Hosea Jaffe e la riscoperta del comunismo primitivo
Hosea Jaffe è uno di quegli economisti di sinistra che dice pane al pane e vino al vino. Non so quanti suoi colleghi contemporanei sostengano che va recuperata la società primitiva, quella pre-schiavistica, al fine di ritrovare l’uguaglianza e la democrazia “moderne”. Di sicuro non v’è nessuno tra quelli borghesi e si farà fatica a trovarne persino qualcuno tra quelli marxisti.
Lui p.es. nega una cosa che per il marxismo (e forse questa è una delle tante ragioni che ha indotto la Jaca Book a pubblicare molti suoi libri) è sempre stato considerato un dogma: la necessità di una qualsivoglia transizione a un livello superiore di civiltà, sia quella dal comunismo primitivo allo schiavismo, che quella dal feudalesimo al capitalismo, per non parlare di quella dal capitalismo al socialismo. E’ proprio sul concetto di “necessità” che non vuol sentire ragioni.
Di tutta la civiltà europea, a partire dalla nascita dello schiavismo come stile di vita, Jaffe non salva nulla. Per lui la più grande disgrazia dell’umanità è stata la distruzione del comunismo primitivo. Non solo, ma, pur dichiarandosi marxista (che oggi in occidente è come dire “alieno”), egli ha sottoposto a dura critica i classici del marxismo, soprattutto là dove ritengono “arretrati” i popoli non-europei, giustificando così il colonialismo occidentale, al fine appunto di poter parlare di “necessaria transizione al socialismo”.
Secondo lui con la nascita dell’imperialismo (verso la fine dell’Ottocento) è andato irrimediabilmente distrutto il comunismo primitivo a livello planetario. En passant potremmo aggiungere a questa tesi incontrovertibile la seguente considerazione: l’imperialismo (oggi chiamato globalismo) riproduce la stessa percezione unitaria del pianeta che avevano gli uomini primitivi, che si sentivano liberi di esplorarlo e di popolarlo come volevano, ma con la fondamentale diversità che oggi, per avere questa consapevolezza, bisogna essere proprietari di capitali.
Sotto questo aspetto la vera mimesi del comunismo primitivo non è neppure prerogativa del globalismo occidentale, i cui capitali sono gestiti da privati o, al massimo, da società anonime, ma diventerà prerogativa di un paese che sta per prendere in mano le redini dell’intero pianeta: la Cina, per la quale la gestione dei capitali deve essere strategica e non individualistica, e per poterlo essere efficacemente, occorre l’intervento dirigistico dello Stato e del partito unico. Lo Stato non può essere al servizio dei capitali più di quanto questi non debbano esserlo nei confronti dello Stato.
Al tempo di Marx – scrive Jaffe nel suo Era necessario il capitalismo?, Jaca Book 2010 – l’ultima esperienza di comunismo primitivo era quella della obscina russa (che poi, in realtà, era una forma edulcorata di feudalesimo, in quanto il vero comunismo primitivo poteva al massimo trovarsi in qualche tribù misconosciuta, ridotta di numero e dispersa in quelle zone non appetibili o non ancora debitamente sfruttate dal grande capitale, dell’Africa, dell’Asia, del Sudamerica o dell’Oceania).
Hosea Jaffe è uno di quegli economisti radicali che sostiene che senza lo sfruttamento di questo comunismo primitivo non sarebbe mai nato il capitalismo. In tal senso fa le pulci allo stesso Marx, il quale non affermò mai espressamente che l’accumulazione originaria del capitalismo fu una conseguenza diretta del colonialismo. NelCapitale infatti il colonialismo è indubbiamente visto come elemento che favorì la nascita del capitalismo, ma non è visto come fattore determinante in prima istanza.
Jaffe invece, per sostenere la sua tesi, anticipa il colonialismo all’epoca delle crociate, cioè lo fa risalire ad almeno mezzo millennio prima della nascita della rivoluzione industriale, sicché questa poté avvenire proprio perché le “casse per gli investimenti” erano già piene di uno sfruttamento intensivo e plurisecolare.
Gli si può dar torto? Sì. Ma come, non ha forse ragione quando equipara le crociate a una forma di colonialismo? Sì, ha ragione, ma per far nascere il capitalismo non basta il colonialismo. Se fosse così facile, non si spiega perché il “capitale” (nell’accezione borghese) abbia dovuto impiegare mezzo millennio prima di nascere; e meno ancora si spiega perché, passato questo mezzo millennio, le prime due grandi nazioni colonialiste europee, il Portogallo e soprattutto la Spagna, non siano mai diventate capitalistiche (in senso industriale o finanziario), se non dopo un altro mezzo millennio, con molta fatica e, per giunta, quando i loro imperi coloniali non li avevano più.
Per diventare capitalisti ci vuole una mentalità, una cultura molto particolare, che non avevano neppure i Romani, che pur avevano creato una società mercantile e coloniale molto più evoluta, molto più centralizzata e organizzata di quella europea esistente al tempo delle crociate.
Ci vuole una mentalità che faccia della liberà formale (giuridica) il criterio dei rapporti umani, che anzitutto vogliono essere “produttivi”, basati sulla “quantità”. Questa non è una cosa semplice, poiché viene più istintivo trattare il perdente, il nullatenente o l’insolvente alla stregua di uno schiavo. Per ritenere necessaria una mediazione giuridica tra oppresso e oppressore, occorre compiere un salto di qualità.
Certo anche i Romani avevano il diritto – eccome se l’avevano! -, ma da esso erano totalmente esclusi gli schiavi. Il concetto di “persona” non lo si applicava allo schiavo, e anche quando la legislazione chiedeva agli schiavisti di non eccedere nelle punizioni, al massimo imponeva una sanzione amministrativa.
C’è voluto il cristianesimo e la cultura “barbara” per umanizzare il rapporto di schiavitù, trasformandolo in rapporto servile. Ma questo a Jaffe non interessa, e neppure al marxismo è mai interessato. E’ vano chiedergli di fare un’analisi di questa cultura: il suo discorso è meramente strutturale, ponendosi, in questo, sulla falsariga di quello vetero-marxista. L’unica “cultura” che vede è quella ideologica che ha favorito l’abolizione formale della schiavitù per trasformare il colonialismo in un imperialismo, modernizzando, per così dire, il razzismo.
A suo dire l’Europa occidentale ha conosciuto solo esperienze di schiavismo e di razzismo (almeno a partire dai Greci), fatto salvo il periodo altomedievale, dominato da popolazioni extraeuropee, che al massimo conoscevano un “dispotismo comunitario”. L’Europa cioè sarebbe passata da una forma di schiavismo all’altra, diffondendolo come un virus in tutto il pianeta. I due principali eredi di questo schiavismo sono stati gli Usa e il Giappone.
Trattare o discutere con questi tre poli dell’imperialismo è fatica sprecata. Il loro obiettivo è quello di dominare il mondo. Semmai – scrive Jaffe che, in questo, la pensa come Samir Amin – ci si deve chiedere quale sia il modo migliore per difendersi da questi sistemi schiavistici. Jaffe infatti contesta sia Marx che Engels là dove ritengono che il capitalismo, pur con tutte le sue aberrazioni, costituisce un prodotto “necessario” della storia, propedeutico alla nascita del socialismo.
Jaffe sostiene che per realizzare il socialismo non c’era affatto bisogno del capitalismo, anche perché, là dove questo s’è imposto, non s’è mai verificata alcuna transizione socialista, come invece è accaduto in alcuni paesi poveri e colonizzati, ovvero negli anelli più deboli del sistema mondiale borghese.
Pensare dunque che il capitalismo possa aiutare a realizzare il socialismo è pura follia. Infatti – scrive Jaffe – persino il proletariato industriale dell’occidente è co-responsabile dello sfruttamento del Terzo Mondo, e se dovesse scoppiare una guerra contro qualche paese colonizzato o addirittura un conflitto mondiale, assai difficilmente esso la trasformerebbe – come già chiedeva Lenin nel corso del primo conflitto mondiale – in una guerra civile contro i propri governi nazionali.
Più che cercare rapporti di collaborazione con l’occidente, il Terzo Mondo dovrebbe organizzarsi in maniera autonoma, cercando di ridurre al massimo i propri rapporti di dipendenza neocoloniale.
Per Hosea Jaffe il vizio di fondo dell’economia mondiale sta nel voler vivere sulle spalle altrui, cioè sta nelcolonialismo, che India e Cina, p.es., non hanno mai praticato, pur conoscendo lo schiavismo. In tal senso la fine del capitalismo e del colonialismo non necessariamente dovrà comportare la fine dell’industrializzazione, ma solo un diverso modo di gestirla.
Se avesse però fatto un discorso “culturale” e avesse ripensato i rapporti tra uomo e natura, Jaffe avrebbe dovuto ammettere che anche l’industrializzazione della produzione è un concetto che va superato. E si sarebbe forse risparmiato l’ingenuità di credere che un paese come la Cina, una volta imparato ad usare la libertà giuridica nella maniera fittizia dell’occidente, non sia destinata a diventare una potenza imperialistica.