Imputato e colpa
Quando nei processi si giudica qualcuno e ci si attiene esclusivamente alla legge si ha più possibilità di sbagliare che non attenendosi esclusivamente all’etica. Applicare la legge ai casi umani, che sono sempre infinitamente complessi, anche quando appaiono semplici, non ha molto senso. Anche se i giudici avessero in mano migliaia di codici e migliaia di riferimenti a casi analoghi a quello che devono giudicare, non sarebbero per questo più agevolati. La realtà è che gli esseri umani non possono essere “giudicati” da altri esseri umani. Possono solo essere capiti.
Di fronte a qualcuno accusato di qualcosa, noi non dovremmo mai né giustificare né condannare, proprio perché non possiamo farlo. E i motivi sono tanti: p. es. perché conosciamo troppo o troppo poco l’imputato. In un caso possiamo avere dei conflitti di interesse; nell’altro rischiamo di fidarci troppo delle apparenze, delle impressioni, delle opinioni o testimonianze altrui. Per non parlare del fatto che ci portiamo sempre dietro i nostri pregiudizi, le nostre concezioni di vita.
Noi non siamo mai nelle condizioni migliori per poter giudicare in maniera adeguata qualcuno: o siamo troppo coinvolti nelle sue vicende (e allora è come se, in realtà, dovessimo giudicare noi stessi, e nessuno è così obiettivo da poterlo fare), oppure il caso ci appare troppo estraneo (e allora il nostro giudizio può essere condizionato da altri fattori: p. es. la fretta di concludere il processo o il timore di subire conseguenze a seconda di come ci si pone nei confronti dell’accusato).
L’idea che esistano delle “prove schiaccianti” non aiuta assolutamente a definire la colpevolezza di un imputato. Per poter capire davvero un reato non abbiamo bisogno né di prove né di testimonianze. Il fatto che un crimine venga individuato con certezza non significa, di per sé, che si sia anche in grado di capirlo adeguatamente. Si pensi solo al fatto che chi subisce un torto è generalmente convinto, solo per questo, di avere tutte le ragioni di questo mondo. E qui non stiamo neppure a discutere se davvero possa esistere il concetto di “prova inconfutabile”: se esistesse un concetto del genere, non si darebbe così tanto peso al concetto di “alibi”, né si cercherebbe di produrre falsi indizi o di deviare le indagini o di cercare false testimonianze o di manipolare i reperti.
Uno può pensare che tutto ciò viene fatto proprio perché esistono “prove inconfutabili”, ma chi è disonesto sa bene che tutto può essere “falsificato” e che operazioni del genere possono dare anche i loro frutti nei processi. Quanto alle testimonianze oculari, da tempo è noto che uno vede solo ciò che vuol vedere o che “pensa” di aver visto. L’evidenza della verità è solo un’illusione. E quando si fa giurare qualcuno di dirla, si è soltanto ridicoli. Uno la verità non potrebbe dirla neanche se lo volesse, proprio perché con certezza non può saperla.
Neppure un’esplicita ammissione di colpa potrebbe risultare sufficiente. Non serve a nulla, sul piano etico, pentirsi per avere uno sconto della pena, tanto più che non è detto che un imputato possa avere piena consapevolezza di ciò che ha fatto solo perché l’ha fatto. Probabilmente se uno potesse avere una consapevolezza del genere, non farebbe alcun crimine (almeno così la pensava Socrate, il più grande filosofo dell’antichità).
I giudici, la giuria, gli avvocati, la pubblica accusa, i parenti dell’imputato, quelli della vittima, le forze dell’ordine che assistono al processo, ma anche i giornalisti, il pubblico curioso o interessato…, insomma tutta la società ha bisogno di sapere le motivazioni di fondo che hanno indotto a compiere un determinato reato o crimine. Cioè le circostanze che le hanno generate e le eventuali attenuanti o aggravanti, correlate al fatto, che si possono far valere: non a titolo di mera curiosità, ma nella speranza che la cosa non si ripeta.
Le circostanze sono sempre quelle socio-ambientali, in cui può maturare un reato o un crimine. Chiunque infatti è in grado di notare che, a parità di circostanze, uno delinque, l’altro no. Per quale motivo? Uno dovrebbe essere giudicato dai suoi pari, cioè da quelli che, pur vivendo medesime circostanze, han deciso di comportarsi diversamente. Nei processi dovrebbero essere presenti solo le persone che, in un modo o nell’altro, conoscevano l’imputato e potevano accedere, in un modo o nell’altro, ai suoi ambienti. E tutti dovrebbero essere interpellati, per poter avere un quadro sufficientemente chiaro della personalità e della vita dell’accusato.
Il processo dovrebbe soltanto avere lo scopo di far capire all’accusato fino a che punto avrebbe potuto comportarsi diversamente, sulla base delle testimonianze raccolte. Le quali appunto non dovrebbero essere utilizzate a suo carico, ma proprio per fargli capire che esiste sempre la possibilità di agire diversamente. Dovrebbero essere testimonianze aventi una finalità pedagogica. Occorre cioè far capire a tutti, e non solo all’imputato, il valore delle opzioni, delle possibilità di scelta. Infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, chi compie un reato o un crimine sostiene che non aveva scelta. Ma se davvero mancasse la libertà di decidere, dove starebbe la colpa? A che pro giudicare uno destinato a delinquere? Dovrebbe anzi essere la società a chiedersi il motivo per cui, in certe situazioni, non esiste possibilità di scelta.
Noi diciamo che le persone non vanno giudicate per le loro idee ma per quello che fanno. Eppure il più delle volte le cose si compiono sulla base di certe idee o convinzioni. Dunque dovrebbe vertere su queste idee il dibattimento processuale. Uno dovrebbe arrivare a convincersi d’aver sbagliato, a prescindere dalla pena prevista. La quale, comunque, non può certamente basarsi sul carcere, cioè su una reclusione meramente punitiva. Chi ha sbagliato deve essere recuperato, altrimenti sarà indotto a ripetere il crimine o anche a far di peggio. La pena deve essere rieducativa. Quando uno si convince d’aver sbagliato, è già punito: a partire da quel momento gli deve esser data la speranza di reintegrarsi, proprio perché una persona non va mai condannata, ma recuperata.
Lo stesso criminale che, dopo essersi pentito, subisce un torto, deve dimostrare una maturità sufficiente a comportarsi diversamente da come avrebbe fatto prima del pentimento. Gli sbagli che nella vita si compiono devono servire per non ripeterli. Bisogna guardarli con fiducia, non con pessimismo, anche perché la perfezione non esiste: non è forse vero che spesso facciamo sbagli senza neppure accorgercene?
Le leggi esistenti, i codici, i casi analoghi, accaduti in precedenza, dovrebbero servire soltanto come spunto di riflessione, giusto per far capire all’imputato che non è un caso speciale, mai accaduto prima. Uno deve togliersi di testa l’idea di dover essere sottoposto, per una qualche ragione, a un trattamento di favore. L’etica è terribilmente più importante del diritto.
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