Se il sonno è una raffigurazione simbolica della morte, il risveglio lo è della rinascita. In mezzo vi è il sogno, che esprime l’esigenza di una riconciliazione tra morte e rinascita. Nel sogno si rivivono desideri repressi, frustrazioni, paure, angosce, sensi di colpa, ritorni al passato, incontri con persone morte, pianti, pentimenti…: nel sogno c’è tutta la vita, a cui bisogna dare un significato complessivo, che racchiuda tutto e permetta di risvegliarsi con soddisfazione. Anche adesso, appena ci si sveglia, si ha voglia d’iniziare una nuova giornata, sempre che la vita abbia per noi un senso e che non sia vissuta in uno stress insopportabile.
Quindi dopo la morte dobbiamo aspettarci un seguito, qualcosa da fare. Ma in che senso? Ripercorrere il passato, per poter andare avanti, fino a che punto è giusto? Il passato può essere ricompreso, memorizzato adeguatamente, ma non ha senso riviverlo: si deve proseguire il cammino nelle nuove condizioni di vita che ci verranno date e che sicuramente avranno forme diverse da quelle attuali.
Non è inutile o superfluo il tempo vissuto sulla terra, poiché sarà proprio dalla fine del nostro tempo che dovremo ripartire. Non ha senso ripetere le cose: sarebbe come burlarsi della nostra intelligenza. Se abbiamo sbagliato, verremo messi in grado di capirne il motivo e, a tale scopo, ci basterà l’intelligenza o la sensibilità.
Faremo ammenda delle nostre colpe e ripartiremo, questa volta col piede giusto. Il problema, semmai, sarà per chi ha compiuto crimini orrendi, per i quali ha bisogno d’essere perdonato da chi li ha subiti. Le vittime devono mettere i carnefici in grado di perdonare se stessi. E finché non lo fanno, sarà difficile poter andare avanti: lo sarà sia per i carnefici che per le stesse vittime. Quest’ultime, infatti, devono sapere che il perdono concesso ai carnefici farà star bene anche loro. Il perdono serve a chi lo riceve e a chi lo dà. I sentimenti di odio e di vendetta o di risentimento non fanno fare neppure un passo in direzione dell’umanizzazione della personalità.
Di questa condizione di precarietà spirituale o d’impotenza morale dovremmo già essere edotti su questa terra. Tutti dovrebbero temerla, soprattutto i carnefici (assassini, violentatori, criminali…), i quali invece pensano di non dover rendere conto delle loro azioni alle vittime in persona. Cioè, al massimo, quando vengono smascherati o catturati, pensano di cavarsela di fronte alla giustizia. E la giustizia contribuisce a tale illusione, assegnando loro sentenze capitali o ergastoli o inducendoli al suicidio.
Tutti invece dovremmo essere consapevoli del fatto che la morte non esiste: esiste solo trasformazione, per cui bisogna rendere conto di sé proprio alle vittime, singolarmente prese. È bene sapere da subito che siamo destinati a vivere, in quanto l’essenza umana è eterna. E se non ci si riconcilia con queste vittime, ci si preclude la possibilità di migliorare se stessi. Si resta paralizzati nelle proprie colpe.
Il perdono, per quanta fatica possa costare, è solo una condizione minima, non è l’obiettivo finale. È certamente la condizione che ci permette di andare avanti, ma, una volta che la si è posta, il più resta ancora da fare. L’essere umano è fatto per realizzarsi facendo: non può stare fermo.
Bisogna dunque fare in modo che vittima e carnefice abbiano la possibilità di compiere qualcosa insieme, per il bene di entrambi e della collettività di appartenenza. Bisogna essere capaci di ammettere i propri errori, per riuscire a progettare il proprio futuro. Spesso anche la vittima deve farlo, poiché non deve illudersi che il fatto d’aver subito una gravissima offesa la esime dal compiere un esame di coscienza: si può essere colpevoli di cose di cui non si ha consapevolezza.
Chi non ha flessibilità è spacciato. Senza elasticità mentale, ci si emargina da soli. Rischiamo di diventare un’intelligenza sprecata, una risorsa inutilizzata. L’orgoglio smisurato di chi non è capace di riconoscere i propri errori, lo rende umanamente molto povero, psicologicamente fragile e anche intellettualmente schematico, fossilizzato nelle proprie idee, nelle proprie assurde posizioni di principio. Chi non comprende che nel cambiamento continuo sta il senso della vita, si condanna all’immobilismo, alla ristrettezza mentale.
Piuttosto bisognerà fare in modo che il perdono non sia di maniera, cioè puramente formale, e che avvenga nella convinzione d’aver compiuto un’azione effettivamente sbagliata. Ci vuole chiarezza per chiedere perdono e per essere perdonati. Si deve essere sicuri d’aver sbagliato. Ci vuole un senso della verità sufficientemente oggettivo, che vada cioè al di là delle convinzioni personali del carnefice e della sua vittima.
Ecco, in questo senso è giusto ricapitolare il passato, reinterpretarlo alla luce di una verità oggettiva. La quale certamente non può essere data come cosa esterna al soggetto, ipostatizzata: una verità oggettiva può scaturire solo da un confronto tra le persone. Non c’è nessun dio nell’universo, nessuno può sostituirsi a noi nella ricerca della verità.