Apparenza e realtà tra etica e scienza
Per millenni abbiano creduto vera un’apparenza – che fosse il sole a girarci intorno -, eppure siamo vissuti lo stesso e dignitosamente.
Sostenere che il progresso sia iniziato quando abbiamo scoperto la verità, sarebbe sciocco. Di per sé la verità scientifica non dice nulla sulla verità etica o filosofica o politica di una società, tanto meno sul suo “progresso”. Questa è una verità elementare ma sconosciuta, in genere, agli autori dei manuali scolastici di storia, che vedono il presente migliore del passato.
Il Medioevo non è più falso della Modernità perché più ignorante, né la Modernità è più vera perché più sapiente. L’ignoranza non ha alcun rapporto con la falsità. L’apparenza, di per sé, non è più falsa della realtà. Esiste forse materialmente l’arcobaleno? No, eppure lo vediamo e ci costruiamo sopra persino dei miti, proprio a causa di questa sua particolarità.
Se qualcuno, di fronte al cucchiaino spezzato in un bicchier d’acqua, ci spiega il fenomeno della rifrazione, noi forse smettiamo, solo per questo, d’avere una percezione magica della realtà? E allora perché c’illudiamo di poter pagare i nostri debiti col gioco d’azzardo o le lotterie o gli imbonitori alla Vanna Marchi? Perché pensiamo di poter un giorno recuperare le nostre perdite in borsa? Perché pensiamo che un semplice cambio di governo possa migliorare, stante l’attuale sistema, la nostra situazione disastrata? Perché usiamo le medicine come un toccasana miracoloso? E così via.
Semmai la falsità subentra quando si vuol negare che l’apparenza sia solo un’apparenza, ovvero che non possa o, peggio, non debba esistere una realtà opposta, cioè che non possa essere dimostrata un’altra verità, come appunto sosteneva la chiesa ai tempi di Galileo.
Oggi diciamo che l’ignoranza della verità non è ammessa, ma lo diciamo perché siamo illuministi e positivisti, cioè ideologici. Noi in realtà ci illudiamo che la verità etica possa dipendere da quella teoretica o gnoseologica. Ma son due cose del tutto separate, com’è giusto che sia.
Uno deve poter essere giudicato anche nella sua ignoranza, non in quanto ignorante, ma in rapporto al suo modo di vivere il bene. Il bene può essere vissuto anche nell’ignoranza.
Il bene è verità? Se lo è, allora la verità può anche essere ignorante. Il fatto di non sapere non può essere usato come scusa o pretesto per “non-essere”. Non è possibile dire: “Mi sono comportato male perché non sapevo”. La percezione del bene e del male va al di là della conoscenza della verità o della falsità.
Si può però dire: “Ora so quale sia la verità, cambierò atteggiamento”, cioè “se ho sbagliato in qualcosa, per mia ignoranza, rimedierò”. Ma una disponibilità del genere – bisogna ammetterlo – lascia supporre che anche l’errore in causa non fosse molto grave. Questo perché l’etica è sempre superiore alla gnoseologia, altrimenti non avremmo fatto alcun passo avanti rispetto alla Grecia classica, quando i filosofi dicevano che la colpa sta nell’ignoranza.
Nell’ignoranza esiste la buona fede, che viene sempre moralmente (benché non giuridicamente) giustificata, tant’è che diciamo: “errare è umano”, ma non per questo diciamo che un errore gnoseologico porta automaticamente a un errore del comportamento. Il male non viene prodotto dall’ignoranza in sé, ma da un modo sbagliato di vivere il bene, cosa possibile anche nella conoscenza della verità.
Un contadino cattolico, che ha sempre obbedito alle leggi e pagato le tasse, può odiare lo straniero islamico se gli viene fatto credere che può essere un suo nemico. Una persona buona può diventare cattiva nella sua ignoranza, ma non è la sua ignoranza che la fa diventare cattiva: è piuttosto l’abitudine a obbedire ciecamente, a fidarsi dei propri superiori, come in genere avveniva nel Medioevo, e se vogliamo anche oggi, nonostante la nostra sterminata conoscenza.
Tant’è che è vero anche il contrario, e cioè che non è la certezza del carattere inoffensivo dello straniero che ci porterà a non odiarlo. L’atteggiamento nei confronti del bene è soggetto a valutazioni che esulano dalla conoscenza della verità in senso stretto.
Gli indiani del Nord America sapevano bene che i bianchi mentivano quando firmavano i loro trattati, eppure, siccome erano abituati a credere nel valore della parola data, continuavano a credere nella verità di quei trattati e nella sincerità di chi li firmava; l’uomo bianco aveva la lingua biforcuta, ma l’indiano, nella sua ingenua buona fede, si sentiva in dovere di credere nelle promesse di lui: se voleva continuare a vivere nel bene, sentiva di non avere alternative.
E così il genocidio degli indiani non è stato solo uno sterminio della buona fede ma anche della verità e del bene in generale, al punto che oggi l’uomo bianco non sa più distinguere il bene dal male, e quando parla fa fatica a credere nelle sue stesse parole. La finzione s’è sostituita alla realtà, tanto che qualunque animale, nella semplicità dei suoi istinti, è diventato più “vero” di qualunque essere umano.
Siamo diventati falsi proprio nella nostra grande conoscenza, non perché la conoscenza renda falsi, ma perché quando non si vuol vivere il bene, quando non si vuole “essere”, non c’è conoscenza che tenga: la sua funzione si riduce soltanto a mistificare meglio il “non-essere”.
Ciò detto, resta da stabilire cosa s’intenda con la parola “bene”. Ma questo è un discorso che la filosofia non può fare, neppure la filosofia della morale o l’etica in generale. Per comprendere la natura del “bene”, bisogna storicizzarlo, calarsi nelle determinazioni di spazio e tempo, fare considerazioni che riguardano i comportamenti umani in senso stretto, che concernono discipline come l’economia, la politica ecc. Parlare del “bene” in astratto, senza considerare i rapporti di proprietà o i conflitti sociali, non serve a nulla.