Verità e linguaggio

Il bambino comprende la madre e poi il padre perché li vede quotidianamente, ed è in grado di associare progressivamente le parole ai loro significati, che non sono solo significati concreti (oggettuali) ma anche astratti (emotivi).

Se il bambino li sentisse parlare senza poterli vedere, perché magari cieco, probabilmente ci metterebbe molto più tempo a capire gli aspetti astratti del linguaggio, ovvero la differenza tra semplici riferimenti oggettuali e complessi riferimenti emotivi. Un bambino cieco, per poter comprendere meglio il linguaggio astratto degli adulti, avrebbe continuamente bisogno d’essere toccato. In tal caso il contatto servirebbe come forma di rassicurazione.

Sotto questo aspetto tutte le religioni che presumono d’avere aspetti dogmatici nelle loro teorie non fanno altro che usare una intangibilità astratta per supplire alla mancanza di un contatto fisico con la divinità, che sanno bene di non poter avere (e che s’illudono d’avere nelle estasi mistiche). I credenti son come dei bambini ciechi con un corpo da adulto. E non si rendono conto che se la verità (in tal caso espressa attraverso il linguaggio) fosse una determinazione proveniente da una realtà totalmente esterna, come appunto una divinità, l’essere umano non riuscirebbe neppure a comprenderla.

Invece di dire che, se esiste un dio, non può in alcun modo essere più grande dell’uomo, almeno non negli aspetti di sostanza che qualificano l’essenza umana, i credenti preferiscono rimpicciolirsi al massimo, facendo della divinità un qualcosa di assolutamente sproporzionato, che, in ultima istanza, suscita sentimenti inquietanti, non avendo alcuna caratteristica umana.

Essi infatti s’immaginano un dio onnipotente e onnisciente, in grado di leggere i pensieri, di compiere qualunque cosa, di prevedere il futuro, di esprimere giudizi infallibili… Un dio del genere non potrebbe esistere neppure se ogni essere umano fosse destinato a diventare come lui. Infatti una condizione del genere è la negazione dell’elemento fondamentale che costituisce l’essenza umana, e cioè la libertà, soprattutto la libertà di coscienza.

E’ stato sicuramente per questo motivo che il politeismo non ha mai conosciuto il dogmatismo. Pur essendo la religione dello schiavismo e pur avendo quindi ogni motivo per elaborare dei dogmi con cui confermare la discriminazione sociale, il politeismo era ancora troppo vicino alla cultura pre-schiavistica per poterla offuscare del tutto. I miti greci, dove gli dèi hanno sempre la meglio su degli umani negativizzati, come p.es. Prometeo, quando non addirittura ridicolizzati, come nel caso di Polifemo, lo dimostrano eloquentemente: eppure quegli umani, nella realtà, cercavano disperatamente di non perdere la loro autonomia di pensiero e di azione.

La loro infatti era una cultura della libertà, che s’era dovuta piegare all’uso di quella forza che aveva prodotto la schiavitù, e che gli aristocratici latifondisti e guerrieri, insieme ai loro sacerdoti pagani, avevano fatto credere di poter conservare, illudendo schiavi e nullatenenti che sarebbe stato sufficiente coltivare infiniti culti a infinite divinità. A quel tempo era impossibile sostenere la pratica dello schiavismo giustificandolo con una religione monoteistica, caratterizzata dall’elaborazione di dogmi indiscutibili.

Il monoteismo è nato quando i rapporti con le culture primordiali erano stati del tutto dimenticati. A quel punto s’imponeva una duplice esigenza: quella di superare sia lo schiavismo che il politeismo. Purtroppo la storia ha voluto che il superamento dello schiavismo avvenisse non in direzione del recupero del comunismo primitivo, insieme all’ateismo naturalistico, ma in direzione di una transizione al servaggio, che ha appunto favorito l’evoluzione dal politeismo al monoteismo.

Il monoteismo appariva certamente come una forma più autoritaria di credenza, ma allo stesso tempo era anche più vicino alla condizione di un essere umano che, almeno formalmente, si sentiva più libero dello schiavo.

L’ulteriore passaggio dalla servitù al lavoro salariato del capitalismo ha comportato la trasformazione del monoteismo assoluto in un monoteismo privo di dogmi, liberamente interpretabile, cioè a una sorta di cripto-ateismo o di pratico agnosticismo, in cui s’impone una certa indifferenza alle verità dogmatiche. Questo spiega il motivo per cui il passaggio dal lavoro salariato a quello autogestito liberamente dovrà necessariamente comportare anche quello dall’agnosticismo religioso all’ateismo vero e proprio.

Il linguaggio quindi non può mai avere una connotazione religiosa che gli impedisca di evolversi. I dogmi sono una forma di ingenuità; e, in ogni caso, se può essere giusta l’esigenza di trovare delle definizioni più obiettive di altre, in quanto non esistono solo verità soggettive (personali), ma anche verità oggettive (collettive), non ha alcun senso perseguitare chi non le condivide. Usare i dogmi in chiave politica è un’aberrazione, di cui non s’è resa responsabile solo la chiesa romana ma anche i moderni totalitarismi.

Un collettivo può usare un dogma per espellere da sé chi non lo condivide, ma non può muovergli guerra. Peraltro chiunque dovrebbe sapere che i dogmi non si reggono in piedi da soli. Essi riflettono esperienze in atto, le quali, a loro volta, rispondono a bisogni e interessi specifici, e anche questi, col tempo, mutano enormemente.

Se proprio si volessero elaborare dei dogmi, sarebbe meglio farlo in maniera negativa, cioè apofatica, quella che viene usata non per affermare delle verità, ma per negare delle falsità, poiché tutti sanno che un’affermazione è allo stesso tempo una negazione che tende a escludere qualcosa che potrebbe col tempo rivelarsi molto importante.

Una negazione ha il pregio di lasciare aperto il campo a più possibilità. Se p.es. viene detto “non rubare”, sono infinite le possibilità in cui uno può vivere in maniera onesta. Se si dà invece una definizione astratta dell’onestà, che pretende d’essere, nella sua astrattezza, molto precisa, alla maniera filosofica o teologica, saranno infinite le obiezioni circa la sua effettiva applicabilità. Perché costringere gli uomini alle definizioni di una teoria quando sarebbe meglio lasciarli liberi nel cercare la pratica migliore?

Ecco perché bisogna sempre affermare che la verità è relativa, limitandosi, al massimo, a distinguere quella soggettiva, dell’individuo singolo, da quella oggettiva, decisa da istanze collettive, le quali devono dare per scontato che la verità assoluta è un obiettivo il cui raggiungimento non può certo essere stabilito a priori.

Lettera sull’apartheid in Palestina scritta dal giornalista Arjan El Fassed, che la firma polemicamente Nelson Mandela, al giornalista filo israeliano Thomas Friedman, che aveva scritto ad Arafat una lettera imitando George Bush figlio

Date le dichiarazioni di Obama, può essere utile riportare dal sito dal sito http://zeitun.ning.com/forum/topics/apartheid-nella-palestina-una una lettera di 11 anni fa firmata Mandela, ma che non è di Mandela, oggi quanto mai attuale. Come si legge all’inizio dell’articolo del  link citato, “Questa lettera è stata scritta nel marzo 2001 e si trova sul sito Media Monitors Network di un giornalista presumiamo palestinese Arjan El Fassed . In questi giorni è rimbalzata sulle mailing list. A seguire la bella lettera scritta da Arjan El Fassed alias Nelson Mandela a Thomas Friedman (famoso giornalista del New York Times) Infatti la lettera non e’ di Nelson Mandela, bensi’ di Arjan El Fassed, scritta nel marzo del 2001, in stile “mandeliano”, in risposta a un articolo di Friedman del 27 marzo 2001 in stile George W. Bush come lettera ad Arafat”.

“Caro Thomas,

So che entrambi desideriamo la pace in Medioriente, ma prima che tu continui a parlare di condizioni necessarie da una prospettiva israeliana, devi sapere quello che io penso. Da dove cominciare? Che ne dici del 1964? Lascia che ti citi le mie parole durante il processo contro di me. Oggi esse sono vere quanto lo erano allora:

“Ho combattuto contro la dominazione dei bianchi ed ho combattuto contro la dominazione dei neri. Ho vissuto con l’ideale di una societa’ libera e democratica in cui tutte le sue componenti vivessero in armonia e con uguali opportunita’. E’ un ideale che spero di realizzare. Ma, se ce ne fosse bisogno, e’ un ideale per cui sono disposto a morire”.

Oggi il mondo, quello bianco e quello nero, riconosce che l’apartheid non ha futuro. In Sud Africa esso e’ finito grazie all’azione delle nostre masse, determinate a costruire pace e sicurezza. Una tale determinazione non poteva non portare alla stabilizzazione della democrazia.

Probabilmente tu ritieni sia strano parlare di apartheid in relazione alla situazione in Palestina o, piu’ specificamente, ai rapporti tra palestinesi ed israeliani. Questo accade perche’ tu, erroneamente, ritieni che il problema palestinese sia iniziato nel 1967. Sembra che tu sia stupito del fatto che bisogna ancora risolvere i problemi del 1948, la componente piu’ importante dei quali e’ il Diritto al Ritorno dei profughi palestinesi.

Il conflitto israelo-palestinese non e’ una questione di occupazione militare e Israele non e’ un paese che si sia stabilito “normalmente” e che, nel 1967, ha occupato un altro paese. I palestinesi non lottano per uno “stato”, ma per la liberta’, l’indipendenza e l’uguaglianza, proprio come noi sudafricani. Continua a leggere