La questione della riproduzione tra religione e sessualità
Quando sessualità vuol dire soltanto “riproduzione”, quando cioè in ogni atto sessuale esiste la possibilità di una fecondazione, e quando la riproduzione è una fonte di ricchezza per l’intera collettività, che così è in grado di espandersi e di fortificarsi, posto che vi siano sufficienti risorse per la sopravvivenza del collettivo, storicamente non viene mai usata la sessualità in chiave etico-religiosa. L’unico divieto è quello dell’incesto, di cui si dovettero scoprire molto facilmente gli inconvenienti fisiologici.
La sessualità, per milioni di anni, venne considerata come un semplice strumento tecnico per ottenere un fine pratico: la riproduzione della specie. Probabilmente anzi in epoca preistorica la sessualità veniva usata come tra gli animali, unicamente a fini riproduttivi, e molto probabilmente dipendeva dalla ricettività o disponibilità della femmina, che doveva portarne l’onere maggiore.
Non potevano esserci “perversioni sessuali”, poiché una cosa del genere presume già la separazione della sessualità dalla riproduzione. La religione nasce o subentra quando esiste già la possibilità di compiere questa separazione, la quale è stata possibile soltanto dopo che l’uomo ha assunto un atteggiamento di superiorità nei confronti della donna, cioè quando si è fatto valere il principio maschile della forza su quello femminile della debolezza.
Tale prevaricazione è stata la conseguenza di una scissione avvenuta nell’uomo stesso: il maschio che non sa più chi è (perché ha rotto il suo rapporto con la natura e comincia a vedere il proprio simile come un rivale), pensa che un modo per “ritrovarsi” sia quello di dominare la donna.
La sessualità viene slegata dalla riproduzione con la nascita delle città, col dominio delle città sulla campagna, dei poteri intellettuali su quelli manuali, del commercio-artigianato sull’agricoltura-allevamento e così via. Se si stacca la sessualità dalla riproduzione, la donna diventa un mero oggetto sessuale per il piacere dell’uomo (piacere fisico o economico, a seconda del tipo di sfruttamento).
La fine della preistoria ha comportato la fine dell’uguaglianza dei sessi e l’inizio dell’uso strumentale della differenza di genere. L’eccessiva importanza erotica che si dà alla sessualità è frutto di un’alienazione dei rapporti sociali, è la conseguenza del prevalere dell’individualismo sul collettivismo.
La religione (in particolare quella cattolico-romana, che pretende una certa visibilità politica) interviene proprio su questa alienazione, appropriandosene, per poter esercitare un controllo sulle persone. Essa obbliga ad associare sessualità a riproduzione senza far nulla per creare i presupposti che rendono quell’unità un fatto naturale, spontaneo, cioè senza far nulla per superare gli ostacoli che impediscono di associare in maniera naturale sessualità a riproduzione o che impediscono di considerare la sessualità soltanto come uno strumento di piacere.
Da un lato quindi la religione conferma l’individualismo delle società antagonistiche, dall’altro invece, al fine di crearsi un proprio spazio di legittimità, associa la sessualità fine a se stessa alla colpa. In tal modo fa sentire in colpa chi, in quell’antagonismo sociale, subisce la volontà del più forte. Non solo, ma anche tra i più deboli, la religione fa sentire la donna più colpevole dell’uomo.
L’ipocrisia della religione sta proprio in questo, che, pur partendo da un’istanza giusta, quella di colpevolizzare la sessualità fine a se stessa, se ne serve per confermare le contraddizioni sociali che la rendono inevitabile.
La psicanalisi freudiana è intervenuta proprio su questa ipocrisia, facendo in modo che il credente (sessualmente frustrato) cominciasse a vivere la sessualità separata dalla riproduzione senza alcun senso di colpa, cioè liberandosi del proprio rapporto di soggezione nei confronti della chiesa. Anch’essa, sul versante opposto a quello della fede, ha contribuito a giustificare l’antagonismo sociale. Ha semplicemente diminuito il peso di una contraddizione, abbassando il tasso di moralità. E tale operazione intellettuale è passata alla storia come una forma di “emancipazione borghese”.