Perché lo Stato sociale ha il fiato corto?
“Stato sociale” oggi vuol dire molte cose: scuola, sanità, previdenza e assistenza, amministrazione, forze armate e di polizia, parlamento nazionale ed europeo, enti locali territoriali, opere pubbliche, tutela ambientale, elargizioni a fondo perduto (per le aree depresse, per le ristrutturazioni aziendali, per i partiti, per i mezzi di comunicazione, ultimamente persino per le banche in difficoltà, ecc.).
Per far funzionare tutte queste cose, per pagare gli stipendi dei settori economicamente produttivi e improduttivi, si devono imporre molte tasse, soprattutto ai dipendenti pubblici, che non possono evaderle. Con la scusa delle ingenti tasse per i servizi sociali nazionali, lo Stato in realtà mantiene una pletora di servizi che di “sociale” non hanno nulla, poiché fanno gli interessi solo delle classi egemoni.
Il primo Stato sociale fu inventato in Grecia, al tempo di Pericle, proprio nel momento in cui i greci si stavano godendo la vittoria militare contro l’impero persiano. Atene, con la sua Lega di Delo, aveva intenzione di spadroneggiare su tutto il Mediterraneo, inclusa quindi la città che più l’aveva aiutata nella guerra: Sparta.
Per avere delle finanze da gestire, Pericle s’inventò un’idea originale: tutti i cittadini dovevano versare un’indennità per permettere ad altri, privi di mezzi o non disposti a perdere i loro guadagni, di partecipare alla politica e alla gestione della cosa pubblica. Si partì insomma da un’esigenza che apparentemente sembrava giusta, per volgerla contro gli interessi delle categorie più deboli e cercare di fondare l’impero.
Infatti le ambizioni delle classi egemoni ateniesi furono pagate da una guerra interminabile (e dal risultato catastrofico) contro Sparta, dal ritorno in auge della potenza persiana e dall’invasione dell’esercito macedone di Alessandro il Grande, che pose fine alla tradizionale democrazia della polis. Poi fu la volta dei romani e la Grecia non si riprese più.
L’idea di “Stato sociale” apparve comunque sin dall’inizio un’assurdità. Infatti, prima d’allora la tendenza era sempre stata quella di permettere ai ricchi di campare di rendita, sfruttando al massimo i poveri, ch’erano gli unici a pagare le tasse. Con lo Stato sociale invece tutti dovevano pagare qualcosa e i poveri le pagavano due volte: ai privati che li comandavano e ora anche allo Stato.
Il fatto che i ricchi, di qualunque paese del mondo, pensassero di non dover mai pagare alcuna tassa e che per i servizi sociali i poveri dovessero arrangiarsi da soli, è sempre parso così incontestabile che dai tempi dei greci ad oggi ci sono volute migliaia di anni prima che si tornasse a riparlarne.
Persino Marx era contrario all’istituzione dello Stato sociale, poiché non voleva che il proletariato, con le proprie tasse, pagasse l’istruzione ai figli della borghesia. Lo Stato, per lui, era lo strumento più pericoloso nelle mani della borghesia.
Il socialismo infatti, ben prima della nascita dello Stato sociale, aveva saputo, in occidente, organizzarsi in maniera autonoma attraverso le associazioni dei lavoratori, che volevano tutelarsi nei casi di bisogno, proprio perché non esisteva alcuno Stato che avesse una funzione “sociale”.
Fino alla prima guerra mondiale lo Stato estorceva solo tasse, chiamava alla leva e favoriva le imprese private, e ovviamente gestiva l’ordine pubblico e le guerre. Se era forte, aiutava gli imprenditori a colonizzare i paesi non industrializzati.
L’esigenza di allestire una sorta di “Stato sociale” viene fatta propria, in un certo senso, anche dal fascismo, il cui Stato corporativo chiedeva ai cittadini, per poter beneficiare di determinati servizi, un’adesione di tipo ideologico.
In epoca moderna, esattamente nel 1948, il primo paese a realizzare il Welfare State è stata la Svezia, che garantiva a tutti, gratuitamente, alcuni servizi essenziali: sanità, istruzione, indennità di disoccupazione, pensione d’invalidità, accesso alla cultura, difesa dell’ambiente naturale… Non garantiva il pagamento dei servizi essenziali per poter vivere: elettricità, riscaldamento, rifornimento idrico… né un lavoro e neppure una proprietà rurale sufficiente per campare.
Il sistema di tassazione era ovviamente pesante rispetto al reddito, e lo è ancora. Solo che questo modello, che voleva porsi in alternativa allo Stato sociale di tipo sovietico e che ha funzionato bene finché l’economia capitalistica mondiale è stata in crescita, oggi è in crisi.
Oggi tutti gli “Stati sociali” del mondo sono enormemente indebitati. Il motivo principale di questo non sta nel fatto che le tasse non sono sufficienti a coprire i bisogni, ma nel fatto che uno “Stato sociale” gestito dalla borghesia, che non vuole controlli sul proprio operato, diventa un’occasione imperdibile per compiere qualunque tipo di abuso.
Tutti “sfruttano” lo Stato sociale, anche quelli che evadono o eludono il fisco. E’ “sociale” per tutti, ricchi e poveri, ma soprattutto per chi ha più “mezzi”. E’ un’arma potente per chi vuole arricchirsi e un’elemosina per chi paga ingenti tasse.
Lo Stato sociale non è nato per fare distinzioni a favore dei ceti marginali, ma per creare l’illusione di un’eguaglianza sociale generale, e quando questo Stato pseudo-socialista viene sfruttato da chi non ne avrebbe alcun bisogno, ciò viene sopportato con rassegnazione, a condizione che si abbia almeno un pezzo di pane da mangiare e un tetto sotto cui dormire.
Oggi lo Stato sociale ha il fiato corto per una serie di ragioni:
- è rimasto centralista, soggetto a una grande corruzione, non potendo essere tenuto sotto controllo dalla società civile;
- ha usato il debito pubblico come strumento di consenso e di gestione della propria amministrazione (burocrazia, scuola, sanità, rai, enti locali ecc.) e questo debito oggi è colossale, un’enorme ipoteca per le generazioni future;
- è uno Stato “sociale” nel momento in cui esige le tasse da parte di quei cittadini che non possono evaderle, ma resta uno Stato “privato” quando favorisce quei cittadini che possono evadere il fisco o che addirittura possono fruire di pubbliche agevolazioni per la propria attività (politici, imprenditori, giornalisti, istituti di credito, militari, chiesa…).
Questo Stato in questo sistema è irriformabile, è democraticamente ingestibile, in quanto fonte permanente di corruzione. L’alternativa è solo una: l’autonomia della società civile, che si autogestisce attraverso le proprie realtà locali, provvedendo in maniera indipendente alle proprie necessità.
Occorre creare delle comunità in grado di auto-organizzarsi nelle proprie necessità vitali e che facciano capo al principale ente locale: il Comune, che deve diventare una realtà indipendente dallo Stato (come nel Medioevo i Comuni volevano essere indipendenti dagli imperatori e dai pontefici).
Le tasse dei cittadini devono restare nel territorio locale che produce reddito, a disposizione dei cittadini che le pagano. Tutto quanto esula dalle competenze del singolo Comune deve essere soggetto a una trattativa pattizia, da stabilirsi di volta in volta. I Comuni e le Associazioni di Comuni devono diventare l’alternativa allo Stato e al suo principale organo di controllo locale: la Provincia.
Le Regioni vanno decise dalle Associazioni dei Comuni. La regola politica fondamentale dovrebbe comunque essere questa: quanto più ci si allontana dalla realtà locale, tanto meno ampi o forti devono essere i poteri, a meno che non fruiscano di una delega temporanea.