Uscire dalla dittatura del sistema
Gli umani possono davvero fare quello che vogliono? Se un singolo cerca di opporsi a delle forze collettive, assolutamente no. E non dimostrerebbe d’essere più libero neppure se si desse fuoco, nella speranza di suscitare un generale risentimento verso i poteri costituiti.
Le proteste individuali possono valere appunto come proteste, ma valgono assai poco come proposte: sia perché vengono col tempo riassorbite dal sistema, sia perché tendono a sgonfiarsi da sole, in quanto il singolo, obiettivamente, più di tanto non può fare.
Quindi, se è lecito protestare da individui isolati, è inutile continuare a farlo senza associarsi ad altre persone. Le cose, se davvero si vuole che cambino, possono cambiare solo se si sta insieme. È l’unione fa la forza. E il numero rende l’unità ancora più forte. Quanto più si è, tanto più si ha la possibilità di cambiare le cose. L’unica differenza tra una riunione condominiale e uno sciopero generale nazionale sta soltanto nell’obiettivo che ci si pone.
Ma se queste cose le sappiamo, perché siamo così refrattari a organizzarci in partiti, movimenti e sindacati? Il motivo è semplice: gli italiani, per secoli, han vissuto in maniera frustrante e oppressiva la politica in senso lato, quella intesa come “partecipazione attiva al bene comune”. Sono stati per troppo tempo abituati a obbedire. E anche quando han cercato di alzare la testa, han pagato duramente questa pretesa.
Son duemila anni che andiamo avanti così. Abbiamo iniziato coi senatori romani latifondisti, poi con gli imperatori militari, poi coi re barbarici, poi coi papi teocratici, poi coi principati dinastici, infine con lo Stato centralizzato. Non abbiamo mai smesso di obbedire. L’unico modo di fare politica è sempre stato quello di conformarsi ai poteri dominanti, eventualmente fingendo di assecondarli. Tutte le varie forme di opposizione al sistema sono servite soltanto per passare da una dittatura all’altra: oggi, p. es., abbiamo la dittatura della democrazia parlamentare.
Sono cambiate le forme dell’oppressione, non la sostanza. E così gli italiani si trovano ad essere schierati in due campi relativamente avversi: i conformisti, che lottano per spartirsi fette sempre più grandi di potere, disposti a compiere qualunque abuso; e gli insofferenti, che non sopportano regole troppo rigide, non amano la burocrazia, non accettano la disciplina del partito o del sindacato, sopportano con un certo fastidio le riunioni formali o dovute e, al massimo, si riconoscono nel valore di una piccola comunità o della famiglia e di pochi amici e colleghi.
Gli insofferenti sono individualisti come i conformisti, solo che questi, per fare carriera, hanno messo la moralità sotto i piedi. Tuttavia in entrambi i casi è il sistema che vince. Cioè quello che manca agli insofferenti è la capacità di aggregarsi, ponendosi come obiettivo il superamento della logica dominante. Vivono rassegnati, illudendosi che basti firmare qualche petizione di protesta o votare un partito in luogo di un altro o non votare affatto.
Noi dobbiamo creare un sistema in cui la libertà di ognuno non si debba sentire coartata ma potenziata dalla libertà degli altri. Cioè un sistema in cui, pur sapendo di doversi esprimere entro determinati condizionamenti, si sia convinti di poter ottenere di più in questa maniera che agendo individualmente.
Ma un sistema del genere presume una cosa di fondamentale importanza: il controllo reciproco. Una qualunque democrazia non ha alcun senso se non è localmente autogestita, in cui i controlli siano effettivamente possibili e non puramente teorici.
I poteri che si conferiscono alle persone dovrebbero essere inversamente proporzionali alla distanza che le separa dalle comunità locali di riferimento o di appartenenza. Cioè tanto meno forti quanto più si è lontani.
L’unica strada per abbattere il sistema è quella di ampliare progressivamente le prerogative delle comunità locali, riducendo al minimo le forme di dipendenza dai poteri centralizzati, siano essi politici o economici. Dobbiamo trovare un’alternativa per cui valga la pena vivere e, se necessario, anche morire.