Un Marx ingenuo?
Il fatto che Hegel, pur dentro un guscio mistico, abbia potuto scoprire le leggi della dialettica, avrebbe dovuto portare a credere che la tesi marxiana secondo cui “l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini” – come viene detto nella prefazione al Capitale del 1873 -, è una tesi vera solo parzialmente.
Infatti vien da chiedersi come abbia potuto Hegel scoprire le fondamentali leggi della dialettica in una Germania economicamente molto più arretrata di Francia e Inghilterra. Evidentemente egli seppe trasformare una limitatezza materiale in una ricchezza culturale. Ma da dove gli veniva questa capacità intellettuale? Gli poteva venire solo da una cosa, dalla stessa che influenzerà le grandi filosofie di Kant, Fichte, Schelling e dello stesso Marx: il protestantesimo. E’ stata questa religione laicizzata che in Germania aveva liberato il pensiero dalle catene della Scolastica.
In Germania i filosofi potevano permettersi il lusso di fare una rivoluzione del pensiero, senza aver bisogno di passare espressamente al sistema di vita borghese. Non c’è altra spiegazione storica. Anzi, rebus sic stantibus, risulta alquanto limitato sostenere che il capitalismo va visto come “un processo di storia naturale, che non può rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente il prodotto, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”, come viene detto da Marx nella prefazione al Capitale del 1867.
Se ci si può “elevare” al di sopra dei rapporti capitalistici, sottoponendoli addirittura a critica, come ha fatto magistralmente lo stesso Marx, allora non c’è un mero “processo di storia naturale“, ovvero il capitalismo appare come un processo naturale solo fintantoché non emergono forme di consapevolezza che ne chiedono il definitivo superamento, anche in assenza di un suo forte sviluppo, come appunto avverrà nella Russia di Lenin, il quale diceva che il proletariato industriale al massimo arrivava a una coscienza sindacale e che, per questa ragione, se davvero voleva cambiare il sistema, diventando rivoluzionario, doveva accettare una consapevolezza “dall’esterno”, quella degli intellettuali.
L’idea di Marx secondo cui il capitalismo è destinato ad essere superato dal socialismo, è un’idea che induce alla rassegnazione o, al contrario, a un ottimismo ingiustificato, basato su una concezione provvidenzialistica della storia, che nel Capitale ha le sue basi nell’economia (cioè nel nesso tra rapporti e forze produttive), è un’idea che indebolisce la capacità di resistenza della classe operaia. Se ci si può “elevare”, bisogna combattere subito i sistemi disumani e alienanti in cui si è costretti a vivere, usando tutti i mezzi a disposizione, senza aspettare che la loro forza riduca a un nulla le nostre istanze. Le vere differenze stanno semmai nelle forme organizzative della lotta, cioè nella tattica e nella strategia.
Evidentemente a Marx, subito dopo la pubblicazione del primo volume del Capitale, dovevano essere giunte delle critiche sul metodo usato, che somigliava troppo da vicino a quello hegeliano, basato su una dialettica intesa come successione necessaria di fasi, ognuna delle quali va considerata anticipatrice della futura sintesi.
A differenza di Hegel, Marx poteva anche dire di essere esplicitamente ateo, poteva anche dire d’essere partito dall’economia politica e non da una filosofia astratta, poteva anche voler trasformare e non soltanto interpretare il mondo, ma la categoria della necessità veniva usata nella stessa identica maniera. Lo dimostra anche il fatto che nelle sue prefazioni al Capitale egli prevede un futuro capitalistico per tutte le nazioni europee, anzi per il mondo intero. Non ritiene possibile giungere al socialismo saltando la fase del capitalismo. Questo voleva dire usare la categoria della necessità in maniera giustificazionista.
A questo punto l’unica vera differenza tra lui e il suo maestro Hegel stava unicamente nel fatto che questi, in veste di accademico, l’aveva usata per legittimare uno Stato reazionario come quello prussiano, mentre lui, da ebreo errante e apolide, non poteva pensare che a una società utopica.
Forse più che “maestro del sospetto” avrebbe dovuto essere definito “campione di ingenuità”, nel senso che se c’è una cosa che non avviene in maniera necessaria è proprio una transizione progressiva da una formazione sociale all’altra. Non solo perché gli uomini arrivano ad un certo punto ad abituarsi così tanto alle contraddizioni antagonistiche che quasi più non le riconoscono, accettandole come una loro “seconda natura”, cioè un semplice dato di fatto, sperando, nel migliore dei casi, in un decisivo “aiuto esterno”, un aiuto anche “barbaro” contro una presunta civiltà, come appunto avvenne alla fine dell’impero romano.
Ma anche quando avvengono queste tragiche transizioni, in genere non si conserva nulla della precedente civiltà, in quanto si vuole ricominciare tutto da capo, proprio perché ci si accorge abbastanza facilmente che, in presenza di una nuova concezione di vita, determinate strutture economiche e materiali non servono a nulla e devono essere abbandonate o riciclate per usi del tutto diversi.
Metà della sua vita Marx la spese per studiare un sistema che non è destinato a crollare automaticamente e che quando verrà distrutto da qualche forza, interna o esterna, non conserverà nulla di utile per creare una vera alternativa.