La verità fa male a chi non sa mentire
Quando uno pone una domanda del genere: “Che cos’è la verità?”, vien da chiedersi se stia scherzando o se sia cinico. Neanche i bambini se la pongono, perché, nella loro beata innocenza, sanno istintivamente che cosa sia, relativamente al loro “piccolo mondo antico”, così tanto amato dal Pascoli “fanciullino”.
Possibile che un adulto debba essere così diverso da aver completamente dimenticato ciò che in lui era naturale? Uno che avesse coscienza di questa grave rimozione, assai peggiore di tutte quelle freudiane, dovrebbe preoccuparsene seriamente, chiedendosene quanto meno la ragione. E cercare di capire se vi sia qualche possibilità di rimedio.
La verità rende liberi, in coscienza naturalmente, avendo la vita bisogno anche della giustizia: lo sappiamo da millenni. Dunque perché viviamo come schiavi? Potremmo fare a meno di queste catene o vi siamo costretti? Possibile che la falsità sia diventata la regola e la verità l’eccezione?
Qui infatti non è neanche il caso di parlare di bugie dette a fin di bene; non è in discussione l’esigenza di non poter dire tutta la verità: cosa inevitabile quando, chi ci ascolta, non è sufficientemente maturo per reggerla. Qui non stiamo parlando di quelle mezze verità o mezze bugie che si dicono per non offendere qualcuno, per non apparire scortesi, per non creare incidenti diplomatici, per non mettere in imbarazzo o tradire un amico, per non sfigurare di fronte al proprio partner o per non farlo sentire in colpa.
Qui stiamo parlando del fatto che come apriamo bocca, mentiamo. Dire falsità ci è diventata una seconda natura, quasi un istinto insopprimibile. Siamo così bravi a farlo che anche la macchina della verità ci fa un baffo. Tant’è che nei processi americani non la considerano minimamente. In un paese dove gli attori diventano presidenti e i presidenti recitano come attori, farebbe ridere il contrario.
Insomma, ogni giorno che passa diamo sempre più per scontato che la verità non esiste, e quando qualcuno fa delle affermazioni probanti o persuasive, le consideriamo mere opinioni e siamo disposti a credervi solo se vi siamo indotti da qualcosa che è più forte di noi: p. es. un desiderio di rivalsa dopo anni e anni di frustrazioni o di promesse che altri non hanno mantenuto, in cui abbiamo creduto inutilmente. Non ci fidiamo di qualcuno perché pensiamo dica la verità o perché conduce una vita esemplare, ma perché gli altri ci disgustano.
Sapere che qualcuno dice la verità c’interessa fino a un certo punto. Quel che più ci preme, infatti, è sapere se da ciò che si è ascoltato, possiamo ricavarci qualcosa. Crediamo in certe affermazioni non perché le riteniamo vere, ma perché possono servirci: la verità sta nell’interesse o nell’utilità. Non esiste la verità in sé o, se esiste, non possiamo dirla, anzi, neppure vi riusciamo. Dobbiamo vivere come se non ci fosse. E non è sufficiente togliere l’interesse o l’utilità per farla emergere, perché in una società, anzi, in una civiltà individualistica e materialistica come la nostra, è impossibile farlo.
Quando si è reciprocamente nemici, bisogna anzitutto difendersi, e il primo modo di farlo è quello di mentire. La prima regola fondamentale per sopravvivere è quella di non dire mai quello che si pensa, anzi, possibilmente è meglio dire il contrario, e di farlo ripetutamente, affinché chi ci ascolta non abbia l’impressione che qualche volta mentiamo e qualche volta no. Dobbiamo essere coerenti nel male che facciamo, proprio per essere più credibili.
Dobbiamo far credere di dire la verità mentendo: questa è un’arte che si acquisisce solo con un certo addestramento. E se qualcuno ci scopre incoerenti, subito dobbiamo accusare qualcun altro o di averci frainteso o di averci impedito con la forza di realizzare i nostri sogni. Un capro espiatorio cui far scontare il peso delle nostre menzogne, si può sempre trovare.
A questo punto ci si può chiedere: si può continuare ad andare avanti così? Non stiamo forse rischiando di arrivare a un punto in cui qualunque cosa si dica, a prescindere dal ruolo che si ricopre, non verrà mai creduta? Pensiamo davvero che per credere nella verità sia sufficiente che qualcuno giuri sulla testa dei propri figli o, se ci crede, sulla Bibbia? È difficile pensare che uno, da sempre abituato a mentire, si possa spaventare davanti al giudizio di dio o a quello dei propri figli. Troverà sicuramente delle buone motivazioni per giustificarsi, e allora dovranno essere i figli o lo stesso padreterno ad ammettere di non averlo capito. Nessuna pena può impensierire il bugiardo incallito, a meno che noi, invece d’imitarlo, smettessimo di credergli.
In Italia, peraltro, quando mai qualcuno viene scoperto a mentire o si pente per le menzogne che ha detto? Nel migliore dei casi si patteggia, ma a porte chiuse, quelle del tribunale o della propria coscienza. Nei tribunali non esiste la verità, ma solo una posizione di comodo, in linea col rispetto puramente formale delle regole. Agli avvocati non interessa neppure “sapere la verità”, quanto di vincere la causa e intascare la parcella: il cliente viene tanto più difeso quanto più paga.
Ai processi dovrebbero chiedere agli imputati di pronunciare una formula di rito molto semplice: “Provi in coscienza a dire la verità e la Corte s’impegna a tenerne conto il più possibile”.