Tra Smith e Marx
Perché Adam Smith è “borghese”? Il motivo fondamentale non sta affatto nel suo individualismo, ma, al contrario, nel far passare il proprio individualismo come una forma di collettivismo. In particolare la “divisione del lavoro”, per lui fonte di ricchezza, insieme ovviamente alle macchine, veniva considerata una forma di “collettivismo industriale”, sconosciuta a qualunque civiltà pre-borghese.
E’ infatti nella mistificazione che sta la grandezza della borghesia. Se, esplicitamente, essa avesse detto che il singolo (artigiano, imprenditore, commerciante) è migliore del collettivo rurale, ci avrebbe messo molto più tempo per affermarsi, poiché difficilmente avrebbe potuto sottrarsi all’accusa di egoismo, di perseguire interessi privati ecc.
Sostenendo invece il contrario, e cioè che la produzione borghese era un’esperienza collettivistica, molto più efficace di tutte le precedenti, i tempi si sono di molto ridotti.
Il contadino, sapendo fare di tutto, resta un isolato, uno che non ha bisogno del lavoro altrui. L’autarchia viene fatta passare, da Smith, come una forma di primitivo individualismo, analogo a quello delle specie animali, che è sempre decisamente inferiore, come produttività, alla dipendenza reciproca, fonte principale della ricchezza di una nazione.
La produzione borghese, dovendo coinvolgere tante persone per realizzare anche una semplice merce come uno “spillo”, diventa un’operazione collettivistica, in cui ognuno si specializza in una particolare attività, migliorandola in tutti i suoi più piccoli aspetti, al fine di ottenere una grande quantità di beni. Ci vuole molta organizzazione per realizzare un’operazione del genere.
Smith afferma la superiorità del collettivismo operaio meccanizzato della produzione in serie, al fine di sostenere, rispetto alla comunità feudale, la superiorità del singolo produttore-organizzatore, proprietario di capitali da investire e di mezzi produttivi da impiegare. Cioè da un lato afferma, contro la rendita feudale, che solo il lavoro è fonte di ricchezza; dall’altro evita però di affermare che la vera ricchezza sta nello sfruttamento borghese della forza-lavoro operaia, compiuto attraverso le macchine.
Marx, criticandolo, ha accettato un suo fondamentale punto di vista. Egli infatti s’è limitato a sostenere che la proprietà dei mezzi produttivi andava socializzata e che quindi il reddito andava equamente suddiviso tra i vari lavoratori, ma non è mai arrivato a sostenere che il lavoro del contadino pre-borghese non fosse affatto individualistico, né che l’aumento della quantità dei beni utili alla riproduzione non fosse un criterio fondamentale per capire il progresso di una nazione. Il Marx economista non ha mai messo in discussione né la divisione del lavoro, né lo sviluppo del macchinismo. Ha messo solo in discussione la privatizzazione dei profitti.
Da Marx i contadini sono sempre stati visti come lavoratori isolati. Il nuovo collettivismo anti-capitalistico poteva essere realizzato solo dagli operai all’interno delle fabbriche borghesi. Ecco perché occorre dire ch’egli ha ereditato i fondamentali pregiudizi borghesi sull’epoca feudale e sulla classe rurale in particolare (per quanto la critica della rendita fosse più che giustificata).
E le conseguenze quali sono state?
- Che la classe operaia non ha mai avuto una cultura ma solo una politica alternativa a quella borghese, finalizzata ad acquisire la semplice proprietà comune dei mezzi capitalistici;
- che una politica senza una cultura alternativa si corrompe molto facilmente, nel senso che l’operaio ad un certo punto smette di opporsi alla borghesia in maniera rivoluzionaria e si limita a fare semplici rivendicazioni salariali (in questo peraltro sta la differenza tra marxismo e leninismo, per quanto neppure quest’ultimo abbia saputo impostare i termini del problema in chiave culturale).
Se l’operaio si opponesse culturalmente alla borghesia, cioè non solo a un “modo di produzione” (quello che privatizza i profitti), ma anche e soprattutto alla “civiltà” che gli è strettamente correlata, non si limiterebbe a esigere la proprietà sociale dei mezzi produttivi, ma metterebbe in discussione l’intero sistema produttivo, fino alle sue fondamenta tecnologiche e scientifiche.
Un’opposizione culturale è necessariamente sistemica, globale, parte cioè dal presupposto di non salvare a priori nulla del sistema borghese, o comunque di chiedersi, per ogni singolo suo aspetto, se davvero meriti di essere salvato, soprattutto in rapporto all’impatto che ha sull’ambiente naturale.
L’economia politica borghese ha fatto coincidere ricchezza e benessere (o quantità e qualità) dal punto di vista della ricchezza (o della quantità). Non ha guardato gli interessi collettivi da un punto di vista generale, ma ha fatto credere che quelli privati dei capitalisti avessero una ricaduta positiva sull’intera collettività. Non ha mai preso in considerazione le persone in quanto tali, ma solo i lavoratori e, di questi, ha privilegiato solo quelli che sanno sfruttare il lavoro altrui. Ha fatto della natura una serva al servizio del capitale e della sua tecnologia e ha fatto credere, alle popolazioni prive di questa tecnologia, ch’era nel loro interesse restare sottomesse a chi la possedeva, nella speranza di poter un giorno cambiare vita.
A questo sistema economico il cosiddetto “socialismo reale” ha opposto il rovescio di una medesima medaglia, con la differenza che in luogo del capitalista privato aveva creato uno Stato centralizzato, intenzionato a utilizzare analoghi mezzi produttivi con sistemi pianificati dall’alto.
Questo ovviamente non significa che non avrebbe mai dovuto esserci una industrializzazione del lavoro, ma semplicemente ch’essa avrebbe dovuto porsi come scelta consapevole di una collettività democratica, e non come un’imposizione di pochi, mascherata dalla formale libertà giuridica tra proprietari e lavoratori, o da una superiore ideologia collettivistica in cui tutta la proprietà doveva essere statalizzata.