Davvero le previsioni di Marx erano sbagliate?
È diventata ormai un refrain l’accusa, rivolta a Marx, di aver fallito completamente le sue previsioni scientifiche, tanto che lo si può constatare anche nelle pubblicazioni cosiddette di “sinistra”, come p.es. quelle di Costanzo Preve, recentemente scomparso.
Ma in che senso le previsioni di Marx possono essere considerate “fallite”? Una è la più evidente. Il socialismo non si afferma più facilmente là dove è più sviluppato il capitalismo. Questo già Lenin l’aveva capito e se ne servì per fare la rivoluzione nell’anello più debole del capitalismo mondiale. Viceversa, gli intellettuali marxisti del suo tempo (ma anche quelli di oggi) se ne servirono per dire che in Occidente i tempi non erano ancora maturi per una vera e propria rivoluzione e che quindi bisognava limitarsi a compiere progressive riforme. Una bella differenza tra i due atteggiamenti!
Ma perché Marx era arrivato a sostenere una tesi del genere, che i suoi detrattori, peraltro, definiscono ancora oggi di tipo para-teologico o messianico? I motivi sostanzialmente erano due, tra loro intrecciati. Marx è vissuto in un periodo in cui le contraddizioni del capitalismo erano, in Europa, molto più acute di oggi; egli era convinto che la competizione tra gli Stati non le avrebbe affatto risolte e che la divisione imperialistica del pianeta, che allora iniziava a imporsi, le avrebbe ancor più accentuate. Sia lui che Engels avevano già potuto constatare la regolare frequenza di crisi produttive, la cui intensità – secondo loro – andava aggravandosi.
In effetti, dopo un intenso sviluppo dell’economia europea negli anni 1850-73, vi era stata una grande depressione economica nel periodo successivo, dal 1873 al 1896, cui i paesi capitalisti europei tentarono di porre rimedio con la pratica dell’investimento all’estero (a Londra iniziò verso il 1870). Solo verso il periodo 1896-1914 si può parlare di trionfo dell’economia capitalistica mondiale, pur interrotta da altre due crisi cicliche, nel 1900-1903 e 1907-10. È in questo periodo che avviene la trasformazione del capitalismo in imperialismo, con tanto di trust, cartelli e monopoli internazionali.
Marx quindi si era trovato a vivere, sostanzialmente, nella fase concorrenziale del capitalismo, che in Europa aveva raggiunto il suo apogeo nel 1860-70 e stava iniziando a verificare quella di tipo monopolistico, che avrebbe dovuto peggiorare la situazione. Sia lui che Engels si aspettavano una catastrofe imminente, come p. es. un crollo di borsa, dei fallimenti aziendali e bancari, persino una guerra mondiale. In una situazione del genere – e qui veniamo al secondo motivo – era per loro del tutto naturale pensare che il soggetto più esposto ai colpi della crisi, quello meglio organizzato sindacalmente e più consapevole delle contraddizioni del sistema, e cioè il proletariato industriale, avrebbe reagito in maniera rivoluzionaria, non avendo assolutamente nulla da perdere.
Anche Lenin era convinto di questo, ma si stupiva che gli intellettuali marxisti della II Internazionale non facessero nulla per preparare la classe operaia per il momento decisivo della rivoluzione. Attribuiva questa incapacità organizzativa di tipo strategico (la lotta, secondo lui, si limitava alle rivendicazioni sindacali) a una sorta di “corruzione morale”, dovuta al fatto che gli intellettuali stavano beneficiando – grazie ai frutti dell’imperialismo – di uno stile di vita borghese, che inevitabilmente li portava a cercare dei compromessi col sistema.
Lenin non riteneva la classe operaia occidentale in grado di opporsi a questo progressivo “imborghesimento”, poiché la vedeva accontentarsi troppo facilmente di avere dei salari decenti. Ecco perché nel suo primo importante libro, Che fare?, ipotizzò l’idea che la coscienza rivoluzionaria gli operai dovessero riceverla dall’esterno, cioè da un partito politico di rivoluzionari di professione, che lottano quotidianamente per porre le condizioni di una insurrezione popolare contro il sistema.
Ora, per quale motivo Marx ed Engels non avrebbero dovuto approvare una cosa del genere? Non erano due docenti universitari o due parlamentari lautamente retribuiti: non erano neppure così schematici da sentirsi obbligati a credere in maniera cieca a qualcosa di particolare.
Certo, né Marx né Engels erano dei politici rivoluzionari di professione; semmai erano due teorici, due studiosi, due giornalisti, due organizzatori della I Internazionale, un’associazione pacifica che aveva il compito di coordinare l’attività dei vari movimenti socialcomunisti di tutta Europa e persino degli Usa.
Facevano questo lavoro in condizioni molto precarie e disagiate, soprattutto Marx, continuamente alle prese con una gravissima situazione familiare. Se fossero stati due politici di professione, Lenin non avrebbe dato un contributo teorico decisivo al marxismo, ma si sarebbe limitato a mettere in pratica le loro idee. Invece la diversità fu proprio in questo, che Lenin attribuì alla politica rivoluzionaria un primato decisivo rispetto all’analisi economica delle contraddizioni del capitale.
Lenin fece il critico teorico nella sua lotta contro il populismo e contro la II Internazionale, ma appena poté, volle mettere in piedi un movimento avente il preciso obiettivo di abbattere lo zarismo e di realizzare la transizione dal feudalesimo al socialismo, sfruttando, del capitalismo, soltanto le conquiste tecnico-scientifiche.
Chi non capisce questa sostanziale differenza tra Marx ed Engels, da un lato, e Lenin dall’altro, non è in grado di capire la storia del marxismo, che è anche storia del leninismo (tradite, entrambe, dalla storia dello stalinismo). Non è certamente un caso che chi accusa Marx d’essere stato un visionario utopista, si senta poi in dovere di accusare Lenin d’aver creato un partito “monolitico”, dittatoriale.