“Qui a Milano barare per entrare in tribunale in barba ai cosiddetti controlli di sicurezza è fin troppo facile. Io per entrare mostro il mio tesserino di avvocato agli addetti ai controlli degli ingressi, ma non c’è mai stato nessuno che abbia non dico controllato se il tesserino è davvero mio, ma neppure guardato bene l’intera sua facciata.
Infatti io il tesserino lo mostro tenendolo in mano, perciò chi mi lascia passare ne vede solo la parte esterna superiore, che è come dire che non vede niente. Non capisco perché non vengano sottoposti a controlli TUTTI coloro che entrano a palazzo di Giustizia. Forse che quando ci si deve imbarcare su un aereo di linea gli addetti alla sicurezza evitano i controlli al metal detector e dei documenti a qualche categoria privilegiata? Forse il personale si accontenta che i biglietti e i documenti d’identità vengano semplicemente sventolati con le mani dai diretti interessati mentre passano senza neppure fermarsi?”.
A parlare è l’avvocato Vincenzo Ferrari, ex preside della Facoltà di giurisprudenza dell’Università Statale di Milano, docente di sociologia del diritto spesso in giro per il mondo invitato a conferenze o a tenere lezioni agli studenti.
Il professor Ferrari, come difensore di un imputato di bancarotta, ha avuto modo di conoscere da vicino il giudice Fernando Ciampi, una delle tre vittime dei colpi di pistola sparati dall’imputato di fallimento fraudolento Claudio Giardiello nel palazzo di Giustizia di Milano.
Il docente e avvocato Ferrari prosegue: “Mi dicono che in certe città, per esempio a Venezia, non c’è nessun controllo, né metal detector né servizio di portineria. Spero mi abbiano raccontato delle balle…”.
A quanto pare Giardiello è entrato dall’ingresso di via Manara, dove non si sono metal detector.
“Sì, l’ho sentito. Un colabrodo. E siamo a Milano! Chissà cosa succede nei tribunali delle città di provincia. Giardiello inoltre una volta compiuta la strage ha potuto eclissarsi senza nessun fastidio né disturbo. E senza né correre né affrettarsi troppo. Pazzesco”.
Prima di eclissarsi ha potuto però completare la sua opera uccidendo anche un magistrato.
“Sì, è impressionante che dopo avere sparato all’impazzata nell’aula del processo Giardiello sia potuto scendere al piano di sotto e andare ad ammazzare tranquillamente il giudice Ciampi. Stiamo parlando dell’enorme palazzo di giustizia di Milano, che ha lunghi corridoi e grandi atrii comuni: qui per spostarsi da un ufficio all’altro e ancor più da un piano all’altro c’è da camminare non poco anche a voler usare l’ascensore”.
Possibile che non ci fosse nessun carabiniere o poliziotto?
“Bella domanda! Io però ho visto un video girato col telefonino da un avvocato, e pubblicato da giornali online, che riprendeva la fuga di avvocati e impiegati. Sono rimasto di stucco perché, se non ho visto male, mentre costoro si avviano a passo veloce verso l’uscita e a un certo punto scendono in gruppo le scale si vedono dei carabinieri in divisa appoggiati a un muro, fermi, che si limitano a osservare la scena”.
Lei ha conosciuto il giudice Ciampi. Che tipo era?
“L’ho conosciuto a un processo per fallimento. Io ero il difensore di un imputato di bancarotta fraudolenta, lui era il giudice. Uomo di poche parole, molto riservato. Di grande rettitudine e professionalità. Un buon esempio per tutti”.
Oggi sono in molti a sostenere che i magistrati sono sotto tiro anche per le continue polemiche e accuse che subiscono quando si occupano, con frequenza allarmante, dei reati del mondo politico. In pratica, un modo surrettizio per dire che Giardiello può essere stato suggestionato o spinto a sparare a Ciampi da quest’atmosfera ostile alla magistratura.
“Che i magistrati siano ormai da molto tempo sotto accusa da buona parte del mondo politico è innegabile. Tutto ciò però non c’entra nulla con questa strage a palazzo di Giustizia. Giardiello infatti ha ammazzato anche un avvocato e un coimputato: eppure non c’è nessuna atmosfera “politica” ostile agli avvocati e ai coimputati della marea quotidiana di processi in corso ogni giorno in Italia. Vorrei invece fare un’altra considerazione”.
Quale?
“Siamo sottoposti a un martellamento continuo riguardo il pericolo di terrorismo, fenomeno che abbiamo conosciuto bene nei cosiddetti anni di piombo, anni cioè ’70-’80. Quello era terrorismo nostrano. Ora è di scena il ben più temibile terrorismo internazionale. Spero non ci si faccia sorprendere come ci si è fatti sorprendere in tribunale a Milano. Tra poco inoltre inizia l’Expò, che vedrà grandi spazi espositivi e una marea di visitatori. C’è da augurarsi che chi si occupa della pubblica sicurezza sappia darsi da fare. E che lo faccia meglio degli addetti alla sicurezza del palazzo di Giustizia di Milano”.
E’ bene osservare meglio la tipologia delle vittime. Dopo la strage subito i magistrati ne hanno fatto un esempio dei loro problemi con il sistema politico. “Ci hanno lasciato soli” è stato il leit motiv del lamento. Se però si guarda la lista delle vittime, morti e feriti e anche delle vittime mancate, appare chiaro che i magistrati sono in netta minoranza nel macabro elenco e che la molla che ha armato la mano di Claudio Giardiello non è stata caricata dai tanti, quasi tutti, politici che ce l’hanno con i magistrati in Italia. D’altra parte è diffusa in Italia la tendenza a spostare nell’iperspazio cosmico della sociologia e della politica fatti di cronaca nera che, nella loro tragicità, hanno motivazioni molto semplici, a volte banali. Ricordiamo Laura Boldrini, presidentessa della Camera, quando cercò di trasformare Luigi Preiti, assassino di un carabiniere, in un eroe e vittima della recessione quando si trattava, come scrissero i periti, di una persona affetta da “aggressiva ricerca di riconoscimento pubblico, con l’immaturo desiderio di trasformarsi in una sorta di eroe vendicatore,pubblicamente riconosciuto”.
Nessun magistrato nel mirino, solo i carabinieri addetti alla sicurezza di Palazzo Chigi e dintorni, a Roma.
Il focus delle riflessioni sul caso di Claudio Giardiello si sposta dunque sulla sicurezza: non solo al Palazzo di Giustizia di Milano, ma in generale in Italia. Le esplosioni di follia omicida è pressoché impossibile prevederle e prevenirle ovunque, ma da tutti i resoconti della strage nel tribunale di Milano una cosa appare purtroppo chiara: noi italiani non abbiamo la cultura della sicurezza, siamo lassisti anche in questo nonostante gli allarmi crescenti per esempio per le minacce dell’ISIS, i cui ammiratori ed emuli non hanno esitato a perpetrare la strage di Parigi nella redazione di Charlie Hebdo e quella del supermercato kosher di Porte de Vincennes.
Nelle grandi città degli altri Paesi europei e degli Stati Uniti, ma anche di molti altri Paesi del mondo, è piuttosto difficile poter entrare abusivamente e girare senza controlli di sorta per tutti i piani e i corridoi di un tribunale enorme come quello di Milano. E appare difficile anche che i militari addetti alla sicurezza di certi palazzoni pubblici vengano sostituiti con una polizia privata e che a un certo punto di quest’ultima vengano dimezzati gli addetti, come è invece accaduto qualche anno fa al palazzo di Giustizia di Milano, e che per giunta di questi addetti ne siano armati solo alcuni. Per carità, i buchi nella vigilanza possono capitare ovunque, ma ciò che stupisce nella recente tragedia milanese è l’evidente mancanza di un piano operativo in caso di brutti eventi straordinari. Eppure non dovrebbe essere difficile capire che in un luogo dove vengono processati e spesso condannati non solo imputati restii alla violenza, ma anche criminali dalla violenza facile, compresa quella per interposta persona, può purtroppo capitare che qualcuno impugni un’arma e spari.
Che un piano operativo mancasse lo si capisce dalle immagini dei carabinieri che assistono al fuggi fuggi generale evidentemente senza avere avuto istruzioni precise su cosa fare. Quei carabinieri in qualche modo proteggono la fuga della massa terrorizzata, ma è chiaro che nessuno ha detto loro cosa fare. Ciò vuol dire che o è mancato un piano d’emergenza specifico o è mancato un centro che lo rendesse operativo velocemente. Cosa deve succedere nel tribunale di Milano, o in altri simili edifici pubblici, perché ci si attrezzi se non per tutte le evenienze almeno per quelle più prevedibili?
A differenza di altre città italiane, il palazzo di Giustizia di Milano è ancora dove è stato costruito molti decenni fa, cioè in pieno centro cittadino. Perché non è stato costruito ex novo, e in modo più razionale e funzionale, in una zona decentrata facile da raggiungere per tutti – magistrati, avvocati, dipendenti, imputati e parenti di imputati – e più facile anche da controllare in caso di emergenza? Nessuno ama dirlo, ma circola una leggenda metropolitana che addebita tale immobilismo al fatto che magistrati di peso hanno casa vicino al tribunale e sono perciò contrari al doversi sobbarcare poco o tanto pendolarismo con l’auto propria o con i mezzi pubblici nel caso di trasferimento dei loro uffici. La leggenda metropolitana aggiunge che nei pressi dell’attuale tribunale ci sono pensioni e pensioncine utilizzatissime da imputati a piede libero e dai loro parenti quando per essere processati vengono da fuori Milano e devono fermarsi in città per uno o più giorni.
In fatto di sicurezza, vogliamo le nozze con i classici fichi secchi. I più assidui nel pretendere “più sicurezza” sono i negozianti, specie i gioiellieri, purtroppo però le statistiche sull’evasione fiscale mostrano che a essere allergici al pagare le tasse sono in maggioranza proprio le categorie che più si sgolano a pretendere “più sicurezza”. Per realizzare la quale si dovrebbero assumere più uomini, dai vigili urbani ai poliziotti e ai carabinieri, che però è impossibile assumere, cioè pagare, specie in questi tempi di crisi economica e di risparmio nella spesa pubblica, se l’evasione fiscale continua a essere formidabile.
Viceversa, il fiume di denaro rastrellato con le tasse dovrebbe essere meglio utilizzato, anche in fatto di sicurezza. Abbiamo la pressione fiscale tra le più alte d’Europa, ma in molti casi abbiamo i servizi pubblici peggiori. Compreso il servizio pubblico chiamato Giustizia, i cui processi durano anni e anni, non di rado esasperando non poco non solo gli imputati. Il processo che vedeva imputato Claudio Giardiello, l’autore del triplice omicidio nel tribunale di Milano, è nato da un fallimento di una società avvenuto nel 2008: cioè a dire, ben sette anni fa. Sette anni durante i quali Giardiello non ha fatto altro che accumulare risentimenti e odio verso più di una persona. Risentimenti e odio esplosi con 13 colpi di pistola che hanno ammazzato tre persone e ne hanno ferita una, con un quarto morto evitato solo perché finalmente i carabinieri sono riusciti a bloccare la fuga in motorino del pluriomicida deciso a continuare la mattanza.
Infine, un’ultima osservazione. Il clamore per questa nuova tragedia milanese, e italiana, è senza dubbio grande e non mancano certo lo sdegno, le accuse e le critiche. Ma il clamore sarebbe un frastuono ben più grande e lo sdegno e le accuse raggiungerebbero ben altre vette se a sparare fosse stato, poniamo il caso, un extracomunitario, uno “zingaro” o peggio ancora un patito dell’ISIS. Comprensibile? Non è detto. Quel che è certo è che l’uso di due pesi e due misure nelle reazioni anche di fronte a eventi tragici è un sintomo del non saperli prevedere e prevenire con la dovuta razionalità ed efficacia. Senza lasciarsi sorprendere impreparati perché una strage è compiuta da un “colletto bianco” o comunque da “uno come noi” anziché da un appartenente a categorie di esseri umani visti sempre e comunque con sospetto.