I limiti di Mauro Pesce
E’ significativo che lo storico del cristianesimo primitivo Mauro Pesce abbia iniziato a revisionare le sue tesi laiciste in direzione del misticismo a partire dalla fine degli anni Settanta, cioè proprio a partire dal momento in cui poteva essere considerata fallita l’idea di compiere una rivoluzione sociale in nome di un’idea religiosa, quella cristiana, così come l’avevano elaborata i Cristiani per il Socialismo, i Teologi della Liberazione, le Comunità di Base e tanti altri movimenti (per certi versi anche Comunione e Liberazione), più o meno condizionati o suggestionati dalle idee del socialismo scientifico.
Pesce ha compiuto anche la stessa involuzione che subirono i discepoli di Gesù nei confronti del loro maestro l’indomani della sconfitta del movimento nazareno e soprattutto della guerra giudaica: ciò a testimonianza che ogniqualvolta si rinuncia a trasformare politicamente la società o a porre i presupposti culturali perché se ne avverta la necessità, si finisce col diventare revisionisti, persino in senso mistico.
E quando si diventa revisionisti, inevitabilmente si finisce col dire delle sciocchezze, come ad es. la seguente: “la distinzione tra religione e politica… è troppo contemporanea per essere applicata al mondo antico” (cfr L’enigma Gesù, ed. Carocci, Roma 2008, p. 97). Come se il mondo antico non conoscesse minimamente il valore dell’ateismo! Come se gli inizi della filosofia greca siano stati di tipo religioso! Come se Socrate non fosse stato giustiziato proprio per la sua miscredenza! Come se il Buddismo sia nato come “religione per l’aldilà”!
Il vero motivo di questa sua affermazione è che, secondo Pesce, Gesù non poteva non essere “credente”: il che, detto così, è come se si dicesse che oggi, dopo duemila anni di cristianesimo, non possiamo non dirci cristiani.
Poi però, siccome il revisionismo è anzitutto negazione di una qualsivoglia politica o cultura anche solo un minimo eversiva, Pesce arriva ad aggiungere, cercando d’essere più realista del re, che Gesù non era neppure, nello stesso tempo, un uomo “politico” e un “credente”, come poteva esserlo p.es. un fariseo o, ancor più, uno zelote che lottava per la liberazione nazionale in nome della fede giudaica, ma era soltanto “radicalmente sociale e radicalmente religioso”, cioè in sostanza di “politico” non aveva proprio nulla. L’esegesi confessionale dei vangeli naturalmente ringrazia! Il bello è ch’egli spera proprio in questa singolare maniera di sfuggire all’accusa di “misticismo”, quella per cui si vuol fare del Cristo un individuo prevalentemente di tipo “religioso”.
Pesce è convinto d’aver trovato finalmente il vero volto di Cristo, che di “politico eversivo” non aveva nulla e i cui aspetti socio-religiosi in nulla si differenziavano da quelli dei grandi profeti veterotestamentari. A suo dire infatti la spiritualizzazione della figura di Cristo è avvenuta a partire dal III secolo, in seguito alla rinuncia ecclesiastica della componente giudaica della sua vita, per la quale gli aspetti sociali e religiosi non potevano essere disgiunti.
Pur di sostenere l’idea di un Cristo “tutto giudaico” egli arriva a negare ciò che da tempo viene considerata un’evidenza, e cioè che una radicale reinterpretazione dell’evento-Gesù è iniziata con Reimarus. In suo luogo preferisce parteggiare per un illustre sconosciuto: Isaac Ben Abraham di Troki, secondo cui Gesù “ammetteva l’eterna durata della legge mosaica” (p. 100). In tal modo Pesce non solo mostra di non comprendere la differenza tra cristianesimo ed ebraismo, ma si preclude anche la possibilità di dare del cristianesimo un’interpretazione laicizzata, che è l’unica a porre un minimo di basi scientifiche per distinguere Cristo dal cristianesimo petro-paolino.
Alla fine degli anni Ottanta Pesce ha iniziato a condividere gli studi di Adriana Destro, che sul piano antropo-sociologico davano corpo all’idea di un Gesù tutto giudaico, benché in forma indipendente dal potere costituito.
La novità socio-religiosa del Nazareno sarebbe stata una sorta di “protestantizzazione” del giudaismo ortodosso, nel senso ch’egli avrebbe cercato di recuperare un rapporto più diretto tra uomo e dio, non mediato dalle corrotte istituzioni “ecclesiastiche” (tempio e sinagoghe). E questo recupero sarebbe appunto avvenuto in forma “sociale”, costituendo un movimento di discepoli, che avrebbe dovuto rinnovare “spiritualmente” l’intera società, poiché esso non si poneva in maniera separata rispetto a questa (come invece l’essenismo), ma in maniera “interstiziale”, e – si badi bene – non per costruire un nuovo regno davidico (che avrebbe necessariamente implicato l’uso della forza militare), ma semplicemente per porre le basi etiche con cui poi dio, in seguito, avrebbe potuto rinnovare il mondo.
Se questo non è misticismo, allora che cos’è? Ha diritto Mauro Pesce ad essere considerato uno “storico laico” solo perché tende a caratterizzare Gesù in maniera più giudaica di quanto abbia mai fatto la chiesa cristiana? Non si rende conto Pesce che quando cerca d’impostare le cose in questi termini, evitando di riconoscere a buona parte del giudaismo di duemila anni fa il suo carattere fortemente rivoluzionario, mostra di subire un condizionamento di tipo “cristiano”?
L’idea che ha di Gesù Cristo è quella stessa che lui vorrebbe avere della chiesa cattolica, cioè quella di uno studioso che nelle proprie indagini non vuole sentirsi in obbligo nei confronti di alcuna istituzione religiosa. Pesce vorrebbe muoversi come una sorta di cristiano protestante, interfacciandosi con una società di tipo cattolico (non integralistica), e, nel fare questo, è convinto di poter esibire una propria originalità, rivendicando al Cristo un’identità fortemente giudaica, eventualmente nella speranza di trovare significativi consensi presso le comunità israelitiche, che, a questo punto, vien da dire, duemila anni fa avrebbero ucciso Gesù a motivo di un tragico malinteso (quello stesso che secondo il vangelo marciano determinò il giustizialismo di Pilato).
Pesce vuole sottrarre alla chiesa cattolica (che dovrebbe limitarsi a un’opera di edificazione spirituale) il monopolio dell’interpretazione storiografica dell’evento-Gesù, per poi sentirsi libero di trasformarlo in una sorta di esegesi filo-semita. Facendo questo, però, non conserva del giudaismo classico la parte migliore, quella politicamente più significativa, ma quella peggiore, quella più conservativa, sicché, alla fine, non fa che difendere un’altra istituzione religiosa, quella appunto dell’ebraismo ufficiale, ortodosso.
Pesce sembra non rendersi conto che, nell’ambito del cristianesimo, cioè internamente a questa sola confessione, l’unica possibile contrapposizione esistente è quella tra chiesa cattolica (impostata sulla monarchia pontificia) e chiesa ortodossa (impostata sulla collegialità sinodale). Sotto questo aspetto la contrapposizione tra cattolicesimo e protestantesimo resta interna al cattolicesimo, soprattutto quando la si vuole configurare in maniera esclusivamente religiosa. Le idee del protestantesimo erano già presenti in eresie del mondo cattolico almeno mezzo millennio prima che nascesse.
Il protestantesimo non avrebbe fatto altro che “socializzare” un abuso di potere che la chiesa romana ha cominciato a manifestare sul terreno politico sin da quando ha pensato di potersi costituire come “Stato politico”. Il protestantesimo diventa invece interessante per la concezione laica dell’esistenza quando le sue ricerche esegetiche conducono, se svolte in maniera conseguente, a formulare tesi di tipo agnostico o addirittura ateistico. Ma sotto questo punto di vista sono interessanti anche tutte le teologie che, in ambito cattolico, si rifanno alle analisi del socialismo scientifico o anche solo utopistico, pensando di poter realizzare meglio la fede religiosa con una prassi comunitaria di tipo collettivistico.
In ogni caso non c’è alcuna possibilità che un ricercatore sul cristianesimo venga valorizzato dalle istituzioni ecclesiastiche, senza che preventivamente non gli venga chiesto di riconoscerle come autorità dogmatiche. Pesce vuole muoversi come protestante che esalta dell’evento-Gesù la sua componente giudaica, senza rendersi conto che, così facendo, finisce solo col contrapporre all’istituzione cattolica quella ebraica, la quale, proprio come quella cattolica, non può ammettere una fede religiosa senza la corrispondente istituzione (sociale, culturale e politica) che la sostiene.
Pesce vuole rinnovare il cristianesimo con nuove idee religiose mutuate dall’ebraismo, vuole ricondurre Gesù nell’alveo delle più “pure” tradizioni semitiche, e così fa diventare il Cristo uno dei tanti profeti biblici, non più grande certamente del Battista. Egli non pretende di fare un discorso ateistico, ma dice di non voler neppure fare un discorso “confessionale”. All’apparenza, infatti, egli sembra non voler fare un’analisi in senso cattolico tradizionale, però la fa ugualmente, nei panni di uno che la chiesa romana non avrebbe difficoltà a qualificare come un “protestante”, anche se certamente non come un protestante “radicale” (alla Bultmann per intenderci).
Ch’egli sia un autore “religioso”, seppur non strettamente confessionale, è lui stesso che lo spiega là dove afferma che non ha alcuna intenzione di compiere delle analisi contro il cristianesimo o la fede cristiana, anzi, al contrario, il suo obiettivo è quello di “contribuire al rinnovamento del cristianesimo” (p. 111). In tal senso appare curiosa la frase in cui dice d’interessarsi “della figura storica di Gesù, non della fede” (ib.), anche perché accetta chiaramente dei vangeli cose per le quali la fede è obbligatoria.
A suo parere infatti le esperienze più significative di Gesù sono state quelle di tipo “religioso” o “sovrannaturale”, come p.es. i cosiddetti “miracoli”. Tutte le ritrattazioni che nell’arco della sua vita Pesce ha fatto sono state a favore di un’interpretazione confessionale dell’evento-Gesù. Lo dice espressamente a p. 112: Gesù “era convinto che Dio stesse per realizzare il suo regno. Vedeva anzi nella propria capacità taumaturgica già una presenza della potenza di Dio che stava finalmente per prendere possesso del mondo… Dopo il giudizio universale sarebbe iniziato il regno di Dio, e tutte le genti (cioè i non ebrei) si sarebbero convertite all’unico Dio… Questo sogno non era altro che il sogno dei profeti biblici”.
A che serve dire altro di Pesce? Non abbiamo bisogno di un’altra testimonianza. Si giudica da solo, direbbe Caifa.
A chi gli obietta di non capire la diversità tra Cristo e il rabbinismo, lui risponde citando alcuni esempi:
- Gesù non voleva “dichiarare puri” tutti gli alimenti, altrimenti Pietro negli Atti (10,11ss.) avrebbe saputo come comportarsi.
- L’amore dei nemici è “un approfondimento che si muove totalmente all’interno dei parametri della cultura biblica, cioè ebraica”.
- Gesù non ha mai negato un valore al precetto del sabato.
Cosa obiettare a queste tesi se non ciò che da secoli sostiene l’esegesi laica e in vari aspetti persino quella confessionale?
- Gesù aveva semplicemente dichiarato insussistente la questione di poter stabilire una purità interiore sulla base di una purità esteriore. Indirettamente quindi l’atteggiamento nei confronti del cibo era del tutto irrilevante: uno poteva continuare a praticare le regole dietetiche o rinunciarvi del tutto, ma non sarebbe stato in virtù di nessuno dei due atteggiamenti ch’egli avrebbe potuto migliorare la propria coscienza e tanto meno la società attorno a lui.
- Nei vangeli l’amore dei nemici viene posto in senso reazionario, per impedire la rivoluzione anti-romana.
- Il rispetto del sabato è considerato irrilevante dal Cristo proprio in antitesi alla pretesa giudaica di voler fare, in generale, del mero rispetto della legge la principale condizione della liberazione umana e politica. Concepire il sabato come un feticcio significava essere contrari alla democrazia.
Pesce insomma è convinto di potersi attirare le simpatie dei non credenti dicendo di non volersi porre come “teologo” ma solo come “storico della religione” (e aggiungiamo anche “filosofo della religione”), servendosi per le sue ricerche di scienze umane come l’antropologia e la sociologia. Non vuole presupporre la fede alla sua ricerca storica, ma, in definitiva, non la mette neppure in discussione; vuol soltanto riservarsi di decidere quando usarla e quando no.
In teoria ammette che la fede non è di alcuna utilità per la ricerca storica, di fatto però non ne contesta i presupposti (il primo dei quali è quello di credere in cose che la ragione non può ammettere). Lui difende le proprie posizioni sostenendo la relatività della conoscenza e non si rende conto che non si può essere così relativisti da rischiare di dover fare gli interessi della religione: non si possono ammettere delle cose che non aiutano minimamente lo sviluppo di una comprensione obiettiva della stessa fede, che di per sé, a prescindere dai comportamenti di chi la pratica, non ha nulla di razionale.
Di fronte all’evento-Gesù – così fortemente strumentalizzato dalle chiese di tutti i tempi in senso mistico – non è possibile sostenere che “la ricerca storica non è né per la fede, né per la non fede” (p. 122). Posizioni del genere o sono false o sono terribilmente ingenue. Gesù Cristo non può essere paragonato a Giulio Cesare o Alessandro Magno. Qui non abbiamo a che fare con un personaggio qualunque della storia, ma con un individuo in cui credono ancora, senza alcuna vera razionalità, miliardi di persone.
Professare equidistanza nei confronti delle chiese o delle fedi religiose o delle teologie, rinunciando a una propria posizione laicistica, significa, inevitabilmente, fare il gioco dei clericali. Il fatto stesso ch’egli dica d’aver avuto come maestri H. Schlier, J. Dupont e R. Schnackenburg, e come fonti ispirative W. G. Kümmel e Ph. Vielhauer, e di tenere costantemente conto di R. Brown, G. Theissen e altri, la dice lunga sulle fonti laiche di Pesce.
L’unico, tra quelli citati nella pubblicazione, che avrebbe potuto aiutarlo a fare un minimo di chiarezza nella sua confusa storiografia del cristianesimo primitivo era S. Brandon, su cui però egli dice di aver scritto decine di pagine di “aspra critica”.