Riconciliarsi col proprio passato
Se, in via ipotetica, ammettessimo che la coscienza umana non è il frutto di un processo evolutivo, avvenuto per successive determinazioni quantitative, ma una caratteristica assolutamente originaria, la cui qualità intrinseca non dipende da particolari modificazioni della materia, saremmo poi in un certo senso costretti ad ammettere che con la fine dell’esistenza corporea dell’essere umano non può aver termine anche l’esistenza e quindi lo sviluppo della coscienza.
Cioè se esiste una correlazione tra materia e coscienza, o è negativa, nel senso che alla fine dell’una corrisponde la fine dell’altra, o è positiva, nel senso che non vi è un’origine per nessuna delle due ed entrambe sono destinate a durare nel tempo, influenzandosi a vicenda.
In altre parole: se l’essenza umana coesiste, in origine, con la materia, essa è destinata per sempre a tale coesistenza. Se invece ammettiamo che la coscienza è un prodotto evoluto della materia, dovremmo poi spiegarci perché questo prodotto non è destinato a sopravvivere alla morte del nostro corpo.
Infatti che senso avrebbe, da parte della natura, aver creato un prodotto così complesso e, fino a prova contraria, unico in tutto l’universo, per poi lasciare che si annulli al momento della morte del corpo? Sarebbe un incomprensibile spreco di risorse e di energie.
Delle due l’una: o la coscienza non è un prodotto assolutamente unico nell’universo ed è, in un certo senso, facilmente riproducibile anche in assenza di esseri umani, oppure noi siamo destinati a esistere anche dopo la morte del nostro fisico. Cioè il corpo è solo un involucro che la coscienza si è data per esistere sulla terra, ma, essendo destinati a esistere nell’universo, esso sarà libera di darsi un nuovo involucro, molto probabilmente con migliori caratteristiche qualitative, p. es. in grado di adeguare più facilmente il desiderio alla realtà; o forse soltanto con migliori caratteristiche quantitative, come p. es. la possibilità di viaggiare alla velocità della luce.
In un certo senso dovremmo dire che l’essere umano non è mai nato, proprio perché non morirà mai. Parole come nascere o morire dovremmo reinterpretarle, poiché quando vengono racchiuse in un orizzonte meramente terreno, acquisiscono un significato molto restrittivo. Il nostro pianeta è soltanto il luogo in cui la coscienza universale ha preso una forma corporea determinata, cui però non si sente legata in maniera assoluta.
La coscienza umana terrena è solo il riflesso di una coscienza umana universale: il corpo ch’essa ha assunto ha caratteristiche idonee per il pianeta in cui è stata chiamata a svilupparsi, ma non necessariamente si deve pensare che tali caratteristiche saranno le stesse in un’esistenza extra-terrena. Noi dovremmo considerarci più figli dell’universo che non di un semplice pianeta.
L’universo è la possibilità di ricapitolare tutte le cose, a un livello di consapevolezza che sarà enormemente superiore a quello che possiamo avere su questa terra, ove siamo strettamente condizionati da uno spazio e da un tempo finiti, limitati. Dovremmo, in tal senso, fare uno sforzo di fantasia e immaginarci all’interno di una dimensione spazio-temporale dove tutto è infinito, illimitato, e dove la stessa coscienza può raggiungere livelli di profondità impensabili su questa terra.
Cioè tutto quanto su questa terra abbiamo compiuto, pensando d’essere assolutamente nel giusto, dovrà essere sottoposto al vaglio di una coscienza universale. Nell’universo tempo e spazio coincidono in qualunque momento e luogo, per cui non ci sarà modo di sottrarsi a un giudizio di merito, confidando nel fatto che il passato non può più essere compreso come se fosse un presente.
Finché tutte le scelte compiute su questa terra non avranno trovato il loro punto di chiarimento, sarà impossibile andare avanti, pensando di poter fare qualcosa in comune. Il genere umano di tutti tempi dovrà riconciliarsi con se stesso. Non possiamo rischiare di ripetere nell’universo gli stessi madornali errori che abbiamo compiuto su questa terra e che ci sono costati immani sofferenze.
È anche vero però che nessuno può essere obbligato a credere in cose in cui è implicata la libertà di coscienza. Questo quindi vuol dire che il processo di umanizzazione dovrà poter andare avanti anche se una parte dell’umanità non ne vorrà sapere. Cioè se l’adeguamento del desiderio alla realtà non potrà essere il frutto di un’azione meramente soggettiva, che non tenga conto della libertà altrui, è anche vero che non ci potranno essere impedimenti allo sviluppo della coscienza altrui da parte di chi non vuole riconciliarsi col proprio passato.
Chi vuole migliorare se stesso, deve poterlo fare in libertà, rispettando la libertà altrui, e non potrà certo essere impedito dal farlo dalla non-libertà altrui. Nell’universo non esistono principi giuridici del tipo “chi ha sbagliato paga”, come, d’altra parte, non esiste alcuna verità autoevidente, che s’impone da sé. L’essere umano avrà soltanto la consapevolezza di poter migliorare se stesso, e il primo modo di farlo sarà quello di riconciliarsi col proprio passato, poiché questo, in una dimensione infinita di spazio tempo, gli è sempre presente.
Se Sartre ha ragione e Baudelaire è colui che, prima d’ogni altro, ha compreso che l’uomo si realizza solo se può abbandonare la situazione data superandola verso un “al-di-là” che la trascende, allora il filosofo può concluderne che l’uomo di Baudelaire rappresenta l’opposto di quello di Pascal. Infatti, l’uomo di Pascal, “ni ange, ni bête”, appare statico, come sospeso tra la bestialità e lo stato angelico mentre l’uomo baudelairiano è in movimento perpetuo verso l’alto (transascendenza) o verso il basso (transdiscendenza). Questa trascendenza verso l’alto o verso il basso implica, ovviamente, l’esercizio della libertà umana. A questo punto, Baudelaire si china su questa libertà come ci si sporge verso un abisso e viene colto dalla vertigine. Infatti, Baudelaire viene definito da Sartre, con una felice espressione, “l’homme qui se sent un gouffre” (ivi, p. 40) : il suo sguardo incontra la condizione umana, ne scopre l’assoluta, “abissale” libertà e sperimenta un acuto terrore di fronte a quella vista. La libertà, infatti, è, come abbiamo visto con Camus, “lourde à porter” : essa necessita di uomini pronti a lanciarsi in questo abisso misterioso, oscuro, senza pareti, in cui il Male ed il Bene, una volta facilmente riconoscibili, sono diventate delle categorie da reinventare. Non solo : l’uomo stesso è diventato una creatura costretta a inventarsi, che può trovarsi solo “lanciandosi” fuori di sé, che ha bisogno di farsi per essere, senza alcun faro in lontananza che illumini la sua coscienza.
Bellissimo commento! Complimenti! Strano però che il tuo nome porti a questo sito http://smart-drugs.net/
Va tenuto presente che il concetto di sottrazione, se implica la mancanza di possesso da parte dell’autore, implica altresì il dissenso del possessore. Una volta verificatasi la detta sottrazione, il consenso successivo o la ratifica del possessore non escludono l’esistenza del reato.
Caro Enrico,
arrivo con molto ritardo per un commento sul tuo “post”;meglio tardi che mai ,direbbe un mio amico, ma ho pensato bene di commentarlo ugualmente, dato l’estremo interesse che l’argomento suscita di per sé.
Allora, due argomenti di carattere scientifico a cappella delle mie conclusioni che altro non saranno che porre nuovi interrogativi, data la natura stessa dell’argomento,visto che comunque, fino ad ora, mai nessuno è tornato indietro dalla morte fisica per spiegarci alcuna cosa e se eventualmente ciò fosse accaduto sotto altre forme ,almeno per quanto mi riguarda, non né ho mai avuto il minimo sentore, il che, agli effetti pratici è come se non fosse successo nulla .
Un pò come chiederci cosa c’era prima del Big-Bang, visto che “prima”,in termini di tempo,anche quest’ultimo era quantizzato e quindi non esprimibile almeno per il momento attraverso il linguaggio comune fin qui sviluppato.
Ho usato il condizionale, proprio perchè il metodo che da anni, mi sono imposto, rifiuta gli assoluti.
Dunque,
A) leggevo da un vecchio testo di divulgazione scientifica, tempo fa, le seguenti considerazioni:
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Ora sappiamo che nel maelstrom ad alta densità e alta temperatura dei primi momenti dell’universo potevano esistere soltanto oggetti assolutamente primordiali; qualsiasi combinazioni transitoria come i protoni,per non parlare delle molecole,si sarebbe disintegrata più in fretta di una farfalla finita nel cratere di un vulcano.Perciò la ricerca dell’elementare sottende sia la fisica delle particelle che la cosmologia del primo universo.E’ anche vero,però,che la nostra idea di elementare si modifica con la qualità degli strumenti di osservazione.
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La prima considerazione che personalmente traggo è che la nostra percezione dipende quindi dall’affinarsi vieppiù dalla qualità degli strumenti di osservazione, che a quanto mi risulta, sono in ultima analisi, prodotto umano,possa piacere o meno, il frutto di un lavoro collettivo dell’intera umanità nel corso dei secoli.
Qualcuno potrebbe obiettare che in questo caso, trattasi di comunità scientifica, il che però non sposta di una virgola il concetto finale che Noi siamo, quanto “ci” conosciamo, in base a ciò che gli strumenti di osservazione da noi prodotti, ci dicono .
Strumenti di osservazione della natura,non solo non tecnologici ,ma che restano un prodotto collettivo che :”ci hanno detto ,ci dicono o ci diranno”, nei vari stadi dell’evoluzione” sull’essere umani”.
Quindi sembrerebbe una lunga storia che a partire dall’estremamente elementare ci porta all’estremamente complesso,quale per esempio il cervello umano e qui voglio parlare piuttosto che di volumi,di possibilità.
Infatti se il numero dei protoni che si calcola essere presenti parrebbe di per sè un numero spaventosamente alto 10 all’ottantesima potenza,il numero di Holderness ci parla in questi termini :
Nel XVII secolo il fisico inglese Robert Hooke fece un calcolo «delle idee distinte che la mente è in grado di tenere presenti». La risposta cui giunse era 3.155.760.000. Per quanto grande questo numero possa sembrare (non vi basterebbe tutta la vita per arrivarci contando!) oggi sarebbe considerato una clamorosa sottostima. Il nostro cervello contiene circa dieci miliardi di neuroni, da ciascuno dei quali si dipartono dei tentacoli, o assoni, che lo connettono a circa mille altri. Tali connessioni svolgono un ruolo nella generazione dei nostri pensieri e ricordi. Come ciò avvenga è ancora uno dei segreti più riposti della natura. Mike Holderness propone che uno dei modi per stimare il numero dei possibili pensieri che un cervello può concepire sia di contare tutte queste connessioni. Il cervello è in grado di fare molte cose contemporaneamente, per cui potremmo pensarlo come un certo numero – diciamo un migliaio – di piccoli gruppi di neuroni. Se ciascun neurone effettua un migliaio di differenti collegamenti con dieci milioni di altri nello stesso gruppo, allora il numero dei modi diversi in cui potrebbe formare connessioni nello stesso gruppo di neuroni è 10^7 x 10^7 x 10^7 x … mille volte. Ciò fornisce 10^7000 possibili configurazioni di collegamento. Ma questo non è che il numero relativo a un solo neurone del gruppo. Il numero totale per 1O^7 neuroni è 10^7000 moltiplicato per sé stesso 10^7 volte. Ciò equivale a 10^70.000.000.000. Se i circa 1000 gruppi di neuroni possono operare in modo indipendente l’uno dall’altro, allora ciascuno di essi contribuisce al totale con 10^70.000.000.000 possibili connessioni, facendolo salire fino al numero di Holderness, 10^70.000.000.000.Questa è la stima moderna del numero delle diverse connessioni elettriche che il cervello potrebbe contenere. In un certo senso è il numero dei differenti pensieri o idee possibili che un cervello umano potrebbe avere. Sottolineiamo il potrebbe. Questo numero è così enorme da far scomparire quello degli atomi nell’universo osservabile: un misero 1O^80. Ma a differenza di questo, esso non deriva la propria immensità dal fatto di riempire un volume enorme con oggetti piccoli. Il cervello ha dimensioni piuttosto modeste: contiene soltanto 1O^27 atomi circa. Il numero immenso dipende dalla potenziale complessità delle innumerevoli connessioni tra i suoi componenti. Questo è appunto ciò che intendiamo per complessità. Essa deriva dal numero dei modi differenti in cui i componenti possono essere connessi tra loro, piuttosto che dall’identità di tali componenti. E poiché questi numeri davvero grandi dipendono dal numero delle permutazioni possibili in una rete complessa di commutatori, essi non saranno spiegabili in termini delle costanti di natura nel modo in cui lo sono i grandi numeri dell’astronomia. Essi sono non soltanto più grandi; sono anche diversi.
Alla luce di quanto esposto temo che con il nostro passato sia individuale non sia possibile una riconciliazione, ma bensì una costante reinterpretazione,così come si presume che dalla natura si sia passati dall’estremamente semplice all’estremamente complesso, (anche se questo è pur sempre fatto in ultima analisi, di cose estremamente semplici).
Per la coscienza ,anche in questo caso sia essa individuale o collettiva se la intendiamo così come ci spiega Carlo Augusto Viano nella sua ultima fatica spiegandoci come essa nasca storicamente : “un fare della legge morale il contesto naturale della coscienza,ben più importante degli scrupoli,dei sensi di colpa delle intenzioni riposte,richiamandosi a Paolo costretto da una difficile situazione,è meglio lasciar perdere, poiché da tale interpretazione “di poi” da parte di giuristi e teologi, sono nati parecchi equivoci e disgrazie.
Meglio a mio avviso ,sempre parlare di conoscenza in senso lato e non prettamente di conoscenza di se stessi.
Come al solito una dura fatica quotidiana,collettiva ed individuale !
cc
EC-non solo non tecnologici
Va letto ovviamente come :non solo tecnologici
Quando si parla di essere umano, la “complessità” non è solo “estremamente complessa” ma addirittura “indicibilmente complessa”, cioè non abbiamo né le parole per definirla né gli strumenti per misurarla.
E’ questo il motivo per cui credo che il concetto di “evoluzione”, applicato all’essere umano, vada reinterpretato, in quanto non è possibile passare, a questi livelli di complessità, da una semplice determinazione quantitativa a una inedita (perché tale è nell’universo, fino a prova contraria) determinazione qualitativa.
Mi riesce difficile pensare che l’uomo sia un “prodotto” della natura, a meno che non mi si dica che è vero anche il contrario. E con questo non voglio affatto sostenere che esista da qualche parte un essere diverso da quello umano, poiché credo che al di fuori dell’umano non esista proprio nulla nell’universo.
Le cose, al momento, si possono solo percepire, non dimostrare. Il feto, nel ventre della madre, percepisce l’esistenza di qualcosa diverso da sé, ma finché non nasce non lo può dimostrare; anzi, quando nasce, non ha neppure bisogno di “dimostrarlo”, in quanto ciò che prima percepiva ora lo può vedere coi suoi occhi. Quindi quel che prima gli sembrava esterno, ora gli si “mostra”, e lo vede come “suo”.
Noi sulla Terra siamo come nel ventre di qualcosa.
Per quel che mi riguarda non ci sono risposte,ma solo ricerca!
Può darsi che questo possa non piacere,ma temo che questa sia l’unica risposta,che lascia ampio margine a molte ipotesi alle quali ognuno può aderire.
Il pericolo è creare degli assoluti o dei definitivi,poiché questi alla lunga possono prefigurare dei sacerdoti,anche se ognuna delle ipotesi nasce in buona fede.