl Marx e la schiavitù salariata, ed. Il prato, Saonara 2007 e Bentornato Marx! Rinasci­ta di un pensiero rivoluzionario, ed. Bompiani, Milano 2012. Il presente articolo è già stato pubblicato nel libro curato da I. Pozzoni, Frammenti di filosofia contemporanea VI, ed. Limina Mentis, 2015

“Noi” e “Loro”: riusciremo mai a convivere pacificamente?

Oggi siamo soliti stupirci alquanto che ancora possano esistere confessioni religiose così fanatiche da provocare stragi, terrore e guerre a non finire.

Noi occidentali siamo però abituati da tempo a credere che dietro motivazioni religiose vi sono sempre motivazioni economiche. Gli stessi dell’Isis continuamente ci fanno capire che dietro le loro stragi in nome di Allah e del Corano vi è l’obiettivo di colpire gli occidentali, che loro equiparano agli “imperialisti”.

Essere islamico “moderato” sostanzialmente per loro significa stare dalla parte degli occidentali. Non si rendono conto che quanto più si comportano in maniera così estremistica e intollerante, tanto più, indirettamente, fanno un favore alle idee laicistiche.

Da un lato infatti il mondo laico si convince sempre più che la religione, vissuta in una certa maniera, può anche diventare molto pericolosa; dall’altro si va formando, tra gli stessi ambienti islamici più consapevoli, l’idea che sia giunta l’ora di svecchiarsi. Non si può continuare a essere “feudali” in un modo dominato dal globalismo del capitale. Se vi sono contraddizioni sociali da risolvere, non sarà certo col fanatismo religioso (islamico o ebraico o di altra religione) che lo si potrà fare.

È anche vero che questo fanatismo trova alimento proprio in quelle contraddizioni. Quanto più infatti il globalismo riesce a diffondersi, tanto più le aree geografiche caratterizzate da ampie sacche di povertà (materiale e culturale), pensano di trovare nel passato fondamentalismo islamico una valvola di sfogo. Essere islamici non vuol dire soltanto credere in un dio o in un testo sacro, ma anche essere anti-occidentali, e finché gli occidentali vogliono dominare il pianeta, vi sarà sempre qualche fanatico integralista disposto a tutto.

Sotto questo aspetto gli ebrei sionisti di Israele sono stati più furbi: anche loro vogliono essere fanatici e intolleranti, ma hanno preferito mettersi dalla parte degli occidentali, dicendo a più riprese che i loro nemici sono i palestinesi terroristi che non riconoscono il loro Stato. E la gran parte di noi non ha molto da obiettare né al loro fanatismo ideologico né al fatto che quando vogliono dare una “lezione” ai palestinesi, usino mezzi assolutamente sproporzionati e inumani. L’importante è che stiano dalla nostra parte.

Purtroppo però un atteggiamento del genere, da parte delle religioni integralistiche, fa male anche al laicismo. Infatti quando i laici vedono i credenti compiere atti così sconsiderati (p.es. sterminare dei tranquilli bagnanti in una spiaggia tunisina o dei devoti sciiti in una moschea yemenita), sono indotti a pensare che il loro laicismo sia vero in sé e per sé, a prescindere dai concreti comportamenti pratici. E, si sa, quando si estremizzano i comportamenti, si finisce col compiere cose insensate proprio in nome della “ragione” (quanti bombardamenti abbiamo già fatto in nome dei “diritti umani”? Afghanistan, Irak, Serbia, Libia…).

Quindi se fino adesso non abbiamo scatenato una guerra in piena regola, con l’uso di armi di sterminio (al fosforo, all’uranio impoverito…) contro l’Isis, non è detto che i prossimi mesi non ci venga voglia di farlo. In fondo i bagnanti nel golfo di Hammamet erano dell’Europa occidentale, come i turisti al museo tunisino del Bardo, come i redattori della rivista parigina Charlie Hebdo, come gli oltre 5000 morti delle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, che ha dato il via a una guerra intermittente, con alti e bassi, tra “loro” e “noi”.

Stiamo cominciando a capire che ormai il conflitto non è più solo tra “islamici” ed “ebrei”, né all’interno del mondo musulmano (p.es. tra sciiti e sunniti), ma anche tra “loro” e “noi”. Questo schematismo geopolitico può scatenare reazioni imprevedibili, che faranno male non solo a “loro” ma anche a “noi”, soprattutto ai concetti di “democrazia” e di “pluralismo”.

Invece di prendere le cose sotto gamba, invece di metterci in condizioni tali per cui, ad un certo punto, l’ultima parola l’avranno i militari, gli affaristi e i loro politici ultraradicali, dovremmo, sin da adesso, mobilitare tutto l’armamentario diplomatico. Dovremmo formulare dichiarazioni pubbliche da parte di organismi internazionali a favore della convivenza pacifica tra etnie, culture, religioni diverse. Dovremmo organizzare conferenze internazionali per affrontare i problemi del Medio oriente, la fame in Africa, il sottosviluppo nel Terzo mondo. L’occidente però sembra essere preso da tutt’altre faccende, e non si può dire che Russia, Cina, India, America latina o Paesi arabi siano davvero interessati a svolgere un ruolo significativo per i valori umani fondamentali.

Il rischio è quello di finire in una guerra devastante senza davvero volerla. Qualche Stato forse voleva la prima guerra mondiale? O la seconda? Nessuno in particolare. Anche gli Stati più “estremisti” al massimo si sarebbero accontentati di colonie da sfruttare. Invece vi ci siamo infilati tutti in men che non si dica. In Europa si aveva l’impressione che solo con una gigantesca guerra si sarebbero potuti risolvere i problemi interni.

Oggi chi spinge a una soluzione del genere sembrano essere gli Stati Uniti, che non hanno avuto scrupoli a finanziare e armare prima i talebani contro i russi, poi gli islamisti del califfato contro la Siria, infine i neonazisti contro i filorussi nel Donbass. Salvo poi accorgersi che tutti questi “aiuti” potevano anche sfuggire di mano.

Papa Francesco: un ordine più giusto per la casa comune

Papa Francesco: un ordine più giusto per la casa comune

Mario Lettieri* Paolo Raimondi** 

 “Laudato si’” è un’enciclica che provocherà molte discussioni e forse anche forti polemiche. Per la prima volta la Chiesa si cimenta in modo diretto con il tema dell’ambiente e del suo rapporto con l’economia e la finanza. Sull’argomento, in particolare negli ultimi decenni, si sono sviluppati ricerche, analisi e studi scientifici che hanno raggiunto conclusioni molto differenti, spesso opposte.

Per seguire il detto “dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” sarà opportuno lasciare che il mondo scientifico si confronti sulle varie teorie in modo indipendente, libero e, forse, mai conclusivo.

Papa Francesco sottolinea che “la sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale”. Giustamente la sua, e la nostra, massima preoccupazione sono i popoli e i poveri del mondo sempre più minacciati da una inequità dilagante quanto intollerabile.

L’enciclica tocca tantissimi aspetti morali, etici e religiosi che meriterebbero, tutti, attente e approfondite riflessioni ma, essendo stata per anni l’economia il nostro campo di studio, ci preme mettere in luce alcuni dei suoi rilevanti contenuti.

L’enciclica dice:”Il principio della massimizzazione del profitto, che tende a isolarsi da qualsiasi altra considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la produzione interessa poco che si produca a spese delle risorse future o della salute dell’ambiente; se il taglio di una foresta aumenta la produzione, nessuno misura in questo calcolo la perdita che implica desertificare un territorio, distruggere la biodiversità o aumentare l’inquinamento. Vale a dire che le imprese ottengono profitti calcolando e pagando una parte minima dei costi. Si potrebbe considerare etico solo un comportamento in cui ‘i costi economici e sociali derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera trasparente e siano pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e non da altre popolazioni o dalle generazioni future’.”

Nel succitato passaggio si evidenziano in modo sintetico due metodi, molto differenti, di concepire l’economia e la società: quello della finanza e quello dell’“economia fisica” e reale. Nel primo dominano le forze invisibili del mercato e il calcolo dei costi e dei benefici. In questo vince chi riesce a pagare meno il lavoro, le materie prime e i mezzi di produzione e riesce poi a vendere al prezzo migliore, il più alto, il bene o il servizio prodotto. Il successo quindi è misurato dal profitto finanziario. Tutti questi “comportamenti” sommati formano il Pil di un Paese, l’ammontare della sua ricchezza. Le varie legislazioni in un certo senso tendono a mitigare questo processo perverso che altrimenti si tradurrebbe in un darwinismo selvaggio. Nonostante ciò, in un simile sistema dominano la cultura relativistica dello “scarto”, quella dello sfruttamento e la logica dell’ “usa e getta”. Quella logica che porta a sprecare approssimativamente un terzo degli alimenti che si producono.

Nel sistema di “economia fisica” e reale il profitto invece si calcola dopo che tutto ciò che è stato usato nel processo produttivo viene reintegrato e anche migliorato. Il che significa che l’ambiente usato – l’acqua, l’aria, le risorse e soprattutto l’uomo e la collettività – deve essere “ripagato” riportandolo alle sue potenzialità esistenti all’inizio del processo. Non si tratta di un processo a “somma zero” e di mera conservazione, senza sviluppo e senza crescita. Il “profitto fisico” però è essenziale per lo sviluppo e si può ottenere attraverso la reale crescita della produttività con l’applicazione delle nuove tecnologie, quelle derivanti dalle continue scoperte scientifiche.

Non è utopia, può sembrarlo ma non lo è, ma un metodo forse più complesso, ma più reale per misurare lo sviluppo economico e sociale.

L’enciclica va anche al cuore del fallimento dell’attuale sistema quando sostiene:” Il salvataggio ad ogni costo delle banche ì, facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere e riformare l’intero sistema, riafferma il dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura. La crisi finanziaria del 2007-8 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri obsoleti che continuano a governare il mondo”.

Piena condivisione con la denuncia di papa Francesco della grave sottomissione della politica alla finanza. “Non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti delle crisi attuale”. Sono concetti chiari quanto elementari sui quali anche noi spesso ci siamo soffermati. Da ultimo nel nostro libro “Il casinò globale della finanza” nei prossimi giorni in libreria.

*già sottosegretario all’Economia **economista

JE SUIS UN MIGRANT!

Notizia vecchia, ma troppo ignorata.

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Un  tappeto della vergogna è stato steso sul pavimento del Parlamento Europeo il 29 aprile scorso. Una lista impressionante lunga 100 metri che riproduce i nomi delle 17.306 persone che dal 1990 al 2012 hanno perso la vita cercando di raggiungere l’Europa e alla quale sono state aggiunte anche delle impronte di mani, dipinte, per simboleggiare le oltre 6 mila persone che sono morte dal 2013 e, in particolare, le 1.700 persone che hanno perso la vita dall’inizio del 2015.
In occasione della riunione della commissione plenaria del Parlamento Europeo sulle misure da adottare per far fronte all’emergenza immigrazione, soprattutto dopo il terribile naufragio del 19 aprile a nord della Libia che ha provocato 950 vittime, c’è voluto il tappeto della vergogna per spingere gli europarlamentari a fare di più per fermare la tragica mattanza di esseri umani nel Mediterraneo
Durante la seduta, vari parlamentari del gruppo dei Socialisti, Socialdemocratici e Progressisti, nel corso della seduta hanno esibito cartelli con la scritta “Je suis un migrant” e agitato  simbolicamente giubbotti da salvataggio. Ma tutto ciò che il parlamento europeo ha saputo partorire è stata una risoluzione non vincolante che invita gli Stati membri ad accogliere un certo numero di persone che chiedono  asilo politico e la richiesta alla Commissione Europea di fissare una quota di richiedenti asilo per ogni Paese. Misure ancora del tutto inefficaci.

Una bad bank per parcheggiare la montagna di titoli tossici delle nostre banche: 190 miliardi di euro! Pagherà sempre lo Stato (con i nostri soldi)?

Quale bad bank? Chi paga?

 Mario Lettieri* e Paolo Raimondi **

Si è scatenata un vorticosa discussione sulla bad bank italiana, l’istituendo istituto ad hoc dove parcheggiare i titoli tossici posseduti dalle banche.

Il nostro sistema bancario scopre di essere in grave difficoltà e chiede, ancora una volta, un salvataggio pubblico. Non lo aveva ammesso nei mesi del vortice della crisi finanziaria globale, come era avvenuto invece negli Usa, in Inghilterra, in Germania e in altri Paesi. I bailout delle banche da parte dei governi di Londra e di Berlino furono rispettivamente di 167 e 144 miliardi di euro. L’Italia allora intervenne soltanto per 7,9 miliardi, tanto che appariva la più virtuosa. Oggi l’Unione europea considera il bail out italiano un “aiuto di Stato” in contrasto con la normativa vigente.

Adesso sappiamo che le sofferenze bancarie, i crediti inesigibili, sono circa 190 miliardi lordi. Probabilmente se ne possono recuperare circa 80 miliardi. Si rammenti che nel 2008 essi erano 42,8 miliardi. Oggi, purtroppo, tutti i titoli deteriorati (le sofferenze più i crediti di imprese in oggettiva difficoltà), ammontano a oltre 350 miliardi di euro, pari al 17,7% di tutti i prestiti concessi dal sistema bancario italiano. Il Fmi ritiene che tale tasso sia peggiorato velocemente, tanto che peggio del bel Paese vi sono soltanto l’Irlanda, Cipro e la Grecia.

Le sofferenze sono maggiormente concentrate al Sud. Da giugno 2010 sono triplicate quelle delle imprese societarie, cresciute fino a 122 miliardi, pari al 72% del totale. In particolare sono sofferenze per prestiti superiori a 5 miliardi, che dal 2009 sono cresciute del 450%. Ben due terzi sono concentrati nei primi 5 gruppi bancari.

La Banca d’Italia è chiamata in causa per cercare delle soluzioni. Riteniamo che, prima di qualsiasi proposta, essa dovrebbe spiegare perché in questi anni non abbia esercitato puntuali controlli ne adottato i necessari interventi correttivi.

Per addolcire la pillola si sostiene da più parti che la bad bank potrebbe essere un toccasana per l’economia: le banche, liberate dal fardello, tornerebbero a far rifluire il credito verso le imprese. E’ una fiaba che non convince. Si pensi che a dicembre scorso si è registrato ancora una diminuzione annuale di tali flussi dell’1,6%.

Non si può nascondere tutto “sotto il tappeto” della crisi globale, che di danni ovviamente ne ha fatti tanti.

Al di là dei molti giochi di parole e delle tante discussioni “tecniche”, la questione della bad bank e delle sofferenze riguarda soprattutto due punti fondamentali. Chi, come e quanto si valutano i crediti in sofferenza e chi pagherà la differenza: le banche o lo Stato? Per costruire la bad bank la Banca d’Italia ha già investito l’americana Boston Consulting Group, una ditta privata di consulenza che vanta alleanze e cooperazioni anche con la Goldman Sachs.

Ma perché non se ne è presa carico lei, come è avvenuto in Spagna?

Vi sono varie possibilità. La prima è che le banche o altri istituti finanziari privati versino il capitale necessario per comprare i titoli tossici e costruire la bad bank, acquistando con uno sconto tali titoli per garantirsi di fronte a eventuali perdite nelle future operazioni di recupero. Il rischio e il costo sarebbero a carico delle banche. E’ la soluzione osteggiata dalle banche. A tale scopo le lobby ventilano la possibilità di dover arrivare al bail in, che implica il coinvolgimento degli azionisti e anche dei correntisti-risparmiatori nel caso si concretizzasse lo stato di insolvenza.

L’altra possibilità è che lo Stato si faccia garante delle eventuali perdite derivanti da un recupero inferiore del valore già scontato dei titoli acquistati. Questa sarebbe la soluzione più sostenuta dal nostro sistema bancario.

Nel 2018, per la stabilizzazione dei mercati finanziari, la Germania costituì l’agenzia Soffin-FMSA, Il governo tedesco stanziò 480 miliardi di euro con bond pubblici per l’acquisto “scontato” dei titoli deteriorati in pancia alle banche. Queste successivamente hanno cambiato i bond in denaro fresco presso la Bce. La durata della suddetta agenzia non potrà superare i 20 anni. Se non riuscirà a recuperare tutta la somma pagata, allora la differenza dovrà essere coperta dalla banca detentrice delle sofferenze, ma non dallo Stato. Nell’operazione con la Kommerzbank, salvata con 90 miliardi di euro, lo Stato, per garantirsi, si prese anche il controllo azionario del 25%.

Governo, Parlamento, Banca d’Italia, Commissione europea e molte altre istituzioni coinvolte, come il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), cui l’Italia partecipa finanziariamente, continueranno a dibattere sulla costituzione della bad bank.

Secondo noi deve essere tracciata una linea rossa: in un momento in cui non ci sono soldi per la scuola, per le pensioni, per il welfare, per la ricerca, ecc, sarebbe inconcepibile ed intollerabile coprire i buchi delle banche con altri soldi pubblici. Se malauguratamente ciò fosse deciso dal governo e dalla Banca d’Italia si confermerebbe il sospetto secondo cui le banche privatizzano gli utili e socializzano le perdite, quelle perdite causate dai loro azzardi e giochi finanziari.

 

*già sottosegretario all’Economia

** economista

Un freno alla finanza che specula sul cibo

Un freno alla finanza che specula sul cibo

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Il mondo si aspetta che lo slogan dell’EXPO “Nutrire il pianeta” diventi un reale impegno per sconfiggere la fame e per bloccare quella finanza che spregiudicatamente continua a speculare sul cibo. Altrimenti le belle parole sulle eccellenze alimentari, sulle indispensabili difese delle biodiversità e sullo sviluppo di una agricoltura diffusa e sostenibile, fatta di produttori e di consapevoli consumatori, striderebbero di fronte al miliardo di persone che ancora convivono con lo spettro della fame e dell’indigenza.

Da Milano dovrebbe partire un’azione decisa, da parte dei governi, insieme alle altre istituzioni e associazioni interessate, per proibire che banche e hedge fund giochino con i derivati, soprattutto con i futures, sull’andamento dei prezzi dei prodotti agricoli.

Il cibo fa parte, con il petrolio e le altre materie prime, delle cosiddette commodity che sono sempre di più oggetto di morbosa attenzione e di interesse da parte dei settori della finanza in cerca di speculazioni ad alto rischio.

Negli ultimi 10 anni si sono registrati momenti di altissima tensione e volatilità su questi mercati. Nel 2007, nel 2010 e nel 2012 si sono avuti dei boom dei prezzi seguiti poi da repentini abbassamenti. Ciò ha prodotto dal 2008 a oggi un aumento medio in termini reali di oltre il 50% dei prezzi delle derrate alimentari.

Questi improvvisi movimenti sui prezzi non sono il risultato del “gioco” della domanda e dell’offerta, ma di operazioni in derivati finanziari fatte da attori che non sono né coinvolti né interessati alla produzione o all’acquisto reale dei prodotti. Sono soprattutto futures, cioè scommesse sul prezzo futuro di un prodotto agricolo o di un minerale.

Esperti della Commodity Futures Trading Commission, l’agenzia americana che dovrebbe regolare questi derivati, hanno denunciato che, nel mezzo della grande crisi, i capitali speculativi sul mercato delle commodity di Chicago sono passati dai 29 milioni di dollari del 2003 ai 300 miliardi del 2007-8. Sono chiamati “investimenti passivi” in quanto assumono posizioni speculative di lungo periodo, scommettendo su importanti aumenti dei prezzi del petrolio e/o delle derrate alimentari. Sono capitali su cui, operando con la leva finanziaria, si possono creare derivati finanziari per un valore di 30-100 volte maggiore della base sottostante. In altre parole per ogni tonnellata di grano prodotto se ne possono artificialmente vendere e comprare cento! Si è così inventato anche il “grano di carta”! Prima, con la speculazione sul petrolio, c’erano i cosiddetti “barili di carta”. Sono i miracoli della finanziarizzazione dell’economia.

Adesso i prezzi del cibo sono oggetto anche del “high frequency trading”, cioè di operazioni finanziarie gestite automaticamente dai computer, per giocare su piccolissime variazioni del prezzo in millisecondi. Questo sistema, che muove il 90% dei volumi dei futures finanziari, ha già generato “situazioni valanga” con dei veri sconquassi del mercato.

In questo modo si manipolano sia le aspettative degli andamenti di borsa che i prezzi, inducendo l’intero mercato a ritenere inevitabile il prezzo indicato dai futures.

I profitti naturalmente sono enormi. Ma l’eccessivo aumento dei prezzi delle derrate alimentari provoca delle impennate inflattive sui prezzi del cibo con effetti devastanti soprattutto nei Paesi più poveri del Sud del mondo. Di conseguenza milioni di famiglie, che solitamente impegnano per l’alimentazione il 75% del loro bilancio, diventano incapaci di provvedere al loro minimo sostentamento, dando luogo, a volte, alle rivolte del pane. Si ricordi che tra le cause delle primavere arabe vi è stato anche l’aumento dei prezzi del cibo provocato dalla speculazione. .

Quando poi i prezzi scendono in modo altrettanto repentino, molti piccoli coltivatori, soprattutto dei Paesi emergenti, vengono messi fuori gioco, incapaci di reggere una volatilità così grande che si trasferisce velocemente dai mercati finanziari globali anche a quelli dei beni reali a livello locale.

E’ una aberrante deformazione dell’economia e della vita dei popoli. Le voci che si levano contro sono troppo poche.

Solo papa Francesco non si stanca di ripetere, come ha fatto di fronte alla FAO, che “è doloroso constatare che la lotta contro la fame e la denutrizione viene ostacolata dalla “priorità del mercato”, e dalla “preminenza del guadagno”, che hanno ridotto il cibo a una merce qualsiasi, soggetta a speculazione, anche finanziaria.”

Viviamo il paradosso dell’abbondanza: ci sarebbe cibo per tutti, ma molti non lo possono avere, nemmeno per sopravvivere.

In un mondo di crescenti conflitti, non solo politici e religiosi, perché non organizzare all’EXPO un incontro su questi temi, con rappresentati della cosiddetta “finanza islamica” che da sempre è schierata contro la speculazione sul cibo e sulle derrate alimentari? Sarebbe un contributo importante per dare concretezza ad idee largamente condivise sul piano teorico, ma, purtroppo, non facilmente attuabili rispetto alle perverse logiche della pura speculazione e del dio danaro.

Nelle carceri israeliane i bambini palestinesi vengono torturati

Ramallah-Ma’an. I bambini palestinesi vengono picchiati e torturati in modo “atroce” dai soldati israeliani durante gli interrogatori, ha riferito un avvocato dell’Autorità Palestinese.

Hiba Masalha, un avvocato che lavora per il comitato dell’Anp per le problematiche relative ai prigionieri, ha dichiarato che i detenuti adolescenti vengono “terrorizzati, minacciati e ricattati” contravvenendo quindi il diritto internazionale e le convenzioni che sostengono i diritti dei bambini.

Masalha ha riferito di aver visitato la Sezione 3 del carcere di Megiddo nel quale 68 adolescenti palestinesi vengono attualmente trattenuti.

La maggior parte dei detenuti che lei ha incontrato sono stati arrestati in un orfanotrofio di Tulkarem, città settentrionale della Cisgiordania.

Mahir Hussein, 17 anni, studente di Qalqiliya nel nord della Cisgiordania, le ha riferito che i soldati israeliani hanno sparato colpi in aria per minacciare lui ed altri due ragazzi quando sono stati arrestati.

Masalha ha riportato inoltre che i militari israeliani hanno minacciato di ucciderlo davanti a due soldati che lo stavano picchiando “violentemente”.

Secondo le testimonianze, è stato lasciato sanguinante per sei ore con le mani ed i piedi legati. Il ragazzo ha riferito che in seguito è stato portato nell’ospedale di una base militare, a Petah Tiqva, dove i medici hanno dovuto fare “24 punti di sutura” per chiudere la ferita che aveva in testa.

Il giorno seguente è stato riportato al centro per gli interrogatori di al-Jalama, nel quale è stato per un periodo di 20 giorni durante i quali è stato picchiato e quasi sempre relegato su una sedia di legno con mani e piedi legati, ha inoltre riferito Masalha.

Masalha ha incontrato anche il diciassettenne Wasim Taj di Tubas, che era stato rinchiuso assieme a Mahir Hussein.

Ha parlato a proposito dei “brutali” interrogatori che ha subito durante i 20 giorni che ha trascorso ad al-Jalama.

Un altro detenuto, Ibrahim Salmi, 17 anni, ha riportato a Masalha di essere stato interrogato nel centro di al-Jalama per 15 giorni in condizioni terribili.

I resoconti di Masalha escono una settimana dopo che il direttore del comitato dei prigionieri, Issa Qarage, ha dichiarato che gli israeliani che svolgono gli interrogatori utilizzano metodi “oppressivi e brutali” per intimorire i detenuti palestinesi e per obbligarli a confessare attacchi contro Israele.

Il gruppo per i diritti dei prigionieri Addameer ha da tempo segnalato che il trattamento dei detenuti palestinesi da parte delle forze israeliane equivale alla tortura, descrivendolo come “diffuso e sistematico”.

Nel 2014 il gruppo internazionale per i diritti Defense for Children ha riportato che al 93 percento dei bambini arrestati dalle forze israeliane è stato negato l’accesso al consulente legale, mentre altri hanno subito periodi prolungati di isolamento a fini di interrogatorio, una pratica anche questa che equivale a tortura secondo il diritto internazionale.

Al 31 di marzo, vi erano 182 bambini palestinesi nelle carceri israeliane, compresi 26 sotto l’età di 16 anni.

Traduzione di Aisha Tiziana Bravi