Le unità produttive per uscire dal sistema

Di che cosa hanno bisogno gli operai industriali e rurali? Forse di sapere i motivi per cui il capitalismo è oggettivamente un sistema da abbattere? In realtà lo sanno già. Non hanno bisogno di intellettuali che prendano in esame le contraddizioni del sistema. Semmai hanno bisogno di politici che organizzino le loro lotte.

I motivi per cui il capitalismo va abbattuto li vede anche un bambino: è un sistema basato su divisione e alienazione, p. es. tra mezzi e prodotti del lavoro, tra lavoro manuale e intellettuale, tra capitale e lavoro, tra essere e dover essere, ecc. Chi si trova ad essere sfruttato non si ribella a questo sistema solo perché il salario che prende gli permette di sopravvivere e di riprodursi, ma se dipendesse da lui, l’avrebbe già fatto.

Le rivoluzioni non hanno bisogno della consapevolezza di tutte le contraddizioni del sistema: basta quella principale. Se in un sistema non si riesce a vivere, a riprodursi, cioè a metter su famiglia, allora il sistema va sostituito con un altro.

Perché fino ad oggi in Europa occidentale non si è stati capaci di farlo? Le ragioni sono due: la più importante è che l’Europa occidentale è un’area geografica che pratica il colonialismo praticamente da un millennio, cioè a partire dalle crociate; anzi, se si esclude il breve periodo altomedievale (ma non quello dei Franchi di Carlo Magno), dobbiamo dire che già dai tempi dei Romani ci siamo abituati a vivere sulle spalle degli altri. Questo colonialismo permette di avere in Europa dei salari sufficientemente elevati per garantirsi la sopravvivenza e la riproduzione.

Il secondo motivo è correlato a questo: i salari che si danno agli intellettuali integrati nel sistema, che parlano di riforme o addirittura di rivoluzione, sono ancora più alti di quelli dei lavoratori dell’industria e dell’agricoltura, infinitamente più alti, sicché è facile corromperli ed è quindi facile che questi intellettuali tradiscano la classe operaia e quella contadina.

Cioè in Europa si sa benissimo che il capitalismo è un sistema sociale antagonistico che va superato, in quanto provoca sofferenze di ogni tipo, ma di fatto non si fa nulla per abbatterlo, proprio perché esso garantisce agli intellettuali un tenore di vita elevato, e persino agli operai, almeno rispetto ai loro colleghi sfruttati nel Terzo mondo.

In Europa occidentale il denaro corrompe tutti, e abbiamo esportato questa nostra caratteristica in tutti i paesi del mondo. Sicché tutte le discussioni che fanno gli intellettuali sulle contraddizioni del sistema, sulle sue crisi, non servono a nulla, se anzitutto non si pensa a come organizzare gli sfruttati per farli uscire dal sistema.

L’unica cosa che davvero conta, in attesa di vedere gli operai e gli intellettuali del Terzo mondo dire basta a questo sfruttamento che li rovina da mezzo millennio, è quella di organizzare una lotta per uscire dal sistema. E l’unico modo per farlo è quello di creare delle unità produttive che, per quanto riguarda la soddisfazione dei bisogni primari, siano autosufficienti. Uscire dal sistema vuol dire ridurre al minimo la propria dipendenza dei mercati, nazionali e soprattutto internazionali.

Se non si fa questo, inevitabilmente gli intellettuali si limiteranno a fare discorsi astratti e gli operai e i contadini a fare rivendicazioni meramente sindacali. Non serve a nulla andare in Parlamento, gestire quotidiani nazionali, avere partiti o sindacati se, contemporaneamente, non si sperimentano da subito queste unità produttive autonome, che devono rappresentare le future cellule economiche, le future comunità di vita: la loro indipendenza garantirà il superamento dello Stato e delle sue istituzioni.

Dobbiamo immaginare un tipo di società che sia insieme un nuovo tipo di civiltà, in cui il rispetto della natura dovrà essere la regola fondamentale dell’esistenza umana, per cui non è da escludere che l’attuale strumentazione lavorativa, che ci permette di vivere, vada totalmente ripensata, proprio perché in questo sistema capitalistico non c’è nulla di quanto usiamo che non abbia per fine la realizzazione di un profitto.

Paradossalmente potrebbe anche non servire a nulla occupare le fabbriche e abolire la proprietà privata dei fondamentali mezzi produttivi. Con la proprietà andranno aboliti anche taluni mezzi produttivi, anzi forse tutti.

Ora, è evidente che una svolta radicale del genere non potrà essere accettata passivamente dalle classi egemoni e dalle loro istituzioni di potere. Tuttavia, una cosa è lottare contro queste classi facendo della mera teoria o delle mere rivendicazioni salariali; un’altra è farlo avendo in mente che cosa si vuole realizzare da subito o, almeno, che cosa assolutamente non si vuole più fare.

L’alternativa delle unità produttive non avrà nulla di violento, per cui non giustificherà in alcun modo una reazione violenta da parte dei poteri costituiti. Sarà soltanto un’alternativa per sopravvivere in armonia con la natura e col genere umano. Il problema di come difendere questa alternativa si porrà soltanto nel caso in cui i poteri costituiti decidano di abbatterla con la forza.

Odiare fa male

Che cos’è l’ideologia? Non è semplicemente una filosofia o una concezione di vita, una Weltanschauung, perché, in genere i filosofi non arrivano, in nome di un’idea, a compiere crimini efferati. E’ vero che con le loro idee possono a volte agevolare, anche senza volerlo, dei regimi dittatoriali, ma è raro vederli passare dalla filosofia alla politica per necessità di una maggiore coerenza. In genere, quando lo fanno, non sono mai dei buoni politici, perché non sono abituati a confrontarsi con persone che la pensano assai diversamente da loro. I filosofi hanno gli studenti come target di riferimento, i quali, ovviamente, hanno tutto da imparare. Un grande filosofo della Grecia classica, Platone, non riuscì mai a diventare un buon politico, pur avendolo fortemente desiderato.

Quando un filosofo vede che, quasi in nome delle sue idee, si compiono orrendi crimini, generalmente tende a pentirsi: Nietzsche l’avrebbe sicuramente fatto se avesse potuto campare abbastanza per vedere la nascita del nazismo. Lo stesso Heidegger, sebbene il nazismo non fosse nato dalle sue idee, si pentì d’averlo sostenuto, così come Croce con Mussolini.

Quindi l’ideologia non è esattamente una filosofia di vita, anche perché, in genere, i filosofi provengono dai ceti benestanti, sono idealisti (nel senso che non vedono i problemi reali, quotidiani), e anche tendenzialmente individualisti, in quanto non amano la disciplina di partito, e vogliono salvaguardare una certa coerenza tra le loro teorie e la loro pratica, mentre l’incoerenza, in campo politico, è, come noto, solo una forma del confronto dialettico, quasi un valore.

Che cos’è dunque l’ideologia? Marx la definiva una falsa rappresentazione della realtà. E in quel termine lui includeva tutti, dai filosofi tedeschi, convinti di poter realizzare la democrazia in nome dell’ateismo, ai politici francesi, convinti che per realizzare il socialismo bastasse la democrazia, sino agli economisti inglesi, che tra capitale e lavoro non vedevano rapporti storici da superare ma solo rapporti naturali da difendere. L’ideologia è una mistificazione – diceva -, poiché con essa non si vuole capire la natura di classe dell’economia borghese, anzi, si cerca di edulcorarla con ogni mezzo e modo.

In nome di un’ideologia, che naturalmente viene ritenuta, da chi la professa, l’unica vera, si possono compiere orrendi crimini: l’abbiamo visto sotto l’inquisizione cattolica, ma anche durante lo stalinismo, il maoismo, il colonialismo europeo e in tanti altri casi. Dunque l’ideologia è una mistificazione che tutela determinati interessi. La natura di questi interessi in genere è economica, ma può essere anche solo politica o un intreccio di entrambe le cose. Generalmente l’economia prevale sulla politica in Europa occidentale, negli Usa, ecc.; invece la politica prevaleva sull’economia nell’Europa orientale al tempo del cosiddetto “socialismo reale”, ma anche nella Cina di Mao, nell’India di Gandhi, ecc. Oggi invece l’economia sembra dominare su ogni cosa e in tutto il pianeta.

L’ideologia sembra essere ben visibile nei vertici della chiesa romana, nei fondamentalismi ebraici e islamici, ma anche in tutte le forme di terrorismo. Ecco, in queste ultime forme non appare tanto legata a interessi economici e forse neppure politici, in quanto i terroristi spesso vivono come spartani, accontentandosi dell’essenziale, obbedendo a ordini superiori… La loro ideologia pare essere legata a un’idea di fondo, il riscatto personale da una condizione di oppressione insopportabile; e questa condizione – essi lo sanno bene – non è solo la loro, ma di tantissime persone come loro.

Ora, per quale motivo, di fronte a queste ingiustizie sociali così evidenti, si formano delle concezioni ideologiche dell’esistenza, cioè delle concezioni che sembrano essere ancorate ad argomentazioni che, alla resa dei conti, risultano inefficaci a risolvere quelle stesse ingiustizie? A ben guardare tale fissazione, che sembra avere una naturapsicologica, non appare solo nei terroristi, ma anche in tante altre categorie di persone politicamente o socialmente impegnate, appartenenti a diversi ceti, a diverse condizioni di vita.

L’ideologia infatti non è solo una mistificazione della realtà (che a volte può anche esprimersi in maniera inconsapevole); è piuttosto una fissazione che nasce da un’esperienza negativa della realtà, talmente negativa da diventare come una seconda natura. Le persone ideologiche sono quelle che vedono le cose sempre in maniera deformata. Sono quelle che, dopo aver fissato la propria attenzione su un’esperienza indubbiamente negativa, vissuta nel passato (anche molto remoto), permettono a questa d’incidere in maniera decisiva su qualunque altra esperienza.

Le persone ideologiche sono, in un certo senso, delle persone infantili, incapaci di metabolizzare il proprio pregresso negativo, trasformandolo in un’esperienza positiva, cioè in un arricchimento personale, il quale non dovrebbe suscitare sentimenti di odio verso il prossimo o di indifferenza nei confronti dei valori della vita.

Chi ha patito qualcosa a motivo di un’ingiustizia, dovrebbe relativizzare il proprio dolore, nella considerazione che la sofferenza appartiene a tante altre persone. Se si è capaci di trasfigurare la propria sofferenza, si diventa migliori, infinitamente migliori di chi ha vissuto al riparo da ogni contraddizione.

Dunque, se l’ideologia è una fissazione quasi inconsapevole, può riguardare tutti, ricchi e poveri, intellettuali e ignoranti. Ora, per potersi liberare da questi incubi, che impediscono sicuramente d’essere se stessi, bisogna essere disponibili a vivere quelle forme di esperienza in cui si viene messi alla prova, cioè quei rapporti umani che rimettono in discussione le nostre certezze. Bisogna essere disposti a fare cose che, per motivi ideologici, non si farebbero mai, come p. es. mangiare carne se si è vegetariani. E’ inutile star qui a fare esempi, poiché ognuno deve cercarseli per conto proprio.

Superare l’ideologia significa liberarsi di una dipendenza mentale da idee fisse. Il che non vuole affatto dire che bisogna rinunciare a lottare contro le ingiustizie, ma semplicemente che quelle ingiustizie non possono essere vissute come occasione per odiare il mondo.

Un Marx ingenuo?

Il fatto che Hegel, pur dentro un guscio mistico, abbia potuto scoprire le leggi della dialettica, avrebbe dovuto portare a credere che la tesi marxiana secondo cui “l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini” – come viene detto nella prefazione al Capitale del 1873 -, è una tesi vera solo parzialmente.

Infatti vien da chiedersi come abbia potuto Hegel scoprire le fondamentali leggi della dialettica in una Germania economicamente molto più arretrata di Francia e Inghilterra. Evidentemente egli seppe trasformare una limitatezza materiale in una ricchezza culturale. Ma da dove gli veniva questa capacità intellettuale? Gli poteva venire solo da una cosa, dalla stessa che influenzerà le grandi filosofie di Kant, Fichte, Schelling e dello stesso Marx: il protestantesimo. E’ stata questa religione laicizzata che in Germania aveva liberato il pensiero dalle catene della Scolastica.

In Germania i filosofi potevano permettersi il lusso di fare una rivoluzione del pensiero, senza aver bisogno di passare espressamente al sistema di vita borghese. Non c’è altra spiegazione storica. Anzi, rebus sic stantibus, risulta alquanto limitato sostenere che il capitalismo va visto come “un processo di storia naturale, che non può rendere il singolo responsabile di rapporti dei quali esso rimane socialmente il prodotto, per quanto soggettivamente possa elevarsi al di sopra di essi”, come viene detto da Marx nella prefazione al Capitale del 1867.

Se ci si può “elevare” al di sopra dei rapporti capitalistici, sottoponendoli addirittura a critica, come ha fatto magistralmente lo stesso Marx, allora non c’è un mero “processo di storia naturale“, ovvero il capitalismo appare come un processo naturale solo fintantoché non emergono forme di consapevolezza che ne chiedono il definitivo superamento, anche in assenza di un suo forte sviluppo, come appunto avverrà nella Russia di Lenin, il quale diceva che il proletariato industriale al massimo arrivava a una coscienza sindacale e che, per questa ragione, se davvero voleva cambiare il sistema, diventando rivoluzionario, doveva accettare una consapevolezza “dall’esterno”, quella degli intellettuali.

L’idea di Marx secondo cui il capitalismo è destinato ad essere superato dal socialismo, è un’idea che induce alla rassegnazione o, al contrario, a un ottimismo ingiustificato, basato su una concezione provvidenzialistica della storia, che nel Capitale ha le sue basi nell’economia (cioè nel nesso tra rapporti e forze produttive), è un’idea che indebolisce la capacità di resistenza della classe operaia. Se ci si può “elevare”, bisogna combattere subito i sistemi disumani e alienanti in cui si è costretti a vivere, usando tutti i mezzi a disposizione, senza aspettare che la loro forza riduca a un nulla le nostre istanze. Le vere differenze stanno semmai nelle forme organizzative della lotta, cioè nella tattica e nella strategia.

Evidentemente a Marx, subito dopo la pubblicazione del primo volume del Capitale, dovevano essere giunte delle critiche sul metodo usato, che somigliava troppo da vicino a quello hegeliano, basato su una dialettica intesa come successione necessaria di fasi, ognuna delle quali va considerata anticipatrice della futura sintesi.

A differenza di Hegel, Marx poteva anche dire di essere esplicitamente ateo, poteva anche dire d’essere partito dall’economia politica e non da una filosofia astratta, poteva anche voler trasformare e non soltanto interpretare il mondo, ma la categoria della necessità veniva usata nella stessa identica maniera. Lo dimostra anche il fatto che nelle sue prefazioni al Capitale egli prevede un futuro capitalistico per tutte le nazioni europee, anzi per il mondo intero. Non ritiene possibile giungere al socialismo saltando la fase del capitalismo. Questo voleva dire usare la categoria della necessità in maniera giustificazionista.

A questo punto l’unica vera differenza tra lui e il suo maestro Hegel stava unicamente nel fatto che questi, in veste di accademico, l’aveva usata per legittimare uno Stato reazionario come quello prussiano, mentre lui, da ebreo errante e apolide, non poteva pensare che a una società utopica.

Forse più che “maestro del sospetto” avrebbe dovuto essere definito “campione di ingenuità”, nel senso che se c’è una cosa che non avviene in maniera necessaria è proprio una transizione progressiva da una formazione sociale all’altra. Non solo perché gli uomini arrivano ad un certo punto ad abituarsi così tanto alle contraddizioni antagonistiche che quasi più non le riconoscono, accettandole come una loro “seconda natura”, cioè un semplice dato di fatto, sperando, nel migliore dei casi, in un decisivo “aiuto esterno”, un aiuto anche “barbaro” contro una presunta civiltà, come appunto avvenne alla fine dell’impero romano.

Ma anche quando avvengono queste tragiche transizioni, in genere non si conserva nulla della precedente civiltà, in quanto si vuole ricominciare tutto da capo, proprio perché ci si accorge abbastanza facilmente che, in presenza di una nuova concezione di vita, determinate strutture economiche e materiali non servono a nulla e devono essere abbandonate o riciclate per usi del tutto diversi.

Metà della sua vita Marx la spese per studiare un sistema che non è destinato a crollare automaticamente e che quando verrà distrutto da qualche forza, interna o esterna, non conserverà nulla di utile per creare una vera alternativa.

1) – Cipro: un test per far pagare ai risparmiatori i debiti delle banche in default. 2) – Francesco cala l’asso della povertà evangelica

Cipro: un test per far pagare ai risparmiatori i debiti delle banche in default

Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**

La vicenda di Cipro è la prova provata dell’incompetenza di Bruxelles e della Troika (Fmi, Commissione europea e Bce) a trattare le crisi finanziarie e bancarie in Europa. Gli euroburocrati hanno potuto mostrare la loro arroganza sostenuti da quei “duri” europei che vogliono il rigore soltanto per poter salvare le banche in default. Il sistema bancario di Cipro, a metà strada tra il legale e l’offshore, è pieno di soldi. Spesso di provenienza non limpida. Secondo il Fondo Monetario Internazionale avrebbe attività per 152 miliardi di euro pari a circa 8 volte il Pil del Paese. I depositi bancari, favoriti da tasse basse e da ancor più bassi controlli, ammonterebbero a 68 miliardi, dei quali il 40% sarebbe in mani russe.

La Cyprus Bank e la Cyprus Popular Bank, le due maggiori banche cipriote, sono in gravi difficoltà per le perdite in miliardi di euro subite sui bond greci. Ovviamente si può anche ipotizzare che il rischio di insolvenza sia dovuto all’accumulo di debiti causati da speculazioni andate male. Il governo cipriota deve far fronte alla crisi di bilancio come tutti i Paesi europei dell’area mediterranea. Servirebbero circa 17 miliardi di euro. Chi paga? Il Meccanismo di Stabilità Europea, cioè il fondo di salvataggio creato ad hoc per simili situazioni? Oppure il governo cipriota che non ha soldi e che non può chiedere prestiti in quanto violerebbero il patto da stabilità europeo? Continua a leggere

Ascolto il nuovo Yorke e mi mancano gli Orbital di vent’anni (!!!) fa

Ascolto ancora con piacere il primo album solo di Thom Yorke, “The eraser”, anche se è del 2006, mi entusiasma meno il suo nuovo lavoro con gli Atoms for Peace, che mi hanno fatto venire in mente – ma non perchè ci assomigliano  – gli Orbital e certa dance elettronica degli anni Novanta.  Mi mancano, tanto: la mia preferita? “Choice” tra le tante. Che forza!

La natura e il suo becchino

Il fatto che l’essere umano sia l’unico ente di natura in grado di dominare la stessa natura è poco spiegabile. Sarebbe come se gli uomini creassero delle macchine che, ad un certo punto, per qualche motivo, si rifiutassero di eseguire i loro ordini. Giusto nei film di fantascienza. Se ciò nella realtà fosse possibile, saremmo rimasti alla zappa e alla vanga: non ci piace davvero perdere tempo e tanto meno avere spiacevoli sorprese dalle nostre fatiche, anche se, quando capitano, facciamo di tutto per farle pagare agli altri. O forse avremmo smesso di creare macchine perché queste stesse, giunte a un grado pericolosissimo di sofisticazione, ci avrebbero fatti fuori, com’è successo a Chernobyl, a Fukushima e in tanti altri posti ancora.

Certo una macchina si può guastare, ma pensiamo che possa sempre essere riparata (anche se oggi cominciamo a nutrire dei dubbi col nucleare di mezzo), e quando viene definitivamente dismessa, è perché è stata sostituita da un’altra, ancora più funzionale e sicura. Almeno così crediamo. In un primo momento infatti siamo convinti che i pro siano di molto superiori ai contro. Da tempo sappiamo che ogni macchina ha effetti positivi e negativi, ma di quelli veramente negativi ci accorgiamo sempre troppo tardi. Questo perché viviamo nel mondo dei sogni, nell’illusione di poter dominare la natura in ogni suo aspetto, senza controindicazioni rilevanti.

Chi ha la mia età si ricorda benissimo quando si scriveva con la cannetta e l’inchiostro o con la stilografica. Ci si sporcava, si aveva bisogno della carta assorbente o bisognava aspettare che le parole si asciugassero, magari aiutate dal nostro alito, ma il vantaggio era che il tutto costava molto poco, non solo per le boccette d’inchiostro ma soprattutto perché le penne erano ricaricabili. Poi venne la comodità della biro di plastica, che però non è ricaricabile, non è biodegradabile, non è riciclabile e per la natura fu un inferno.

Dunque la natura avrebbe creato un soggetto che le può sfuggire di mano in qualunque momento, e che anzi le può fare dei danni addirittura irreparabili (come p.es. le desertificazioni o le contaminazioni radioattive, ma anche talune forme d’inquinamento fisico-chimico).

Diciamo che questo potere devastante l’uomo l’ha manifestato soprattutto negli ultimi due secoli, cioè da quando la rivoluzione industriale, grazie al capitalismo (ma il socialismo reale non ha fatto certo di meglio), s’è imposta, in maniera diretta o indiretta, su quasi tutto il pianeta.

Ora, come si spiega che la natura sia stata così ingenua da creare il proprio becchino? Qui delle due l’una: o la natura possiede meccanismi di autodifesa che noi non conosciamo, oppure l’essere umano ha un’origine che non è semplicemente “naturale” o “terrena”.

Indubbiamente noi siamo nati su questa Terra dopo che la natura s’era formata, la quale quindi, per esistere, non aveva alcun bisogno di noi. Eppure da quando noi esistiamo, la Terra ha subìto sconvolgimenti epocali, molti dei quali del tutto irreversibili. Lo spazio vitale in cui poter vivere in tranquillità si sta riducendo drasticamente.

Cosa voglia dire questo, in prospettiva, resta un mistero. Certamente noi non possiamo andare avanti con questi ritmi di devastazione ambientale. Abbiamo creduto per troppo tempo che non vi fosse alcun limite al saccheggio o all’uso indiscriminato delle risorse naturali.

Il problema è che l’essere umano non può vivere senza natura. Nel passato non esisteva neppure il rischio di una scomparsa del genere umano per motivi ambientali, anche se indubbiamente i deserti che abbiamo creato con le nostre deforestazioni, da un pezzo ci fanno capire quanto siamo scriteriati.

Oggi questo rischio è sempre più prossimo. Quanto più distruggiamo la natura, tanto più ammaliamo noi stessi, minacciamo la nostra esistenza, mortifichiamo le nostre identità. E al momento non si può certo dire che siamo pronti per trasferirci su altri pianeti.

Se l’economia non si sottomette all’ecologia, per noi è finita. Se i nostri criteri produttivi non si sottomettono a quelli riproduttivi della natura, finiremo con l’autodistruggerci. Non possiamo porre la natura nelle condizioni di sperare che il genere umano scompaia dalla faccia della Terra. Dobbiamo elaborare quanto meno delle leggi in cui venga dichiarato che un crimine contro la natura è un crimine contro l’umanità, per il quale si deve scontare la pena finché non si è risarcito il danno.

Bergoglio, probabile Wojtyla dell’America Latina. In Argentina ha taciuto? Come Pio XII con la Germania e Togliatti e il Pci (Napolitano compreso) con Stalin. L’atroce dilemma Wojtyla-Emanuela Orlandi

Strano. Nessuno, eccetto il mio collega Andrea Tornielli su La Stampa, ha previsto che tra i papabili c’era anche Bergoglio, eppure era stato il cardinale più votato dopo Ratzinger quando questi venne eletto papa. Una svista  che la dice lunga sulle pecche della nostra informazione, che qui incassa il secondo fallimento, il secondo clamoroso “buco” come si dice in gergo, subito dopo la mancata previsione del boom elettorale di Grillo. Per non parlare dei 30 anni di frottole sul caso Orlandi…. Nessuno, ecctto Tornielli, s’è ricordato del suo nome prima e durante il conclave, eppure ora tutti fanno a gara a chi sa di più cosa farà il nuovo papa. S’è gettato a capofitto nella gara anche Eugenio Scalfari: non pago delle fregatura ricevuta alla vigilia di Natale da Mario Monti, della quale si è lamentato alla grande su Repubblica, ora sempre su Repubblica spiega in dettaglio cosa farà papa Bergoglio e perché ha scelto di chiamarsi Francesco (  http://ricerca.gelocal.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/03/15/un-prete-di-strada.html ). Ad alimentare le previsioni di Scalfari c’è la propria soddisfazione per avere scritto il 12 febbraio e il 10 marzo, parlando de “Il rebus che il Colle dovrà sciogliere”,  che se il futuro papa non fosse stato un uomo della Curia avrebbe potuto chiamarsi Giovanni XXIV, in prosecuzione col “papa buono” Roncalli, oppure Francesco. Previsione azzeccata, sia pure a metà. Speriamo ora che le previsioni di venerdì 15 marzo non siano il bis di quelle natalizie su Monti.

Nel mio piccolo, ho l’impressione che Bergoglio sarà il Wojtyla del Centro e Sud America. Wojtyla lo elessero per indebolire e dare la spallata finale all’Unione Sovietica già dissanguata dalla forsennata corsa al riarmo condotta dagli Usa. Bergoglio mi pare lo abbiano eletto per contrastare e sconfiggere la tendenza di alcuni governi sudamericani a recuperare le radici indigene, cioè indie e non europee, e a lanciare la terza via, cioè una sorta di socialdemocrazia o comunque maggiore attenzione al popolo. Terza via perché diversa da quella di Cuba, ma ancor più diversa da quella degli Usa. Metere in pista su vasca scala la socialdemocrazia o una più decisa attenzione alle masse popolari può diventare per gli Usa e per il suo declinante predominio WASP (acronimo di White, Anglo, Saxon, Protestant) più pericoloso di Cuba. Teniamo presente che secondo le ultime proiezioni del Census Bureau negli Usa la popolazione bianca di origine europea  si avvia a perdere il suo primato demografico. Oggi è ispanico – quindi di fatto con componente di origine india – un cittadino su sei, nel 2060 il rapporto diventerà di uno a tre. Ci sono inoltre i filoni evangelici, pentecostali, ecc., che, come fa notare anche il forumista “alberto C.”,  nelle Americhe stanno diventando concorrenti pericolosi. Continua a leggere

Organi sessuali e civiltà

Gli organi sessuali sono preposti a tre funzioni: biologica, erotica e riproduttiva. La natura ha concentrato in un unico organo tre funzioni molto diverse. Non può averlo fatto soltanto per motivi “economici”, anche perché la funzione biologica ripugna a quella erotica e quest’ultima guarda con timore quella riproduttiva. Ci deve essere dietro alla motivazione “economica” (che potremmo chiamare anche “fenomenologica”, essendo molto evidente), una motivazione di tipo ontologico, cioè più profonda.

Qui sembra esservi espressa un’intelligenza di tipo etico, che appare inverosimile in ciò che siamo soliti definire col termine di “natura”. Sembra cioè di avere a che fare con una natura dall’intelligenza umana, in grado di prevedere un uso sbagliato, unilaterale, di una funzione, quella erotica, e quindi in grado di aiutarci a prevenirlo senza alcuna particolare forzatura, semplicemente mettendoci di fronte alle nostre responsabilità, come ci accade quando leggiamo quegli avvisi presso le centrali elettriche: “Chi tocca i fili, muore!”.

E’ come se la natura avesse predisposto che i nostri organi sessuali non possano essere usati nelle loro funzioni separate, se non in via temporanea o transitoria. In ultima istanza le funzioni devono restare correlate, poiché, quando non lo sono, occorre chiedersi se ciò sia naturale. Facciamo degli esempi:

  1. se l’erotismo è fine a se stesso, la perversione diventa inevitabile, come p. es. nella pornografia, nella prostituzione, ecc.;
  2. se il biologismo esclude per principio la riproduzione, diventa una forzatura, come p. es. nel celibato dei preti, negli eunuchi, ecc.;
  3. se la riproduzione viene resa obbligatoria, diventa un’ideologia, come quando la chiesa chiede una piena disponibilità a procreare ogni volta che si hanno rapporti sessuali, oppure quando si costringe la donna al solo ruolo di madre.

Questi sono tutti atteggiamenti contronatura. Quindi dovremmo ammettere che la natura ha previsto una coesistenza equilibrata di aspetti etici ed estetici, oltre che fisiologici. Ora quand’è che viene meno questo equilibrio? Viene meno quanto più l’umano si allontana dal naturale, cioè quanto più frappone tra sé e il naturale qualcosa di artificiale. L’essere umano è l’unico ente di natura in grado di farlo. L’artificio, ovvero il mezzo meccanico, gli permette di vivere un erotismo fine a se stesso o comunque non finalizzato alla riproduzione.

Per certa ideologia religiosa questo è peccato, ma i diretti interessati sanno bene che in una società conflittuale, dove il naturale è quasi del tutto scomparso, la riproduzione può avere costi proibitivi. Non voler rendersi conto di questo “handicap”, significa appunto essere schematici, farisei.

Dunque che possibilità abbiamo di ripristinare le funzioni naturali degli organi sessuali? Al momento nessuna. Anzi, la vita è così artificiale e complicata che persino la riproduzione si sta meccanizzando sempre di più, proprio in quanto le coppie sono sempre più restie a riprodursi e quelle infertili e sterili aumentano progressivamente, senza sosta.

Questo è un sintomo abbastanza eloquente e non possiamo certo minimizzarlo scegliendo come alternativa l’adozione di bambini abbandonati. Se nella riproduzione prevale l’artificiale, la natura, ad un certo punto, non sa più che farsene di noi e tende a emarginarci, a espellerci dal suo circuito riproduttivo e quindi addirittura dalla storia, sua e nostra. Noi infatti ci siamo illusi che i mezzi meccanici non potessero avere su di noi conseguenze irreparabili e che si potesse in qualunque momento fare un’inversione di marcia.

Questo, ovviamente, non è un problema della sola nostra società, bensì dell’intera civiltà industrializzata. Guardando come si è evoluto, sarebbe bene che il sistema capitalistico scomparisse dalla faccia della terra, proprio per permettere alla natura e a quelle poche popolazioni che vivono ancora in maniera naturale, di salvaguardarsi e, possibilmente, di farlo nel migliore dei modi.

Noi occidentali non dovremmo preoccuparci d’essere emarginati o espulsi dalla natura e dalla storia, quanto piuttosto di come favorire le condizioni perché qualcuno possa sopravvivere a un nostro declino che pare irreversibile. Il destino dell’umanità infatti è quello di popolare l’intero universo, ma nelle condizioni in cui attualmente ci troviamo, noi occidentali di sicuro siamo la popolazione meno adatta.

Habemus papam! Pare però non sia una bella notizia

http://www.donvitaliano.it/?p=145

Jorge Bergoglio e il suo passato vicino alla dittatura argentina

“Il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, presidente dei vescovi argentini, nonché tra i più votati, nel 2005, nel conclave Vaticano che ha scelto il successore di Giovanni Paolo II, è accusato di collusione con la dittatura argentina che sterminò novemila persone“.

Inizia così un lungo articolo pubblicato sul sito del prete ‘no global’ Don Vitaliano della Sala, la scheda sul “passato oscuro” di chi, a distanza di 8 anni, è il nuovo papa.

“Le prove del ruolo giocato da Bergoglio a partire dal 24 marzo 1976, sono racchiuse nel libro L’isola del Silenzio. Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, del giornalista argentino Horacio Verbitsky, che da anni studia e indaga sul periodo più tragico del Paese sudamericano, lavorando sulla ricostruzione degli eventi attraverso ricerche serie e attente”.

“I fatti riferiti da Verbitsky. Nei primi anni Settanta Bergoglio, 36 anni, gesuita, divenne il più giovane Superiore provinciale della Compagnia di Gesù in Argentina. Entrando a capo della congregazione, ereditò molta influenza e molto potere, dato che in quel periodo l’istituzione religiosa ricopriva un ruolo determinante in tutte le comunità ecclesiastiche di base, attive nelle baraccopoli di Buenos Aires. Tutti i sacerdoti gesuiti che operavano nell’area erano sotto le sue dipendenze. Fu così che nel febbraio del ’76, un mese prima del colpo di stato, Bergoglio chiese a due dei gesuiti impegnati nelle comunità di abbandonare il loro lavoro nelle baraccopoli e di andarsene. Erano Orlando Yorio e Francisco Jalics, che si rifiutarono di andarsene. Non se la sentirono di abbandonare tutta quella gente povera che faceva affidamento su di loro”.

Verbitsky racconta come Bergoglio reagì con due provvedimenti immediati. Innanzitutto li escluse dalla Compagnia di Gesù senza nemmeno informarli, poi fece pressioni all’allora arcivescovo di Buenos Aires per toglier loro l’autorizzazione a dir messa. Pochi giorni dopo il golpe, furono rapiti. Secondo quanto sostenuto dai due sacerdoti, quella revoca fu il segnale per i militari, il via libera ad agire: la protezione della Chiesa era ormai venuta meno. E la colpa fu proprio di Bergoglio, accusato di aver segnalato i due padri alla dittatura come sovversivi. Con l’accezione “sovversivo”, nell’Argentina di quegli anni, venivano qualificate persone di ogni ordine e grado: dai professori universitari simpatizzanti del peronismo a chi cantava canzoni di protesta, dalle donne che osavano indossare le minigonne a chi viaggiava armato fino ai denti, fino ad arrivare a chi era impegnato nel sociale ed educava la gente umile a prendere coscienza di diritti e libertà. Dopo sei mesi di sevizie nella famigerata Scuola di meccanica della marina (Esma), i due religiosi furono rilasciati, grazie alle pressioni del Vaticano”.

“Alle accuse dei padri gesuiti di averli traditi e denunciati, il cardinal Bergoglio si difende spiegando che la richiesta di lasciare la baraccopoli era un modo per metterli in guardia di fronte a un imminente pericolo. Un botta e risposta che è andato avanti per anni e che Verbitsky ha sempre riportato fedelmente, fiutando che la verità fosse nel mezzo. Poi la luce: dagli archivi del ministero degli Esteri sono emersi documenti che confermano la versione dei due sacerdoti, mettendo fine a ogni diatriba. In particolare Verbitsky fa riferimento a un episodio specifico: nel 1979 padre Francisco Jalics si era rifugiato in Germania, da dove chiese il rinnovo del passaporto per evitare di rimetter piede nell’Argentina delle torture. Bergoglio si offrì di fare da intermediario, fingendo di perorare la causa del padre: invece l’istanza fu respinta. Nella nota apposta sulla documentazione dal direttore dell’Ufficio del culto cattolico, allora organismo del ministero degli Esteri, c’è scritto: “Questo prete è un sovversivo. Ha avuto problemi con i suoi superiori ed è stato detenuto nell’Esma”. Poi termina dicendo che la fonte di queste informazioni su Jalics è proprio il Superiore provinciale dei gesuiti padre Bergoglio, che raccomanda che non si dia corso all’istanza. E non finisce qui. Un altro documento evidenzia ancora più chiaramente il ruolo di Bergoglio: “Nonostante la buona volontà di padre Bergoglio, la Compagnia Argentina non ha fatto pulizia al suo interno. I gesuiti furbi per qualche tempo sono rimasti in disparte, ma adesso con gran sostegno dall’esterno di certi vescovi terzomondisti hanno cominciato una nuova fase”. È il documento classificato Direzione del culto, raccoglitore 9, schedario B2B, Arcivescovado di Buenos Aires, documento 9. Nel libro di Verbitsky sono pubblicati anche i resoconti dell’incontro fra il giornalista argentino e il cardinale, durante i quali quest’ultimo ha cercato di presentare le prove che ridimensionassero il suo ruolo. “Non ebbi mai modo di etichettarli come guerriglieri o comunisti – affermò l’arcivescovo – tra l’altro perché non ho mai creduto che lo fossero””.

Ad inchiodarlo c’è anche la testimonianza di padre Orlando Yorio, morto nel 2000 in Uruguay e mai ripresosi pienamente dalle torture, dalla terribile esperienza vissuta chiuso nell’Esma. In un’intervista rilasciata a Verbistky nel 1999 racconta il suo arrivo a Roma dopo la partenza dall’Argentina: “Padre Gavigna, segretario generale dei gesuiti, mi aprì gli occhi – raccontò in quell’occasione – Era un colombiano che aveva vissuto in Argentina e mi conosceva bene. Mi riferì che l’ambasciatore argentino presso la Santa Sede lo aveva informato che secondo il governo eravamo stati catturati dalle Forze armate perché i nostri superiori ecclesiastici lo avevano informato che almeno uno di noi era un guerrigliero. Chiesi a Gavigna di mettermelo per iscritto e lo fece”. Nel libro, inoltre, Verbistky spiega come Bergoglio, durante la dittatura militare, abbia svolto attività politica nella Guardia di ferro, un’organizzazione della destra peronista, che ha lo stesso nome di una formazione rumena sviluppatasi fra gli anni Venti e i Trenta del Novecento, legata al nazionalsocialismo. Secondo il giornalista, l’attuale arcivescovo di Buenos Aires, quando ricoprì il ruolo di Provinciale della Compagnia di Gesù, decise che l’Università gestita dai gesuiti fosse collegata a un’associazione privata controllata dalla Guardia di ferro. Controllo che terminò proprio quando Bergoglio fu trasferito di ruolo. “Io non conosco casi moderni di vescovi che abbiano avuto una partecipazione politica così esplicita come è stata quella di Bergoglio”, incalza Verbitsky. “Lui agisce con il tipico stile di un politico. È in relazione costante con il mondo politico, ha persino incontri costanti con ministri del governo”.


Il futuro sta nella scienza o nella coscienza?

Sul nostro pianeta il genere umano dovrebbe sviluppare anzitutto la coscienza, e solo in secondo luogo la scienza. L’unica scienza che dovrebbe sviluppare è quella contestuale allo spazio-tempo che gli è appunto dato da vivere su questo pianeta: uno spazio-tempo determinato dalle condizioni di sussistenza della natura, basate su precise esigenze riproduttive.

Un qualunque sviluppo scientifico che non tenesse conto di queste esigenze sarebbe inutile o nocivo, anzitutto per la natura, ma poi anche per l’uomo. Infatti una scienza senza coscienza può far solo del male: nel migliore dei casi non serve a nulla. Noi non ci accorgiamo subito dei guasti che procuriamo alla natura né del male che facciamo a noi stessi semplicemente perché nel primo caso la natura ci appare sconfinata e nel secondo perché appunto scarichiamo su di essa tutti i nostri problemi.

Questa falsa percezione delle cose appartiene però solo ai paesi che vogliono “dominare” l’intero pianeta, i quali pensano che lo sfruttamento delle risorse naturali sia illimitato in profondità e in estensione e non si preoccupano affatto di quali conseguenze ciò possa avere sulla natura stessa, sui paesi sottomessi e persino su loro stessi: questo perché chi vive sfruttando le risorse altrui, pensa unicamente al suo interesse immediato.

I prodotti della scienza dipendono esclusivamente dalla ragione, ma se questa ragione è influenzata da interessi economici o politici o, peggio ancora, militari, non ci sarà neanche un suo risultato, grande o piccolo che sia, che servirà davvero a far progredire l’umanità. Ed è fuor di dubbio che la scienza affermatasi a partire dall’epoca moderna è altamente nociva, sotto tutti gli aspetti, sia per gli uomini che per la natura. Non perché sia scienza in sé, ma proprio perché non lo è, in quanto risponde a necessità o motivazioni che non sono naturali e quindi neppure scientifiche.

Infatti, in epoca moderna prevalgono nettamente le necessità di una determinata classe sociale, che si chiama “borghesia”, affermatasi in contrapposizione a un’altra classe sociale esistita nel Medioevo: l’aristocrazia. Là dove esistono società divise in classi sociali, un qualunque sviluppo scientifico fa gli interessi della classe dominante, che se ne serve per restare al potere.

Ogniqualvolta si gioisce per un risultato straordinario della scienza, si cade vittima di un’illusione, paragonabile a quelle che si alimentavano quando dominava la religione. Allora erano illusioni basate sulla fede, oggi sono basate sulla ragione. La scienza è la religione dell’uomo moderno: i miracoli si fanno con la matematica, la fisica, la tecnologia ecc. E che questi miracoli producano risultati opposti a quelli voluti o immaginati dipende appunto dal fatto che le motivazioni sottese al progresso scientifico sono viziate in partenza da interessi contrari alle esigenze umane e naturali.

In una situazione del genere andare avanti può soltanto voler dire “tornare indietro”. Noi, per poter davvero “progredire”, dobbiamo tornare a quel periodo della storia in cui gli esseri umani non avevano bisogno di alcuna illusione per vivere. E questo periodo può essere soltanto quello in cui non esistevano conflitti di ceti o di classi sociali, in cui non esisteva proprietà privata dei mezzi produttivi, in cui l’individuo si sentiva parte integrante di un collettivo, in cui la vita sociale era compatibile con quella naturale. Questo periodo gli storici lo chiamano, con molta supponenza, in quanto lo ritengono definitivamente superato, col nome di preistoria.

Siamo così prevenuti nei confronti di questo periodo che abbiamo sempre fatto di tutto per dimostrare che da esso bisognava necessariamente uscire, proprio perché per noi non esiste “progresso” e neppure, se vogliamo, la “storia” se anzitutto non si esce dalla preistoria.

Ecco, forse è giunto il momento di squarciare il nuovo velo che abbiamo messo nel nuovo tempio dedicato alla scienza, e dire: “Da quando siamo usciti dalla preistoria è iniziato il regresso dell’umanità”. L’unico modo per invertire la rotta è rinunciare a tutto quanto di scientifico e di tecnologico risulti dannoso per la natura, e puntare diritto verso lo sviluppo della coscienza umana.

Anche Ratzinger indica la minaccia del “capitalismo finanziario sregolato”. La nostra proposte per nna banca per lo sviluppo e bond per la crescita

Mario Ledttieri* Paolo Raimondi**

Gli operatori di pace chiamati a costruire un nuovo modello di sviluppo più solidaleIn relazione alla sorprendente decisione di Papa Benedetto XVI di dimettersi dall’alta carica di capo della Chiesa cattolica, assume una particolare e significativa rilevanza il suo messaggio “Beati i Costruttori di Pace” scritto per la celebrazione della 46. sima Giornata Mondiale delle Pace tenutasi il primo gennaio 2013.

E’ un messaggio assai importante, sicuramente elaborato nella consapevolezza della gravità dei problemi mondiali e della difficile missione universale della Chiesa cattolica. Probabilmente le gravi questioni che tormentano il mondo e le vicissitudini del governo della Chiesa hanno pesato non poco sulla sua decisione.

Nel suo intervento il Papa affronta il tema della crisi economica e del ruolo di “un capitalismo finanziario sregolato” evidenziandone la minaccia per il raggiungimento del bene comune.

Benedetto XVI afferma autorevolmente che “il prevalere di una mentalità egoistica e individualistica e le ideologie del liberismo radicale erodono la funzione sociale dello Stato e delle reti di solidarietà della società civile, nonché dei diritti e dei doveri sociali”. A farne le spese – continua – sono la dignità dell’uomo ed il diritto al lavoro che “viene considerato una variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari”.

Sostiene quindi che “oggi è necessario un nuovo modello di sviluppo” basato su una corretta scala di beni-valori. E’ una esplicita sollecitazione del Papa agli economisti e ai dirigenti politici che intendono essere dei “costruttori di pace” operando anche nel mondo dell’economia.

“E’ fondamentale e imprescindibile la strutturazione etica dei mercati monetari, finanziari e commerciali; essi vanno stabilizzati e maggiormente coordinati e controllati, in modo da non arrecare danno ai più poveri”, così continua il Pontefice. Continua a leggere

Tornare alla preistoria

Il concetto di “lavoro”, inteso come mansione ripetitiva, rispetto degli orari, di determinati obblighi, ovvero l’impegno quotidiano imposto da circostanze esterne, è un concetto innaturale, che può essere nato soltanto in un sistema di vita già segnato dai conflitti di ceto o di classe. Un lavoro del genere è determinato in realtà dal concetto di “forza”, in quanto è appunto un “lavoro forzato”.

Per l’uomo preistorico lavorare significava andare alla ricerca di cibo per sfamarsi o di oggetti utili per costruirsi armi per la caccia o per la raccolta di frutti, bacche, radici… Anche quando non c’era di mezzo l’esigenza di alimentarsi, vi erano comunque altre esigenze naturali da soddisfare, come p. es. quella di ripararsi dalle intemperie o da altri animali affamati o pericolosi o fastidiosi.

Sia come sia, egli non aveva mai l’impressione che qualcuno volesse “obbligarlo” a fare qualcosa: si trattava soltanto di trovare una soluzione a esigenze del tutto naturali, che sorgevano spontaneamente dalla sua persona o dalla vita di gruppo. Era impossibile parlare di “alienazione”. La natura non era mai vista come una “nemica”, ma anzi come la fondamentale risorsa per soddisfare le proprie esigenze.

Là dove s’è imposto il concetto di “forza”, lì s’è affermata la “proprietà privata”, e quindi l’obbligo, da parte dei più deboli, di lavorare per i più forti. Oggi questo obbligo s’è esteso in tutto il pianeta, tanto che s’è ridotta a un nulla la possibilità di esistere ricavando liberamente dalla natura ciò che occorre alla propria sopravvivenza. Tutta la natura è dominata dalla forza dell’uomo, la quale domina anche quelle popolazioni che considerano la natura più importante dell’uomo.

L’alienazione si è dunque sviluppata in due direzioni parallele: quella del rapporto tra debole e forte e quella del rapporto tra uomo e natura. quanto più il forte vuole imporsi sul debole, tanto più l’uomo (debole e forte insieme) vuole imporsi sulla natura.

Il forte costringe il debole ad avere un rapporto alienato non solo nei confronti dell’oggetto del proprio lavoro, in quanto deve produrre cose che non gli appartengono e la cui quantità è di molto superiore al suo fabbisogno quotidiano, ma anche nei confronti della stessa natura, poiché è proprio dallo sfruttamento indiscriminato delle sue risorse che egli viene messo in condizione di condurre un “lavoro forzato”.

La storia non è stata altro che un tentativo di trasferire a livelli sempre più elevati, in estensione e profondità, lo sfruttamento della natura, con cui poter rispondere all’istanza, avanzata dai più deboli, di porre fine al loro sfruttamento da parte dei più forti. Cioè la mancata soluzione al problema dello sfruttamento umano ha comportato un’accentuazione sempre più esasperata del saccheggio delle risorse naturali. E poiché questo saccheggio oggi avviene a livello planetario, è evidente che anche lo sfruttamento degli uomini deve sottostare a una regolamentazione di tipo planetario.

Oggi esistono organismi preposti allo sfruttamento planetario degli esseri umani e della natura, gestiti dalle nazioni economicamente, militarmente e politicamente più potenti. Questi organismi sono la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e, per molti aspetti, le stesse Nazioni Unite. Oltre a queste organizzazioni, che sono le principali, ne esistono molte altre di carattere regionale o con scopi più specifici, come p. es. l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, la Nato ecc.

Una lotta mondiale contro questi organismi, che vanno assolutamente ripensati nelle loro fondamenta, in quanto tendono a schiavizzare il mondo intero, non potrà prescindere dall’idea secondo cui l’unico modo di salvaguardare la natura e superare ogni forma di alienazione è quello di far tornare l’uomo alla preistoria, cioè a quel periodo in cui non esisteva la proprietà privata dei mezzi produttivi e il rapporto con la natura era vincolato all’esigenza di rispettarne tutti i cicli riproduttivi.

Il fallimento della cosiddetta Società Civile. Ma il “Tutti a casa!” vale anche per noi giornalisti

Per essere onesti, bisogna riconoscere ad alta voce che non solo i politici hanno fatto bancarotta nel non prevedere lo sbalorditivo boom di Beppe Grillo, e anzi nel provocarlo con la loro insipienza e corruzione diffusa. C’è anche la cosiddetta “società civile”, quella che pescando tra personaggi famosi e professionisti ritenuti onesti per definizione, da oltre venti anni, per la precisione da quando Nando Dalla Chiesa il 2 dicembre 1985 l’ha fondata come associazione, si è illusa di potere insegnare il mestiere ai partiti e ai politici di mestiere o almeno di raddrizzarne le storture. Lo tsunami Grillo ha chiarito senza possibiltà di equivoci che la “società civile” non è fatta dai professionisti di grido e neppure da vedove e orfani illustri, ma proprio da gente qualunque, quel che si usa definire la “ggente” o anche il “popolo”. La “società civile” cara a Dalla Chiesa e adottata infine come piatto forte anche nel PD da Walter Veltroni a Pierluigi Bersani, che ha voluto candidare l’avvocato e orfano illustre Vittorio Ambrosoli alla guida della Lombardia, si è rivelata solo come un altro  diaframma tra la politica e la società civile senza virgolette liberata infine da Grillo. Dallo stagionato Antonio di Pietro all’esordiente egocentrico Antonio Ingroia è stato tutto un fallimento elettorale. Per fortuna, vorrei aggiungere. Questa pretesa dei pubblici ministeri “eroi” di ripulire l’Italia come novelli Robespierre aveva preso una piega talmente pericolosa che è bene abbia sbattuto contro il duro muro della realtà elettorale stanca di promesse tanto mirabolanti quanto inconcludenti.
E ci siamo anche noi giornalisti, anche questa volta colti drammaticamente di sorpresa. Assolutamente di sorpresa. Come i sondaggisti, del resto. Nessuna delle “grandi firme” dei grandi giornali e delle grandi reti televisive iitaliane, Rai compresa, ha annusato lo tsunami in arrivo. Nessuno quindi è stato capace di fare analisi e descrivere la realtà. Il che significa che la realtà non la conosceva nessuno. Perché? Perché da troppo tempo i grandi giornali e le grandi tv sono la sponda di partiti e interessi politici ed espressione di interessi economici e finanziari ben precisi. Fanno cioè parte di quel mondo verso il quale i grillini gridano “Tutti a casa!”. E infatti ecco che Grillo già da tempo agita la scure del taglio delle provvidenze pubbliche alla stampa esattamente come la scure del taglio dei rimborsi delle spese elettorali ai partiti. Continua a leggere